di Fabio Francario
*Sommario: 1.- L’incertezza dei precedenti interventi normativi. 2.- Brevi cenni alla disciplina dell’istituto nel nuovo codice. 3.- Le forme di ADR tradizionalmente ammesse in ambito pubblicistico: i ricorsi amministrativi e l’arbitrato. 4.- Il CCT come nuova e atipica forma di ADR concepita per assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera. 5.- Le chiare indicazioni del legislatore nel senso della creazione di nuova e atipica forma di ADR
1.- L’incertezza dei precedenti interventi normativi.
Quella del collegio consultivo tecnico è sicuramente una figura enigmatica.
Basti pensare, solo per fare due esempi, alla difficoltà di conciliare la tensione verso gli estremi del collegio arbitrale e, al tempo stesso, dell’organismo meramente consultivo o verso gli estremi, anch’essi antitetici, del requisito dell’indipendenza o del rapporto fiduciario richiesti ai suoi membri rispetto alle parti.
L’incertezza che caratterizza la figura trae origine in buona parte dall’attenzione discontinua e contraddittoria ad essa dedicata nell’ultimo decennio dal legislatore. L’istituto non rappresenta infatti una novità assoluta del nuovo codice. Ancor prima di essere riscoperto e rivitalizzato nell’ambito delle “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” e “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”, recate, rispettivamente, dal d.l. 16 luglio 2020 n. 76 e dal d.l. 31 maggio 2021 n. 77, l’istituto era stato già introdotto dall’art. 207 del previgente codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs 50 /2016 come istituto pre-contenzioso di carattere facoltativo “con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle dispute di ogni natura…”. Nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 21 marzo 2016, n. 855, sullo schema di decreto legislativo che sarebbe poi divenuto il d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, il Consiglio di Stato aveva però sollevato più di un dubbio sulla figura, soprattutto in ragione della mancata definizione dei rapporti con gli altri rimedi pre-contenziosi già esistenti, e ne aveva proposto la soppressione. Le osservazioni del Consiglio di Stato non erano state recepite dal Governo, ma l’istituto veniva poi soppresso con l’adozione del c.d. “decreto correttivo” (l’art. 207 del d.lgs. n. 50/2016 viene infatti abrogato dall’art. 121, comma 1, del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56). L’istituto rinasce però due anni dopo ad opera del decreto c.d. “sblocca cantieri”. L’art. 1, commi da 11 a 14, della l. 14 giugno 2019, n. 55, di conversione, con modificazioni, del d.l. 18 aprile 2019, n. 32, ne prevede la costituzione facoltativa su accordo delle parti, con le medesime funzioni di cui al codice dei contratti pubblici, ma in via temporanea, ossia fino alla data di entrata in vigore del regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice dei contratti pubblici, di cui all’art. 216, comma 27-octies, del codice. Differentemente da quanto originariamente stabilito dall’art. 207, comma 6 del d lga 50/2016, il quale disponeva che “se le parti accettano la soluzione offerta dal collegio consultivo…l’accordo sottoscritto vale come transazione”, il decreto sblocca cantieri prevedeva che “L'eventuale accordo delle parti che accolga la proposta di soluzione indicata dal collegio consultivo non ha natura transattiva, salva diversa volontà delle parti stesse” (art. 1, comma 13, terzo periodo, del d.l. n. 32/2019).
L’istituto viene pressoché interamente ridisciplinato nei suoi presupposti e nella funzione nell’ambito delle misure di semplificazione e di governance contemplate dai già citati d.l. 76/2020 e 77/2021, pensate per garantire il rilancio dell’economia nello scenario post pandemico e per assicurare il raggiungimento degli obbiettivi predefiniti, a livello comunitario, dal Next Generation EU (NGEU) e, a livello nazionale, dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa e l’attenzione del legislatore si è pertanto concentrata anche sulla necessità di approntare uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa nell’ambito delle misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano. L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, tutti convergenti nell’unica finalità di garantire, in un’ottica di risultato, la celere ed efficace conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni: rimozione del fenomeno dell’amministrazione “difensiva” e della c.d. “paura della firma”, previsione di meccanismi procedimentali sostitutivi e de - giurisdizionalizzazione della soluzione dei conflitti. Nella prospettiva della de-giurisdizionalizzazione viene appunto recuperato e disciplinato, in maniera fortemente innovativa, l’istituto del CCT, lasciando chiaramente intendere che, nelle intenzioni del legislatore, la figura dovrebbe assumere un ruolo assolutamente strategico nell’ambito delle misure di accompagnamento strumentali alla garanzia di realizzazione del PNRR perché destinata ad evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale, ritardando o compromettendo il raggiungimento dei risultati programmati.
2.- Brevi cenni alla disciplina dell’istituto nel nuovo codice.
La ricostruzione, anche se solo sommaria, dell’evoluzione della disciplina normativa dell’istituto è utile per comprendere quanto insito nel fatto che il nuovo codice in ultima analisi non ha fatto altro che generalizzare e mettere a regime il sistema originariamente pensato solo per accompagnare la realizzazione degli obbiettivi PNRR. Sistema già disegnato dagli articoli 4 e 5 del d. l. 76/2020, modificato e integrato dal d.l. 77/2021 e completato dalle linee guida predisposte dal Consiglio superiore dei lavori pubblici e approvate con d.m. Ministro delle infrastrutture e mobilità sostenibili del 17 gennaio 2022. L’istituto risulta infatti nevralgico per garantire la concreta attuazione del principio del risultato, declamato ed esaltato dal nuovo codice; ma con valore essenzialmente nomofilattico e destinato a rimanere mero flatus voci in assenza di strumenti concretamente operativi, tra i quali spicca il collegio consultivo tecnico, disciplinato negli articoli 215 e seguenti del Codice e oggetto di un apposito Allegato (V.2), specificamente dedicato a tale figura.
Che la figura rappresenti il più importante, se non l’unico vero strumento concretamente in grado di assicurare il risultato della realizzazione dell’intervento pubblico è presto dimostrato dall’essenza dell’istituto; ravvisabile nell’essere un organismo, composto da tecnici particolarmente autorevoli e specificamente qualificati, che diano garanzie di fiducia e al tempo stesso d’indipendenza rispetto alle parti, deputato ad accompagnarle nell’esecuzione del contratto, fin dal suo inizio e per tutta sua durata, con il compito di evitare l’insorgere o di spegnere sul nascere eventuali conflitti tra di esse, in modo tale che non venga compromesso il raggiungimento del risultato della realizzazione dell’intervento pubblico nei tempi previsti e a regola d’arte. Si tratta, com’è evidente, di svolgere un compito di mediazione e conciliazione permanente tra le parti, finchè dura l’esecuzione del contratto.
3.- Le forme di ADR tradizionalmente ammesse in ambito pubblicistico: i ricorsi amministrativi e l’arbitrato.
L’istituto risulta oggi codificato come un rimedio generale pensato per dirimere sul nascere, o comunque in corso di esecuzione del contratto, i possibili contenziosi tra committente e appaltatore che rischierebbero di pregiudicare l’esecuzione tempestiva e a regola d’arte del contratto di appalto, il che ne autorizza la naturale collocazione nell’alveo delle figure di ADR (Alternative Dispute Resolution) impiegate per le controversie in ambito pubblicistico.
La categoria delle ADR, com’è noto, è però molto elastica e la riconduzione in tale ambito può quindi significare tutto e niente, stante la irriducibilità delle ADR ad un modello unico. Al di là della radice comune dell’offerta di una “giustizia non giurisdizionale”, le varie forme di ADR non sono infatti riducibili a un’unica tipologia perché non sono un fenomeno unitario e sempre uguale a sé stesso. Se si guarda l’esperienza maturata nell’ambito della contrattualistica internazionale, ambito nel quale si origina la figura dei dispute boards per accompagnare l’esecuzione dei contratti di durata, si vede subito che sono presenti modelli molto diversi tra loro, che tendono a distinguersi a seconda che abbiano carattere aggiudicativo o assistenziale; a seconda cioè che siano diretti a risolvere una lite insorta tra le parti attraverso categorie assimilabili a quelle giudiziarie ovvero a comporre la controversia attraverso procedure di tipo conciliativo in ragione di criteri equitativi piuttosto che di giustizia. Talora con soggezione agli effetti della decisione, talora con libertà di aderire o meno alla proposta conciliativa. Ferme in ogni caso le garanzie di indipendenza, terzietà e professionalità dei membri, i dispute boards possono quindi formulare tanto pareri o raccomandazioni non vincolanti (Dispute Review Board – DRB), quanto possono assumere decisioni immediatamente vincolanti per le parti (Dispute Adjudicative Board – DAB).
La mancanza di un unitario modello di riferimento teorico alimenta sicuramente l’incertezza nell’inquadramento della figura, ma le maggiori difficoltà derivano soprattutto dai limiti che tradizionalmente condizionano l’ingresso nell’ordinamento pubblicistico di forme e strumenti di “giustizia non giurisdizionale” e che spiegano in buona parte anche l’ondivago e incerto orientamento mostrato nell’ultimo decennio dal legislatore nei confronti dell’istituto.
Per quanto non siano certamente ignoti al nostro sistema di diritto amministrativo, tali tipologie di rimedi sono infatti fortemente condizionate dal vincolo d’indisponibilità gravante sull’esercizio del pubblico potere finalizzato alla cura del pubblico interesse. Per tradizione, il ricordato vincolo d’indisponibilità porta a circoscrivere l’ambito delle ADR all’esperienza dei ricorsi amministrativi, rimedi a carattere decisorio in cui non viene però garantita la terzietà del giudicante rispetto alle parti, e a quella dell’arbitrato rituale, generalmente consentita nei soli casi in cui le questioni riguardino situazioni disponibili di diritto soggettivo.
I ricorsi amministrativi (in opposizione, gerarchico, gerarchico improprio e, volendo, ricorso straordinario al Capo dello Stato) vengono sempre decisi da organi amministrativi, ai quali l’interessato rivolge la sua domanda di giustizia. Non solo il decidente non è un vero giudice, terzo e imparziale, ma l’interessato non partecipa nemmeno alla formazione della decisione. Può solo “domandare” e la decisione viene presa, unilateralmente, dall’Amministrazione. Anche nel caso del CCT, la costituzione dell’organo non ha base negoziale, ma legale. La regola, per gli appalti sopra soglia, è che l’organo deve essere necessariamente costituito a iniziativa della stazione appaltante, che decide se il collegio debba essere costituito da tre o cinque membri. In caso di disaccordo sulla nomina del Presidente, la nomina è riservata alla parte pubblica ed è sempre la parte pubblica (stazione appaltante) a prendere unilateralmente la decisione quando l’istituzione è facoltativa (ante operam). E’ quindi un organo consultivo costituito per assicurare la realizzazione dell’interesse pubblico primario alla esecuzione dell’opera pubblica, che rende pareri obbligatori nelle ipotesi di sospensione di cui all’art. 121 del Codice e facoltativi in tutti gli altri casi. Pareri che, a seconda dei casi (808 ter c.p.c.), possono essere vincolanti o meno per la definizione di una controversia tra stazione appaltante e operatore economico. In alcuni casi, cioè, decidono (significativamente in tali casi le disposizioni usano la locuzione “determinazione” e non “parere”); in altri suggeriscono la decisione. E’ dunque un organo consultivo necessario, che però non rende solo pareri, ma può anche assumere vere e proprie decisioni. Se ci si fermasse a questa sola considerazione, il cumulo di funzioni consultive e decisorie non rappresenterebbe una novità assoluta nel nostro Ordinamento, dal momento che il sistema dei ricorsi amministrativi e della giustizia amministrativa più complessivamente considerata già ammette e tollera l’ipotesi che un unico soggetto (a cominciare dal Consiglio di Stato) possa cumulare esercizio di funzione giurisdizionale e consultiva.
Quanto all’arbitrato, la netta affermazione contenuta nell’art 12 c.p.a., secondo la quale “le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti cpc”, chiarisce sì che sono deducibili in arbitrato le sole controversie che riguardino situazioni (giuridiche soggettive) disponibili, ma non è tale da eliminare tutti i vincoli che l’operatività di questa forma di ADR incontra in ambito pubblicistico. Al di là dei vincoli modali derivanti dalle previsioni specificamente recate dall’art. 213 del Codice, bisogna comunque continuare a fare i conti con i limiti che in linea di principio derivano dal divieto di arbitrato obbligatorio (Cfr. Corte cost. 13 giugno 2018 n. 123 ) e dalla preclusione del ricorso all’arbitrato irrituale (ex multis v. Cass., Sez. III, 08 aprile 2020 n. 7759: “non basta richiamarsi alla natura privatistica degli strumenti negoziali adoperati per superare ogni possibile ostacolo all'utilizzabilità dell'arbitrato irrituale nei contratti della pubblica amministrazione. Certamente non v'è alcuna incompatibilità di principio tra la natura pubblica del contraente e la possibilità di un componimento negoziale delle controversie nascenti dal contratto stipulato dalla pubblica amministrazione. Ma resta il fatto che tale componimento, se derivante da un arbitrato irrituale, verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali, appunto) individuati all'interno della medesima logica negoziale, in difetto qualsiasi procedimento legalmente predeterminato e perciò senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità”). Il principio della libera disponibilità esclude dunque che, in assenza di una espressa volontà della parte, l’arbitrato possa essere reso obbligatorio per effetto di una norma di legge e il medesimo principio, per altro verso, non è però tale da giustificare anche che l’arbitrato si svolga nelle forme irrituali, perlomeno in assenza di una espressa previsione o disciplina di legge.
4.- Il CCT come nuova e atipica forma di ADR concepita per assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera.
La disciplina del CCT codificata dal d.lgs. 36/2023 introduce due significativi elementi di novità (o, forse, sarebbe meglio dire di vera e propria rottura) rispetto allo schema tipico dei ricorsi amministrativi o del giudizio arbitrale, pacificamente ammessi e noti in ambito pubblico come ADR.
Il primo si coglie con riferimento ai ricorsi amministrativi e consiste nella necessaria partecipazione, come componente dell’organo decidente, dell’operatore economico (rectius: di membri da questa nominati), e cioè della parte privata direttamente interessata. La decisione, parere o determinazione che sia, non viene presa più unilateralmente dalla sola amministrazione. Rispetto al sistema dei ricorsi amministrativi, s’introduce l’elemento della consensualità, in luogo della unilateralità, nella decisione sul ricorso (o nella resa del parere).
L’altro elemento di novità o di rottura si coglie invece con riferimento al giudizio arbitrale, dal momento che s’introduce la possibilità d’impiego della forma dell’arbitrato irrituale. La rottura rispetto all’impiego tradizionale del modello arbitrale non risiede certamente nel fatto che si introduce una forma di arbitrato obbligatorio, cosa che non avviene (è obbligatoria la costituzione del Collegio, non la decisione in forma arbitrale, che dipende pur sempre dalla concorde volontà delle parti); ma nel fatto che una norma di legge consente che dispute o controversie con una pubblica amministrazione possano essere decise anche a mezzo di un arbitrato irrituale. La previsione legislativa (cfr. All. V.2 del Codice e artt. 6 commi 2 e 3 del d.l. 76/20220) predetermina requisiti e modalità di scelta degli “arbitri” e delinea i tratti essenziali del procedimento, sottraendo entrambi i profili ad una assoluta libertà negoziale e superando con ciò le riserve più volte formulate dalla Corte di Cassazione e legittimando così l’ingresso della figura in ambito pubblicistico.
Si può dunque ritenere che si è di fronte ad una nuova e atipica forma di adr, risultante dalla contaminazione del rimedio giustiziale amministrativo con gli elementi tipici privatistici del consenso e della irritualità delle forme.
Correttamente inquadrato in questa prospettiva, si rivela subito come l’istituto non risulta pensato come misura semplicemente deflattiva del contenzioso, finalizzata ad evitare l’aggravio dei carichi di lavoro dei tribunali ordinari e a rinverdire la stagione dei giudizi arbitrali per accertare maggiori compensi o risarcimenti all’operatore economico. Al contrario, l’istituto è pensato proprio per rendere l’esecuzione del contratto impermeabile e insensibile alla lite, per evitare cioè che si originino situazioni contenziose che possano ritardare o pregiudicare la realizzazione dell’opera pubblica o che, una volta ultimata, possano aumentarne il costo finale secundum eventum litis. Risulta quindi espressamente concepito come strumento finalizzato ad assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera, facendo sì che le parti siano accompagnate e assistite, praticamente in tempo reale, nell’esecuzione del contratto da un organismo di mediazione e conciliazione permanentemente attivo, il quale non dà luogo ad un giudizio arbitrale (sia perché i tempi di decisione sono incompatibili con quelli di un giudizio arbitrale, sia perché non stabilisce post operamchi ha torto e chi ha ragione in ordine a pretese residue che possono far unicamente lievitare il costo di realizzazione senza che ciò possa aver più alcuna possibilità d’incidenza sui tempi e sulle modalità di realizzazione dell’opus), né tantomeno ad un arbitrato obbligatorio (perché obbligatoria, sopra soglia, è la costituzione del collegio, non anche il conferimento del potere di pronunciare lodi irrituali).
5.- Le chiare indicazioni del legislatore nel senso della creazione di nuova e atipica forma di ADR
Le indicazioni del legislatore nel senso della introduzione di una nuova e atipica forma di ADR in ambito pubblicistico sono chiare e nette.
Già nell’impianto delle disposizioni recate dai decreti semplificazione e governance PNRR del biennio 2020\2021 risulta evidente come la ratio normativa alla base dell’istituto sia quella di estendere in ambito pubblicistico una forma atipica di ADR, diversa dai ricorsi amministrativi e dall’arbitrato (oltre che della transazione e dell’accordo bonario), in modo da avere uno strumento in grado di garantire “la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto” e di “favorire, nella risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche eventualmente insorte, la scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, per non pregiudicare il raggiungimento degli obbiettivi individuati nel PNRR e nel NGEU. Sin dal primo impianto proprio dei decreti 76/2020 e 77/2021 si rende subito evidente come preoccupazione principale del legislatore non sia quella di scegliere un dato modello, piuttosto che un altro, ma di consentire l’ingresso del rimedio in ambito pubblicistico, raccogliendo nella figura modelli diversi e lasciando alle parti la scelta di adottare di volta in volta nel concreto di ogni singolo appalto, un modello aggiudicativo o consultivo, con conseguenti differenziazioni dei regimi giuridici in punto di natura ed efficacia giuridica delle decisioni e del collegio stesso.
Il nuovo codice è stato subito indirizzato dalla legge delega nella direzione della “estensione e rafforzamento dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in sede di esecuzione del contratto” (art. 1, c.2, lett. LL, l. 21 giugno 2022 n. 78). L’art. 215 onera il Collegio dell’onere di assumere comunque la “scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, svincolando sotto questo profilo la decisione dalla domanda delle parti, e qualifica esplicitamente la nuova figura come espressione di “attività di mediazione e di conciliazione”. L’art. 217 prevede espressamente la possibilità che, ricorrendo la volontà delle parti, la pronuncia possa assumere valore di lodo irrituale ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c.. L’art 3, quinto comma, dell’Allegato V.2 ripropone quasi pedissequamente la norma sulle spese processuali prevista per la mediazione civile dall’art 13 d.lgs. 28/2010 (“Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della determinazione del Collegio consultivo, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che non ha osservato la determinazione, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative alo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto”). I tempi di decisione non sono compatibili e nemmeno paragonabili a quelli di un giudizio arbitrale (cfr. art. 3, quarto comma, Allegato V.2)
Le indicazioni legislative sono dunque tutte chiaramente nel senso di vedere nel CCT un rimedio giustiziale operante in ambito pubblicistico, reso atipico dal fatto che la norma primaria di legge consente che dispute e controversie vengano risolte di comune accordo anche nelle forme dell’arbitrato irrituale, ponendo in essere un’attività espressamente qualificata come mediazione e conciliazione; con un pronunciamento che avviene quindi non necessariamente secondo diritto o con reciproche concessioni rispetto a domande formulate, ma seguendo una logica conciliativa che per sua natura (riprendendo l’espressione impiegata nella relazione illustrativa del d lgs. 4 marzo 2010 n. 28, recante “Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”) è volta alla “ridefinizione della relazione intersoggettiva in prospettiva futura”. La logica conciliativa impone di guardare al futuro e non al passato e di evitare che entrino in crisi la comunicazione e la collaborazione necessarie per garantire il raggiungimento del risultato finale atteso che, nel caso di specie del CCT, significa salvaguardare l’interesse alla realizzazione dell’opera pubblica a regola d’arte e nei tempi previsti: “l’attività di mediazione e conciliazione è comunque finalizzata alla scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte” (art. 215, secondo comma, secondo periodo, d.lgs. 36/2023).
Rimossi i limiti di forma e procedura altrimenti ostativi all’ingresso dello strumento in ambito pubblicistico, nella migliore tradizione delle ADR il legislatore mostra di essersi preoccupato essenzialmente di garantire l’efficacia e l’effettiva utilità della nuova figura.
Indicazioni bibliografiche
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*L’articolo riproduce il testo della relazione presentata al convegno “Il nuovo codice dei contratti pubblici. D. Lgs. 36/2023”, Milano 6 ottobre 2023.