Natura del rapporto giuridico e limiti all’efficacia nel tempo delle pronunce di incostituzionalità (nota a Cass., sez. I civ, 16 aprile 2025 n. 10057)
di Ludovico Di Benedetto e Fabio Conti[i]
Sommario: 1 - Sintesi del fatto; 2 - Il quadro normativo rilevante; 3.1 - I cardini della decisione: la natura del rapporto giuridico; 3.2 - Segue: i rapporti esauriti e i limiti all’efficacia temporale delle pronunce di incostituzionalità; 4 - Conclusioni: le peculiarità del rapporto depositeria-amministrazione.
1. Sintesi del fatto
La ricostruzione della vicenda sottesa alla pronuncia in commento passa per il collegamento di plurime pronunce del giudice ordinario.
Il contenzioso origina dal ricorso proposto dalla società privata per ottenere la differenza tra quanto liquidato dall’amministrazione prefettizia ai sensi dell’art. 38 del d.l. 269/2003[ii] e il maggior importo spettante applicando le tariffe di cui all’art. 12 del dpr 571/1982, ratione temporis applicabili a seguito della declaratoria di incostituzionalità del menzionato art. 38 (C. cost. n. 92 del 2013). Gli emolumenti derivano dall’attività di custodia dei veicoli sequestrati in via amministrativa a seguito di violazione del codice della strada svolta nel corso degli anni dalla ricorrente.
Questo primo giudizio si è concluso a sfavore del privato (ord. Trib. Roma n. 2834 del 2020), avendo l’organo giudicante ritenuto che il rapporto tra amministrazione e depositeria fosse esaurito in quanto non era stato avversato davanti al giudice amministrativo il provvedimento della prefettura; come tale rimaneva insensibile alla naturale efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalità.
Proposto appello avverso la decisione di prima cure, il giudice di secondo grado (sent. App. Roma n. 3881 del 2024) ha statuito l’invalidità della precedente delibazione, decidendo a favore della società appellante. A parere del collegio, infatti, la relazione giuridica tra parte privata e soggetto pubblico - connotata da diritto-obbligo - non poteva dirsi esaurita, visto che, vertendosi in tema di quantificazione del pagamento di somme dovute per l’espletamento di un servizio pubblico, non avrebbe avuto alcun rilievo l’impugnazione della decisione amministrativa di cui all’art. 38. Di esaurimento del rapporto si sarebbe potuto allora parlare solo se fosse occorsa una res iudicata o una prescrizione estintiva decennale, entrambe assenti nella fattispecie de qua.
A questo punto, il contenzioso è proseguito innanzi alla Suprema Corte di cassazione con la pronuncia in analisi.
Il gravame mosso dalla parte pubblica è stato proposto attorno, ancora una volta, al tema della natura del rapporto giuridico e, di conseguenza, all’esaurimento del medesimo ai fini dell’efficacia della sentenza della Consulta. Ebbene, il supremo consesso di legittimità ha dato torto all’amministrazione, avallando il dictum di secondo grado. Secondo la Corte, il meccanismo congegnato dal legislatore con l’art. 38 del d.l. 269/2003 doveva ritenersi composto di due momenti, uno pubblicistico sull’an debeatur fissato dal provvedimento prefettizio, fondante interessi legittimi e dunque di competenza del giudice amministrativo, ma, per decorrenza dei termini, oramai insensibile a qualsiasi sopravvenienza, persino alla declaratoria di incostituzionalità; e uno privatistico sul quantum debeatur derivante dallo stesso art. 38, concernente un diritto di credito soggetto alla giurisdizione ordinaria e ancora permeabile alle pronunce della Corte costituzionale, in quanto non prescritto (né coperto da giudicato).
La pronuncia in parola si mostra quindi di primario interesse per comprendere la natura del rapporto incardinato sull’art. 38 cit. e per trattare del tema, caro al diritto costituzionale, dei limiti all’efficacia nel tempo delle sentenze del giudice delle leggi. Per una migliore analisi della fattispecie, merita un excursus la cornice normativa che fa da retroterra alla vicenda in oggetto; sarà così più agevole comprendere le tematiche connesse.
2. Il quadro normativo rilevante
Il diritto comune in materia di gestione dei beni mobili sequestrati in via amministrativa è fissato nel dpr 571/1982[iii]. In tema di autoveicoli, tale risalente testo trova oggi applicazione in ogni caso in cui, per qualsiasi ragione, non vi sia spazio per la normativa del codice della strada[iv].
A fronte della regola generale di cui all’art. 7 c. 1 del dpr 571/82, che prevede la custodia dei beni sequestrati presso l’ufficio cui appartiene l’organo sequestrante, le disposizioni successive, assecondando il principio derogatorio scolpito all’art. 7 c. 3, prescrivono l’individuazione di un soggetto pubblico o privato che assuma le vesti di custode ad hoc (art. 8 c. 1). È il prefetto territorialmente competente a procedere ad una ricognizione degli operatori che possono ricoprire quest’ultimo incarico, a cadenza annuale (art. 8 c. 2).
Il profilo attinente alle spese di custodia è regolato dagli artt. 11 e 12. Nel dettaglio, una volta che sia divenuto inoppugnabile il provvedimento di confisca oppure che sia disposta la restituzione del bene, il custode, con apposita istanza, può chiedere la liquidazione del quantum all’amministrazione prefettizia, che lo calcola sulla base delle tariffe fissate dal prefetto (e degli usi locali). È fatto comunque salvo il diritto di ripetizione di quanto pagato a danno del trasgressore (art. 11 c. 2).
Agli artt. 13, 14 e 16 si rinviene la disciplina della restituzione delle res[v], mentre all’art. 15 viene sancita la regola secondo cui, divenuto definitivo il provvedimento ablatorio, il bene sequestrato va alienato (o distrutto)[vi].
Col tempo, il meccanismo immaginato dal dpr 571/82, a causa della carenza di risorse e della lentezza delle procedure, ha portato ad un considerevole aumento dei veicoli depositati presso custodi privati, con corrispondente lievitazione degli oneri finanziari. Onde far fronte a questa emergenza e facilitare l’avvio del nuovo sistema eretto dal codice della strada, il legislatore è intervenuto, inaugurando la fase delle alienazioni straordinarie.
Con l’art. 38, commi 2 e seguenti, del d.l. 269/2003[vii] - da cui origina il nostro contenzioso - è stata costruita una procedura di alienazione coattiva ope legis dei veicoli sequestrati[viii] aventi precise caratteristiche indicate dal testo di legge. Nello specifico, il comma 2 delimita l’ambito applicativo oggettivo, prevedendo che la procedura coinvolga esclusivamente i mezzi sequestrati a seguito di violazione del codice della strada[ix], immatricolati da almeno 5 anni e collocati presso i depositi di cui al dpr del 1982 da almeno 2 anni[x], purché sprovvisti di interesse storico o collezionistico. Ebbene, tali mezzi sono ex lege alienati ai medesimi custodi, anche ai soli fini della rottamazione, secondo elenchi disposti su base provinciale dalle prefetture, persino se non sottoposti a confisca e carenti della documentazione sullo stato di conservazione. L’efficacia traslativa discende dalla notificazione al depositario.
Il quantum della cessione è calcolato dalle amministrazioni in modo cumulativo, tenuto conto delle condizioni di conservazione, del tipo di veicolo, degli eventuali oneri di rottamazione (comma 4), compensandolo con i costi di custodia che, per espressa eccezione legislativa (comma 6), sono rivisti in deroga (e a ribasso) delle tariffe di cui al dpr 571/82.
Come accennato in apertura di questo scritto, il sistema brevemente descritto è stato tuttavia colpito da censura di incostituzionalità, con la sentenza n. 92/2013. In sintesi, il giudice delle leggi ha radicato la pronuncia sul fatto che col decreto-legge richiamato si sia snaturata l’originaria relazione p.a.-custode, imponendo a quest’ultimo - in assenza del suo consenso - di rendersi cessionario dei veicoli, derogando per giunta in peius alle tariffe che regolavano il suo corrispettivo. L’intervento legislativo ha, in questo modo, frustrato l’aspettativa del privato, aggiungendo oneri non prevedibili ad un rapporto di durata e comportando, peraltro, una sperequazione tra rapporti di custodia che, in quanto concernenti veicoli immatricolati o detenuti da più tempo, rimangono assoggettati al regime del 1982 e quegli altri che, seppur esauriti, rientrando nella cornice applicativa delineata, sono regolati dal decreto del 2003. Sebbene sia dunque pacifico l’assunto che una norma retroattiva in materia extrapenale possa essere costituzionalmente legittima, nella specie difetta quel fondamentale requisito di ragionevolezza (art. 3 Cost.), declinato nei termini di un giusto bilanciamento tra le posizioni in gioco, che avrebbe reso immune da vizi la novella.
La normativa comune, fissata dal dpr 571/82, ha visto così ampliarsi il suo raggio di applicazione, essendo stata invalidata la norma speciale per opera del giudice delle leggi[xi]; di conseguenza, avrebbero dovuto applicarsi le tariffe custodiali ratione temporis vigenti di cui all’art. 12, al posto dei criteri di calcolo fissati dal ricordato art. 38 c. 6. Che è quanto poi domandato dall’attore nella fattispecie in commento[xii].
3.1. I cardini della decisione: la natura del rapporto giuridico
L’ordinanza in discorso poggia la sua delibazione su due ordini di ragioni, intimamente connessi: la natura privatistica del rapporto tra depositeria e amministrazione e il suo mancato esaurimento.
Partiamo dal primo segmento del ragionamento del collegio, ossia dalla natura del rapporto. Secondo la Cassazione, essa sarebbe identica sia che si versi nel sistema ordinario di gestione dei beni sequestrati fissato dall’art. 8 del dpr 571/1982, sia che si applichi il modello eccezionale di cui all’art. 38 del d.l. 269/2003. Questa equivalenza non pare convincente.
L’inquadramento giuridico della natura del rapporto che si instaura tra prefettura e custode in forza del sopra citato art. 8 non è invero operazione facile. Da un canto, troviamo i custodi che sono, testualmente, “obbligati” a conservare il mezzo e per la cui attività hanno diritto ad un compenso monetario; dall’altro l’ente pubblico che, in base al dato legislativo, “individua” e “riconosce” i soggetti a cui affidare la custodia. Sulla sola scorta del dato letterale, dunque, parrebbe che la prefettura sia chiamata ad emanare un provvedimento meramente accertativo; eppure, un’interpretazione sistematica e teleologica porta alla diversa conclusione che si tratti di atto costitutivo, della specie delle autorizzazioni. Difatti, con la sua attività, la prefettura amplia in senso favorevole la sfera giuridica dei custodi, conferendo loro la possibilità di essere coinvolti nel servizio di conservazione dei veicoli, su loro istanza e, dunque, sulla base di una loro precisa manifestazione di volontà; possibilità che in precedenza non potevano all’evidenza sfruttare, a causa di limiti giuridici.
A prescindere dalla natura ricognitiva o costitutiva dell’intervento pubblico, in ogni caso è certo che la relazione de quaè autoritativa; e anche l’ordinanza in commento è del medesimo avviso.
L’autorizzazione, più precisamente, si potrebbe atteggiare a precondizione di un rapporto paritetico tra p.a. e custode, fonte di reciproche obbligazioni di stampo negoziale (art. 1766 e ss. c.c.)[xiii], specialmente sul versante dei corrispettivi, ciò che avviene comunemente in materia di servizi pubblici. Giova peraltro rammentare che, come riconosce il giudice della nomofilachia, in C. cost. 92/2013 si parla di rapporto iure privatorum, derivante da un accordo contrattuale. È pur vero che i contratti della p.a. vanno formati per iscritto a pena di nullità (art. 1350 c.c. e artt. 16 e 17 r.d. 2440/23) e, nella fattispecie, manca un testo negoziale. Pertanto, si potrebbe pensare di inquadrare la situazione in un rapporto obbligatorio ex lege oppure in un contratto di fatto, che ripete la disciplina codicistica per il solo profilo della relazione bilaterale[xiv].
Pure su questo aspetto, dunque, al di là di queste ultime criticità, nella sostanza, il dictum della Cassazione pare assecondabile. Lo è meno quando applica lo stesso ragionamento in riferimento all’alienazione straordinaria di cui al d.l. del 2003.
In questa evenienza, a nostro avviso, il rapporto tra amministrazione e depositeria è unitario e integralmente attratto alla sfera del diritto pubblico, connotato, da un lato, da un potere autoritativo conferito dalla legge al fine di contrarre l’esposizione debitoria maturata negli anni (a mezzo dell’alienazione-compensazione), e, dall’altro, da un interesse legittimo della depositeria al corretto impiego del medesimo.
Qui, infatti, non si tratta più dell’espletamento di un servizio di interesse generale a cui fa da contraltare un diritto soggettivo di credito, ma di un’alienazione coattiva ope legis di certi beni a favore della depositeria che ne aveva assunto la custodia. L’autorizzazione di cui al dpr 571 cit. rimane sullo sfondo, come presupposto di fatto valido per individuare, in primo luogo, i soggetti destinatari dell’alienazione e, in secondo luogo, i veicoli da cedere; non assume invece alcun ruolo nel colorare la relazione alienante-alienatario.
Il provvedimento di liquidazione ex art. 38 è pedissequo adempimento della legge e possiede tutti i caratteri propri del provvedimento amministrativo idoneo a modificare situazioni giuridiche altrui, senza necessità di alcun consenso del destinatario.
Che i due contesti siano ben distinti, lo ammette espressamente il collegio giudicante, nel momento in cui qualifica come “innovazione”[xv] del rapporto l’intervento del legislatore del 2003: appunto, sostituzione legale della preesistente relazione quasi negoziale, con una nuova di matrice autoritativa. L’elemento discriminante tra le due sta in questo, che mentre nella prima il soggetto privato esprime la sua volontà di inserirsi nel circuito delle depositerie amministrative, formalizzando un’istanza che spetterà alla prefettura vagliare discrezionalmente; nella seconda, invece, questo non avviene: la depositeria - già autorizzata - non può evitare l’alienazione e i connessi pagamenti, se non avversando l’atto d’imperio davanti al giudice amministrativo, ciò che ha rappresentato peraltro l’elemento cruciale della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 38.
A quest’ultimo proposito, inoltre, non è affatto corretto ritenere, come fa l’ordinanza, che l’intervento della Consulta sia ricaduto “solo sulle disposizioni che trattavano del corrispettivo dell’alienazione al custode-acquirente”[xvi], dal momento che il dictum del giudice delle leggi, colpendo il comma 2 dell’art. 38, ha riguardato primariamente il meccanismo sostanziale di (imprevedibile e irragionevole) cessione coattiva e, solo in seconda battuta, il profilo del compenso.
Nemmeno pare convincente la scissione proposta dal giudice di legittimità tra la fase sull’an - pubblicistica - e quella sul quantum - privatistica. Questo distinguo è coerente se si guarda all’ordinaria relazione radicata sul dpr del 1982. Non lo è rispetto all’alienazione separata, dove il pagamento (di norma in compensazione col prezzo della cessione) è un tutt’uno, sia dal punto di vista formale che sostanziale, con l’alienazione. Elementi utili in tal senso si evincono dalla vicenda sottesa la sent. n. 8182 del 2023 del Consiglio di Stato, espressamente accantonata dalla Cassazione, sulla base dell’errore processuale di fondo della mancata eccezione di difetto di giurisdizione. Il Consiglio di Stato, in quel contenzioso originato dall’impugnativa del provvedimento prefettizio ex art. 38, ha negato la distinzione tra una potestà valutativa sull’an debeatur ed una sul quantum.
Il giudice amministrativo ha interpretato la normativa in materia come fonte di un unitario potere, da riversare in un solo atto provvedimentale, non scorporabile. Infatti, in quella sede, dichiarata annullata la statuizione della pubblica amministrazione, quest’ultima doveva riaprire l’intero procedimento valutativo.
Ora, secondo la teoria generale del diritto, il potere giuridico è da annoverare tra le posizioni soggettive[xvii]vantaggiose e dinamiche. Esso consiste nella capacità, riconosciuta necessariamente dalla legge[xviii] in capo ad un soggetto, di incidere unilateralmente sulla realtà normativa con un atto consapevole, creando, modificando o estinguendo situazioni giuridiche. Chi ne è titolare viene a trovarsi in una posizione di preminenza e può liberamente decidere di concretizzare il potere in certi comportamenti, i quali, una volta attuati, muteranno la situazione preesistente[xix]. Il bene sotteso al potere è proprio la modificazione della realtà giuridica.
Il potere trova il suo terreno d’elezione in un contrasto giuridico tra interessi. L’ordinamento conferisce primazia ad uno di essi non risolvendo direttamente il conflitto (come avviene per i diritti soggettivi) ma consentendo, tramite norme strumentali, ad un soggetto - il titolare del potere, appunto - di emanare un comando volto a comporre il dissidio.
I suoi caratteri tipici sono i seguenti: imprescrittibilità, non venendo meno col tempo (ma la legge potrebbe fissare un termine di decadenza); inalienabilità, non essendo deducibile in atti dispositivi; non tutelabilità giuridica, non essendo passibile di per sé di azioni giudiziali (persino di accertamento mero: art. 24 Cost.), potendo prescriversi, alienarsi o tutelarsi solo il diritto relativo ai singoli beni, giammai il potere come tale; e, quel che qui più rileva, unitarietà, dato lo scopo cui esso è servente[xx].
Si faccia infatti attenzione: la posizione di potestà è unica, pur essendo molteplici le forme concrete in cui si può inveterare. Semmai è la discrezionalità che, in base al disposto legislativo, può riguardare diverse sfaccettature dell’esercizio concreto del potere (an, quid, quando, quomodo), ma quest’ultimo rimarrà sempre un qualcosa di unitario.
Pertanto, laddove il Consiglio di Stato ha ripudiato la scissione tra un potere sul se ed un altro sul quanto, ha affermato cosa condivisibile e applicabile al presente caso, perché il potere costruito dalla legge è un tutt’uno ed è destinato ad un fine unico (nel caso di specie, il pagamento delle somme).
3.2. Segue: i rapporti esauriti e i limiti all’efficacia temporale delle pronunce di incostituzionalità
Il secondo perno della decisione in commento si appunta, come accennato, sul tema dell’efficacia temporale delle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale. La questione costituisce, sin dalla nascita della Corte costituzionale, un terreno di costante riflessione dottrinale[xxi] e di persistente problematicità ermeneutica anche nella più recente esperienza giurisprudenziale[xxii].
Un rapido excursus del quadro normativo permette di cogliere appieno la complessità sistemica del tema. L’art. 136 Cost. prevede che, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la disposizione colpita dalla pronuncia perda efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Una formulazione apparentemente chiara, ma che si è subito rivelata foriera di ambiguità interpretative: intesa in senso strettamente ex nunc, essa avrebbe impedito al giudice a quo di applicare la pronuncia della Corte ai rapporti ancora pendenti, determinando una frattura tra il sindacato costituzionale e la tutela effettiva delle situazioni soggettive. Ne sarebbe derivata, altresì, una grave disfunzione del sistema, disincentivando le parti a promuovere l’incidente di costituzionalità, poiché la norma dichiarata illegittima avrebbe continuato a produrre effetti sino alla formale caducazione.
Da qui la necessità di un ripensamento sistematico sulla portata temporale delle decisioni di accoglimento. Tale esigenza trovò risposta nell’interpretazione evolutiva dell’art. 136 Cost., operata per il tramite dell’art. 30 c. 3 l. n. 87/1953, il quale stabilisce che le norme dichiarate incostituzionali “non possono avere applicazione” dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Con tale precisazione, il legislatore ha consentito una lettura sostanzialmente ex tunc dell’efficacia della pronuncia ablativa, restituendo coerenza sistemica al sindacato di costituzionalità, concepito non come fonte di innovazione normativa ma quale strumento di rimozione di norme invalide sin dall’origine.
Il rapporto tra l’art. 30 c. 3 della legge del 1953 e l’art. 136 della Costituzione è stato oggetto, fin dagli albori, di numerosi arresti della Corte costituzionale[xxiii], che hanno affrontato in profondità la più ampia questione dell’efficacia temporale delle pronunce di illegittimità costituzionale, riconducendo sin dall’origine la declaratoria di accoglimento al modello concettuale della decisione di annullamento. Al contempo, il giudice delle leggi ha più volte sottolineato la distinzione strutturale tra l’abrogazione e la dichiarazione di incostituzionalità: mentre la prima - evento ordinamentale fisiologico - determina la cessazione della vigenza della norma solo a partire dall’entrata in vigore della norma abrogante; la seconda - vicenda ordinamentale patologica - incide direttamente sull’esistenza giuridica della norma sin dall’origine, determinandone la cessazione di efficacia ex tunc, ma con effetti giuridici che decorrono dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza. Da tale premessa la giurisprudenza costituzionale ha desunto la possibilità che la pronuncia incida anche su rapporti giuridici sorti anteriormente, salvo i limiti rappresentati dal giudicato, dalle eccezioni previste dalla legge e dalle situazioni giuridiche ormai consolidate e divenute intangibili.
A partire dagli anni Sessanta, infatti, sia la giurisprudenza costituzionale[xxiv] che quella di merito[xxv] hanno progressivamente elaborato il concetto di rapporto esaurito, individuandolo quale imprescindibile limite alla retroattività delle pronunce di accoglimento. Con tale espressione si fa riferimento a quelle situazioni giuridiche, sorte sotto la vigenza della norma dichiarata incostituzionale, che si sono consolidate per effetto di eventi ai quali l’ordinamento riconosce efficacia definitiva. Rientrano in questa categoria, a titolo esemplificativo, le decisioni giudiziarie passate in giudicato, i provvedimenti amministrativi non più impugnabili, il completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, nonché il decorso dei termini di prescrizione o decadenza, che impediscono l’esercizio di qualsiasi azione o rimedio. La ratio di tale impostazione risiede nell’esigenza di salvaguardare la stabilità e la certezza del diritto, evitando che la declaratoria di illegittimità costituzionale possa incidere retroattivamente su situazioni ormai cristallizzate e sottratte a ogni ulteriore contestazione. Tale principio opera in modo generale e trasversale: nessuna decisione di accoglimento della Consulta può incidere su situazioni ormai definite e concluse prima della pubblicazione della pronuncia stessa.
Sul piano sistematico, pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale produce effetti retroattivi, ma in modo temperato e circoscritto, senza compromettere gli assetti giuridici divenuti irrevocabili. In tal modo si realizza in concreto il limite dei rapporti esauriti, quale strumento di bilanciamento tra l’esigenza di rimuovere dall’ordinamento le norme contrarie alla Costituzione e la necessità di preservare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici consolidati.
Per completezza, va rilevato come, nel tempo, la dottrina[xxvi] abbia iniziato a manifestare crescente perplessità verso una rigida applicazione del principio di retroattività delle sentenze di accoglimento, prospettando l’esigenza di una graduazione degli effetti temporali in funzione di un più attento bilanciamento tra i valori costituzionali coinvolti. In tale ottica, si è sostenuto che la retroattività non debba essere intesa come regola assoluta e inderogabile, ma piuttosto come principio suscettibile di modulazioni finalizzate a garantire la massima tutela dell’ordinamento costituzionale violato, senza ledere in modo irreparabile altri principi di pari rango. Il dibattito si è intensificato con le pronunce nn. 10 e 70 del 2015 della Corte costituzionale. Con la prima[xxvii], la Corte ha riconosciuto espressamente la possibilità di limitare gli effetti retroattivi della propria decisione, in quanto necessaria per evitare la compromissione irreparabile di diritti o valori costituzionali concorrenti. Di segno opposto la sentenza n. 70[xxviii], con la quale la declaratoria di illegittimità è stata pronunciata senza modulazioni, con effetti integralmente retroattivi ex tunc.
In tale contesto teorico e giurisprudenziale si colloca l’ordinanza qui in commento, che rappresenta un’importante occasione di verifica concreta del perimetro applicativo del principio di retroattività delle decisioni di illegittimità costituzionale, nonché del valore sistemico attribuito alla categoria dei rapporti esauriti. La Suprema Corte, pur consapevole della natura eccezionale della disciplina dettata dall’art. 38 del d.l. n. 269/2003, ritiene che la declaratoria di incostituzionalità contenuta nella sentenza n. 92/2013 della Corte costituzionale abbia riaperto la possibilità per il depositario di agire in giudizio al fine di ottenere la differenza tra quanto percepito sulla base del regime forfettario e quanto sarebbe spettato in base alle tariffe ordinarie. Tale ricostruzione si fonda sulla qualificazione del credito vantato dal custode come diritto soggettivo perfetto e, in quanto tale, non intaccato dal decorso del tempo né dalla mancata impugnazione del provvedimento amministrativo di liquidazione. Tuttavia, un simile approccio solleva non pochi interrogativi, specie se confrontato con l’elaborazione giurisprudenziale consolidata in tema di rapporti esauriti, così come esaminata nell’ambito di questo paragrafo. La Corte costituzionale ha infatti ripetutamente chiarito che l’effetto retroattivo della pronuncia di illegittimità costituzionale, pur avendo natura generale, incontra precisi limiti di ordine sistemico e assiologico, fra i quali assume rilievo primario la salvaguardia delle situazioni giuridiche divenute intangibili o comunque della stabilizzazione degli effetti giuridici prodotti. Nel caso di specie, la vicenda si caratterizzava per la presenza di un decreto prefettizio che aveva formalmente liquidato il compenso e la cui esecuzione, mediante integrale pagamento, risultava già avvenuta da parte dell’amministrazione, in un momento anteriore rispetto alla pubblicazione della sentenza n. 92/2013. Tali circostanze, alla luce dei principi elaborati dalla Corte costituzionale, sembrerebbero integrare una tipica ipotesi di rapporto esaurito, insuscettibile di essere riaperto a seguito della pronuncia di incostituzionalità, proprio in virtù dell’esigenza di garantire certezza e stabilità all’ordinamento. L’ordinanza in analisi, pur animata dall’intento di assicurare un pieno ristoro a favore della depositeria sembra così ridimensionare la funzione garantistica del principio dei rapporti esauriti, finendo per attribuire alla pronuncia costituzionale un’efficacia espansiva tale da incidere su situazioni giuridiche ormai definite e, fino ad allora, non più contestate. In questa prospettiva, l’arresto della Cassazione sollecita una riflessione più ampia sul ruolo della Corte costituzionale come custode della legalità sostanziale e sul margine di discrezionalità interpretativa spettante ai giudici comuni nell’individuare il punto di equilibrio tra effettività del sindacato costituzionale e garanzia della certezza del diritto. Si conferma quanto ancora aperta e complessa sia la questione dell’efficacia temporale delle sentenze ablative e, in particolare, del difficile bilanciamento tra il principio di retroattività e la stabilità dei rapporti giuridici che il concetto di esaurimento intende tutelare. Essa richiama, in ultima analisi, la necessità di un uso ponderato e coerente di questo principio, onde evitare che il ripristino della legalità costituzionale si traduca paradossalmente in una lesione dell’affidamento legittimo e dell’ordine giuridico già stabilizzato.
4. Conclusioni: le peculiarità del rapporto depositeria-amministrazione
A questo punto possiamo sintetizzare la motivazione della decisione qui in oggetto, al fine di chiarire l’iter logico-argomentativo seguito dalla Corte di cassazione e proporre alcune conclusioni.
L’ordinanza ribadisce diffusamente la qualificazione del credito vantato dal custode come diritto soggettivo perfetto, richiamandosi espressamente alla sentenza della Corte costituzionale n. 92/2013. Tale impostazione, per quanto condivisibile sotto il profilo della tutela della posizione delle depositerie, le cui prerogative erano state significativamente alterate dall’introduzione della disciplina eccezionale di cui al d.l. n. 269/2003, suscita tuttavia alcune riserve nella sua automatica estensione alla distinta pretesa creditoria relativa alla “corretta determinazione del compenso” - per riprendere le parole della stessa Corte di cassazione[xxix]. Come già rimarcato, il provvedimento prefettizio di alienazione straordinaria, adottato ai sensi dell’art. 38 del d.l. n. 269/2003, presenta i tratti tipici dell’atto amministrativo autoritativo. In questa ottica, quindi, la posizione della depositeria si configura quale interesse legittimo volto a pretendere il corretto esercizio del potere discrezionale attribuito all’amministrazione. Indissolubilmente collegata a tale fase è, però, anche quella della liquidazione delle spese di custodia. La separazione operata dall’ordinanza tra la fase di alienazione (ritenuta eventualmente esaurita per mancata impugnazione) e quella della determinazione del compenso appare difficilmente sostenibile: la disciplina speciale dell’art. 38 configura infatti un procedimento unitario, caratterizzato da un nesso funzionale inscindibile tra l’esercizio del potere amministrativo volto alla cessione coattiva dei veicoli e la contestuale definizione dell’importo spettante al custode, come peraltro sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa più avveduta[xxx].
Ancor più rilevante è il principio, ribadito dal Consiglio di Stato, secondo cui non è ammissibile scindere artificialmente il procedimento di individuazione dei veicoli oggetto di alienazione da quello concernente la determinazione del corrispettivo spettante al custode: entrambi i profili devono essere esaminati congiuntamente e decisi contestualmente, in quanto il potere pubblico è uno solo. Ne consegue che, laddove risulti perfezionato il procedimento di alienazione e sia stato adottato il decreto prefettizio contenente anche la determinazione del compenso dovuto, il rapporto giuridico deve ritenersi integralmente esaurito. Tanto più in presenza di un pagamento effettuato dall’amministrazione in esecuzione del decreto stesso, elemento che assume rilevanza dirimente ai fini della qualificazione del rapporto come definitivamente estinto.
Da ultimo, si rende opportuna una considerazione in merito alle tempistiche. Alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, il procedimento previsto dall’art. 38 del d.l. 269/2003 fa sorgere il diritto di credito del depositario esclusivamente al momento della conclusione dell’intero procedimento, con l’una fase che presuppone necessariamente l’esaurimento dell’altra.
Ad avviso di chi scrive, si tratta dell’unico diritto di credito (diritto soggettivo perfetto) suscettibile di prescrizione in assenza di impugnazione del decreto prefettizio di liquidazione.
Nel caso in esame, considerato che l’atto non è stato oggetto di impugnazione e che il compenso liquidato è stato integralmente corrisposto prima della pubblicazione della sentenza del giudice delle leggi, seppur secondo i criteri forfettari allora vigenti, il rapporto tra la depositeria e l’amministrazione deve ritenersi definitivamente estinto, senza ulteriori obblighi o pretese reciproche.
Argomentare, come fa il giudice di legittimità, che la titolarità di un diritto soggettivo perfetto consenta alla depositeria di esigere la differenza tra quanto percepito in via forfettaria e quanto sarebbe spettato secondo la disciplina ordinaria, rappresenta una posizione senz’altro autorevole, ma che merita di essere attentamente valutata alla luce del principio di certezza del diritto. Quest’ultimo, come chiarito dalla Corte costituzionale nell’interpretazione sistematica dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87/1953[xxxi], impone di considerare preclusa l’incidenza retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale sui rapporti ormai esauriti. In tale prospettiva, la posizione adottata dalla Suprema Corte rischia di attenuare il valore garantistico di tale limite, il cui presidio è essenziale per assicurare la stabilità e l’affidamento nei rapporti giuridici consolidati.
[i] Ferma la progettazione comune, i paragrafi 1, 2 e 3.1 sono opera di Ludovico Di Benedetto, i 3.2 e 4 di Fabio Conti.
[ii] Su cui si rinvia subito infra, al paragrafo successivo.
[iii] Il decreto è stato varato quando era ancora vigente la precedente regolamentazione organica di cui al dpr 393/1959 (recante il testo unico delle norme sulla circolazione stradale), che tuttavia non prefigurava sanzioni reali; il referente normativo del potere cautelare amministrativo andava infatti rinvenuto all’esterno di questa cornice e, precisamente, nei commi 2 e 3 dell’art. 13 l. 689/1981.
[iv] Le disposizioni codicistiche di nostro interesse si rinvengono negli artt. 213 e 214 bis. Ogniqualvolta sia prescritta la sanzione della confisca del veicolo, l’organo accertatore ne dispone il sequestro a fini cautelari. Le successive norme si appuntano sulle modalità gestorie del mezzo, onde garantirne un’adeguata conservazione, preferibilmente, non onerosa per la p.a., incentrandosi sull’obbligo di custodia in capo al medesimo trasgressore oppure, se non possibile, al custode-acquirente, selezionato all’esito di una gara pubblica.
[v] Qualora l’avente diritto non ritiri la cosa entro sei mesi da quando l’atto che ne dispone la restituzione è divenuto inoppugnabile, l’amministrazione ne ordina la vendita e accantona le somme così ricavate (art. 16). Questa norma, tuttavia, dovrebbe oggi ritenersi abrogata, dal momento che per i veicoli abbandonati esiste una disciplina speciale di cui al dpr 189/2001, che vede coinvolto in prima battuta il demanio.
[vi] Ovviamente il denaro ottenuto dalla vendita va devoluto all’erario. Se il bene sequestrato è di interesse storico o artistico può essere acquisito al patrimonio indisponibile dello Stato (art. 15 c. 3); ai commi successivi viene dettagliata la sorte di altre tipologie di beni che qui possiamo tralasciare. In base al successivo art. 17, le procedure di alienazione seguono la disciplina della contabilità di Stato (cfr. r.d. 2440/1923).
Nel complesso, pertanto, le differenze rispetto al meccanismo delineato dal codice della strada sono lampanti: alla gara competitiva, si sostituisce una valutazione imperativa e discrezionale del prefetto nel selezionare i depositi; all’accordo negoziale, la fissazione unilaterale amministrativa delle tariffe; all’unicità dell’aggiudicatario, la pluralità delle depositerie. Comunque, resta inteso che, in ogni caso in cui non si raggiunga, nel contesto provinciale, la sottoscrizione del contratto ex art. 214 bis cds, o questo per qualsiasi causa risulti inefficace, la disciplina a cui fare riferimento resta quella del dpr ricordato.
[vii] Convertito con modifiche nella l. 326/2003.
[viii] Compresi quelli fermati e confiscati. La sequenza ivi delineata prevale pure sulle procedure speciali di alienazione eccezionalmente attivate dalle singole prefetture e si applica al loro posto (comma 10).
[ix] Assieme a quelli non alienati per la mancanza di acquirenti.
[x] Rispetto al 30 settembre 2003.
[xi] Cfr. Amoroso G., Parodi G., Il giudizio costituzionale, Milano, 2020, 455 e ss. e Celotto A., Modugno F., La giustizia costituzionale, in Modugno F. (a cura di), Diritto pubblico, Torino, 2016, 754 e ss.
[xii] Il legislatore, al fine di evitare un aggravio della finanza pubblica, si è nuovamente attivato, sfruttando lo stesso istituto dell’alienazione straordinaria, ma, memore del dictum della Consulta, vi ha apportato alcuni correttivi (cfr. l. 147/2013, art. 1 commi 444 e seguenti). Il nuovo procedimento ha un ambito di applicazione quasi equipollente a quello del 2003 (veicoli sequestrati, fermati, confiscati o non alienati per mancanza di acquirenti giacenti in deposito da almeno 2 anni, stavolta anche se di interesse storico-collezionistico), mentre è del tutto identico il meccanismo giuridico (alienazione massiva al custode).
Gli aspetti innovativi sono rappresentati dal coinvolgimento del proprietario (comma 445) e dal ruolo del custode (comma 446). Infatti, sotto il primo versante, redatto e pubblicato ad opera della prefettura l’elenco dei mezzi nelle condizioni descritte, il titolare del bene ha l’onere di ritirarlo entro 60 giorni dalla pubblicazione del menzionato elenco, pagando contestualmente il compenso al custode.
In riferimento al secondo profilo, decorso inutilmente il termine per il ritiro, la prefettura invia una proposta contrattuale di alienazione cumulativa al custode con valenza transattiva (gli artt. 1965 e ss. c.c. sono espressamente richiamati), che può essere accettata o meno, salvaguardando dunque la posizione della controparte; con essa, viene fissato il corrispettivo della cessione, considerando il tipo e le condizioni del veicolo e gli oneri di rottamazione, al netto di quanto dovuto al privato per il servizio di custodia (comma 447).
[xiii] Da ciò scaturiscono conseguenze giuridiche di sicuro rilievo. Sul versante del diritto pubblico, per esempio, la relazione p.a.-custode potrebbe essere formalizzata in un accordo sostitutivo ex art. 11 l. 241/90. Sul fronte civilistico, troveranno applicazione le regole codicistiche sul rapporto contrattuale (in primis, le norme sulla responsabilità - artt. 1218 e ss. c.c.). Per approfondimenti, sia concesso rimandare a Natoli U., I contratti reali, Milano, 1975, passim, e a Majello U., Custodia e deposito, Napoli,1958, passim.
[xiv] Bianca C. M., Diritto civile. I contratti, Milano, 2019, 29 e ss.; Irti N., Scambi senza accordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, II, 1998, 347 e ss.; Angelici C., voce Rapporti contrattuali di fatto, in Enciclopedia giuridica Treccani, XXV, Roma, 1991, 8 e ss.
[xv] Punto 4 dell’ordinanza.
[xvi] Punto 8.1. Tralasciamo l’ambiguo riferimento al custode-acquirente, figura, come indicato in nota, avulsa dal contesto di cui discorriamo.
[xvii] L’idea del potere come situazione giuridica è prevalente: Cerri A., voce Potere e potestà, in Enciclopedia giuridica, XVI, Roma, 1998, 1 e Romano A., Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, 118. Altri però lo ritengono concetto avulso da quella categoria, definendolo ora come forza giuridica ordinamentale - Miele G., Potere, diritto soggettivo e interesse, in Rivista di diritto commerciale, I, 1944, 116 - ora come fattispecie normativa dinamica - Guarino G., Potere giuridico e diritto soggettivo, Napoli, 1990, 249.
Si è consapevoli del dibattito circa la distinzione tra posizioni e situazioni soggettive (si vedano per esempio Scoca F. G., L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 448 e Giannini M. S., Diritto amministrativo, Milano, 1970, 65), ma qui, per evitare di appesantire la trattazione, si preferisce superare il tema ed usare le due espressioni come sinonimi.
[xviii] La stretta tipicità dei poteri è riconosciuta da tempo dalla dottrina. Per tutti, Santi Romano, Poteri. Potestà, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1983, 198: “i poteri non esistono se non per disposizione del diritto oggettivo”. Tale carattere trova fondamento sul piano sostanziale, nel principio generale di eccezionalità dell’autotutela privata, desumibile dai vari esempi disseminati nel codice civile e nelle fattispecie penali della “ragion fattasi” con violenza sulle persone o sulle cose (artt. 392 e 393 c.p., inseriti al Libro II nel Titolo III sui reati contro l’amministrazione della giustizia); sul piano processuale, nell’art. 2908 c.c., che fissa la tipicità delle azioni costitutive.
[xix] Modugno F., Diritto pubblico, Torino, 2017, 614.
[xx] Su quest’ultimo punto si traggono preziosi elementi da Romano S., Poteri. Potestà, op. cit., 190.
[xxi] Calamandrei P., L’illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950, passim; Esposito C., Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, in Esposito C., La Costituzione italiana, Padova, 1954, passim; Ruotolo M., La dimensione temporale dell’invalidità della legge, Padova, 2000, passim.
[xxii] C. cost. nn. 10/2015, 70/2015, 178/2015 e 1/2014.
[xxiii] Ex multis, C. cost. nn. 127/1966, 58/1967 e 49/1970.
[xxiv] Cfr. decisioni della nota precedente.
[xxv] Cass. 22.6.1963, in Giurisprudenza Italiana, I, 1963, 1386; Cass. n. 2577/1971, in Foro italiano, I, 1971, 2148.
[xxvi] Modugno F., Considerazioni sul tema, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere, Milano, 1989, 23; Luciani M., Il dissolvimento della retroattività. Una questione fondamentale del diritto intertemporale nella prospettiva delle vicende delle leggi di incentivazione economica, in Giurisprudenza italiana, IV, 2007, 1832.
[xxvii] Pronunciata in materia tributaria, la sentenza esclude la retroattività dell’incostituzionalità per la grave menomazione dell’equilibrio di bilancio che ne sarebbe discesa (art. 81 Cost.).
[xxviii] In tema di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici.
[xxix] Punto 10 dell’ordinanza.
[xxx] Cons. St., Sez. III, n. 8182/2023, già citata nel corpo, e n. 6257/2022.
[xxxi] Corte Cost. n. 49/1970, 26/1969, n. 58/1967, n. 127/1966. Queste sono sentenze molto eterogenee per materia, ma in tutte la Corte sottolinea l’esigenza che vi sia una salvaguardia del principio della certezza del diritto.