Le scelte eticamente sensibili. Limiti e obblighi della pubblica amministrazione tra diritti e interessi legittimi fondamentali.*
di Gianpiero Paolo Cirillo
Sommario: 1. Premessa - 2. Dai «diritti pubblici soggettivi» agli «interessi legittimi fondamentali» - 3. Libertà e diritti fondamentali - 4. La teorica di Jellinek - 5. Le conseguenze processuali delle teoriche dei diritti fondamentali - 6. Le scelte eticamente sensibili come espressione di diritti o libertà fondamentali - 7. La giurisprudenza amministrativa in materia di diritti fondamentali - 8. Poteri, limiti e responsabilità del personale sanitario - 9. La responsabilità della pubblica amministrazione nella materia sanitaria - 10. Interessi legittimi fondamentali a carattere economico - 11. Il fronte sovranazionale e internazionale - 12. Il diritto sanitario durante la pandemia e il PNRR.
1. Premessa
Il tema delle “scelte eticamente sensibili”, riguardato dall’ottica della pubblica amministrazione che comunque è chiamata ad avallarle o semplicemente consentirle, impone una più ampia riflessione per comprendere la natura della posizione giuridica riconosciuta al privato che ne rivendichi l’esercizio. Esso, dunque, riveste interesse e si presenta di sicura attualità non solo per la modernità e sensibilità del relativo contenuto, ma anche e ancor prima, per il suo impatto su categorie dogmatiche che animano la dottrina da epoca risalente. Ci si trova di fronte alla possibilità di verificare la portata sostanziale di categorie concettuali di nuova configurazione, e in particolare se vi siano reali contenuti nuovi o si tratti di meri neologismi destinati a rimanere relegati nella sfera dell’involucro definitorio. Tanto più che, come è stato insegnato (RESCIGNO), il diritto soggettivo e l’interesse legittimo sono delle categorie storiche utilizzate dai giuristi per indicare situazioni soggettive dai contenuti più diversi.
Da qui l’esigenza, prima di entrare nel merito dello stesso, di riferire del dibattito assai risalente sul tema, laddove sia capace di illuminare qualsivoglia considerazione attuale sulla materia. Si allude, in particolare, alla dizione “interessi legittimi fondamentali”, che, in quanto declinazione dei diritti fondamentali –quelli nel cui ambito si collocano le scelte eticamente sensibili - in relazione alla controparte pubblica, rappresentano il punto di approdo più evoluto dei precedenti “diritti pubblici soggettivi”.
Ringrazio pertanto gli organizzatori di questo importante convegno che mi offre l’opportunità di condividere queste brevi riflessioni che, partendo dall’origine storica del problema, approdano a contesti di assoluta modernità, oggetto di dibattito, religioso, sociale, culturale e politico, prima ancora che giuridico.
2. Dai «diritti pubblici soggettivi» agli «interessi legittimi fondamentali»
La posizione dominante della dottrina settecentesca (influenzata dal pensiero giusnaturalista) era che le libertà fossero dei diritti innati dell’individuo, che lo Stato non farebbe altro che riconoscere. L’affermazione della derivazione naturale quanto meno dei principi fondamentali dell’ordinamento, che immagina norme universali, di per sé chiare ed evidenti, che precederebbero quelle positive e alle quali queste ultime dovrebbero conformarsi, sta alla base della nascita degli Stati settecenteschi. Con il superamento del fondamento innatistico delle libertà, queste seguitarono tuttavia ad essere inquadrate tra i diritti, e l’endiadi «diritti civili e politici» dell’individuo fu anche accolta dai legislatori. Il passaggio dallo stato assoluto allo stato di diritto ha comportato, come tutti sanno, che la persona fisica da suddito diviene cittadino, che, in quanto tale, ha dei diritti, tra i quali in primo luogo quelli politici e le libertà civili. Per descriverli, i teorici dei diritti pubblici soggettivi utilizzarono il modulo privatistico diritto-dovere: da un lato posero un diritto, dall’altro un dovere di astensione del pubblico potere (GIANNINI).
Quando la pandettistica pubblicistica tedesca iniziò la revisione della dogmatica del diritto pubblico anch’essa accettò la costruzione delle libertà come diritti pubblici soggettivi, rispetto ai quali lo Stato aveva solo l’obbligo di astensione. Tale costruzione non resse al vaglio della dottrina successiva, che teneva conto del diritto positivo .
Dal punto di vista filosofico, il positivismo giuridico immagina che tutto il diritto sia di origine statale o comunque positiva. L’autorità politica ha facoltà normative indipendenti da ogni ordinamento di diversa natura, sia naturale sia religiosa. Per essa i diritti assoluti in tanto sono validi in quanto tali erga omnes, e non solo nei confronti dello Stato. Inoltre, il titolare del dovere era portatore di interessi propri il cui esercizio portava a limitare gli interessi del titolare del diritto assoluto. Tali interessi propri sono talmente tutelati dalla norma da conferire all’obbligato vere e proprie potestà. Sicchè il dovere di astensione appare più come limite alla potestà che come situazione soggettiva propria, tanto più che il bene della vita oggetto dell’interesse protetto come diritto di libertà non è facilmente individuabile, come invece negli altri diritti assoluti (GIANNINI). Di qui i tentativi di apportare correttivi alla costruzione proposta, tra i quali va ricordata la teoria dei «diritti riflessi», in base alla quale i diritti di libertà sarebbero da considerare dei diritti nascenti dalle limitazioni, assunti come obbligo delle potestà pubbliche.
La massima espressione del neopositivismo giuridico è ravvisata nell’opera di Kelsen e della sua scuola. Kelsen e la sua scuola abbandonarono la costruzione pandettistica e introdussero, a caratterizzare le libertà, l’elemento “garanzia”. L’analisi delle varie libertà mostra che esse o sono delle semplici facoltà che spaziano nel campo del meramente lecito, oppure dei diritti soggettivi non diversi dagli altri. La loro vera sostanza risiede nelle garanzie costituzionali che sovrintendono alla loro istituzione, per cui le norme del legislatore ordinario in contrasto con le norme di garanzia possono essere rimosse dal giudice investito del sindacato di costituzionalità di norme primarie. In questo modo la teorica delle libertà veniva completamente separata da quella dei diritti pubblici soggettivi e anzi da qualunque situazione giuridica di vantaggio attribuita dalla norma al privato. La norma costituzionale di garanzia, così come investe posizioni civilistiche del privato (la famiglia, i figli illegittimi), così può investire situazioni soggettive attive di vantaggio, quali diritti o interessi legittimi; viceversa può non investire situazioni soggettive anche molto importanti, come quella degli enti esponenziali di ordinamenti derivati, delle cosiddette società intermedie e simili (GIANNINI).
3. Libertà e diritti fondamentali
La dogmatica delle libertà nel loro variegato atteggiarsi e dei diritti fondamentali ha da sempre dato adito a dibattiti che alla fine non hanno consentito di trovare loro un soddisfacente assetto. Troppo spesso la si è confusa, da un lato, con la teoria generale delle situazioni soggettive, dall’altro, con le posizioni fondamentali del soggetto privato nell’ordinamento giuridico generale che ha una realtà storicizzabile e non già astratta (GIANNINI).
Dunque, come ha ritenuto l’autorevolissima dottrina sinora citata e da cui è tratto questo breve resoconto e che continua in questo e nel paragrafo successivo, la realtà è molto più complessa, in quanto le situazioni soggettive del privato possono presentarsi alla pubblica amministrazione così come sono configurate dal diritto privato e quindi l’amministrazione pubblica può essere parte del rapporto e agire secondo il diritto comune. Parimenti, si può porre come autorità e quindi amministrare situazioni soggettive, beni, rapporti giuridici: in questo caso la situazione del soggetto privato rimane ancora regolata dal diritto privato.
Esistono tuttavia situazioni di diritto soggettivo che sono regolate da norme di diritto pubblico: si pensi, ad esempio, ai diritti di stato giuridico o ai diritti patrimoniali dei titolari degli uffici pubblici. Così ancora i diritti a prestazioni amministrative, dove le norme possono configurare come interessi legittimi le situazioni soggettive del privato in ordine a prestazioni dell’amministrazione, ma possono anche configurarle come diritti soggettivi (si pensi all’assistenza sanitaria ed ospedaliera, alle prestazioni postali e telefoniche, ai trasporti pubblici e così via).
Altra categoria del medesimo gruppo è costituita dai diritti che derivano dalla posizione giuridica di civis: diritti politici in primo luogo (elettorato attivo ed elettorato passivo); quei diritti che si denominano civici, in quanto il cittadino tra i benefici ragione della sua appartenenza ad un determinato “gruppo” dei consociati legati ad un ambito territoriale, quale il Comune, o addirittura una sua frazione e così via (si pensi al diritto di uso dei beni collettivi, come strade, lido del mare, acque pubbliche, pascoli comunali, con riferimento ai quali è stata teorizzata la categoria del “bene comune”, che supera le tradizionali categorizzazioni giuridiche legate al solo assetto proprietario per valorizzare quello funzionale e solidaristico/partecipativo). Tutte queste situazioni soggettive di diritto sono attribuite da norme di diritto pubblico e non presentano alcuna omogeneità.
Va anche detto che in questa materia il concetto di “privato” ha un senso convenzionale, ossia comprensivo del cittadino persona fisica e, in certi casi, dello straniero e dell’apolide, della persona giuridica privata, dell’ente pubblico in quanto assoggettato allo Stato, e persino dello Stato in quanto assoggettato ad un ente pubblico.
4. La teorica di Jellinek
La teorizzazione dei diritti pubblici soggettivi fu dominata dalla grandiosa opera di Georg Jellinek, che, ancora nell’800 ebbe l’intuizione giuridica di individuare quattro status del cittadino: subjectionis, libertatis, civitatis e activae civitatis. La dottrina successiva non fece altro che aderire o respingere o tentare di correggere il sistema del grande studioso tedesco, senza considerare che la costruzione indicata fu più un’opera politica che giuridica e fu un tentativo di portare la realtà dello Stato moderno in un sistema di definiti rapporti giuridici entro i quali cittadini trovassero precisi ambiti del proprio agire.
Non è casuale che il punto debole di questa costruzione fosse costituito proprio dallo status libertatis,che non è affatto omogeneo con gli altri e che non si concreta in diritti soggettivi, se non in modi del tutto particolari.
Infatti, i diritti positivi possono configurare in modi diversi le libertà civili.
I modi più importanti di configurazione sono tre: la libertà come oggetto di norma meramente enunciativa di un principio, come interesse legittimo garantito costituzionalmente e come oggetto di un «diritto fondamentale» dell’individuo (GIANNINI).
Nel primo caso, la dichiarazione che riconosce una libertà, come tutte le norme che enunciano un principio, serve all’interpretazione e all’applicazione di altre norme e vale come direttiva nelle costituzioni flessibili o come precetto in quelle rigide per il legislatore. Nel secondo dei tre modi le libertà non sono diritti soggettivi, anche se norme costituzionali così le denominano. Basti pensare alla costituzione di Weimar piena di tanti diritti di libertà e di clausole generali, utilizzate anche dal regime nazista. Tuttavia, la formula più onesta si trova nell’articolo 28 dello statuto Albertino dove si recita: «la stampa è libera ma la legge ne determina gli abusi». Orbene tutte le libertà interessi legittimi sono riconducibili ad un sistema siffatto. Da un lato vi sono le manifestazioni fondamentali della personalità dell’individuo e dall’altro le potestà pubbliche che agiscono sollecitate da interessi pubblici.
La situazione soggettiva del privato è di interesse legittimo di fronte ad una potestà, tutelato giurisdizionalmente secondo gli istituti generali del sistema positivo. Tuttavia, esso è garantito costituzionalmente, e in questo differisce dagli interessi legittimi che potrebbero dirsi ordinari. Orbene a questi ben si addice la denominazione di interessi legittimi fondamentali.
La garanzia consiste nel fatto che la potestà pubblica disciplinata dalla norma giuridica primaria e consiste in una «riserva di legge» in ordine all’attribuzione della misura della potestà. In ogni caso trattasi di comuni rapporti potestà-interesse legittimo. In qualche costituzione la libertà può essere rafforzata ma nella nostra non esiste uno strumento giuridico specifico nel caso di una sua violazione. Va ricordato che lo statuto Albertino, che pure regolava le libertà civili, è rimasto in vigore per un intero secolo, mentre le leggi disciplinatrici sono più volte cambiate, raggiungendo punte di sostanziale illibertà nel periodo fascista.
La giurisprudenza ha cominciato a ritenere le leggi disciplinatrici illegali e ha favorito l’evolvere verso il terzo modo, in cui la libertà diviene oggetto di un diritto soggettivo assoluto, classificabile nei diritti della personalità. L’adozione di costituzioni rigide con il perfezionamento del sindacato di costituzionalità delle norme accrescono la tutela delle situazioni giuridiche soggettive del privato. Esse vengono oramai denominate «diritti fondamentali» dell’individuo e sono assoluti non solo nei confronti dei pubblici poteri ma di qualunque soggetto giuridico.
Nelle costituzioni moderne si trovano giustapposte delle enunciative del primo del secondo e del terzo modo. Ad esempio, buona parte dei cosiddetti «diritti sociali» danno luogo ad enunciative del primo e del secondo modo. Il secondo modo è quello correttamente usato quando si vogliano garantire istituti giuridici più complessi di una mera situazione soggettiva, si pensi alla famiglia alla proprietà a talune prestazioni di protezione sociale (GIANNINI).
I termini della relazione tra diritti fondamentali e potere amministrativo, all’indomani della seconda guerra mondiale, vanno letti all’interno del paradigma dello Stato sociale di diritto, ossia di un ordinamento che riconosce, accanto ai diritti di libertà classici, i diritti della persona e i diritti sociali, la cui piena attuazione deriva non solo da un atteggiamento negativo, ma anche da un approccio positivo, ossia da un comportamento in grado di soddisfare la pretesa avanzata dal singolo. Questo è l’effetto dello Stato pluriclasse, dove le classi sociali subalterne reclamano diritti e chiedono servizi alla P. A.
La relazione che si instaura è tra la posizione giuridica del cittadino e lo specchio del moltiplicarsi di interessi che l’amministrazione assume su di sé. Quindi non solo una relazione che vede potere e diritto escludersi a vicenda, dove c’è potere non c’è diritto e viceversa, ma al contrario posizione che vengono accumularsi nella misura in cui il potere amministrativo assume il senso pieno della funzione, quindi dove c’è potere c’è diritto (TARANTINO).
5. Le conseguenze processuali delle teoriche dei diritti fondamentali
Quando erano conosciuti e studiati soltanto i diritti di libertà classici, la relazione tra poteri amministrativi e diritto era descritta secondo le formule della degradazione del diritto e dell’indegradabilità dei diritti fondamentali. Il risvolto processuale era che tutte le volte in cui la posizione azionata fosse qualificabile in termini di diritto fondamentale vi era giurisdizione del giudice ordinario, il che comportava una negazione in radice della presenza di un potere amministrativo.
La pretesa dell’automatica prevalenza del diritto fondamentale sul potere amministrativo porterebbe il primo a sterilizzare automaticamente il secondo, anche quando quest’ultimo ha il compito di comporre una relazione tra diritti dello stesso rango; evenienza quest’ultima che risulta immanente all’interno di un sistema che non poggia su risorse economiche illimitate. Di qui la tendenza ad una scomposizione del diritto fondamentale in due distinte componenti: una difensiva e una pretensiva. Solo la prima è sottratta a qualsivoglia logica di bilanciamento rimesso alla discrezionalità dell’amministrazione (TARANTINO).
Per contro, l’assenza di una gerarchia tra i diritti fondamentali consente di superare l’impostazione secondo la quale i diritti in questione godono di una situazione di intangibilità da parte del potere amministrativo. La componente difensiva afferisce ad un nucleo essenziale del diritto sottratto alla disponibilità del legislatore come ribadito nella sentenza n. 146 / 1988 della Corte costituzionale.
Più di recente, il giudice costituzionale ha affermato anche che la concezione soggettiva del processo delinea «la giurisdizione amministrativa, nelle controversie tra amministrati e pubblico potere, [come] primariamente rivolta alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive e solo mediatamente al ripristino della legalità dell’azione amministrativa, legalità che pertanto può e deve essere processualmente perseguita entro e non oltre il perimetro dato dalle esigenze di tutela giurisdizionale dei cittadini» (Corte cost., sent. n. 271 del 2019). Alla luce di tale evoluzione è l’interesse alla mera legittimità dell’azione amministrativa diventato in certo qual modo un interesse occasionalmente protetto in sede di tutela dell’interesse legittimo, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo, come affermato dal presidente del Consiglio di Stato, Patroni Griffi, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 (SCODITTI).
Rispetto all’epoca di elaborazione della tesi dell’indegradabilità, il quadro della giustizia amministrativa è dunque radicalmente mutato ed è ormai “pronto” a rendersi protagonista di interventi di tutela dei diritti fondamentali. Alla base delle pronunce della Cassazione che in particolare a far data dalla fine degli anni ottanta avevano negato in tali ambiti alcun margine di giurisdizione del giudice amministrativo, vi era la concezione oggettiva del processo amministrativo limitata all’esclusivo sindacato sull’atto, connotato anche dalla limitatezza dei mezzi probatori di accesso al fatto – tesi peraltro ancora di recente ribadita, ma non per questo necessariamente da condividere, da Cass., Sez. U., sent. n. 23436 del 2022.
Essa ha avuto il merito storico per lunghi decenni di dare una risposta a bisogni di tutela che non trovavano adeguata soddisfazione nel vecchio regime degli interessi occasionalmente protetti dalla giurisdizione amministrativa di legittimità. A fronte, tuttavia, della riconosciuta estensione della conoscenza al fatto posto a fondamento della scelta dell’autorità amministrativa, consentita dalle potenzialità probatorie presenti nella nuova configurazione del giudizio amministrativo, non può più negarsi una cognizione piena del rapporto, per cui il processo non costituisce più soltanto uno strumento di garanzia della legalità dell’azione amministrativa, ma ben potendo rappresentare una giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali (TARANTINO).
6. Le scelte eticamente sensibili come espressione di diritti o libertà fondamentali
Le considerazioni da ultimo riportate già anticipano le conclusioni cui si intende addivenire. Ossia, la nozione di interesse legittimo fondamentale altro non è che la declinazione terminologica dei diritti fondamentali con riferimento ai quali il giudice amministrativo è chiamato a valutare la forbice di scostamento tollerabile, in una logica di bilanciamento tra valori egualmente tutelati dalla Costituzione, rispetto al nucleo intangibile tutelato dalla stessa.
Le scelte “eticamente” sensibili, d’altro canto, rappresentano a loro volta soltanto l’esercizio di diritti sicuramente riconducibili a tale soglia di rilevanza, in quanto attengono comunque alla personalità dell’individuo, in termini di dignità, identità sessuale, diritto a divenire genitore e così via. Lo stesso avverbio “eticamente”, a connotarne la sensibilità, richiama infatti un concetto di valore che ove semplicemente correlato al sotteso contesto socio-culturale si presenta necessariamente fluttuante, e soprattutto tipicamente soggettivo. Esso risente, cioè, necessariamente, dell’angolo visuale dal quale viene riguardato, rendendo il dibattito inevitabilmente scivoloso verso una china morale, appunto, ovvero religiosa, che inevitabilmente rischia di condizionare la decisione dei giudici, ma non incide, o quanto meno non dovrebbe farlo, sulle categorie concettuali di riferimento.
La conflittualità ideologica ha influito sulle discussioni giuridiche.
A partire dal caso Englaro, la sentenza della Cassazione, n. 21748 del 2007, che, pur criticata in quanto “creativa” e manipolatrice, è considerata alla base della sopravvenuta legge n. 219 del 2017. Essa ha disciplinato a distanza di anni il tema della relazione di cura fra medico e paziente; nonché quello delle dichiarazioni anticipate di trattamento, ponendo al centro della disciplina la tutela della dignità, dell’autodeterminazione e del consenso che la sentenza aveva valorizzato. Questo rende di immediata percezione la “sensibilità” delle scelte del privato e, a valle delle stesse, la possibilità dell’ordinamento di assecondarle, ovvero quanto meno di non ostacolarle.
Il tema del diritto a fine vita, peraltro, che tipicamente si colloca nell’ambito di tali tematiche, può essere riguardato anche dall’angolazione diametralmente opposta, pure ampiamente dibattuta proprio in concomitanza della stesura delle presenti note (si pensi, ad esempio, al caso della neonata inglese Indy Gregory, che un ospedale italiano si era offerto di accogliere, il cui trasferimento è stato negato ai genitori che ne facevano richiesta dalla Corte del Regno unito chiamata ad occuparsene, che vi ha ravvisato un inutile accanimento terapeutico).
Proprio l’esemplificazione riportata (ma analoghe riflessioni potrebbero riguardare l’altrettanta controversa questione meglio conosciuta come “utero in affitto”, o maternità surrogata) fa emergere come la mancanza di scelte chiare, in un senso o nell’altro, da parte del legislatore, e la necessità di utilizzare il quadro normativo di riferimento, se del caso “strumentalizzando” – come pure è stato criticamente affermato in relazione a talune casistiche – il rinvio pregiudiziale al giudice delle legge, ricada, o meglio sia ricaduta, fino ad oggi sul giudice ordinario.
E, tuttavia, proprio la cornice sopra delineata della valutazione dei diritti fondamentali anche in relazione al contrapposto potere della p.a., e della nuova concezione del giudizio amministrativo e della tecnica del bilanciamento seguita dalla giurisprudenza costituzionale, sembrano aprire una nuova stagione di coinvolgimento del giudice amministrativo, appunto, nella tutela dei diritti fondamentali. Anche l’interesse legittimo, dunque, in quanto correlato ad una norma che attribuisce il potere alla pubblica amministrazione, è uno strumento di tutela dei diritti fondamentali e in tale logica diviene “interesse legittimo fondamentale”. Esso si pone come limite alle scelte dell’Amministrazione astrattamente ispirate a ragioni scientifiche.
Negli ultimi decenni, infatti, anche la scienza medica ha finito per travalicare l’ambito tradizionale della cura della malattia e della ricerca, invadendo spazi più propriamente “spirituali”, quali il diritto alla procreazione, alle modalità e al tempo del fine vita, come già detto, ovvero all’identità sessuale. Come è stato sostenuto dalla dottrina costituzionalistica, il corpo costituisce il substrato generatore della persona, anzi si identifica con la persona stessa e la identifica, perché è attraverso il corpo che diventa possibile entrare in relazione con altri soggetti ed essere sul situato nella società. Esso cioè non solo ci colloca nello spazio e nel tempo, ma soprattutto ci mette in relazione con i nuclei sociali nei quali viviamo (famiglia, scuola, società). È dunque stato necessario nel tempo ricostruire lo statuto giuridico del corpo umano, individuando e analizzando i diversi dispositivi giuridici apprestati dall’ordinamento a tutela degli interessi che variamente si intrecciano intorno alle vicende della vita umana. Come per i diritti della personalità nel diritto civile, il suddetto processo di “giuridificazione” è stato caratterizzato dal passaggio da una logica proprietaria, che vede il soggetto disporre del proprio corpo come di un bene materiale, ad un’altra, dinamica e relazionale permeata dalla libertà di autodeterminazione, in cui le scelte che riguardano il fisico, anche nella sua mera esteriorità, impattano necessariamente sullo sviluppo della personalità e sui diritti inviolabili che fanno capo alla stessa. Esemplare è stata pure l’evoluzione del rapporto tra l’individuo e i propri dati personali in materia di privacy.
7. La giurisprudenza amministrativa in materia di diritti fondamentali
Senza ancora attingere alla categoria degli interessi legittimi fondamentali, il giudice amministrativo è stato più volte chiamato ad esprimersi in relazione alla tutela del diritto alla salute, anche quale declinazione del diritto alla tutela ambientale in termini di diritto ad un ambiente salubre (nello stesso ambito si colloca il diritto al lavoro). Particolarmente significative al riguardo le numerose pronunce che in tempo di pandemia hanno visto proprio nel giudice amministrativo l’arbitro dei contrapposti valori in gioco, tra cui la libertà di movimento e la libertà di autodeterminazione, propugnandone una lettura in chiave solidaristica, mutuata cioè pur sempre dalla portata cogente dei principi rivenienti dall’art. 2 della Costituzione (NOCCELLI). Particolarmente significativa, al riguardo, è sicuramente la sentenza n. 7045 del 2021 del Consiglio di Stato, nella quale è stata affrontata, con dovizia di analisi storica anche del regime autorizzatorio alla circolazione del farmaco, la tematica dell’imposta obbligatorietà di vaccinazione al personale sanitario, chiamato comunque a garantire il ridetto “ambiente” salubre, anche attraverso la propria autotutela, ai pazienti fragili che allo stesso devono necessariamente accedere.
In materia di limiti e obblighi della P. A., il giudice amministrativo ha mostrato una particolare sensibilità nell’affrontare le varie sfaccettature dalle quali può essere riguardata la tutela del diritto alla salute, stabilendo, in via generale, che sono proprio le strutture sanitarie, e dunque l’amministrazione pubblica, «ad attivarsi per promuovere la conservazione ed il recupero, approntando le strutture i mezzi per attuare i programmi di prevenzione, cura, riabilitazione ed intervento a favore di cittadini». La giurisprudenza ha anche chiarito da tempo che «l’amministrazione sanitaria programma, regola, vigila, finanzia, mentre la scelta dell’operatore sanitario spetta di norma all’utente» (Tar Campania, sent. n. 5498/2013).
Sicuramente degna ancora oggi di nota una risalente sentenza avente ad oggetto il mancato aggiornamento del prontuario farmaceutico da parte dell’AIFA, che chiama in causa il tema della pretesa a ricevere prestazioni da altri soggetti pubblici o privati, oltre quelle rientranti nelle modalità procedurale sottesi al menzionato strumento. Nella pronuncia cui si riferisce è stata ritenuta necessaria l’adozione del chiesto provvedimento amministrativo in quanto individuato come l’unico in grado di soddisfare la specifica pretesa dedotta. È stato dunque ottenuto l’ordine giudiziale rivolto all’amministrazione di provvedere alla somministrazione gratuita del farmaco in attesa dell’aggiornamento del prontuario farmaceutico. Si è trattato di un importante esempio di tipo propulsivo per offrire una tutela effettiva che ha implicato la valutazione in concreto dell’efficacia del medicinale, in assenza di alcuna valida alternativa terapeutica. Le argomentazioni svolte sono molto vicine a quelle che, negli anni novanta, spinsero i tribunali ordinari a pronunciarsi a favore della cosiddetta terapia Di Bella (Tar Lombardia, sent. n. 791/2008). In proposito si è parlato anche di un «diritto alla speranza».
È stato affermato anche che l’amministrazione è responsabile per i danni alla salute arrecati ai soggetti che lavorino in un plesso scolastico in stato di cattiva manutenzione e per le patologie che derivino da emotrasfusioni, nonostante le azioni esecutive non possano toccare i beni strumentali di proprietà del servizio sanitario nazionale.
Un discorso a parte, per la peculiarità della tematica affrontata che ha assunto sfaccettature etiche progressivamente più accentuate, va fatto in relazione alla procreazione assistita. Sulla materia sono intervenute due importanti sentenze della Corte costituzionale a breve distanza l’una dall’altra. Con la prima, n. 162 del 2014, partendo dalle premesse per cui la scelta di una coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, riconducibile agli artt. 2, 3, e 31 Cost. e può riguardare anche due persone sterili o infertili, che si determinino allo scopo a ricorrere, appunto, alla tecnica di procreazione medicalmente assistita (p.m.a.) di tipo eterologo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, l. n. 40 del 2004, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso alla stessa qualora sia stata diagnostica alla coppia una patologia genetica trasmissibile grave. La sentenza, cioè, ha il dichiarato scopo di consentire la “previa individuazione”, in funzione del successivo impianto nell’utero della donna, «di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro». Con la successiva pronuncia, n. 229 del 2015, che si inserisce nel solco della precedente, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della medesima legge n. 40/2004, si è nella sostanza esclusa la configurabilità come reato della selezione di embrioni nella procreazione assistita, purché finalizzata soltanto a evitare di impiantarne nell’utero della donna di affetti da malattie genetiche ritenute gravi (ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 194/78). È evidente il fil rouge che lega le due pronunce, alla luce della elementare considerazione per cui ciò che era già divenuto lecito per effetto della prima sentenza non poteva essere considerato illegale per il principio di non contraddizione.
Sulla scorta dei dettami discendenti da tali fondamentali sentenze, ed in particolare di quella del 2014, il giudice amministrativo ha quindi ritenuto discriminatorio un intervento normativo regionale nella parte in cui manteneva, per la sola fecondazione omologa, criteri e requisiti soggettivi più favorevoli rispetto a quella eterologa (T.A.R. Veneto, n. 5021 del 2015). La distinzione conseguente al mantenimento, per la sola omologa, del limite soggettivo di 50 anni, laddove per la eterologa era fissato quello di 43, è stata dunque, considerata in evidente contrasto sia con la normativa statale (che non pone alcuna analoga distinzione), sia con i principi generali di eguaglianza, così come ricordati dalla Corte costituzionale proprio in occasione dell’affermata analogia delle due tecniche procreative assistite. Ciò in quanto, avuto riguardo all’età della donna, la norma nazionale non dà indicazione precisa, ma fa riferimento all’età potenzialmente fertile, che quindi deve valere per entrambe le ipotesi.
Altrettanto irragionevole è stata ritenuta la distinzione posta da altro ente regionale riguardo ai costi richiesti per l’assistenza in caso di p.m.a. eterologa ed omologa, essendo stato previsto il pagamento dell’intero trattamento nel primo caso e del solo ticket nel secondo. Parimenti in una decisione del Consiglio di Stato (sent. n.1486/2015) è stata annullata la decisione dell’amministrazione di ammettere a carico del servizio sanitario nazionale la sola PMA omologa a scapito di quella eterologa, essendo illogico e non ragionevole, in patente contrasto con quanto ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza più volte citata (n.162/2014). Le due situazioni, essendo sostanzialmente identiche, contribuiscono a superare le obiezioni relative al potenziale incremento di spesa in ragione della necessità di garantire la sostanza di un diritto fondamentale, che non può essere compresso richiamando non meglio precisate ragioni economiche.
Per riassumere il quadro generale fissato dal Consiglio di Stato è il seguente:
- dopo la sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale la distinzione tra p.m.a. omologa ed eterologa, per quanto concerne l’offerta dei servizi sanitari, è irragionevole e crea disparità di trattamento lesiva del diritto alla salute delle coppie affette da sterilità o da infertilità assolute;
- b) il mancato inserimento di talune prestazioni tra quelle rientranti nei livelli essenziali, non trattandosi di un limite posto alle regioni dall’articolo 117 comma 2 lett. m, Cost., in quanto connesso alla salute quale diritto finanziariamente condizionato, non costituisce in sé ragione sufficiente per negare del tutto le prestazioni, né può incidere sul nucleo irriducibile ed essenziale del diritto alla salute;
- sussiste un potere discrezionale regionale sul piano organizzativo riguardo alla fissazione dei limiti e delle condizioni attraverso le quali realizzare il diritto alla salute. In questo ambito rientra l’eventuale riconoscimento di prestazioni aggiuntive rispetto a quelle inseriti negli elenchi dei L.E.A. (livelli essenziali di assistenza), ma resta fermo il fatto che tale potere discrezionale dovrà essere esercitato in modo ragionevole e non in contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione. Ne discende che l’uso irragionevole e discriminatorio del potere, anche quando ampliativo rispetto al catalogo delle prestazioni inerenti ai livelli essenziali, può essere oggetto di censura da parte del giudice amministrativo, in quanto espressione del vizio di eccesso di potere, nell’ambito dell’ordinario sindacato di legittimità.
Va peraltro ricordato come la pronuncia è stata anticipata dai principi affermati dalla Corte europea diritti dell’uomo, sez. I, 1 aprile 2010, n. 57813, secondo cui il divieto di utilizzare le tecniche di procreazione assistita di carattere eterologa non è compatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Gli Stati sono dunque liberi di prevedere il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, ma nel momento in cui ammettono la possibilità di utilizzare tale tecnica non devono discriminare tra le coppie a seconda del tipo di infertilità (TIGANO).
8. Poteri, limiti e responsabilità del personale sanitario
Anche le pronunce che hanno riguardato il personale sanitario toccano la tematica dei diritti fondamentali, dovendosi contemperare la libertà di esercizio della relativa professione, anche in relazione alle scelte “etiche”, appunto, di ciascuno, con gli obblighi derivanti dalla peculiarità della stessa, solidaristicamente orientata in forza del c.d. giuramento di Ippocrate. Agli esercenti professioni sanitarie, dunque, è espressamente riconosciuta in determinati ambiti dall’ordinamento la facoltà di avvalersi della cosiddetta obiezione di coscienza, ossia il diritto di rifiutare una certa prestazione ordinariamente dovuta, tutte le volte che essa entri in conflitto con i principi di carattere morale cui gli stessi ispirino le proprie condotte in ragione del proprio personale convincimento (A. PATRONI GRIFFI). Il perimetro entro il quale può trovare spazio espressivo ridetta libertà di coscienza ha dato adito a sua volta a molteplici controversie. I giudici sono andati ancora una volta alla ricerca del giusto punto di equilibrio tra tutela della libertà di coscienza da parte del sanitario, appunto, ed esigenza di non paralizzare l’erogazione del servizio richiesto, in quanto garantito dalla legge, collocando la sfera delle potenziali responsabilità al di là di tale ricercato punto di equilibrio ottimale. L’operatore sanitario sarà dunque perseguibile sul piano disciplinare – ferme restando le eventuali responsabilità penali, civili e amministrativo-contabili, in presenza dei rispettivi presupposti – laddove il proprio rifiuto di eseguire una prestazione, seppure rispondente a libere scelte “etiche”, si palesi indebito in quanto causativo di danni all’amministrazione o a terzi. L’esempio più diffuso è riconducibile alla materia dell’interruzione volontaria della gravidanza. La giurisprudenza ha al riguardo distinto il momento in cui venga effettuato l’intervento, ove si può opporre l’obiezione di coscienza, da quello successivo, laddove non è consentito. In ogni caso il sanitario deve intervenire ogniqualvolta vi sia un imminente pericolo di vita (TIGANO).
Per quanto riguarda il rapporto del medico con il tema del “fine vita” è sufficiente, in questa sede, richiamare le due sentenze fondamentali della Cassazione e del Consiglio di Stato sopra ricordate. Ci si riferisce alle sentenze della Cassazione, (I sez.,16/10/2007, n. 21478) e del Consiglio di Stato, (III sez., 2/9/2014 n. 4460), redatte da due magistrati dalle apprezzabili capacità di analisi giuridica e di contesto, Giusti e Noccelli.
Mentre sulla prima pronuncia vale quanto frettolosamente già osservato, sulla seconda si propone una sintesi dei passaggi fondamentali, anche perché essi sono più attinenti al tema e ci consentono di comprendere più efficacemente i termini reali di tutte le questioni trattate.
Essi sono: 1. Con riferimento alla giurisdizione, mentre il primo giudice (Tar) aveva ritenuto la propria giurisdizione in base all’articolo 33 del decreto legislativo n. 80/ 1998 (poiché si verteva in ipotesi di giurisdizione esclusiva), la sentenza ha affermato la competenza del giudice amministrativo proprio facendo leva sul concetto di diritto soggettivo costituzionalmente garantito, partendo proprio dalla sentenza della Cassazione, sezioni unite n. 27187 del 2007, laddove afferma il principio che anche in materia di diritti fondamentali, quali il diritto alla salute, compete ai giudici amministrativi in rapporto all’interesse generale pubblico all’ambiente salubre. In tal modo ha superato la tesi sostenuta dalla Regione secondo la quale si sarebbe al cospetto di servizi erogabili sulla base di rapporti convenzionali di diritto pubblico, di carattere concessorio, che era materia di giurisdizione esclusiva, ma di una domanda proposta da un privato tesa a far valere il suo preteso diritto di interruzione delle cure e sugli obblighi di renderla da parte del servizio pubblico. Nella sentenza viene riportato l’orientamento, da ritenersi superato, secondo cui per la Suprema Corte, trattandosi di diritto soggettivo non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica, esclude la giurisdizione del giudice amministrativo. Si fa riferimento alla vicenda dei crocefissi presenti nelle aule scolastiche. Si ribadisce che la dottrina dei diritti incomprimibili è priva di un solido e convincente sostegno; 2. l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Siffatta qualificazione è convalidata dalla comunità scientifica internazionale, come sostiene anche la succitata sentenza della Cassazione; 3.il diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente, comporta che, laddove decida l’interruzione del trattamento, non significa affermare il diritto a morire;4.il principio personalistico che anima la nostra Costituzione vieta ogni intrusione nella sfera personale che non sia voluta. La salute non è assenza di malattie ma è uno stato di completo benessere fisico e psichico, che va visto in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche negli aspetti interiori della vita così come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza; 5. l’ordinamento si muove nel quadro della cosiddetta alleanza terapeutica che tiene uniti il malato e il medico nella ricerca comune di ciò che è bene. Il rifiuto del paziente è sempre legittimo non esistendo un principio di ordine pubblico che impone il dovere di curarsi; 6. l’art. 32 della Costituzione impone trattamenti sanitari nei soli casi espressamente previsti dalla legge e solo nel caso in cui la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri; 7. il rapporto tra consenso informato e responsabilità del medico o del servizio sanitario nel suo complesso necessiterebbe di un intervento legislativo; 8. per la Corte costituzionale organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che direttamente o indirettamente non sia finalizzata a garantire diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l’organizzazione (sentenza n. 383 del 1998); 9. l’amministrazione sanitaria non può sottrarsi al suo obbligo di curare il malato e di accettarne il ricovero, adducendo una propria ed autoritativa visione della cura o della prestazione sanitaria; 10. il rapporto tra autodeterminazione del paziente e autonomia professionale del medico merita di essere risolto legislativamente. Tuttavia si può dire che <<motivi di coscienza possono essere avanzati solo dagli individui, mentre la coscienza delle istituzioni è costituita dalle leggi che la regolano>>.
9. La responsabilità della pubblica amministrazione nella materia sanitaria
Dalla pregevole sentenza diventa più agevole tracciare la netta linea di demarcazione tra libertà di rifiutare, per coerenza con i propri principi etici, una prestazione sanitaria e responsabilità derivante dall’omessa prestazione, anche se anche così non è affatto semplice. La giurisprudenza ha cercato di trovare un punto di equilibrio che deve tenere conto dei punti di approdo della scienza, del diritto e della coscienza del singolo.
In generale, sembra prevalere il principio secondo cui nessuna obiezione di coscienza può essere opposta al fine di giustificare il diniego rispetto ad una prestazione ordinaria legittimamente richiesta e come tale dovuta dall’Amministrazione sanitaria. L’elemento soggettivo della responsabilità risulta così individuato in un comportamento che viene considerato addirittura doloso nella misura in cui si sostanzia in un espresso diniego posto attraverso un provvedimento illegittimo. Non serve a scriminare l’illiceità della condotta alcun motivo di coscienza, giacché solo gli individui hanno una coscienza, mentre la coscienza delle istituzioni è costituito dalle leggi che le regolano, come si trova scritto nella sentenza testé riassunta. Ne scaturisce in sede risarcitoria la liquidazione del danno patrimoniale, consistente nella rifusione delle spese di cura, e di quello non patrimoniale per la lesione di diritti fondamentali.
I trattamenti sanitari sono oggetto di una disciplina normativa complessa in ragione delle singole disparate fattispecie ivi contemplate. Tuttavia, è obbligato il riferimento al diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione, cui sono correlati altri valori costituzionali rientranti tra i principi fondamentali, segnatamente quelli di solidarietà e di uguaglianza (articoli 2 e 3 Cost.).
Poiché le prestazioni sono rese dal servizio nazionale la medesima disciplina deve essere coerente con i principi posti materia di pubblica amministrazione, anzitutto l’imparzialità e il buon andamento, declinati in funzione dei budget di spesa assegnati e con il principio del pareggio di bilancio (TIGANO).
I medesimi principi trovano conferma nelle fonti comunitarie: basti ricordare il diritto alla vita solennemente proclamato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) e dall’articolo 2 della Cedu, nonché il diritto all’integrità della persona, che, secondo la Corte di giustizia e parte del diritto dell’Unione Europea comprende, nell’ambito della biologia della medicina, il consenso libero e consapevole del donatore e del ricevente (TIGANO).
L’amministrazione sanitaria si trova spesso nella posizione di chi sia chiamato ad adottare decisioni scomode, talora complicate dalla concorrenza di questioni etiche la cui scivolosità è ben nota. Peraltro, se da un lato la funzione amministrativa è legata alla disciplina posta dal legislatore, dall’altro la fase esecutiva risulta spesso impegnativa a causa delle incertezze interpretative che discendono dal varo di normative compromissoria e incerte.
Ciò comporta: 1) l’ampliamento dei limiti della discrezionalità amministrativa che diventa non più ponderazione degli interessi, ma operazione interpretativa pura; 2) il rinvio del caso alla sede giurisdizionale circa la verifica dell’operato degli organi amministrativi, rischiando di incidere sul merito delle valutazioni discrezionali, tradizionalmente soggette al solo sindacato di legittimità (TIGANO, TARANTINO).
A ciò va aggiunto la perduta centralità delle fonti primarie, la inveterata inefficienza amministrativa scoordinata e non sempre in linea con i budget assegnati nei risvolti di natura etica superabile se la legge e le fonti normative in genere non attraversassero l’attuale fase di crisi (D’AMICO).
Oggi vanno sempre più affermandosi nuovi valori intesi perlopiù alla riscoperta del ruolo dei diritti fondamentali, rispetto ai quali la normativa di dettaglio cede continuamente il passo.
A tutto ciò l’amministrazione non è estranea e non lo è a maggior ragione tutte le volte in cui debba misurarsi su un terreno ove il potere discrezionale si trova in una condizione nella quale non sono sempre certi punti di riferimento.
La scienza, con i suoi progressi e le sue problematiche incertezze, non è di grande aiuto sotto questo profilo: le tecniche terapeutiche, infatti, non sempre costituiscono verità assolute, risultando anch’esse fallibili e contingenti. Sicché le scelte che ne derivano sono quelle convenzionalmente considerate corrette “rebus sic stantibus”, ossia secondo l’esperienza empirica fissata negli eventuali protocolli approvati in un certo torno di tempo (TIGANO, A. PATRONI GRIFFI).
10. Interessi legittimi fondamentali a carattere economico
La permanente tendenza del mercato ad incidere sul livello di tutela dei diritti fondamentali risulta del tutto evidente nella relazione tra i mercati finanziari il debito pubblico; relazione che pone la legislazione speciale sui diritti sociali. I fallimenti del mercato evidenziati dalle recenti crisi economiche ripropone nuovamente all’attenzione della politica il problema della soluzione delle tensioni sociali e dell’indebolimento che ne deriva sul piano dei diritti sociali. Questi in particolare si ritiene possano avere un contenuto conformato dal legislatore e possano essere bilanciati con altri diritti e interessi di parte. Tuttavia, l’art. 3 del trattato di Lisbona sancisce uno sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva. Il mercato non più come fine ma come strumento (TARANTINO).
Un rilievo particolarmente importante da attribuire ad un orientamento della Corte costituzionale che fa il punto sui rapporti tra diritti sociali e bilancio. La questione è particolarmente delicata specie all’indomani della modifica dell’art. 81 della Costituzione da parte della legge costituzionale n. 1/2012 che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio in Costituzione. Anche in questo ambito si sono avute molteplici pronunce di giudici della Consulta, nelle quali si giunge ad individuare un dovere posto in capo al legislatore di graduare l’allocazione delle risorse, distinguendo le spese necessarie per il soddisfacimento dei diritti da quelle per così dire “facoltative”. Anche a tale riguardo si è rivendicato un sindacato sulla coerenza intrinseca che deve essere rispettata da parte del legislatore nell’individuazione di quel nucleo di garanzie indefettibili che devono essere assicurate agli interessati. Secondo i giudici della Consulta, dunque, il principio di priorità nel soddisfacimento dei diritti incomprimibili incide sul bilancio, nel senso che la sostenibilità complessiva di quest’ultimo non può in alcun caso portare a far sì che il danaro pubblico venga erogato per spese facoltative, prima che vengano individuate le poste economiche necessarie per far fronte a quelle volte a garantire il soddisfacimento dei diritti fondamentali (V. Corte cost., sentt. n. 80/2010; n. 250/2013; n. 266/2013; n. 10/2016; n. 275/2016; n. 279/2016, ma anche LUCIANI).
11. Il fronte sovranazionale e internazionale
L’11 gennaio 2019, presso Palazzo della consulta, si è tenuto un importante incontro tra i vertici della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte costituzionale, della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e del Consiglio superiore della magistratura, al fine di favorire il dialogo tra tali corti. Era in discussione il protocollo n. 16 recante emendamento alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, redatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013. I temi principali oggetto di discussione sono stati: le materie eticamente sensibili, la disciplina prevista dal protocollo, l’indipendenza dei giudici e, infine, la disciplina delle questioni sul ne bis in idem. Sono state sottolineate le divergenze che riguardano specialmente la regolazione delle scelte di fine vita, del matrimonio omosessuale o ancora del transgender, ovverosia tutte materie considerate eticamente sensibili in cui è più difficile raggiungere quel consenso europeo in grado di determinare l’eventuale restringimento del margine di apprezzamento degli Stati (Resoconto curato da Sarah Lattanzi).
I diritti fondamentali si impongono nell’ordinamento nazionale e in quello europeo secondo direttrici difformi. Nell’esperienza nazionale i diritti fondamentali si affermano attraverso il varo della Costituzione, dove si avverte la preoccupazione di sottrarre alla maggioranza politica alcune posizioni giuridiche del singolo per farlo diventare un bagaglio irrinunciabile del sistema di socialità che alla base del progetto costituzionale.
Nella dimensione europea la tutela dei diritti fondamentali certamente non si rinviene nei trattati fondativi della comunità economica europea, ma sicuramente nell’opera della corte di giustizia, che ha elaborato un principio giuridico specifico. Questo è stato un modo di reagire all’operato delle Corti costituzionali che dinnanzi al principio di primazia del diritto comunitario e della possibile lesione di diritti fondamentali hanno elaborato la teoria dei controlimiti, in virtù della quale le Corti costituzionali nazionali si sono riservate di non applicare il diritto comunitario nel caso in cui questo violasse i diritti fondamentali.
Le modifiche apportate nel tempo ai trattati dimostra che l’Atto unico europeo del 1986 si limitava ad indicare nel preambolo la promozione della democrazia basata sui diritti fondamentali, mentre solo con il trattato di Maastricht del 1992 viene introdotta la prima norma, successivamente modificata dal trattato di Amsterdam e dal trattato di Lisbona, ossia l’articolo 6 TUE, che afferma la centralità della tutela dei diritti fondamentali. Per avere un elenco di diritti fondamentali occorre attendere la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000. Per molti anni, dunque, in assenza di un documento scritto ove fossero individuati, i diritti fondamentali hanno trovato tutela nell’ordinamento eurounitario solo attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia. Ciò si spiega con il fatto che la comunità europea non è solo composta da Stati, ma anche dagli individui che l’abitano e che reclamano tutela.
Ciò comunque ha determinato una particolare triangolazione tra giudici, dal momento che la stessa materia diviene oggetto di pronunce di tre distinti organi giurisdizionali, ossia la Corte costituzionale, la Corte di giustizia e la Corte europea dei diritti dell’uomo secondo trame di norme profondamente distinte. Infatti, mentre il contrasto della norma nazionale con la norma del diritto dell’unione europea determina la diretta disapplicazione della prima, il contrasto della norma nazionale con quella contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che è priva di effetto diretto nell’ordinamento nazionale, determina una situazione di illegittimità costituzionale dalla norma nazionale in forza del dettato dell’articolo 117 della Costituzione (TARANTINO).
Il controllo da parte della Corte di giustizia del rispetto dei diritti fondamentali avviene in tre casi: nei confronti degli atti delle istituzioni europee; nei confronti degli atti dell’istituzione degli Stati membri attuativi di un atto comunitario; nei confronti delle giustificazioni offerte da uno Stato membro su di una misura nazionale che si sospetta incompatibile con il diritto dell’unione.
La cosa più importante che qui va posta consiste nel fatto (Corte giustizia 26 febbraio 2013, C-617/10) che il diritto dell’unione europea non disciplina i rapporti tra Cedu e ordinamenti nazionali, né orienta l’interpretazione che il giudice nazionale deve seguire in caso di conflitto tra norma nazionale e Cedu. Pertanto, il meccanismo dei collegamenti tra diritti contenuti nella carta dei diritti fondamentali l’unione europea, diritti contenuti nella convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritti contenuti nelle tradizioni costituzionali degli Stati membri viene risolta dagli articoli 52 e 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Infatti, detta normativa stabilisce che laddove la presente carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato della portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione.
Afferma, inoltre, che, laddove la presente carta riconosca diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni. Inoltre, secondo l’art. 53, il livello di protezione offerta dalla carta non può essere inferiore a quello riconosciuto dalla Cedu o dalle costituzioni degli Stati membri.
Al contempo, la Corte di giustizia mantiene un ruolo di garante della tutela dei diritti fondamentali, evitando che una tutela differenziata dei diritti fondamentale da parte degli Stati membri ponga in crisi l’unità e la coerenza dell’ordinamento europeo. In questo senso, la tutela più incisiva concessa da uno Stato membro ad un diritto fondamentale può risultare contrastante rispetto al grado di tutela assicurato dal diritto dell’Unione e recessiva nella misura in cui pregiudica l’unità e il primato dell’effettività del diritto dell’unione. È utile ricordare che nell’ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017 della Corte costituzionale è stata rimessa alla Corte di giustizia la soluzione del contrasto tra primazia del diritto europeo e tutela di un diritto fondamentale consacrato nella Costituzione.
La risposta della Corte di giustizia contenuta nella sentenza 5 dicembre 2017, C-42/17, è stata nel senso di escludere la presenza di una tutela rafforzata all’interno dell’ordinamento nazionale in grado di infrangere la primazia del diritto dell’Unione europea. Ciò in quanto il principio di legalità dei reati e delle pene, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinazione e irretroattività della legge penale, trova base nell’articolo 49 della CDFUE e si impone agli Stati europei in quanto attuano il diritto unionale e poi riflette le tradizioni comuni agli Stati membri e ha identica portata rispetto alla corrispondente diritto garantita dalla convenzione EDU. Pertanto, lo stesso diritto europeo potrà essere applicato con prevalenza su quello nazionale solo se in grado di rispettare quel livello di tutela del diritto fondamentale che trova unica corrispondenza in tutti gli ambiti sopraindicati.
Ma quello che è più importante qui notare è che la conseguenza dell’adozione della carta fondamentale del 2000 è quella relativa al riconoscimento di una pari dignità ai diritti sociali rispetto alle altre categorie di diritti fondamentali, ossia quelli che si caratterizzano per un’attuazione che non necessita di un ruolo attivo da parte dello Stato. Con ciò si pone il tema della loro efficacia, sia pure nell’ambito delle competenze del diritto dell’Unione, e delle ricadute in termini di obblighi positivi in capo agli Stati membri. Anche tale questione va affrontata in base all’articolo 52 della carta fondamentale, che distingue tra diritti e principi, assumendo chiaramente che alcune norme della stessa non fondino diritti immediatamente giustiziabili, se non a fini interpretativi o di parametri di legalità, ma necessitante in prima battuta di una attuazione da parte del legislatore e degli organi esecutivi (TARANTINO).
Questa precisazione sembra orientata a porre i diritti sociali nell’ambito dei principi al fine di fronteggiare il pericolo avversato da alcuni Stati di una giurisdizionalizzazione delle proprie politiche pubbliche in settori particolarmente sensibili per i bilanci pubblici (TARANTINO).
In definitiva anche la Carta europea dei diritti fondamentali distingue tra diritti e principi. Tuttavia, la Corte di giustizia ha sempre scelto un approccio casistico al problema.
12. Il diritto sanitario durante la pandemia e il PNRR
La guerra contro il Coronavirus non è soltanto una lotta tra la scienza contro il nuovo e invisibile virus, ma è anche una battaglia di civiltà giuridica, ossia la riaffermazione di un nuovo volto del diritto alla salute, quello della solidarietà. È stata anche l’occasione per la riscoperta del valore della persona, e della sua dignità, in quanto tale (NOCCELLI).
In termini più espliciti, è venuto in rilievo il problema dell’ambito e dei limiti di tutela dell’essere umano, ossia della concezione che l’uomo ha di sé stesso e della propria identità. In tale materia si ha una perenne contrapposizione dialettica tra la concezione utilitaristica dell’uomo-massa o uomo-mezzo, ossia dell’utilitarismo statuale collettivistica, dell’utilitarismo maggioritario, ossia della maggiore felicità dei più (di matrice anglosassone) a scapito dei pochi o dell’utilitarismo individualistico-egoistico della maggiore felicità propria. A fronte di tali concezioni, vi è l’opposto principio della indisponibilità dell’essere umano, che subordina la liceità degli interventi sul medesimo ad un duplice ordine di limiti coessenziali, ossia i limiti oggettivi salvaguardati dai principi della salvaguardia della vita, dell’integrità fisica, della salute, della dignità umana, dell’eguaglianza e pari dignità dei soggetti umani e i limiti soggettivi segnati dal principio del consenso del soggetto.
La nostra Costituzione si fonda sul primato della persona umana e funzionalizza le consistenti componenti solidaristico sociali e la tutela dei beni mezzo sopraindividuali (della famiglia, della comunità, dello Stato amministrazione, delle istituzioni democratiche) alla salvaguardia dei beni fini della conservazione, della dignità e dello sviluppo della persona umana. C’è bisogno di stabilire una volta per tutte a quale persona e a quale “antropologia” fare riferimento, stante il pluralismo ideologico culturale della nostra società che genera talora radicali divergenze. Va, infine, segnalato come sia necessario riflettere molto sulla portata scriminante del consenso, che vede contrapposte le posizioni personalistiche o garantistiche a quelle utilitaristico-individualistiche fino a quelle egoistico-libertarie a sfondo nichilistico, contrabbandato talora come personalistiche, ma eccentriche rispetto all’autentico personalismo (MANTOVANI).
Abbiamo già detto dell’importanza della sentenza del Consiglio di Stato n. 7045 del 2021, che, pur riferendosi al tema delle vaccinazioni obbligatorie, essa contiene ineludibili principi a valere a livello più generale. Ad essa si può associare il parere della Commissione speciale, affare n. 1614/2017, estensore Carlotti, che, rispondendo al quesito posto dalla Regione Veneto se fosse o meno legittima la preclusione alla frequenza dei corsi scolastici a coloro che rifiutavano i vaccini obbligatori, ha fatto uso di concetti destinati ad avere poi una rilevanza planetaria, quali l’immunità di gregge e l’assenza del rischio zero in ogni trattamento sanitario.
Ad essi può farsi riferimento per una chiusura circolare di queste brevi considerazioni.
La riserva di scienza, alla quale il decisore pubblico, sia a livello normativo che amministrativo, deve fare necessario riferimento (nello specifico, nell’adottare le misure sanitarie atte a fronteggiare l’emergenza epidemiologica), «lascia a questo, per l’inevitabile margine di incertezza che contraddistingue anche il sapere scientifico nella costruzione di verità acquisibili solo nel tempo, a costo di severi studi e di rigorose sperimentazioni e sottoposte al criterio di verificazione-falsificazione, un innegabile spazio di discrezionalità nel bilanciamento tra i valori in gioco, la libera autodeterminazione del singolo, da un lato, e la necessità di preservare la salute pubblica e con essa la salute dei soggetti più vulnerabili, dall’altro, una discrezionalità che deve essere senza dubbio usata in modo ragionevole e proporzionato e, in quanto tale, soggetta nel nostro ordinamento a livello normativo al sindacato di legittimità del giudice delle leggi e a livello amministrativo a quello del giudice amministrativo.»
*Relazione tenuta a Ravello il 27 e 28 ottobre 2023 nell’ambito del Primo convegno della Giustizia Amministrativa, organizzato dal Consiglio di Stato, dal titolo “Protezione, garanzie e tutele in una società fluida, globalizzata e multilivello. Principi, diritti e interessi fondamentali.” Sono in corso di pubblicazione gli atti relativi.
Elenco delle opere dei principali autori citati:
- P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Milano 2000, edizione curata da G. P. Cirillo;
- M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano 1993;
- L. Tarantino, i diritti fondamentali al cospetto del giudice amministrativo, in Urbanistica e appalti, 2018;
- E. Scoditti, il riparto di giurisdizione: dalla separazione alla integrazione delle tutele, www.giustizia-amministrativa.it, 2019; Questioni di giurisdizione e diritti fondamentali, in Questione giustizia, 2023;
- M. Noccelli, La lotta contro il coronavirus e il volto solidaristico del diritto alla salute, in www..giustizia amministrativa 2021;
- A. Patroni Griffi, le regole della bioetica tra legislatore e giudici, E. S. 2016;
- F. Tigano, La responsabilità delle pubbliche amministrazioni tra scienza (diritto) e coscienza nell’ambito dei trattamenti sanitari, in Federalismi.it, 2017;
- M. D’Amico, Le questioni eticamente sensibili tra scienza, giudici e legislatore, scritti in onore del professor Silvestri, dal titolo “Scienza e diritti nella giurisprudenza costituzionale”, 2015 e Amministrazione creatrice ed esecutrice del diritto, in rivista AIC, 2018;
- M. Luciani, Il diritto costituzionale alla salute, in Diritto e società, 1980 e L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, Milano 2014 (Atti del seminario svoltosi a Roma il 22 novembre 2013);
- F. Patroni Griffi, Diritti fondamentali e giudice amministrativo nel sistema multilivello delle tutele, 27 giugno 2017, in www.giustizia-amministrativa.it;
- F. Mantovani, Diritto Penale, Delitti contro la persona, parte speciale, Cedam, 2015.