Incostituzionalità della legge e illegittimità del regolamento attuativo (nota a sentenza Consiglio di Stato 4 giugno 2024, n.4998)
di Renato Rolli e Mariafrancesca D’Ambrosio ***
Sommario: 1. Ricostruzione della vicenda contenziosa; 2. La soluzione adottata dal Consiglio di Stato; 3. Effetti della dichiarazione di incostituzionalità della norma regolativa o attributiva del potere amministrativo; 4. L’autonomia del momento amministrativo: la storica sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8/1963.
1. Ricostruzione della vicenda contenziosa
Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Campania l’associazione sindacale DIRER Campania (di seguito “DIRER”) impugnava il regolamento avente ad oggetto “Ordinamento amministrativo della Giunta regionale” approvato dalla Giunta regionale con delibera del 29 ottobre 2011 n. 612 ed emanato dal Presidente della Giunta regionale con atto del 15 dicembre 2011, n. 12; con motivi aggiunti, inoltre, impugnava le delibere della Giunta regionale del 10 settembre 2012, nn. 475, 478 e 479, con le quali venivano apportate modifiche e integrazioni al regolamento impugnato con il ricorso principale, definite le strutture ordinamentali della Giunta regionale in attuazione delle disposizioni regolamentari, e, infine, approvato il disciplinare per il conferimento degli incarichi dirigenziali, poi sostituito da un nuovo disciplinare approvato con delibera giuntale del 13 novembre 2012, n. 661, anch’essa impugnata con motivi aggiunti.
La ricorrente rilevava due i profili di illegittimità costituzionale.
Per un primo profilo, la norma era detta in contrasto con gli articoli 121, comma 4 e 123, comma 1, Cost. per violazione dell’interposto art. 56, comma 2, dello Statuto regionale (approvato con l.reg. 28 maggio 2009, n. 6), avendo previsto un procedimento per l’approvazione del regolamento divergente da quello disciplinato in sede statutaria: invero, l’art. 56, comma 2, dello Statuto regionale imponeva l’approvazione dei regolamenti da parte dal Consiglio regionale e l’emanazione del Presidente della Giunta, previa deliberazione di quest’ultima; la legge regionale contestata, di contro, aveva previsto che fosse acquisito il parere obbligatorio ma non vincolante della commissione consiliare permanente, senza approvazione da parte del Consiglio.
Da altro punto di vista, la ricorrente sosteneva l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, l. reg. n. 8 del 2010 per contrasto con l’art. 123 Cost. in ragione della violazione dell’interposto art. 56, comma 4, dello Statuto regionale: a fronte dell’obbligo imposto dalla disposizione statutaria – in caso di adozione di legge regionale di autorizzazione della Giunta ad emanare regolamenti in materie già disciplinate con legge, rientranti nella competenza esclusiva della Regione – di determinare le “norme generali regolatrici della materia”, con conseguente abrogazione delle norme legislative vigenti a far data dall’entrata in vigore delle norme regolamentari, il legislatore regionale s’era limitato a richiamare i principi generali dell’azione amministrativa, senza dare indicazioni in merito al modello organizzativo prescelto cui la Giunta avrebbe dovuto dare attuazione con le disposizioni regolamentari.
In primo grado, il Tar adito respingeva il ricorso e i motivi aggiunti, ritenendoli infondati, così come entrambi i profili di illegittimità costituzionale prospettati dalla ricorrente.
Avverso la sentenza DIRER proponeva appello, contestando nei primi due motivi la reiezione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nel ricorso ed esponendo negli altri quattro motivi la critica alle ragioni poste a fondamento della reiezione delle altre doglianze articolate con il ricorso introduttivo del giudizio.
Con ordinanza del 19 settembre 2022, n. 8071 la sezione V del Consiglio di Stato, risolto preliminarmente in senso positivo il profilo della legittimazione a ricorrere sollevava questione di legittimità costituzionale, dubitando della legittimità dell’art. 2, l. reg. Campania 6 agosto 2010, n. 8 per contrasto con l’art. 123 Cost., per violazione dell’interposto art. 56, comma 4, dello Statuto regionale, nonché per contrasto con gli articoli 121 e 97 Cost. In particolare, la Sezione riteneva rilevante per la decisione del giudizio la questione di legittimità costituzionale prospettata dall’appellante, in quanto il suo accoglimento avrebbe avuto “l’effetto di eliminare il presupposto normativo sulla base del quale è stato adottato il regolamento impugnato (così come avvenuto a seguito di Corte cost. 23 novembre 2021, n. 218)”.
Successivamente, con sentenza del 10 luglio 2023, n. 138, la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge della Regione Campania 6 agosto 2010, n. 8 (Norme per garantire l’efficienza e l’efficacia dell’organizzazione della Giunta regionale e delle nomine di competenza del Consiglio regionale); in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dichiarava altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, della legge reg. Campania n. 8 del 2010, il quale prevede che la legge regionale Campania n. 11 del 1001 sia abrogata dalla data di entrata in vigore del regolamento.
Così concluso il giudizio di legittimità costituzionale, la FEDIRETS (Federazione Dirigenti e Direttivi – Enti territoriali e Sanità), subentrata a seguito di successive fusioni alla DIRER Campania, depositava motivi aggiunti prospettando, sotto vari profili, l’illegittimità costituzionale della normativa sopravvenuta. In particolare, evidenziava che anche quest’ultimo intervento legislativo sembrava presentare profili di illegittimità costituzionale in quanto con la «legificazione» delle disposizioni del regolamento n. 12 del 2011 e la «conferma[…] dell’organizzazione degli uffici così come delineata dalla deliberazione di Giunta regionale n. 478 del 2012, e succ. int. e mod., la Regione Campania avrebbe inteso risolvere in suo favore ex auctoritate legis una controversia pendente dinanzi al giudice amministrativo, limitando il diritto di difesa dell’appellante e, così, violando il principio della parità delle parti dinanzi al giudice, con ulteriore incidenza sull’esercizio della funzione giurisdizionale affidata a quest’ultimo». Altresì deduceva l’incostituzionalità dell’art. 7, co. 2, della l. reg. n. 15 del 2023 anche in relazione al parametro di cui all’art. 136 Cost., per violazione del giudicato formatosi sulla sentenza della Corte costituzionale del 10 luglio 2023, n. 138, poiché, nel fare «oggetto di espressa legificazione l’intero articolato (dall’art. 1 all’art. 42) del regolamento n. 12 del 2011, avrebbe vanificato del tutto gli effetti della suddetta pronuncia di incostituzionalità»[1].
2. La soluzione adottata dal Consiglio di Stato
La vicenda posta all’attenzione del Consiglio di Stato mette in luce la questione relativa alle sorti del regolamento amministrativo adottato a seguito della dichiarazione di incostituzionale di una legge.
Nel dirimere la controversia, i giudici di secondo grado hanno espresso il principio a mente del quale «qualora la Corte costituzionale dichiari costituzionalmente illegittima una legge regionale di riforma dell’organizzazione della regione per aver previsto una delegificazione senza indicare criteri sufficientemente dettagliati, sì da attribuire alla giunta regionale una sorta di delega in bianco, il regolamento adottato dalla regione sulla base di tale legge è illegittimo; e va annullato dal giudice amministrativo anche se la regione lo abbia successivamente recepito con legge: tale “legificazione” del regolamento non è infatti idonea a sanare l’illegittimità dell’atto che risulta adottato in assenza di base normativa, vista la declaratoria di illegittimità costituzionale della legge di autorizzazione».
In questo senso il giudicante dà continuità ad un orientamento consolidatosi in materia, secondo cui «la legge in contrasto con la Costituzione è una legge invalida ancorché efficace sino alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale che la dichiara illegittima. Tale sentenza, producendo effetti retroattivi incidenti sui rapporti pendenti, comporta che il provvedimento amministrativo viene privato, anch’esso con effetti retroattivi, della sua base legale. La conseguenza sarà sempre l'annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere»[2].
La comprensione della decisione del giudice amministrativo passa attraverso l’analisi dell’istituto dell’invalidità e dei suoi effetti.
3. Effetti della dichiarazione di incostituzionalità della norma regolativa o attributiva del potere amministrativo
La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma regolativa o attributiva del potere viene fatta rientrare nel novero delle ipotesi di invalidità sopravvenuta[3].
V’è, però, un isolato orientamento secondo il quale l’invalidità sarebbe originaria[4], atteso che la declaratoria di incostituzionalità espelle dall’ordinamento una norma fin dalla sua origine: in tal senso si osserva che le pronunce della Corte costituzionale determinano il venir meno – in via retroattiva – della norma censurata, perché operano la ricognizione di un vizio originario della norma stessa, la cui eliminazione non è assimilabile a quella che deriva dall’abrogazione della norma precedente ad opera della norma sopravvenuta.
La dottrina e la giurisprudenza hanno qualificato tale invalidità ora come nullità ora come annullabilità.
Un primo orientamento distingue l’ipotesi in cui la disposizione di legge dichiarata incostituzionale attribuisce il potere sul quale si fondano i provvedimenti emanati, da quella in cui la stessa legge si limita a disciplinare le modalità di esercizio del potere. In quest’ultimo caso l’atto sarebbe soltanto annullabile, con la conseguente necessità di impugnarlo entro il termine di decadenza dinanzi al giudice amministrativo; nella prima ipotesi, invece, il provvedimento dovrebbe considerarsi nullo, in quanto emanato nell’esercizio di un potere inesistente, con la conseguenza che, stante il carattere insanabile della nullità, il cittadino potrebbe giovarsi della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale in qualsiasi momento, senza incontrare preclusioni derivanti dal mancato rispetto dei termini decadenziali[5]. A fronte dell’inesistenza del potere, peraltro, la relativa controversia dovrebbe essere devoluta non al giudice amministrativo, ma il giudice ordinario venendo in considerazione un’ipotesi di carenza del potere.
Secondo altra dottrina, si tratterebbe di ipotesi di inesistenza.
Tale soluzione, tuttavia, si presta a delle cesure.
L’inesistenza sopravvenuta è una contraddizione in termini, atteso che per definizione è inesistente ciò che non è mai venuto ad esistere.
Una norma inesistente non è una norma, ma solo l’apparenza di una norma.
È inesistente infatti la norma priva degli elementi che ne rendono possibile la riconoscibilità. Tale insussistenza, però, non può che essere originaria, poiché un atto giuridico venuto ad esistere, anche per breve tempo, non può considerarsi come mai esistito[6].
L’orientamento accolto dalla giurisprudenza amministrativa e prevalente in dottrina ritiene, infatti, che l’atto emanato in base ad una norma dichiarata in costituzionale sia soltanto annullabile[7]. Ciò per una serie di ragioni.
Rileva, anzitutto, la circostanza che il provvedimento sia stato emanato da un organo che esercitava le sue funzioni sulla base di una legge vigente al momento in cui l’atto è stato emesso; che tra la legge e l’atto amministrativo non sussiste un rapporto di conseguenzialità analogo a quello ravvisabile fra l’atto preparatorio e l’atto finale del procedimento amministrativo.
V’è, poi, l’esigenza di tutelare l’affidamento che tali atti sono in grado di determinare nei terzi: tale affidamento sarebbe leso se l’incostituzionalità della norma comportasse la riapertura dei termini di impugnazione del provvedimento. La retroattività che caratterizza le pronunce di illegittimità costituzionale è, infatti, impropria, atteso che essa si arresta dinanzi ai rapporti esauriti[8].
È palmare la differenza rispetto alla retroattività delle norme di abolitio criminis, la cui forza è in grado di travolgere finanche le sentenze passate in giudicato.
L’effetto circoscritto della retroattività della sentenza[9] rappresenta un corollario del principio di certezza e stabilità del provvedimento amministrativo, principio che trova la sua ragion d’essere nella funzione assegnata all’attività amministrativa, consistente nella gestione e nella cura dell’interesse pubblico; nonché del principio di intangibilità del giudicato che cristallizza il contenuto della sentenza, non ammettendone successive modifiche.
Oltre ad escludere che la declaratoria di incostituzionalità della legge attributiva del potere alla p.a. riapra il termine per impugnare il provvedimento – in forza di un principio di autoresponsabilità del privato-ricorrente –, il giudice amministrativo ha sempre ritenuto di essere sfornito del potere di rilevare d’ufficio il vizio di incostituzionalità[10].
Tale vizio, secondo la giurisprudenza, deve trovare riscontro in un apposito motivo di ricorso. In quest’ottica, le disposizioni dell’art 1 della Legge costituzionale 8 febbraio 1948, n. 1 e dell’art 23, Legge 11 marzo 1953, n. 87, che consentono la proposizione dell’incidente di costituzionalità nel corso del giudizio anche d’ufficio, ricevono un’interpretazione assai riduttiva.
In particolare, partendo dalla previsione dell’art. 23 che richiede, ai fini della rimessione degli atti alla corte costituzionale, non solo la non manifesta infondatezza della questione, ma anche che «il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale», la giurisprudenza afferma che se la violazione di una norma di legge non è specificamente dedotta tra i motivi di ricorso, l’eventuale dubbio di legittimità costituzionale che sorge in relazione a tale norma non potrebbe considerarsi rilevante.
In questo senso, dunque, non sarebbe sufficiente invocare il principio secondo il quale il giudice ha il potere di sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale, atteso che tale potere viene in rilievo a condizione che il giudice debba fare applicazione, ai fini della decisione, della norma sospettata di incostituzionalità.
Il rigore della giurisprudenza è, però, destinato ad attenuarsi quando si tratti di pronunce che si occupano degli effetti della sentenza di incostituzionalità nei giudizi pendenti[11].
In tal caso, infatti, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa di incostituzionalità della norma su cui si fonda il provvedimento, il giudice amministrativo ha il dovere di rimuovere quest’ultimo, anche se il vizio di legittimità riflesso non era stato dedotto come motivo di ricorso. A sostegno, si rileva che l’interesse generale impedisce che le norme dichiarate incostituzionali trovino ancora applicazione e consentano la consolidazione dell’atto assunto sulla loro base[12].
4. L’autonomia del momento amministrativo: la storica sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8/1963
Non sono immediati né diretti gli effetti che si ripercuotono su eventuali provvedimenti amministrativi adottati sulla base della disposizione legislativa dichiarata illegittima costituzionalmente.
Circa il regime dell’atto amministrativo adottato sulla base della legge dichiarata incostituzionale, si è soliti parlare di ‘effetto viziante’ e non già di ‘effetto caducante’ in ragione della cosiddetta «autonomia del momento esecutivo rispetto al momento legislativo e dell’operatività del meccanismo della caducazione automatica a seguito della declaratoria di incostituzionalità della legge di disciplina del rapporto»[13].
Si tratta del principio di diritto che emerge dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 8 del 1963[14], secondo la quale «la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha efficacia ex tunc, salvo il limite degli effetti irrevocabilmente prodotti dalla norma incostituzionale (situazioni e rapporti divenuti incontrovertibili per il maturarsi di termini di prescrizione o di decadenza, o perché definiti con giudicato etc.) ed opera erga omnes, cioè anche fuori dell’ambito del rapporto processuale nel quale è sollevato l’incidente di costituzionalità, distinguendosi dall’abrogazione della legge, perché si estende ai fatti anteriori»[15].
I giudici osservano che la norma dichiarata incostituzionale non può considerarsi inesistente (con conseguente inesistenza dell’organo creato in base ad essa e degli atti emessi da tale organo) e che tra legge ed atto amministrativo non sussiste un rapporto di conseguenzialità analogo a quello ravvisabile tratto preparatorio atto finale di un procedimento amministrativo.
Nella motivazione della pronuncia si legge che l’atto amministrativo, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha una vita ed una sua individualità propria e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della legge.
Erra perciò il giudice amministrativo che dichiara improcedibile il ricorso giurisdizionale avverso gli atti emanati dall’organo creato da una norma dichiarata incostituzionale sul riflesso che si tratta di atti inesistenti. Il Consiglio di Stato ha escluso che «la norma dichiarata incostituzionale debba dichiararsi inesistente con la conseguenza che inesistente debba essere anche l’atto amministrativo che si fonda su di questa». Il percorso logico giuridico della decisione, in sostanza, si può riassumere nel modo seguente: la legge dichiarata incostituzionale non è nulla, ma annullabile; la stessa legge, benché successivamente incostituzionale, esiste e produce i suoi effetti fino alla declaratoria di illegittimità da parte della Corte costituzionale. Di conseguenza anche l’atto amministrativo emesso in base a legge dichiarata incostituzionale non è inesistente ma annullabile, e pertanto spiegherà i suoi effetti fino a quando non interverrà una pronuncia su di esso del giudice amministrativo, che ne produce il suo definitivo annullamento; escludendo in tal senso un’efficacia diretta della sentenza della Corte sul risultato di una qualsiasi attività amministrativa[16].
In altri termini, tra la legge e l’atto amministrativo non vi un rapporto d presupposizione.
L’atto amministrativo mantiene una vita ed una individualità propria: esso quindi non viene investito dalla cessazione dell’efficacia della legge su cui si basa, pur subendo ovviamente, l’influenza delle vicende della norma cui ha dato applicazione.
La decisione del Consiglio di Stato, nell’affrontare la questione riguardante il rapporto di conseguenzialità tra legge e l’atto amministrativo fonda il suo ragionamento sull’autonomia del potere esecutivo, contrapposto al rapporto intercorrente tra atto preparatorio e finale di un procedimento amministrativo. Se il potere esecutivo non fosse autonomo rispetto a quello legislativo, la caducazione della legge derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale creerebbe automaticamente la caducazione dell’atto amministrativo emanato in base ad essa, in un più ampio contesto di un procedimento amministrativo. Si tratterebbe di invalidità ad effetto caducante.
Quando l’invalidità derivata dell’atto consequenziale è ad effetto caducante, l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale anche se quest’ultimo non sia stato impugnato.
Non sembra convincente l’orientamento che delinea, come conseguenza della pronuncia di legittimità costituzionale, la rimozione dell’atto sic et simpliciter[17].
Del resto, affermare che un determinato provvedimento, anche se viziato, possa sparire dall’ordinamento senza una formale rimozione – rinvenibile nell’annullamento a seguito di ricorso giurisdizionale –, bensì soltanto per l’effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma in base alla quale è stato emanato, significa negare l’imperatività stessa dell’atto amministrativo.
È, dunque, alla luce della sentenza dell’Adunanza Plenaria che si comprende la decisione in commento del Consiglio di Stato, secondo cui, in definitiva, «la conseguenza sarà sempre l'annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere».
Ne discende che quando l’invalidità derivata è ad effetto viziante, l’atto consequenziale non viene automaticamente travolto dall’annullamento dell’atto presupposto: l’atto consequenziale è affetto da illegittimità; l’atto consequenziale è affetto da una invalidità che deve essere fatta valere nei termini di decadenza. Diversamente l’atto consequenziale si cristallizza anche se illegittimo, anche se invalido.
*** Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire i paragrafi 1 e 4 al Prof. Renato Rolli i restanti alla Dott.ssa Mariafrancesca D’Ambrosio
[1] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 4 giugno 2024, n. 4998
[2] V. Cons. Stato, sez. VI, 11 settembre 2014, n. 4624
[3] M.A. Sandulli, La giustizia costituzionale in italia, in Giur. Cost., 1961, 830 ss
[4] Sul punto si vede: S. Romano: “Osservazioni sulla invalidità successiva degli atti amministrativi”, in Raccolta di scritti di diritto pubblico in onore di Giovanni Vecchielli, Giuffré, Milano, 1938, p. 435; A. Romanelli: “Sulla cosiddetta invalidità successiva degli atti amministrativi”, Jus, 1942, pp. 123 ss.; P. Gasparri: L’invalidità successiva degli atti amministrativi, Nistri-Lischi, Pisa, 1939, p. 45; F. Benvenuti: “Inefficienza e caducazione degli atti amministrativi”, Giur. compl. Corte Suprema Cass., 1950, pp. 916 ss.; G. Pagliari: Contributo allo studio della c.d. invalidità successiva degli atti amministrativi, Giuffré, Milano, 1991, pp. 1 ss.
[5] Cons. Stato, sez. VI, n. 51/1960; nello stesso senso cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13 aprile 1960 n. 241 e Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo 1961 n. 234
[6] F. MODUGNO, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia del “potere esecutivo”, in Giur. cost., 1963, 1728; N. LIPARI, Orientamenti in tema di effetti delle sentenze, cit., 2259; G. GIONFRIDA, Giudizio di legittimità costituzionale della legge e questioni pregiudiziali attinenti al cosiddetto processo principale, in Studi in onore di Ernesto Eula, Milano, 1957, II, 98 ss.; B. CAVALLO, Rapporti di priorità fra questioni, cit., 24 ss.; P. CALAMANDREI, Corte costituzionale e autorità giudiziaria, cit., 20; M. CAPPELLETTI, La pregiudizialità, p.103; In particolar modo quanto agli effetti della illegittimità costituzionale di norme istitutive di organicfr. C.ESPOSITO, Inesistenza o illegittima inesistenza di uffici ed atti amministrativi per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme organizzatorie?, in Giur. cost., 1960, 330 ss., secondo cui i pubblici uffici non si costituiscono “magicamente” con una disposizione di legge e l’attività di questi non può volatilizzarsi con la eliminazione di tale disposizione; quanto, invece, alle norme attributive di poteri ad organi già esistenti cfr. G. BORZELLINO, Illegittimità costituzionale di norme e validità di atti amministrativi, in Foro amm., 1962, 13 ss; CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1984, II, 385.
[7] V. Tar Salerno, Sez II, 4 febbraio 2015, n. 239
[8] Consiglio di Stato, sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3449, Pres. Giaccardi, Est. Greco, p. 3 della motivazione in diritto dove si afferma ulteriormente che «in tema di effetti della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma attributiva di un potere alla p.a. sul provvedimento che ne costituisce esercizio, il più recente orientamento è nel senso che, pur non essendovi travolgimento automatico del provvedimento per effetto del venir meno della norma a monte (trattandosi di illegittimità derivata dell’atto applicativo e non già di sua inesistenza o nullità, come pure era stato ipotizzato), non è onere della parte ricorrente proporre motivi aggiunti per dedurre il vizio sopravvenuto quante volte la stessa nel ricorso introduttivo, attraverso uno o più motivi specifici, abbia fatto venire in rilievo la norma in questione, ancorché non sotto il profilo di una sua illegittimità costituzionale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 18 giugno 2009, nr. 4002)».
[9] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. 2., 9. ed., Padova, Cedam, 1976, p. 1364.
[10] v M. Magri, La legalità costituzionale dell’amministrazione. Ipotesi dottrinali e casistica giurisprudenziale, Milano, 2002,121 e ss
[11] Cons. Stato, sez. I, parere 12 aprile 2024, n. 470; Pres. Poli; Est. Ciuffetti
[12] CERULLI IRELLI V., Lineamenti del diritto amministrativo, 7. ed., Torino, Giappichelli, 2021, p. 502.
[13] In Giur.it, 1964, III, p. 66, nonché in Foro amm., 1964, con nota di A. Romano, Pronuncia di illegittimità costituzionale di una legge e motivo di ricorso giurisdizionale amministrativo
[14] Si consenta il rinvio a Renato Rolli, La disapplicazione giurisdizionale dell’atto amministrativo, tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, Aracne Editore 2005, p. 91 e ss.
[15] Cfr. F. Modugno, Esistenza della legge incostituzionale E autonomia del potere esecutivo, in Giur. Cost. 1963, p. 1729
[16] Cfr. R. Giovagnoli, L’atto amministrativo emanato in base ad una legge incostituzionale, in Diritto e Formazione, n. 8 del 2001, p. 1066.
[17] R. Niro, Disapplicazione di norme e declaratoria di illegittimità di provvedimento, in I garanti delle regole. Le autorità indipendenti, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna 1996 p. 193, ss.