Ponti versus muri, o muri e ponti. 2) Sting – The bridge
di Luigi Di Paola
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Sommario: 1. Dublino 1980: i Police possono attendere - 2. Leixlip Caste, Dublin Festival, Sunday 27th July at 2pm - 3. La tecnica dei Police - 4. If you love somebody set them free - 5. La musica è capace di fermare il tempo? - 6. The bridge - 7. La musica “semplificata”.
1. Dublino 1980: i Police possono attendere
Dublino odorava dell’umidità del verde, complice nella sua profondità di ascolto, svelandosi imperiosamente nell’intreccio delle strade ampie che indirizzavano ragazzi elegantemente spettinati, dapprima dondolanti per O’ Connell Street, in parchi rumorosi, arredati da “radioni” che, appoggiati alla base dei giganteschi alberi, si dimostravano seccamente inospitali verso musica solo lievemente distante dal genere “punk”.
Mi trovavo lì, nel 1980, in una classica casa di periferia a due piani con giardino, presso la famiglia McCormack, invasa da una elettricità di fondo sprigionata dal rosso fuoco dei capelli che tutti (padre, madre e tre simpatici ragazzi), pur con varie intensità, esibivano armoniosamente, ad attestare una sorta di innato calore gradevole e contagioso.
Io ero alloggiato al piano di sopra, in una confortevole camera che condividevo col mio amico Massimo C., il quale, in quel frangente, non so perché, si dimostrava molto incuriosito dalle novelle di Giovanni Verga, alla cui lettura spesso, di sera, si abbandonava ad alta voce, ben conscio del mio, oserei dire incolpevole e giustificato, disinteresse.
La mia vita, allora, era infatti occupata interamente dalla musica (senza nulla voler togliere al buon Verga, che avrei in età più matura glorificato), già dalla fine degli anni ’70 in pieno fermento per le novità introdotte dai fenomeni di “fusione”, basati sulla contaminazione parziale di generi, realizzata attraverso l’enfatizzazione di determinati movimenti armonici e fraseggi stilistici.
Il “jazz” veniva affiancato dalla “fusion”, il “soul” soppiantato dall’“easy listening” e dalla “dance”, il “rock” imbarbarito dalla “new wave” e dal “punk”.
Una sera, appena rientrato in casa con due ellepì appena acquistati (se non ricordo male, “Beggars banquet” dei Rolling Stones e “JT” di James Taylor), il figlio maggiore dei McCormack, mio coetaneo, mi chiese cosa pensassi dei Police.
Gli risposi senza imbarazzo che non ne sapevo nulla, immaginando si trattasse di qualche gruppo inglese venuto, localmente, alla ribalta sull’esempio di formazioni quali i Sex Pistols o i Clash, la cui fortuna, notoriamente, fu dovuta, almeno all’inizio, più all’aggressività di immagine e a trovate spettacolari dal vivo che ad una musica realmente convincente.
Mi mostrò, quindi, con chiaro entusiasmo, “Outlandos d’Amour”, invitandomi ad ascoltarlo e suggerendomi di prestare particolare attenzione ad alcuni brani che riteneva interessanti.
Lì per lì, pigramente, non lo feci, anche perché distratto dalla ingombrante presenza di Bob Marley, che ebbi la fortuna di vedere nel suo ultimo concerto del 10 luglio a Dalymount Park, sotto una coperta di fumo che annebbiava vista e sensi. I Police, anche se per poco, potevano attendere.
2. Leixlip Castle, Dublin Festival, Sunday 27th July at 2pm
Il caso volle che vidi pubblicizzato, in una locandina esposta in un pub, un festival che avrebbe avuto luogo a Leixlip Castle, con inizio alle due del pomeriggio, con i seguenti artisti, in ordine di “crescente” importanza: Moondogs, Skafish, Q. Tips (il cui vocalist era uno sconosciuto Paul Young), U2 (che, giovanissimi, nascevano in quel momento), John Otway, Squeeze (gruppo all’epoca molto famoso in Irlanda) ed i Police.
Un evento analogo, allora, sarebbe stato inconcepibile in Italia, ripudiata dall’intera generazione di artisti stranieri in reazione allo sgradevole trattamento riservato a Milano, nel 1975, a Carlos Santana, la cui esibizione fu malamente interrotta dalla caduta “in orizzontale” di molotov sul palco.
Con un altro mio amico (Massimo T.) ci ritrovammo in un’area enorme, nel mezzo di una folla di cui non si scorgevano i contorni: pareva Woodstock.
In serata (ma con il sole ancora alto) si presentarono Sting, Andy Summers e Stewart Copeland, carichi al punto giusto, disinvolti e comunicativi, con il mondo davanti e la musica a portata di mano; io e il mio amico eravamo in quel mondo, capitati per caso, quasi sotto il palco e con l’incoscienza e la statura dei quindicenni.
La “performance”, per quanto posso ricordare, fu strepitosa, e ne uscì subito sfatata l’idea (o pregiudizio) che ad una band di tre sole unità, per di più priva di tastierista, sarebbe inevitabilmente mancato il potenziale per suonare una musica di qualità.
La verità è che Sting usava il basso in modo anomalo, ossia non in funzione dell’armonia tracciata da uno strumento di accompagnamento, ma creando la sonorità degli accordi, nei quali si inseriva la magica chitarra di Andy Summers, con arpeggi “rivoltati” ed impiego di movimenti in “sus4”, artefici di dissonanze in rapida sequenza che si facevano beffa della consuetudine, scatenavano reazioni nervose, rivitalizzando le parti sopite della corteccia celebrale in una continua sfida all’apparato acustico, già fiaccato da ore di ascolto intenso.
Steward Copeland era un inventore di tempi sincopati, di una ricchezza ineguagliabile, con alto dosaggio di ritmi frenetici che affrancavano dall’immobilismo anche gli anziani, producendo movimenti istintivi nell’automatismo tipico del ginnasta, avvezzo alle contorsioni ed agli allungamenti muscolari.
La batteria era una, ma valeva almeno tre, e non vi era una minima parvenza di vuoto che sopravvivesse a quell’incessante rullare, tuttavia sempre pulito, regolare, capace di scongiurare antipatiche sovrapposizioni, spesso generatrici di fastidioso rumore, tra “tom” e piatti.
Nel repertorio vi erano non solo i brani del disco che il ragazzo irlandese mi aveva invitato ad apprezzare (quali “So lonely”, “Roxanne”, “Can’t stand losing you”), ma anche altri (“Message in a bottle”, “Bring on the night”, “Walking on the moon”), che poi riconobbi quali pezzi “di grido” del secondo ellepì del gruppo, “Regatta de blanc”, a me, in quel momento, parimenti ignoto, ma che ebbi subito modo di consumare al mio ritorno a casa (verificando che, effettivamente, i Police stavano spopolando anche in Italia, dove poi scalarono le classifiche con il terzo, magico album, “Zeniatta Mondatta”, l’ultimo che veramente apprezzai).
Di quel mitico concerto rimane inciso nella mia memoria anche l’avventuroso tragitto del rientro a Dublino, in compagnia di una coppia di sconosciuti che ci offrirono un provvidenziale passaggio, togliendo dal ciglio della strada me e il mio amico con i pollici alzati, oramai senza speranza e tenuti in piedi dall’incoscienza dei quindicenni, non essendovi più autobus in servizio a quell’ora.
E in macchina pensavo: “ma questo gruppo durerà? Rimarrà sempre così o si evolverà?”.
All’epoca non potevo averne consapevolezza, ma la vera domanda era: “Questi tre ragazzi saliranno sul ponte o cercheranno una vetta?”
3. La tecnica dei Police
Fin lì non si era mai assaporata una miscela di “rock” asciutto, di “raggae” altalenante e di ibrido “ska”, arricchita da continue accelerazioni e da brusche frenate che mettevano a repentaglio l’equilibrio, scosso dai singhiozzi del pedale della cassa apparentemente fuori tempo, tormentato dall’eco stridulo di una chitarra ansiosa e palpitante, vittima di una febbrile agitazione e di una smania quasi irritante, in cui ogni pennata aveva l’effetto di una violenta frustata.
Sting spingeva allora soprattutto sugli acuti, che definivano melodie secche, capricciose, mai banali, in simbiosi con il giro di basso che si muoveva rapidamente sulle note, per creare la base armonica del brano.
Era il segno di una tecnica compositiva in controtendenza, giacché non era più la tastiera o la chitarra ritmica a creare la struttura del brano mediante una successione di accordi, bensì il basso, con il quale si interfacciavano gli altri strumenti in funzione quasi ausiliaria.
Quei brani, così, erano capaci di mantenere la loro integrità anche se eseguiti solo con voce e basso, come è da ritenere che Sting li abbia concepiti.
Il solo altro caso analogo che si registra (per quanto io ricordi) nella musica di quegli anni è quello del grande Mark King, bassista di un gruppo - i Level 42 - non poco innovativo, ma sul lato “soul”; qui lo strumento non si limitava a disegnare gli accordi, ma faceva leva sullo “slap” per tessere la trama dei vari arrangiamenti.
Sta di fatto che i Police, con la loro musica, avevano dato un’autentica sferzata alla staticità del passato, e stavano già attraversando il ponte; ma, ovviamente, non potevano saperlo.
4. If you love somebody set them free
Ho sempre pensato (ma forse mi sbaglio), che la vena compositiva, per affermarsi, non possa prescindere da una lucida intelligenza, che solo è in grado di guidare il talento, di renderlo produttivo e funzionale all’opera artistica che attende di essere ideata.
Un talento con sola anima rischia di perdersi, di essere risucchiato nel marasma della molteplicità delle cose, senza poter fare breccia nelle sensibilità di chi ambirebbe ad apprezzarlo.
Ed è sempre l’intelligenza che rende conscio l’artista della fine di un momento, della conclusione di un viaggio, della necessità di immaginare nuove prospettive e di ripartire con altre aspettative, lanciando il pensiero verso idee originali, che prefigurino un tangibile e radicale cambiamento.
La carriera solista di Sting, dopo la conclusione dell’avventura con i Police, non si è mantenuta fedele ai canoni del “pop” cui il gruppo si era da ultimo legato, ma ha seguito una strada parallela, in verità già percorsa per brevi tratti in passato (in particolare con il brano “When the world is running down”), ma senza troppa determinazione.
L’intelligenza, nel suo caso, ha optato per una musica “black” di estrema potenza non disgiunta da raffinatezza, suonata con musicisti “jazz” di prim’ordine (Omar Hakim alla batteria, Darryl Jones al basso, Kenny Kirkland alle tastiere, Brandon Marsalis al sax), scandita da un ritmo trascinante e resa unica dalla voce acuta di un bianco.
“If you love somebody set them free” è stato il brano che più mi ha fatto scatenare nell’estate del 1985, ed il concerto del successivo 4 dicembre al Palaeur di Roma è stato entusiasmante, all’insegna della libertà di spirito e di testa.
Quella sera eravamo in tanti e tutti in movimento sul ponte.
5. La musica è capace di fermare il tempo?
Rivedo oggi Sting negli ultimi video su Youtube, certamente invecchiato nell’aspetto, meno incline a forzare la voce, come in passato, sulle note alte, prudente nell’assecondare la musica con i movimenti del corpo, più composto nel suonare il suo strumento.
Lo sguardo fermo e sbarazzino è tuttavia sempre lo stesso, perché è il riflesso di una intimità con la musica che non può evidentemente tramontare.
Certamente il tempo prosegue, ma con il ricordo della musica sono recuperabili istanti del passato, nella dimensione spazio-temporale originaria.
Ciò è negato da Marc Augé, il quale, anche nei suoi “Momenti di felicità’”, sostiene che lo sguardo volto all’indietro non si risolve mai nell’apprezzamento fedele di ciò che è stato, poiché la generale evoluzione della materia e le debolezze ed incertezze della memoria impediscono all’individuo di riportare al presente la nitida immagine dell’esperienza vissuta.
Tuttavia, a mio modo di vedere, vi è una sorgente capace di dare vitalità al ricordo, di ripristinare il passato nella sua versione “originale”.
Mi riferisco alla “sensazione musicale”, ossia a quell’insieme di immagini e di emozioni legate ad un vecchio brano che ci capita di risentire.
Anche il sapore del cibo torna ad essere quello del passato, lo scricchiolio dei passi, la stupidità infantile, il senso di libertà, l’odore dell’aria.
Quando riascolto i brani di Joe Jackson o di Donald Fagen chiudo gli occhi e mi ritrovo all’istante a Mykonos, nel 1983, nel bianco delle case, prosciugato dall’aridità del vento, con la vista appannata dal fumo umile e grezzo delle “MS” portate da Roma, in attesa dell’apertura dei locali notturni.
In quei momenti il passato si sovrappone al presente, mette fuori gioco l’autocontrollo e dilata la dimensione del reale.
Del resto, se proviamo ad osservare attentamente il volto dei componenti di un gruppo musicale, anche solo durante una “session” di prova, scorgiamo spesso in ciascuno di essi uno strano sorriso, che è il derivato di un coinvolgimento collettivo, prodotto da una musica che scava nel profondo, che unisce, che dal nulla crea una immediata confidenza difficilmente raggiungibile finanche tra persone che si frequentano da un’eternità.
La vera vita si cristallizza in quel brano che stanno eseguendo e le emozioni condivise creano un legame unico, che rimane inalterato nel corso degli anni.
Quelle sensazioni sono incancellabili e, mantenendo fresca la giovinezza del passato, consentono effettivamente di viaggiare nel tempo: è come attraversare, in un senso e nell’altro, un ponte.
6. The bridge
Il ponte simboleggia la via per attraversare più agevolmente luoghi impervi, che restano in basso, spesso a comporre uno scenario esaltante e destinato a sparire alla vista dell’osservatore una volta raggiunta la terraferma, per lasciare il posto ad uno scenario diverso, e, poi, ad un altro ancora.
Il collegamento tra spazi favorisce il movimento, taglia le gambe all’inerzia, offre delle opportunità di cambiamento nello scorrere della vita.
La scelta non è obbligata, perché si può anche rimanere arroccati su una vetta che garantisca la sopravvivenza, al riparo da ondate gigantesche ma vitali, lontani dalle dinamiche della realtà, spettatori dall’alto in un nido angusto, dal quale non è tuttavia possibile spiccare il volo, perché non si è pronti, non si ha abbastanza coraggio, si teme il contatto con l’imprevedibile.
Nella sua canzone (che dà il titolo all’album), Sting sembra vedere nel ponte uno strumento di salvezza o di liberazione, situato nella mente, nella disponibilità di coloro che lo scorgono e decidono di attraversarlo, lasciandosi alle spalle una città sommersa, e con essa coloro che si sono limitati a cercare il terreno più alto, alla fine comunque raggiunto dalle acque.
Nella parte finale, tuttavia, si invoca l’apertura del ponte per tutti - che consente di sfuggire, mutando luogo, alle ondate -, in uno slancio di generosità che evidentemente l’autore deve anche alla sua musicalità, che non può essere egoistica, essendo l’arte in genere inclusiva, promotrice di un senso di appartenenza che non ammette insensibilità per l’altro.
L’acqua diventa, stavolta, protagonista nel singolo “Rushing water”, il cui dinamismo evoca le atmosfere dei primi Police, con un ritornello semplice che cattura al primo ascolto, imitando quasi il suono del mare, che inonda il cervello.
Rilassarsi in acqua diventa un’esigenza vitale, perché le paure accumulate nel corso dell’esistenza, che ritornano in sogno, diventando opprimente persecuzione, possono sciogliersi solo nel liquido che svuota la mente dei vari pensieri, nemici di una serenità lontanamente accarezzata e poi rintanata in una completa amnesia.
In effetti, in gioventù, l’assenza di sovrastrutture consente di gustare anche l’ozio, di soffermarsi con profondità di sguardo anche nel vuoto, di percepire le note di un brano una ad una, come se fossero sospinte nell’aria al rallentatore.
E allora non rimane che scrutare il passato con gli occhi che avevamo, risentire le vecchie canzoni che ci accompagnavano nelle gite in macchina, fare a meno di cercare spiegazioni alle continue domande, spesso inutili, che ci stressano quotidianamente e ci spengono.
In “If it’s love” Sting si riaccosta al valore dell’inspiegabile, quale può essere un sentimento come l’amore, che non può lasciare insoddisfatti, ma deve solo stupire, attirare, rasserenare, appagare.
Cosa c’è, peraltro, di più inspiegabile della musica, del brivido che suscita in chi ne è artefice ed in chi ne è toccato, della commozione che spesso provoca anche senza ragione, del sorriso che strappa quando si manifesta in una leggera ventata di profumo.
7. La musica “semplificata”
L’evoluzione dei costumi che il perenne cammino della mente umana inevitabilmente comporta sembra oggi condurre verso una semplificazione dell’approccio alla vita, quale necessario antidoto ad un senso di soffocamento indotto dalla complessità delle cose che la scienza e la tecnologia, giorno dopo giorno, mettono a nudo.
Il concetto di semplicità, tuttavia, sembra prendere forma quale effetto non di un ripensamento di un modello di agire - reputato insoddisfacente in quanto condizionato dai variegati impulsi che, disordinatamente, provengono dall’esterno -, bensì di una mera tendenza ad impoverire il linguaggio di comunicazione, contenendo al minimo la riflessione sugli accadimenti ed attribuendo scarso peso alle esperienze vissute.
Il futuro diventa, così, una volta azzerato il passato, una corsa verso il buio, dove anche la musica, non risparmiata da questa nuova ventata di semplicità, si riduce al minimo, priva di armonia, quale misero sottofondo di un cantato aggressivo, spesso stonato e urlato.
Sennonché una semplicità così ottenuta, non filtrata da un lavoro di meticolosa selezione ed espulsione del superfluo, si risolve in appiattimento, che è l’anticamera della salita, faticosa e senza speranza, verso una nuova vetta.
Fa bene, allora, il buon Sting a non farsi abbattere dalla stanchezza e a prepararsi ad attraversare l’ennesimo ponte.