Un racconto approssimativo.
di Alberto Santacatterina
Ho acquistato e letto il libro di Palamara. Quello che colpisce, in un testo che sta monopolizzando il dibattito pubblico sulla magistratura, è la sciatteria e l’approssimazione del suo racconto.
Non parlo degli episodi dei quali si discute da giorni, che solo gli interlocutori da lui citati possono confermare o smentire, ma proprio della esattezza delle notizie che vengono date e che è possibile controllare.
Il primo racconto è quello dell’elezione dell’attuale vicepresidente del CSM. Dice Palamara: “Siamo consci della sua debolezza di curriculum, ma ci organizziamo per portarlo al traguardo della vicepresidenza” (p.28). Tanto si organizza che la votazione, a suo dire, finisce “Tredici a tredici, ma essendo Ermini più anziano di Benedetti, il nuovo vicepresidente del Csm è lui. […] Questa è storia, nessuno può smentire una virgola di questa ricostruzione” (p.32). Uno va a controllare e scopre che, in realtà, la votazione si concluse tredici a undici. Certo, si può sempre ricordare male. Se però si considera che in quella votazione si astennero i due consiglieri di Forza Italia (che in teoria avrebbero dovuto votare a favore del candidato che si opponeva a Benedetti, votato invece dal “blocco che si era formato tra Davigo e la corrente di sinistra di Area” (p.30), qualcosa non quadra.
Il succo del racconto di Palamara è la denuncia dell’esistenza di un «Sistema» “monopolizzato dall’asse tra la mia Unità per la Costituzione e la sinistra di Magistratura democratica” (p.13) dove invece Magistratura Indipendente era stata tenuta “ai margini”. Chiunque abbia seguito negli anni le vicende del CSM sa che la realtà è ben più complessa, fatta di tante decisioni e votazioni nelle quali le maggioranze si sono composte, scomposte e ricomposte. Del resto, e questo è un argomento che nel libro si salta a piè pari, il CSM è composto per due terzi di magistrati eletti dai colleghi e per un terzo da avvocati e professori eletti dal Parlamento. La sua composizione ed il suo funzionamento sono tali per cui è naturale e fisiologico votare, quindi creare (e spesso disfare) maggioranze e minoranze.
Dice Palamara che “se sfidi il «Sistema» sei fuori, indipendentemente dal fatto che tu abbia ragione o torto”. Tra i magistrati che sarebbero fuori, oltre ai soliti Ingroia e De Magistris, ci sarebbe a suo dire anche “Antonio Sangermano” (p.47). Lungi dall’essere emarginato, il dott. Sangermano è stato nominato a 51 anni Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Firenze a Firenze.
Appena entrato in magistratura, dopo aver notato che “la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura”, Palamara capisce “che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica” (p.36). Quando poi si trasferisce da Reggio Calabria a Roma, esce da Magistratura Democratica “corrente ideologica e non scalabile da uno con la mia storia” per entrare “in una corrente meno strutturata e più pragmatica”: “partecipo a un’operazione politica” attraverso la quale “Unicost acquisirà un ruolo e un peso decisivo all’interno della magistratura” (p.38). “Unità per la Costituzione” (Unicost) è in realtà da decenni la corrente di maggioranza relativa della magistratura associata. Dire quel che dice Palamara è un po’ come dire che nel 1988 con De Mita la Democrazia Cristiana “acquisirà un peso decisivo” all’interno della politica italiana.
Il lettore inesperto potrebbe cercare nel libro anche il racconto della vita di un magistrato vista dall’interno. Verrebbe informato che il giovane uditore Palamara inizia il 15 dicembre 1997 la sua “avventura in magistratura” e “A differenza di tanti miei colleghi che oggi si battono il petto, non chiedo una raccomandazione al politico di turno per svernare a Roma in qualche commissione parlamentare, ma scelgo come prima destinazione la procura di Reggio Calabria, allora classificata come sede disagiata” (p.34). Per chi non lo sapesse, tutti i magistrati di prima nomina sono destinati agli uffici giudiziari, spesso i più scomodi. La “scelta” di cui si vanta l’intervistato non fu, come sembra, un atto di eroismo, ma la regola per tutti i magistrati all’atto della assunzione delle funzioni, che scelgono, pubblicamente e nell’ordine della graduatoria definitiva del concorso, tra le sedi (giudiziarie) pubblicate dal CSM.
Vogliamo invece sapere come nascono i procedimenti penali? “Ci sono inchieste che partono in flagranza di reato, altre su denuncia di una delle parti, altre da verifiche fiscali o da tronconi ditribuna indagini precedenti. Ma molte partono dalla cosiddetta «velina», cioè una soffiata, una segnalazione anonima più o meno verosimile, spesso confezionata dai servizi segreti o da faccendieri interessati a una certa partita. Quando arriva sul tavolo di un magistrato, la velina può essere cestinata o passata alla polizia giudiziaria per fare delle verifiche, le quali danno origine a un documento chiamato «informativa», che il magistrato può cestinare, tenere nel cassetto o trasformare in un fascicolo giudiziario: ovvero, aprire un’indagine vera e propria” (p.68). Questa, detto senza possibilità di smentita, non è la descrizione del funzionamento di una Procura, ma la sceneggiatura di un pessimo telefilm, per intenderci uno di quelli dove l’indagato a quattr’occhi confessa il delitto al pubblico ministero, senza l’ombra di un difensore o di un verbale. Fantascienza, insomma.
Se non si sapesse il contrario verrebbe da pensare che il libro sia scritto da chi non ha mai frequentato un ufficio di procura, o che ha una conoscenza approssimativa dell’ordinamento giudiziario: si legge che con la riforma del 2006 “il procuratore capo assegna le inchieste in modo arbitrario” (p.156). Proprio la riforma (il D.L.vo 106/2006) prevede invece all’art.1 che il procuratore della Repubblica preveda “criteri di assegnazione” e “meccanismi di assegnazione di natura automatica” dei procedimenti penali ai sostituti dell’ufficio.
Pazienza. Uno che all’inizio della sua carriera voleva “contrastare l’egemonia culturale della sinistra giudiziaria” (p.48) e lo fa iscrivendosi a MD (cosa che perfino Sallusti gli fa notare) ha sempre il diritto di correggere i suoi errori e non gliene vorremo per questo. E infatti “a fine 2003 uscii da Magistratura democratica. Accadde dopo un congresso in cui era ospite il segretario della Cgil Cofferati, che tra l’entusiasmo dei magistrati presenti sparò a palle incatenate contro Berlusconi e il suo governo in quel momento in carica” (p.49). Peccato che Cofferati rimanga segretario della CGIL fino al 20 settembre 2002.
La crisi di coscienza si risolve entro un decennio, quando “sto pensando alla politica. Inizio a parlarne […] sia con Franco Marini sia con Maurizio Migliavacca, l’uomo delle liste nel Pd di Bersani, seguendo l’esempio di miei illustri predecessori dell’Anm, tra cui Elena Paciotti, che subito dopo quell’esperienza erano transitati in politica nelle file del Partito democratico” (p.87).
Ci si aspetterebbe poi che un libro destinato a passare alla storia e scritto da un ex componente del Consiglio Superiore fosse almeno preciso quando parla di ordinamento giudiziario, e invece si legge che De Magistris “dal 1998 al 2002 era stato anche procuratore a Napoli” (p.53), che Woodcock è “il famoso procuratore di Napoli” (p.126) e che Robledo può rimanere a Torino “come procuratore” (p.158). Il povero Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo, invece, chissà perché, viene declassato a sostituto (p.107). L’emendamento del 2017 che eliminava il termine di un anno entro il quale gli ex consiglieri del CSM non potevano concorrere ad incarichi direttivi diventa un emendamento “che consente agli ex consiglieri del Csm di poter concorrere immediatamente per incarichi direttivi senza passare attraverso le graduatorie”.
Anche le vicende più clamorose della storia della magistratura italiana sono riferite nel libro con un’approssimazione che sfiora la diffamazione. A detta di Palamara “un grande magistrato di sinistra, Francesco Misiani” fu “ingiustamente messo sotto processo nel 1996 e poi completamente prosciolto dall’accusa di aver ricevuto una somma di denaro da Renato Squillante e passato informazioni sensibili agli imputati del processo SME”. Misiani non fu mai “messo sotto processo” né indagato per “avere ricevuto una somma di denaro da Renato Squillante”; fu imputato del reato di favoreggiamento per avere informato il collega dell’esistenza di indagini a suo carico per corruzione ed assolto “perché il fatto non sussiste”.
Se questa è la accuratezza della narrazione storica, figurarsi se ci si può fidare delle date riportate nel libro. Neanche quando Palamara parla di quello che definisce “il colpo della vita”: “conquistare il vertice della magistratura italiana” (p.14) nominando “i nuovi procuratore generale e primo presidente della Cassazione”, senza che alla corrente di Area “venga assegnata almeno una delle due cariche”; “Non è mai accaduto, mi dicono” (p.16). La “doppietta” (parola di Sallusti) riesce e “Fuzio è il nuovo procuratore generale della Cassazione, Mammone il primo presidente”. Ti aspetteresti che raccontando “il colpo della vita” uno si ricordi almeno la data, specie se non lo racconta al bar ma in un libro. Per Palamara “È il 14 dicembre 2017” (p.17). No, basta cercare su internet, Fuzio e Mammone vengono eletti il 22 dicembre 2017.
Sbagliata la data del “colpo della vita”, figurarsi le altre. “Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento nominato nel 2017 in quota Magistratura democratica” (p.148) in realtà si insedia come procuratore il 18 ottobre 2016; forse lo strapotere della sinistra gli aveva consentito di insediarsi ancora prima della nomina.
“Nel 2015 bisognava nominare il nuovo presidente del tribunale di Catania e Sarpietro presentò al Csm la sua candidatura. Non passò; con il mio contributo decisivo gli fu preferito un altro magistrato, Bruno De Marco, esponente della mia corrente” (p.153). Bruno DI Marco (e non DE Marco), viene nominato presidente del Tribunale di Catania il 6 luglio 2011. L’errore è clamoroso perché Palamara racconta di avere dato un “contributo decisivo” ad una nomina fatta da un Consiglio del quale non faceva parte.
Sono tutti dettagli, e l’elenco può sembrare pignolo. Ma, per dirla con Paul Auster “La verità della storia è nei dettagli”.
Non ho mai avuto rapporti con Palamara e quindi non sono in grado di decifrare (lo considero un privilegio) i messaggi che si ha talvolta l’impressione di percepire: per esempio quando l’intervistato avverte “A ogni cambio di telefono inevitabilmente si perde qualche cosa del contenuto, su quello sequestrato si parte da marzo 2017 ma, e non lo dico per creare nuove apprensioni, spero di recuperare quello precedente, che al momento non trovo” (p.173). L’impressione che se ne ricava è spiacevole e non depone a favore dell’autenticità della narrazione.
Il racconto di Palamara, per chi è del mestiere, fa quindi un’impressione straniante: parla di cose che si sa sono diverse e che funzionano diversamente, di un mondo che, visto dall’interno, non è quello raccontato nel libro. Per capirci, è come se un calciatore della nazionale si pentisse e svelasse di avere comperato nel 1982 la finale dei Mondiali con la Germania: non posso sapere se è vero o no, ma se parlandone dice che il gol segnato con un tiro da fuori area vale tre punti e che la finale si è giocata nel 1978, è logico che qualche dubbio lo suggerisca.
La superficialità del libro di Palamara rischia di avere un duplice effetto dannoso. Da una parte illude la politica e i cittadini che esistano soluzioni semplici ad un problema complesso, quello della scelta dei dirigenti degli uffici ed in generale del (cattivo) funzionamento della giustizia. Se si pretende di avere individuato una sola causa, consistente nello strapotere della sinistra e nell’esistenza del “Sistema”, basta toglierli di mezzo e tutto come d’incanto funzionerà alla perfezione. Tiriamo a sorte, tanto per dire, il prossimo procuratore di Roma, il Sistema sarà disarmato, la Procura di Roma e tutte le altre funzioneranno come un orologio, tutto il mondo ci invidierà. Come abbiamo fatto a non pensarci prima? Magari facciamo lo stesso anche per il prossimo questore, per il prossimo comandante dei Carabinieri, per il prossimo Dirigente dell’Azienda Sanitaria e così via. Poi, se la soluzione non funziona, sarà colpa della sorte che ha scelto male.
Dall’altra parte il grave errore della magistratura sarebbe quello di prendere a pretesto il tenore evidentemente parziale delle dichiarazioni di Palamara, che viene esibito nelle trasmissioni televisive come portatore di una verità di fronte alla quale non vi è concreta possibilità di contraddittorio, per pensare che la crisi di credibilità che comunque ne è derivata si risolverà aspettando che passi la tempesta. Siamo probabilmente ad un punto di non ritorno e possiamo risalire la china solo con uno sforzo davvero audace e spregiudicato, capace di mettere in discussione anche privilegi o abitudini che siamo abituati a dare per scontati.
Per esempio, dobbiamo prendere atto della totale insufficienza degli attuali meccanismi di valutazione del lavoro dei magistrati e della loro professionalità: gli attuali meccanismi, in base ai quali la stragrande maggioranza delle valutazioni di professionalità giudica “superiore alla media” la produttività del magistrato sono, oltre che falsi dal punto di vista aritmetico, insufficienti per giudicarne la caratura professionale.
L’attuale meccanismo di rilevazione statistica, e parlo degli uffici di procura che sono quelli nei quali ho sempre operato, rileva con precisione la quantità dei procedimenti definiti. Difficile, se non impossibile, accertare invece l’esito processuale di quei procedimenti, con la conseguenza che chi ha mandato a giudizio 200 procedimenti ottenendo 100 condanne (e quindi 100 assoluzioni) è comunque giudicato “più produttivo” di chi ne ha definiti 150 ottenendo 130 condanne. La magistratura è l’unica attività professionale nella quale non esistono sostanzialmente meccanismi di controllo della qualità di quello che si produce. Mutatis mutandis è come se in un reparto di chirurgia si rilevasse il numero delle operazioni effettuate senza curarsi del loro esito.
In questa prospettiva si possono cominciare a comprendere i meccanismi che hanno portato alle degenerazioni correntizie, che non derivano certo dal “cattivo” Palamara o dalle oscure trame della destra o della sinistra. Uno studioso non sospettabile di condiscendenza verso la magistratura italiana, il professor Giuseppe Di Federico, ha osservato tra l’altro che “l’assenza di valutazioni di professionalità attendibili […] fa molto spesso dipendere il successo dei candidati dall’efficacia con cui vengono appoggiati dai rappresentanti della propria corrente che siedono in Consiglio”[1]. Tanto più attendibili saranno le valutazioni di professionalità, tanto più difficile sarà scavalcarle per meriti associativi. Questo implica che la magistratura si accolli con coraggio il compito di dire che ci sono magistrati migliori di altri, cioè magistrati competenti e magistrati meno competenti, magistrati che lavorano e magistrati che lavorano meno o che non lavorano affatto, magistrati equilibrati e magistrati che equilibrati non sono. È un compito che spaventa, mi rendo conto, ma deve spaventarci di più la china discendente della nostra credibilità e della nostra reputazione.
Dobbiamo avere poi il coraggio di farci giudicare dai nostri interlocutori quotidiani, vale a dire dalla classe forense, rappresentata dall’ordine degli Avvocati. Rimango stupito che anche di recente si sia messo in discussione addirittura il c.d. “diritto di tribuna”, e cioè la possibilità degli avvocati presenti nel Consiglio Giudiziario di partecipare (senza diritto di voto) alle deliberazioni concernenti le valutazioni di professionalità dei magistrati. Al contrario, i rappresentanti dell’avvocatura dovrebbero partecipare con diritto di voto a quelle deliberazioni. La professionalità di un magistrato è fatta, oltre che di competenza e laboriosità, anche di disponibilità, di correttezza, financo di cortesia nei rapporti personali, qualità tutte indispensabili a chi svolge un lavoro così importante, e tutte possono essere giudicate da chi quotidianamente si confronta con noi. Il coinvolgimento dell’avvocatura in quelle valutazioni rappresenterebbe per la magistratura un gesto di coraggio e di apertura all’esterno davvero epocale, e nello stesso tempo un’assunzione di responsabilità nel funzionamento della giustizia per tutta l’avvocatura.
Abbiamo infine un problema di verità, perché non si possono difendere tutti i comportamenti di tutti i magistrati, recenti e meno recenti, temendo che dissociarsi dai comportamenti di uno indebolisca l’autorevolezza di tutti gli altri. Decidiamo, almeno come magistratura associata, una moratoria delle pubbliche dichiarazioni di magistrati che, oggi come in passato, propongono una narrazione troppo spesso leggendaria, narcisistica e falsa della loro attività. Dissociamoci con decisione dalle apparizioni mediatiche, talora francamente inquietanti ed inaudite da un punto di vista istituzionale ed ordinamentale, di alcuni colleghi. Diciamo a voce alta che i magistrati parlano solo con il loro lavoro: i pubblici ministeri con i risultati processuali delle loro indagini, i giudici con le sentenze. Questo contribuisce alla credibilità della magistratura, non le comparsate televisive, se pur fatte (e non è sempre così) con le migliori intenzioni.
Per concludere, il libro di Palamara non può essere il libro di testo sul quale riscrivere la storia della magistratura italiana, una storia ben più complessa e contraddittoria, né tantomeno la bussola per risolvere la grave crisi della giustizia italiana. Non lo può essere per come è scritto, con superficialità e sciatteria, con una rappresentazione macchiettistica di un CSM e di una politica dove, in sostanza, decideva tutto Palamara, in rapporto diretto con il Presidente della Repubblica per il tramite di Loris D’Ambrosio che, come sappiamo, non può più smentire. Un delirio di onnipotenza che si trasforma oggi nel suo riposizionamento quale testimone privilegiato di un preteso schieramento a sinistra della magistratura come neppure nelle peggiori caricature. Il che non vuol dire che non vadano affrontati, se necessario anche con durezza e anche con sofferenza, molti dei problemi che pure nel libro sono posti, ed ai quali viene data una risposta semplicistica e stereotipata.
Dice Palamara, in esordio, con una solennità un po’ pelosa: “Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”. Io sono uno dei magistrati che, iscritto da anni ad una corrente, con queste storie nulla c’entra. Non mi sono mai autopromosso, faccio con orgoglio il sostituto da trent’anni e non mi spaventa l’idea di farlo fino alla pensione. Lui ha tutto il diritto, adesso, di riposizionarsi, di diventare la bandiera di chi pensa di buttare nel cestino il lavoro, la storia ed i sacrifici di tanti colleghi. Ma la storia della magistratura italiana, magari, facciamola fare ad altri.
[1] Il Riformista, 11 giugno 202, p.6.