Integrazione postuma della motivazione ed esaurimento della discrezionalità (nota alla sentenza n. 361 del 26.1.2024 del TAR Sicilia - Catania, IV sezione)
di Ludovico Di Benedetto
Sommario: 1 - Sintesi del fatto; 2 - Inquadramento e fondamento giuridico; 3 - Ammissibilità dell’integrazione conservativa ed esaurimento della discrezionalità; 4 - L’integrazione postuma alla prova dei fatti; 5 - Conclusioni: il delicato equilibrio tra poteri costituzionali.
1 - Sintesi del fatto
La sentenza in commento concerne un procedimento amministrativo connotato da discrezionalità tecnica (concorso pubblico), a fronte del quale si staglia un interesse legittimo pretensivo del ricorrente (ottenimento dell’incarico). La ricostruzione della parte in fatto è piuttosto agevole. Il contenzioso origina dall’impugnazione, ad opera del privato, della determinazione con la quale l’autorità pubblica, all’esito della procedura concorsuale, negando di procedere alla stipula del contratto di lavoro col primo della graduatoria, ha dichiarato vincitore il secondo classificato. La pretermissione del ricorrente è stata giustificata dall’accertamento del rinvio a giudizio per alcuni reati che, in forza delle previsioni del bando, avrebbero portato all’estromissione dalla gara qualora consolidati in cosa giudicata.
Avviato il contenzioso amministrativo, l’autorità pubblica ha emanato un nuovo provvedimento a mezzo del quale ha convalidato la precedente delibazione, specificandone le ragioni. Questo secondo atto è stato ritualmente avversato dalla parte ricorrente con motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a., adducendo, tra l’altro, un’inammissibile integrazione postuma della motivazione provvedimentale.
Il giudice amministrativo si è pronunciato con la sentenza in commento[1]. Dichiarato improcedibile il ricorso principale per sopravvenuta carenza di interesse alla luce del più recente provvedimento, quello per motivi aggiunti è stato rigettato nel merito. In sintesi e per quanto qui rileva, il collegio, richiamando un nutrito filone giurisprudenziale, ha ritenuto legittima l’integrazione successiva, in quanto operata non tramite atti processuali, bensì per mezzo di un autonomo intervento in sede amministrativa - nella specie, un provvedimento conservativo di secondo grado.
La pronuncia in commento si segnala dunque per aver assecondato la direttrice che conferisce piena cittadinanza nel nostro ordinamento, sebbene entro puntuali limiti, alla cosiddetta integrazione postuma della motivazione lite pendente. Questa tematica, in particolare, merita un excursus, al fine di comprenderne caratteri e disciplina sostanziale. Lo studio propone inoltre un collegamento con l’idea della riduzione della discrezionalità amministrativa anche per mezzo di un contegno procedimentale o processuale da parte della p.a., secondo la dottrina del one shot. La sentenza del TAR pare perciò un’ottima occasione per chiarire i recenti sviluppi in materia.
2 - Inquadramento e fondamento giuridico
La pronuncia in analisi dà per presupposta la nozione di integrazione postuma della motivazione, senza spendere parole sul punto. È bene precisare che con tale formula e altre consimili[2] si fa riferimento al fenomeno per cui l’amministrazione, parte resistente in un giudizio di impugnativa provvedimentale ormai pendente, completa la parte motiva dell’atto avversato con elementi di fatto e di diritto a suo tempo non esplicitati ma già presenti nella fattispecie[3], al dichiarato fine di evitare l’annullamento giurisdizionale per vizio motivazionale.
L’istituto non possiede, nel nostro ordinamento[4], un’esplicita base normativa; questa è una delle principali ragioni del ricco dibattito, pretorio e dottrinale, circa la sua ammissibilità. Prima però di approfondire quest’ultimo aspetto[5], è pregiudiziale risolvere alcuni nodi per comprendere i confini della figura, cioè quello della base normativa e quello della distinzione da istituti affini.
Dietro l’etichetta integrazione postuma si celano almeno tre significati[6], tutti accomunati da un elemento processuale (la pendenza di un’azione di annullamento) e da uno sostanziale (il provvedimento è viziato dal lato motivazionale e pertanto, in astratto, il contenzioso dovrebbe risolversi a favore del ricorrente; l’esito sfavorevole per la parte pubblica viene però evitato, appunto, a mezzo dell’integrazione). Le tre decodificazioni che si propongono sono le seguenti: la p.a. integra il profilo motivazionale per mezzo degli scritti difensivi presentati nel processo; il giudice amministrativo ricostruisce la complessiva motivazione provvedimentale sulla base di atti che sono ricavabili dal procedimento amministrativo e sono stati acquisiti al processo (cosiddetta motivazione implicita); il soggetto pubblico colma il vizio motivazionale tramite un sopravvenuto e autonomo atto di manutenzione.
La prima variante è generalmente ritenuta immeritevole di riconoscimento[7]; lo afferma testualmente proprio la decisione in oggetto. Piuttosto agevole capire le ragioni di questa esclusione: sul piano delle attribuzioni, non può il difensore della parte pubblica resistente assumere le vesti dell’amministrazione, in totale spregio dell’ordine legale delle competenze, fornendo valutazioni e operando decisioni che l’ordinamento riserva alla p.a.. Sul piano delle garanzie individuali, inoltre, l’integrazione avverrebbe al di fuori della cornice procedimentale fissata dal legislatore.
Quello che semmai si potrebbe arrivare a concepire, come propone autorevole dottrina[8], è che questa casistica, ridondando nella seconda sopra individuata, risulti in definitiva ammissibile. Non si tratterebbe più allora di un completamento motivazionale offerto con gli atti di parte, ma di allegare al processo tutto il materiale necessario per guidare il giudice nella comprensione della fattispecie, magari su impulso giudiziario ex art. 64 c. 3 c.p.a.. Ciò non significa che la giustificazione errata venga ampliata indicando nuove ragioni di fatto o di diritto, non potendo essere presentati elementi che non siano stati precedentemente menzionati nella motivazione. Invece, è da intendersi come la spiegazione più dettagliata di componenti già esistenti, ma non chiaramente formulate. In questi termini, il centro dell’analisi si sposta dal difensore (comunque sempre abilitato, al pari della controparte, a presentare elementi utili a fini difensivi) all’organo giudicante, chiamato, grazie al principio dispositivo e al contraddittorio endoprocessuale, a enucleare il sostrato della contesa (art. 32 c. 2 c.p.a.).
Si potrebbe dunque ritenere che la condotta processuale dell’amministrazione, se non propriamente in grado di integrare la motivazione dell’atto avversato, quantomeno sia idonea a fare luce sul rapporto sotteso (un po’ come se fossero dei chiarimenti ex art. 63 c. 1 c.p.a. non richiesti d’ufficio dal magistrato, ma offerti unilateralmente dalla parte resistente).
La giurisprudenza, invero, ha in alcune pronunce[9] assecondato questa ricostruzione, pur confinandola al rispetto di precisi presupposti, estrapolati dal tessuto costituzionale (su tutti, il diritto di difesa, art. 24 Cost., e l’equo processo, artt. 111 e 113 Cost.) ed erti per evitare che il giudice abusi delle sue prerogative[10]. Dunque, l’integrazione-chiarimento può trovare spazio nel nostro ordinamento, a patto che concerna provvedimenti vincolati, che il completamento non metta in discussione il diritto di difesa del ricorrente (recte: che quest’ultimo possa comunque contestarlo, nel medesimo processo), che gli elementi addotti siano in realtà già evincibili dalla complessiva dinamica procedimentale[11].
Due sembrano essere i capisaldi su cui poggia questa ricostruzione: l’uno, condivisibile, risiede nella distinzione tra giustificazione e motivazione in senso stretto; l’altro, più opinabile, nel richiamo, a volte implicito, altre esplicito, all’art. 21 octies c. 2 della l. 241/1990.
La dicotomia giustificazione-motivazione, con la prima intendendosi l’indicazione dei presupposti legali e fattuali del potere e con la seconda la enunciazione dell’iter logico seguito per emanare il provvedimento, ha radici lontane[12] e può essere qui ripresa nel senso che per gli atti vincolati, non venendo in gioco alcuna valutazione discrezionale, sarebbe sufficiente indicare la mera giustificazione. In tali evenienze, quindi, il successivo contegno della parte pubblica in sede processuale, anche desumibile dagli scritti difensivi, sarebbe idoneo non già ad integrare una motivazione che tale strettamente non è, quanto piuttosto a puntualizzare il provvedimento stesso nei suoi aspetti formali. Si avrà così un’integrazione postuma della giustificazione, tollerabile al ricorrere degli indicati presupposti[13].
L’altra colonna portante di questa interpretazione è, come detto, l’art. 21 octies c. 2, primo alinea. Se il provvedimento è vincolato ed il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso, i vizi motivazionali che lo affliggono, intesi come patologie meramente formali, non possono condurre alla sua invalidazione. L’idea è dunque quella di dequotare[14] il vizio di motivazione a vizio di forma non invalidante secondo la disciplina sinteticamente richiamata. Queste conclusioni non sono in verità generalmente accolte. Tralasciando ardite tesi[15] che addirittura pervengono ad elevare la motivazione ad elemento essenziale del provvedimento, la cui mancanza ne comporterebbe la nullità strutturale ex art. 21 septies, è prevalente l’impostazione[16] che ritiene la patologia motivazionale come vizio sostanziale (per lo più, eccesso di potere), non sussumibile nella regolamentazione di cui all’art. 21 octies c. 2.
Non rimane, a questo punto, che approfondire il tema concernente l’ultima e più discussa casistica, quella che più propriamente si indica come integrazione postuma della motivazione, cioè il completamento adoperato per mezzo di un sopravvenuto atto conservativo. Tale sembra essere peraltro la lettura che i giudici del TAR Sicilia offrono riguardo il secondo atto emanato dall’amministrazione resistente. Su questo ci soffermeremo nel paragrafo seguente.
3 - Ammissibilità dell’integrazione conservativa ed esaurimento della discrezionalità
L’amministrazione è riconosciuta generalmente come titolare non solo di poteri di autotutela caducatori, cioè volti ad eliminare una previa statuizione (secondo i limiti previsti dagli artt. 21 quinquies e nonies, primo comma, della l. 241/90, dedicati l’uno alla revoca, l’altro all’annullamento ufficioso), ma anche di potestà di autotutela conservativa o manutentiva, finalizzate cioè a salvaguardare la precedente attività da una possibile invalidazione[17]. Quest’ultima forma di potere di secondo grado trova, dopo la novella avvenuta con la l. 15/2005, una base normativa espressa nel testo dell’art. 21 nonies c. 2 l. 241/90, dedicato alla convalida[18], ma vi si riflettono, in senso più ampio, altre varianti[19], tutte accomunate da una medesima ratio di fondo, il principio di conservazione e di economicità dell’azione amministrativa, per lo più ricondotto a sua volta al canone costituzionale di buon andamento-efficienza (art. 97 Cost. e art. 1 c. 1 l. 241 cit.)[20].
In questo contesto, è cruciale diffondersi sulla figura della convalida[21]. Per mezzo di questo strumento, la legge abilita l’amministrazione competente ad emendare i propri atti afflitti da un vizio di legittimità, evitandone così l’annullamento, attraverso una postuma manifestazione di volontà, avente efficacia ex tunc[22] e volta proprio a conservare la delibazione prodotta, sempreché ciò avvenga entro un termine ragionevole e corrisponda ad un pubblico interesse (il comma secondo dell’art. 21 nonies è in questo senso costruito simmetricamente al comma primo). Ne scaturisce una fattispecie complessa, per cui al provvedimento viziato - che rimane tale, essendo stato già emanato - si salda una successiva manifestazione di volontà della p.a. da cui far scaturire una “sintesi effettuale autonoma”[23], stavolta immune dai vizi convalidati.
I requisiti, dunque, della convalida sono, oltre ovviamente alla presenza di un atto annullabile[24], una sopravvenuta manifestazione di volontà del soggetto pubblico, secondo i più ritenuta, sulla falsariga dello schema civilistico, necessariamente esplicita[25]: la p.a., cioè, dovrà indicare il vizio e la chiara intenzione di porvi rimedio (animus convalidandi). In aggiunta, devono ricorrere ragioni di pubblico interesse, ossia il consolidamento dell’atto al fine di dare certezza e stabilità ai rapporti giuridici[26], e il rispetto di un termine ragionevole dall’emanazione, onde equilibrare l’esigenza conservativa con il legittimo affidamento dell’istante[27]. Infine, presupposto negativo della convalida è che questo strumento non porti ad uno snaturamento funzionale e contenutistico della decisione amministrativa, sotto pena di eccesso di potere.
Tutto ciò premesso in via generale, si deve affrontare una questione fondamentale ai fini del presente studio, e cioè se sia convalidabile il vizio di motivazione (sub specie di eccesso di potere)[28] e, in caso di risposta affermativa, se sia possibile farlo in corso di giudizio, esemplificando così la fattispecie surrichiamata della integrazione postuma della motivazione[29].
Mentre si ritiene comunemente che le patologie formali siano passibili di convalida[30], maggiori dubbi emergono ove si abbia a che fare con vizi sostanziali[31], da intendere come la mancanza di presupposti legali ovvero l’irragionevolezza della delibazione. La giurisprudenza, dal canto suo, ha di recente[32] confermato la distinzione, proprio in tema di motivazione: qualora l’inadeguatezza motivazionale rispecchi un vizio sostanziale della funzione (in termini di contraddittorietà, travisamento, difetto dei requisiti), la convalida è squalificata, in quanto essa non potrebbe mai assicurare il permanere, senza mutamenti, del dispositivo originale; qualora invece la patologia corrisponda solamente ad una insufficiente rappresentazione della parte motiva oppure al non corretto riepilogo della medesima, la convalida risulta ammissibile, affiorando un mero vizio formale dell’atto. Come vedremo nelle battute finali di questo paragrafo, in verità, la teorica del one shot può condurci ad una conclusione ancor più netta, e cioè ad ammettere la cosiddetta convalida persino per vizi sostanziali.
Per quanto concerne il parallelo profilo dell’integrazione lite pendente, l’impostazione tradizionale è stata in prevalenza di avviso contrario[33]. Una volta attivato un processo, come quello amministrativo ante codicem, incentrato prettamente sul momento formale del provvedimento, ammettere la convalida in corso di giudizio avrebbe significato dar la possibilità alla parte pubblica resistente di disporre unilateralmente del thema decidendum, deturpando le prerogative dell’organo giudicante - già adito - in uno con le garanzie difensive del ricorrente[34], di fatto costretto a ricorsi al buio, cioè promossi solo per poter arrivare a conoscere l’effettiva motivazione che anima la deliberazione amministrativa. Una prassi del genere, inoltre, avrebbe comportato la degradazione della motivazione a mero elemento accidentale[35], da addurre solo se e in quanto venga promossa un’iniziativa processuale[36].
A conferma dell’impostazione, si aggiunge che il legislatore, con ciò comprovando il principio generale di segno negativo, ha ammesso expressis verbis eccezionalmente la ratifica del provvedimento, cioè la convalida dell’atto viziato sotto il solo profilo dell’incompetenza relativa[37], escludendo a contrario tutte le altre.
I postulati che sosterrebbero l’inammissibilità dell’integrazione paiono, però, oggi sgretolarsi, con le riforme del processo amministrativo che hanno visto la luce negli ultimi anni[38]. Innanzitutto, l’oggetto del processo non può più dirsi confinato all’esclusivo fronte attizio, ma si è esteso ben oltre (fino a ricomprendere il rapporto pubblicistico tra p.a. e privato, secondo taluni)[39]. Esemplificazioni di questo passaggio sono rinvenibili oltre che nell’art. 21 octies c. 2 cit., negli artt. 7, 31 c. 3, 34 c. 1 lett. c) e 55 del codice. La metamorfosi, si badi, non investe solamente l’attività amministrativa vincolata, ma anche quella discrezionale.
I paventati rischi di elusione dei principi di parità delle armi e di fairness processuale sono peraltro fugati dai nuovi meccanismi processualistici, su tutti i motivi aggiunti (art. 43 c.p.a.), che permettono di mantenere l’equilibrio tra le posizioni dei litiganti: fatta la convalida-integrazione, il ricorrente ben potrà, alternativamente, rimanere inerte ed attendere l’accertamento dell’improcedibilità del processo per sopravvenuta carenza di interesse (potrebbe in tesi pensarsi anche all’estinzione per rinuncia al ricorso) oppure coltivare il contenzioso ed impiegare i motivi aggiunti per avversare, insieme con l’atto originario, quello di convalida (per vizi propri e/o per assunta inammissibilità tout court dell’integrazione)[40].
Che la p.a. poi rimanga titolare del potere di intervenire anche in autotutela, nonostante l’iniziativa processuale, lo dimostrano sia l’assenza dell’automatico effetto sospensivo del ricorso, sia la disciplina della cessazione della materia del contendere, che logicamente presuppone l’ammissibilità di una iniziativa postuma.
A rigore, inoltre, una volta ammessa la risarcibilità dell’interesse legittimo per provvedimento invalido, negare l’integrazione della motivazione, equivarrebbe ad impedire alla p.a. di adoperarsi, in armonia con i doveri solidaristici di cui all’art. 2 Cost., per cancellare o quantomeno attenuare le conseguenze dannose della propria condotta.
In ogni caso, dandosi per buona questa impostazione, non si può lasciare carta bianca alla parte pubblica. Innanzitutto, al ricorrente deve essere riconosciuto il diritto di agire per il risarcimento danni contro il funzionario responsabile (art. 28 Cost.)[41].
Ci si aspetta inoltre un ragionevole riparto delle spese processuali, dal momento che, seguendo altrimenti le ordinarie regole in materia (artt. 26 c.p.a. e 91 c.p.c.), sarebbe il privato a doversi sobbarcare i costi del processo, in quanto soccombente a seguito dell’integrazione tardiva[42].
In conclusione, dunque, l’estensione dei confini oggettivi del contenzioso tramite l’integrazione postuma di un provvedimento (vincolato, ma anche) discrezionale, magari sotto sollecitazione del giudice[43], non solo non sarebbe ostacolata da altri principi, ma anzi sarebbe da salutare con favore nell’ottica dell’effettività e concentrazione della tutela[44]. Con un unico ricorso, sommato a motivi aggiunti, l’istante riesce ad opporsi una volta per tutte all’azione amministrativa, trattata finalmente nel suo complesso, senza che la parte pubblica possa rivederla infinite volte; d’altronde, sul versante pubblico, grazie all’intervento manutentivo, si eviterebbero annullamenti giurisdizionali sproporzionati rispetto alla reale portata dell’interesse del privato, dimostrando che la decisione amministrativa in ultima analisi sia corretta.
Ragioni di simmetria processuale, impongono che, così come il ricorrente, in pendenza del giudizio, è in grado di beneficiare (e questo, invero, da sempre) di un rinnovato esercizio del potere amministrativo in senso a lui favorevole, allo stesso modo può anche, all’inverso, essere esposto ad un nuovo provvedimento diretto ad emendare un vizio del precedente atto[45].
Uno schema, quello appena descritto, che pare conciliarsi perfettamente con la teoria dell’esauribilità della discrezionalità per la condotta serbata dall’amministrazione (cosiddetto one shot temperato)[46]: se la p.a., in forza di questa ermeneusi, è già chiamata a completare l’esercizio del potere discrezionale entro al massimo due giudicati amministrativi, tanto vale riconoscere l’esaurimento del potere con la convalida. L’alternativa, d’altra parte, sarebbe che, estromessa l’integrazione e pronunciato l’annullamento del provvedimento, l’amministrazione possa in seconda battuta (e per un’ultima volta) emanare un atto dal medesimo contenuto dispositivo di quello precedente, ma adeguatamente motivato, passibile in ogni caso di un ulteriore ricorso, pervenendo così al medesimo risultato che si sarebbe avuto se fosse stata ammessa l’aggiunta di ragioni in pendenza del primo giudizio.
In sintesi, l’integrazione postuma si atteggerebbe così a second shot ancor prima che ci sia una res iudicatacaducatoria. Nell’insieme, il meccanismo descritto disinnescherebbe la tentazione, da parte del soggetto pubblico, di pretermettere alcune delle ragioni a sostegno della propria decisione, nell’idea di poter colmare eventuali lacune sine die[47].
4 - L’integrazione postuma alla prova dei fatti
Calando la pregressa disamina al caso in oggetto, emerge un dubbio circa la qualificazione dell’intervento postumo operato dall’amministrazione col secondo provvedimento[48]. Certamente, si può escludere che si tratti di un’inammissibile integrazione a mezzo di scritti difensivi; il collegio giudicante è d’altra parte netto nel discorrere in termini di convalida. A nostro parere, l’inquadramento giuridico più corretto parrebbe essere invero quello della seconda categoria sopra analizzata, che si è definita integrazione postuma della giustificazione, avente la sola finalità di chiarire la fattispecie all’organo giudicante.
L’interpretazione in termini di convalida - la terza tipologia studiata - non è convincente nella misura in cui, al di là della mancanza o meno di un esplicito animus convalidandi e ritenuti presenti il termine ragionevole e l’interesse pubblico, il provvedimento postumo de qua, più che finalizzato a colmare un deficit di legittimità della prima delibazione, sembra, nella sostanza, diretto a dare una rilettura dei requisiti ostativi del bando di gara, ampliandone il raggio di applicazione con lo scopo di far salvo l’atto contestato.
Che non si tratti di convalida in senso stretto, lo si evince inoltre dalla statuizione di rigetto dell’impugnazione: se di convalida si doveva discorrere, la statuizione collegiale avrebbe dovuto essere di accoglimento; ma così non è stato. Infatti, il dilemma in parola, lungi dall’essere una vuota disquisizione retorica, tocca nella sostanza la fattispecie, condizionandone i requisiti di validità nei termini delineati nei precedenti paragrafi.
Se la riteniamo ammissibile, la convalida postuma della motivazione, secondo l’orientamento restrittivo[49], per essere conforme all’ordinamento, deve sanare un mero vizio di forma, coprendo un non corretto riepilogo della parte motiva o al più una sua insufficiente rappresentazione, non già - come parrebbe nel caso concreto - l’inadeguatezza sostanziale della ratio decidendi. In definitiva, così opinando, l’esito del giudizio doveva essere diverso e la cosiddetta convalida doveva essere dichiarata illegittima. I termini del discorso sarebbero mutati se il collegio avesse fatto riferimento al tema del one shot, perché in tal caso l’intervento postumo dell’amministrazione si sarebbe atteggiato a seconda spendita di potere, volta a rimodulare nella sostanza la pregressa motivazione; entro questi confini sarebbe allora accettabile la decisione nel merito.
Tutt’altro è a dirsi se si legge la seconda determinazione amministrativa come una semplice integrazione della giustificazione. Come riferito[50], quest’ultima assolve una funzione ancillare, di chiarificazione lite pendente della situazione specifica da cui germina la contesa. Per mezzo di essa, la motivazione implicita si fa esplicita. Per essere valida, però, deve rispettare ut supra alcuni presupposti, che, all’evidenza, sono tutti presenti nel nostro caso: c’è un provvedimento vincolato, in quanto la p.a. deve limitarsi a verificare se esistano o meno pendenze penali concernenti certi crimini, non dovendo ostendere alcuna potestà discrezionale; il diritto di difesa del ricorrente è stato pienamente garantito e ciò è banalmente dimostrato dall’attivazione dei motivi aggiunti; infine, gli elementi allegati successivamente erano già estrapolabili dalla complessiva dinamica procedimentale (in particolare dal combinato disposto di alcune previsioni della lex specialis)[51], come testimoniano gli ultimi paragrafi della pronuncia. Assecondando questa lettura, si conferisce coerenza al ragionamento del collegio che ha, a questo punto condivisibilmente, escluso l’invalidità provvedimentale[52].
5 - Conclusioni: il delicato equilibrio tra poteri costituzionali
Col presente studio si è cercato di affrontare un tema che, radicato su basi teoriche che coinvolgono in profondità i caratteri propri del diritto amministrativo e del rapporto tra funzioni costituzionali, possiede, all’evidenza, un forte taglio pratico. Insomma, alle spalle della cornice giuridica, stanno tangibili rapporti economici e sociali.
La tematica qui trattata e gli approdi raggiunti, sebbene non sempre provvisti di un esplicito riconoscimento legislativo, esemplificano - in uno con altri esempi[53] - una (temibile) patologia, in grado potenzialmente di incidere sulle fondamenta della moderna concezione di amministrazione, che potremmo definire in modo un po’ provocatorio, come “accidia amministrativa”. Procedimenti lenti, istruttorie superficiali e inconcludenti, scarso coinvolgimento degli interessati, decisioni finali di dubbio gusto, sono i frutti avvelenati di questa involuzione.
Sia concesso a tale ultimo riguardo un parallelismo, non troppo peregrino come si vedrà, con lo sviluppo registrato negli ultimi tempi nel diritto penale, circa i rapporti tra Corte costituzionale e legislatore parlamentare, allorquando la prima, caducando una normativa contra Constitutionem (caso tipico, i limiti edittali), imponga al secondo l’esigenza di colmare il vuoto regolamentare così venutosi a creare. Anche qui, a fronte della sovente e spesso denunciata inerzia parlamentare, la giurisprudenza costituzionale ha reagito, dapprima ammettendo la possibilità che la stessa Consulta intervenga sulla normativa di risulta solo ove la scelta sia di fatto vincolata[54], successivamente e più di recente riconoscendo questa possibilità finanche in situazioni di discrezionalità ancora aperta ma in cui esista già una soluzione ragionevole offerta dal sistema normativo nel suo complesso[55].
Ebbene, spiccano alcuni tratti comuni tra questa ipotesi e quella oggetto del presente scritto: in ambo i casi si assiste ad un dialogo tra due poteri costituzionali, uno di matrice giurisdizionale (Corte costituzionale, giudice amministrativo), l’altro per lo più chiamato a compiere scelte discrezionali (Parlamento, amministrazione); in entrambi le difficoltà derivano dall’immobilità del secondo potere; le soluzioni adottate in tutte e due gli esempi per risolvere il problema affondano le proprie radici su ricostruzioni sistematiche di ampio respiro, estrapolate dall’esigenza di mantenimento di una razionalità complessiva (cioè, rispettivamente, evitare di lasciare irragionevoli lacune nel diritto punitivo e di tenere perpetuamente il privato soggetto al potere amministrativo).
Non si vuole certamente negare con questo che le funzioni costituzionali possano dialogare vicendevolmente, in una costante dinamica di arricchimento reciproco: influenzare l'area dell’altra autorità con l'obiettivo di una cooperazione costruttiva è insito nel sistema di separazione dei poteri voluto dalla Costituzione. L’analogia tra le descritte casistiche serve, a ben vedere, ad evidenziare la tensione verso una deresponsabilizzazione dei decisori pubblici e lo scadimento qualitativo degli ingranaggi che dovrebbero garantire il funzionamento della res publica, alla luce del fatto che o le decisioni vengono prese non correttamente o non vengono proprio assunte. Non si può continuare a sperare che sia il potere della magistratura a ricucire il sistema, distorcendo il suo ruolo e facendogli assumere ora il munus di legislatore, ora quello di amministratore[56].
[1] Al momento in cui si scrive ancora passibile di appello.
[2] Quali “motivazione successiva”, “motivazione sopravvenuta”, “integrazione successiva”. Per una definizione dottrinaria, Occhiena M., Il divieto di integrazione in giudizio della motivazione e il dovere di comunicazione dell’avvio dei procedimenti ad iniziativa di parte: argini a contenimento del sostanzialismo, in Foro amministrativo TAR, II, 2003, 528: “ [le integrazioni sono] modifiche al discorso argomentativo elaborato dall’amministrazione a sostegno del dispositivo provvedimentale dirette ad introdurre, ex novo e dopo l’adozione della decisione, dati motivanti obiettivamente suscettibili di giustificare il provvedimento emanato, che non siano riscontrabili oppure che non siano sufficientemente articolati nell’atto impugnato”.
[3] Se venissero in rilievo elementi sopraggiunti, si dovrebbe per forza riaprire un procedimento ex novo.
[4] A differenza, ad esempio, del sistema tedesco con il par. 114, seconda frase, VwGO (che, introdotto nel 1997, dispone: “L’amministrazione può indicare ulteriori ragioni a sostegno della propria decisione nei procedimenti innanzi all’autorità giurisdizionale”). La ratio della disposizione è così individuata nella risoluzione della Commissione giuridica del 1996 sul progetto di riforma della legge sul processo amministrativo: “Conformemente alla giurisprudenza del Tribunale amministrativo federale, si chiarisce che l'amministrazione può anche introdurre considerazioni discrezionali relative al diritto sostanziale durante il procedimento giudiziario”. Per approfondimenti, Axmann M., Das Nachschieben von Gründen im Verwaltungsrechtsstreit, Francoforte, 2001, 92 e ss.; per analisi di più ampio respiro, Sodan H., Ziekow J., Verwaltungsgerichtsordnung. Grosskommentar, Baden-Baden, 2018, 2326 e ss. e 2426 e ss., e Gärditz K. F., VwGO Kommentar, Colonia, 2018, 1024 e ss. e 1050 e ss.. Sulla necessità comunque di un’interpretazione restrittiva della citata disposizione, si veda Axmann M., op. cit., 182, secondo il quale: “[…] l'ammissibilità dell'integrazione ai sensi del par. 114 deve essere risolta in ogni caso negativamente se il procedimento istruttorio, in particolare il test di opportunità, appare indispensabile per la tutela giurisdizionale dell'attore o se al procedimento istruttorio viene attribuito un peso non trascurabile in un determinato ambito”.
[5] Si rinvia fin da ora al paragrafo successivo.
[6] La distinzione è presente in dottrina (Virga G., Motivazione successiva e tutela della pretesa alla legittimità sostanziale del provvedimento amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, V, 1993, 510; Tropea G., Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2017, 1242) e, da ultimo, ha attecchito, con piccole sfumature, anche in giurisprudenza: cfr. Cons. St. sez. VI 3385/2021, con nota critica di Aperio Bella F., Limiti alla convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio, disponibile al sito giustiziainsieme.it, 2021, 1.
[7] Virga G., op. cit., 510, ma si veda subito infra; Tropea G., op. cit., 1242; Cons. St. sez. VI nn. 1026 e 1703 del 2023, n. 3385 cit., sez. VI 5984/2018 e sez. III 2247/2014, ma anche TAR Lazio, Roma, sez. III bis, n. 335/2024. Il tema è stato approfondito in TRGA Trento 81/2021 che, richiamando l’arresto del Consiglio di Stato del medesimo anno, conferma l’inammissibilità dell’integrazione a mezzo scritti difensivi.
[8] Il riferimento è a Virga G., ibidem. Ancor più radicalmente, si avverte in Giannini M. S., voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enciclopedia del diritto, XXVII, Milano, 1977, 267, in nota, che la questione se sia possibile per il difensore dell’amministrazione integrare la motivazione mediante gli scritti difensivi “[…] è mal posta e si risolve in un luogo comune; il problema è solo probatorio, in quanto il provvedimento può essere collegato ad altri provvedimenti, a comportamenti, a prassi, che non sono enunciati in alcun atto del procedimento di formazione ma che, se tuttavia, esistono, e se ne dimostra il collegamento, non danno luogo ad alcuna supposizione del difensore all’autorità”.
[9] Cons. St. sez. IV 1018/2014, sez. V 4194/2013, sez. VI 1241/2010; in dottrina, si rinvia a Caporale M., Dal Consiglio di Stato un tentativo di canonizzazione della motivazione postuma, in Giurisprudenza italiana, 2014, 1696.
[10] Tramutandosi “in un organo ausiliario o in un’officina di riparazione dell’amministrazione” (Axmann, op. cit., 143).
[11] Nella letteratura e nella giurisprudenza tedesca al posto del primo limite, se ne indica un altro, e cioè che l’integrazione non snaturi la funzione dell’atto; in forza del par. 114 VwGO, secondo periodo, infatti, anche un provvedimento discrezionale può essere completato nei termini riferiti nel testo: cfr. Sodan H., Ziekow J., op. cit., 2729. Si ha inammissibile mutamento dell’atto (Wesenänderung), a parere di quest’ultima dottrina (ivi, 2731), allorquando si muti il contenuto dispositivo, si sostituiscano i fatti sottesi, si converta l’atto da vincolato a discrezionale, si cambi la base giuridica della decisione discrezionale, si verifichi una carenza di competenza decisionale. Non si può tuttavia escludere che lo “snaturamento” non sia altro che una tacita (e ammissibile) abrogazione della precedente deliberazione.
[12] Iaccarino C. M., Studi sulla motivazione con particolare riguardo agli atti amministrativi, Roma, 1933, 42.
[13] Sempre ammissibile è l’integrazione della mera giustificazione secondo Guantario A., Dequotazione della motivazione e provvedimento amministrativo, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, XXI, 2002, 2233.
[14] Preferisce parlare di depotenziamento e non di dequotazione della motivazione, Ramajoli M., Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, III, 2017, 895.
[15] Ferrara L., Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amministrativo TAR, IV, 2008, 1197 e Cassatella A., Il dovere di motivazione nell’attività amministrativa, Padova, 2013, 287. Secondo quest’ultimo in particolare la nozione di provvedimento andrebbe decodificata nella sineddoche “decisione motivata”: pertanto la motivazione assurgerebbe a rango di elemento essenziale. Ancora, in Mannucci G., Uno, nessuno, centomila. Le motivazione del provvedimento amministrativo, in Diritto pubblico, III, 2012, 885, si giustifica la tesi della nullità, in quanto la carenza di motivazione comporterebbe l’indeterminatezza dell’oggetto provvedimentale.
[16] Ci limitiamo a ricordare che la Consulta, in due occasioni (ordd. 92/2015 e 58/2017), ha avallato questa lettura, richiamando la corrispondente massima giurisprudenziale (ex multis, Cons. St. sez. III 1629/2014).
[17] La distinzione dell’autotutela in base al profilo funzionale è proposta in Giannini M. S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 557 e, più di recente, in Immordino M., I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in Scoca F. G. (a cura di), Diritto Amministrativo, Torino, 2015, 340.
[18] In generale, si può rinviare a Santaniello G., voce Convalida (dir. amm.), in Enciclopedia del diritto, X, Milano, 1962, 503; Cannada Bartoli E., voce Conferma (dir. amm.), in Enciclopedia del diritto, VIII, Milano, 1961, 856; Mazzarolli L., voce Convalida (dell’atto amministrativo), in Enciclopedia giuridica, IX, Roma, 1988, 2.
[19] Quali la sanatoria, il ritiro, la ratifica. Diverso carattere rivestono, pur rientrando nella categoria dell’autotutela conservativa, la mera conferma, la conferma, la rettifica, la conversione.
[20] Nel diritto pubblico, questo aspetto è particolarmente evidente, dal momento che, nelle dinamiche quotidiane, emerge l’esigenza che “le energie dell’azione pubblica non vadano, entro i limiti consentiti dal sistema, disperse, là dove possono invece venire senza pregiudizio risparmiate” (Sandulli A. M., Il procedimento amministrativo, Milano, 1964, 351).
[21] Anche nel diritto civile, sulla base sempre del principio di conservazione dei valori giuridici, è codificato l’istituto della convalida del negozio annullabile (art. 1444 c.c.) - ed eccezionalmente, di quello nullo (in materia testamentaria: art. 590 c.c., in materia di donazione: art. 799 c.c.) - ma qui è la parte titolare del diritto alla caducazione a risanare il negozio, non la controparte, come invece avviene nel diritto amministrativo. Inoltre, nella convalida privatistica, a differenza di quella pubblicistica, il contenuto dell’atto negoziale rimane sempre inalterato.
[22] La rinnovazione dell’atto, cioè la produzione, all’esito di un nuovo procedimento, di un provvedimento dall’identico contenuto ma completamento risanato, non potrebbe invece che avere efficacia ex nunc. Contrario alla naturale efficacia retroattiva della convalida, Falcon G., Lezioni di diritto amministrativo, Padova, 2020, 182.
[23] In termini Cons. St. 3385/2021 cit..
[24] Non si può dunque convalidare un atto nullo, che al massimo sarà passibile di ritiro, né un atto irregolare, semplicemente rettificabile, né tanto meno i provvedimenti non invalidabili secondo il regime dell’art. 21 octies c. 2. Sicuramente estranei all’ambito applicativo della convalida risultano inoltre i poteri connotati da termini perentori, geneticamente non riesercitabili.
[25] Ciò serve anche a rendere più netta la distinzione tra convalida e figure affini. Lo sostengono, tra gli altri, Virga P., Diritto amministrativo, II, Milano, 2001, 143, e Sandulli A. M., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 688.
[26] In realtà, il ripristino della legalità violata parrebbe già essere una sufficiente ragione di rilievo pubblico: Falcon G., op. cit., 181, e Ramajoli M., Villata R., op. cit., 694.
[27] Dubbi su questo presupposto sono presenti in Falcon G., op. cit., 181.
[28] Il quesito in senso più ampio potrebbe invero ridursi a questo: si può convalidare - in qualsiasi forma si palesi - il vizio di eccesso di potere?
[29] Proseguendo la comparazione col diritto tedesco, il par. 45 VwVfG mentre al comma 1 n. 2 prevede la convalidabilità dei provvedimenti viziati sotto il profilo formale adducendo in via sopravvenuta la “necessaria motivazione”, al comma 2 esclude questo potere allorquando sia pendente il processo giurisdizionale.
[30] Cfr. Santaniello G., op. cit., 505; Mazzarolli L., op. cit., 2; Falcon G., op. cit., 181. A parere di Ramajoli M., Villata R., op. cit., 696-697, dal combinato disposto con l’art. 21 octies c. 2, le uniche patologie convalidabili sono quelle di incompetenza e comunque giammai quelle sostanziali: “Non appare più corretto sostenere, come in passato, che convalida e annullamento sono conseguenze possibili di un medesimo presupposto, e cioè dell’illegittimità dell’atto[…]”.
[31] La tesi positiva è ad esempio sostenuta in Antonelli V., Commento all’art. 21-nonies, in Paolantonio N., Police A., Zito A. (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, 2006, 675.
[32] Cons. St. n. 3385 cit.. In realtà, la dicotomia è presente anche in dottrina: Nigro M., Scritti giuridici, II, Milano, 1996, 449.
[33] In giurisprudenza, ex multis Cons. St., sez. III 1656/2016, sez. V 750/2016, sez. III 2247/2014, sez. VI 2840/2009, sez. V 342/2003, sez. VI 4158/2000; TAR Lazio, Roma, sez. II 9347/2001. In dottrina, già Mortati C., Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione negli atti amministrativi (a proposito del procedimento di scrutinio nelle promozioni per merito comparativo), in Giurisprudenza italiana, III, 1943, 1; più di recente, Santaniello G., op. cit., 505 e Mazzarolli L., op. cit., 3. Criticamente, in Romano Tassone A., Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano, 1987, 394, si qualifica questo orientamento come immotivato e tralaticio.
[34] Rimarca vigorosamente il punto, Occhiena M., Il divieto di integrazione in giudizio della motivazione e il dovere di comunicazione dell’avvio dei procedimenti ad iniziativa di parte: argini a contenimento del sostanzialismo, in Foro amministrativo TAR, II, 2003, 530.
[35] Di crisi della motivazione in ogni attività pubblica (giurisdizione compresa) parla Ramajoli M., Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, III, 2017, 894: “[…] si decide anche senza motivare, forti di un’istanza efficientistica che condiziona norme di legge e principi di diritto”. A suo tempo, già denunciava Zito A., L'integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento: una questione ancora aperta, in Diritto processuale amministrativo, III, 1994, 586-587, che tale ricostruzione “[…] potrebbe […] aprire la strada ad una prassi dell’amministrazione fatta di provvedimenti poco o nulla motivati […]”.
[36] Ponendosi altresì in contrasto con i canoni sovranazionali (segnatamente, l’art. 296 TFUE sull’obbligo di motivazione degli atti delle autorità europee e l’art. 41 della Carta di Nizza sul diritto ad una buona amministrazione). La motivazione come “forma sostanziale” è un Leitmotiv presso la giurisprudenza unionale: cfr. CGUE C-89/08 del 2009 (Commissione c. Irlanda).
[37] Ci si riferisce, come noto, all’art. 6 della l. 249/1968.
[38] In giurisprudenza, un primo storico arresto fu CGARS 149/1993 in Diritto processuale amministrativo, V, 1993, 507, con note critiche di Virga G., Motivazione successiva e tutela della pretesa alla legittimità sostanziale del provvedimento amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, V, 1993, 516 e di Zito A., op. cit., 577; in realtà ancor prima, TAR Veneto, sez. I, 648/1987, in Diritto processuale amministrativo, 1989, 469. Altre pronunce di segno positivo: Cons. St. sez. VI 1054/2003 e 4993/2009; TAR Molise, 41/2003; TAR Lazio, Roma, sez. I, 398/2002. In dottrina, Giannini M. S., voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enciclopedia del diritto, XXVII, Milano, 1977, 267; Caianiello V., Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, 411; Falcon G., op. cit., 182; Virga G., op. cit., 1993, 512; Corso G., Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, in Foro italiano, 1989, 428; Vaccari S., Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017, 322.
[39] Schematizzando, gli orientamenti prevalenti in materia individuano l’oggetto del processo, alternativamente, nell’interesse legittimo, nel rapporto amministrativo, nel diritto potestativo all’annullamento dell’atto. La prima impostazione, fatta propria, tra gli altri, da Ranelletti O., Sulla esecuzione in via amministrativa delle decisioni del Consiglio di Stato e delle Giunte Provinciali Amministrative, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1951, 78 e ss., e da Giannini M. S., La giustizia amministrativa. Appunti delle lezioni, Roma, 1972, 174 e ss., poggia sull’art. 7 c.p.a. e specialmente sui commi 1 e 7, che rappresenterebbero la traduzione amministrativistica degli artt. 81 c.p.c. e 2907 c.c.. Essendo la giurisdizione amministrativa connotata soggettivamente al pari di quella civile, come quest’ultima il suo oggetto non potrebbe che essere la posizione sostanziale di interesse legittimo.
Negli ultimi tempi, si è consolidata la tesi, efficacemente sostenuta, per esempio, da Greco G., Dal dilemma diritto soggettivo-interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale-interesse finale, in Diritto amministrativo, III, 2014, 479, e Patroni Griffi G., Forma e contenuto della sentenza, in Diritto processuale amministrativo, I, 2015, 25 e, nel diritto pretorio, da Cons. St. Ad. Plen. nn. 3 e 4 del 2011, n. 4 del 2018 e sez. VI n. 1321/2019, secondo la quale l’oggetto del processo amministrativo coinciderebbe col rapporto amministrativo, da intendersi come “il sistema proiettato nel tempo delle relazioni giuridicamente rilevanti […] che si instaurano tra pubbliche amministrazioni e privati in relazione all’esercizio della funzione amministrativa e alla tutela dei diritti fondamentali” (Protto M., Il rapporto amministrativo, Milano, 2008, 6). Si intende dunque interpretare l’interesse legittimo come situazione soggettiva finale, con ciò conferendosi la possibilità al giudice di verificare se la pretesa sostanziale del privato sia fondata o meno. Si esalta quella tendenza, sospinta dalla volontà di fornire al ricorrente una tutela stabile e definitiva, che avrebbe comportato la metamorfosi del processo amministrativo, da giudizio sull’atto - singolo punto dell’operato amministrativo - a giudizio sull’intero rapporto di diritto pubblico, tramite il pieno accesso al fatto e alla relazione giuridica instaurata.
A parere dell’ultima tesi, l’ambito oggettivo del processo amministrativo sarebbe l’accertamento del diritto potestativo, a necessario esercizio giudiziario, all’annullabilità del provvedimento amministrativo, conformemente alle doglianze proposte dal ricorrente (Nigro M., Giustizia amministrativa, Bologna, 2002, 228 e ss.; Clarich M., Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, 133 e ss..).
Per approfondimenti sulle critiche alle tre ricostruzioni, cfr. Valaguzza S., Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, 75 e ss. e 108 e ss..
[40] Quest’ultima è la strada scelta dal ricorrente nel contenzioso de qua.
[41] Per non parlare poi delle conseguenze sulla valutazione individuale della performance. Per completezza, inoltre, potrebbe ritenersi ammissibile l’azione risarcitoria contro l’amministrazione, sub specie di lesione degli interessi procedimentali del singolo, comunque lesi da un’azione che, in fin dei conti, risultava a monte contra legem. L’insufficienza dell’armamentario difensivo a disposizione del ricorrente è comunque messa in luce da Aperio Bella F., op. cit., 29 e ss.
[42] Pertanto, il magistrato è onerato di effettuare una prognosi postuma su quello che sarebbe stato l’esito del ricorso originario se non fosse sopravvenuta l’integrazione: se il ragionamento controfattuale conduce a ritenere che sarebbe stata più probabile la vittoria del privato, i costi del processo vanno addossati per intero alla p.a., pure qualora risulti vittoriosa nel merito. Non è tuttavia facile giustificare de iure condito questa conclusione. In tema di responsabilità processuale aggravata l’art. 96 c.p.c., applicabile al processo amministrativo per mezzo del rinvio di cui all’art. 26 c.p.a., fa infatti esclusivo riferimento al soccombente. Diverso il discorso invece nell’ordinamento tedesco, ove il par. 155 c. 4 VwGO recita: “I costi processuali derivanti dalla colpa di una parte, ricadono su questa”.
[43] Si pensi al remand cautelare o alle dinamiche dell’istruttoria. Tali poteri ovviamente devono essere impiegati dal giudice in ossequio ai canoni costituzionali di imparzialità, indipendenza e parità delle armi, e non per sostituirsi alla parte pubblica.
[44] Martucci di Scarfizzi F. S., L’integrazione postuma della motivazione alla luce dell’art.21 octies comma 2 della Legge n.241 del 1990. Profili di incidenza sugli atti regolatori adottati dalle Autorità Amministrative Indipendenti, in Diritto Mercato Tecnologia, III, 2015, 18.
[45] Perciò, se si ammette la possibilità per l’amministrazione di un riesame della legittimità in pendenza del giudizio, sembra irrazionale limitare le conseguenze di tale riesame secundum eventum: accordare, cioè, la possibilità di intervenire quando ciò richieda un atto di ritiro, e negare la stessa possibilità, invece, quando il riesame si traduca in una manutenzione della precedente determinazione. In termini, TAR Lazio n. 398 cit.; la suggestione è peraltro ripresa in Carbone A., L’azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 255, ove l’autore difatti si dimostra propenso ad ammettere l’integrazione postuma.
[46] Sul tema, ci limitiamo a rinviare a Lopilato V., Cognizione ed esecuzione nel giudizio di ottemperanza, disponibile al sito giustamm.it, 2013, passim e a Cons. St. sez. VI 1321/2019 (con note di Vaccari S., Il Consiglio di Stato e la “riduzione progressiva della discrezionalità”. Verso un giudicato a “spettanza stabilizzata”?, in Diritto processuale amministrativo, 2019, 1172 e ss.; e di Orso F., Ancora sugli effetti del giudicato: un passo avanti e due indietro, ibidem, 1236 e ss.).
[47] Non è un caso che la più volte citata pronuncia n. 3385 del Consiglio di Stato in chiusura faccia esplicito riferimento al nuovo testo dell’art. 10 bis. In Cass., sez. un. n. 18592 del 2020, emanata proprio in esito all’impugnazione della citata sentenza del Consiglio di Stato 1321/2019, viene sottolineato come il principio di effettività della tutela, solennemente proclamato nell’art. 1 c.p.a., esiga la ricomposizione del rapporto di diritto pubblico in termini celeri e stabili. Sembrano essere queste le conclusioni a cui mira Tropea G., op. cit., 1258 e ss., quando richiama la possibilità di applicare il principio del dedotto e del deducibile al processo amministrativo. Il rischio di un regressus ad infinitum è paventato indirettamente anche in Ramajoli M., Il declino della decisione motivata, cit., 907, ove si cita il tema dell’inesauribilità del potere, e più esplicitamente in Ramajoli M., Villata R., op. cit., 316. Ancor prima, Piras A., Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, 447, anche in nota.
[48] I giudici del TAR sembrano avere in mente questo quesito se si guarda all’ultima parte della loro sentenza.
[49] Cfr. par. 3.
[50] Par. 2.
[51] Artt. 2 lett. g) e 4 c. 6 del bando.
[52] Le difficoltà nell’interpretare il successivo intervento della p.a. emergono, ad esempio, anche nel caso trattato in Cons. St. sez. VII 1291/2024
[53] Quali il proliferare delle leggi provvedimento, il sempre più frequente ricorso a fonti governative dal dubbio inquadramento dogmatico, l’avversione per la digitalizzazione, l’abdicazione a favore di moduli di diritto privato nell’agire amministrativo.
[54] Cosiddette “rime obbligate”, a partire da C. Cost. 236/2016 in tema di reato di alterazione di stato di neonato.
[55] “Rime consigliate”; cfr. C. Cost. 40/2019 in punto di reati in materia di stupefacenti. L’apice si è raggiunto con la pronuncia in tema di eutanasia, con la Consulta che, dopo aver lasciato un lasso di tempo per una riforma normativa, sospendendo il giudizio di costituzionalità (C. Cost. 207/2018), ha costruito sulla base del diritto vigente la regolamentazione di riferimento: C. Cost. 242/2019.
[56] Lo denuncia in tema di integrazione postuma della motivazione, Tropea G., Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2017, 1250: “[…] all’ampliamento del potere sostitutivo del giudice, anche quello amministrativo, che finisce per operare come in un appello con effetto devolutivo pieno, spesso consegue una svalutazione del ruolo della pubblica amministrazione: dietro al principio di effettività della tutela sembra quindi celarsi un consistente spostamento dall’amministrazione al giudice del potere effettivo di disporre in ordine all’affare”.