Sommario: 1. le possibili definizioni della bellezza nella teoria generale e nel diritto positivo. - 2. Bellezza e cultura. - 3. Le diverse prospettive di inquadramento e il ruolo delle istituzioni e dei soggetti privati nella conservazione e diffusione della bellezza. - 4. Le diverse concezioni del paesaggio come depositario della bellezza. - 5. Il diritto al borgo e il diritto del borgo: tra bellezza perduta e bellezza trattenuta. - 6. Considerazioni finali.
1. Le possibili definizioni della bellezza nella teoria generale e nel diritto positivo.
Il titolo del convegno “diritto” e “bellezza” consente di giocare con le parole. E quindi i termini si possono variamente comporre: diritto alla bellezza, diritto della bellezza e bellezza del diritto, ad esempio quest’ultima rispetto alla bruttura delle leggi attuali; e che evoca la distinzione tra l’ordine dello ius e il disordine della lex.
Il diritto alla bellezza compare già da qualche tempo nella letteratura giuridica, dove si tende ad aprire il discorso sulla base della premessa che la bellezza è un concetto non racchiudibile in una formula definitoria certa, al pari della definizione di cultura. In realtà ciascuno di noi dentro di sé conosce gli effetti, definitivi o transeunti, dell’esperienza della bellezza, ma non sa dire cosa sia[1].
Questo per il giurista non è un gran male, visto che già nel diritto romano si avvertiva della pericolosità delle definizioni giuridiche. Accontentiamoci della empirica distinzione tra la bellezza soggettiva, legata al gusto di ciascuno, e la bellezza in senso oggettivo, come un insieme di elementi che se rispondono a dati canoni (ad es. armonia) fanno sì che l’oggetto dell’osservatore possa considerarsi ‘bello’. Inoltre il concetto di bellezza cambia a seconda del periodo storico preso in considerazione, nonché del luogo e della cultura del popolo che lo abita. Così come diverse sono le forme in cui essa si esprime, basti pensare alle arti, alle lingue, alla letteratura, al paesaggio e al bene culturale[2].
In ogni caso la definizione, tra quelle proposte, che più sembra soddisfare è quella che vede nella bellezza “la dimensione antropologica fondamentale per la realizzazione personale dell’individuo e per lo sviluppo complessivo della società”[3]. Tale definizione postula l’esistenza di una dimensione individuale e una dimensione collettiva della bellezza.
Quindi se ne devono occupare il diritto privato e il diritto pubblico.
È utile ricordare che il diritto è morfologia della prassi e persegue fini pratici, per cui si prescinde dalle concezioni filosofiche e dalla logica astratta. Questo ci consente di affermare che al centro del sistema che alla bellezza, direttamente o indirettamente, si richiama, si pone l’attività giuridica delle persone fisiche e dei poteri pubblici e privati.
Il diritto soggettivo, ma anche l’interesse legittimo, sono entrambi delle categorie storiche con cui il giurista vuole indicare un interesse materiale giudicato meritevole dall’ordinamento (art. 1322 cod. civ.), che lo delaicizza, dandogli protezione giuridica. Ad esempio, ed è particolarmente calzante, l’art. 12 del Codice dell’ambiente e del paesaggio, espressamente contempla la verifica dell’‘interesse culturale’ da parte del Ministero dei beni culturali.
Non si rinvengono norme che espressamente contemplino un diritto individuale o collettivo alla bellezza.
La Costituzione, all’art. 9, anche nella versione recentemente riformata, non usa il vocabolo ‘bellezza’, nonostante abbia dato dignità altissima a concetti provenienti dalle dottrine ecologiste, come l’ambiente, le future generazioni, lo sviluppo sostenibile e gli animali. Parimenti il riformato art. 41 -nell’inserire, accanto all’utilità sociale, la salute, l’ambiente, la sicurezza, la libertà e la dignità umana, quali nuovi limiti all’iniziativa economica privata- non stabilisce espressamente che l’iniziativa economica non deve andare a detrimento della bellezza delle cose e dei luoghi.
Tuttavia se lo si guarda alla luce della tutela della bellezza, per come cercheremo di definirla, gli si fornisce il vero senso di come debba essere interpretato, ossia non solo come una disposizione che impone di tutelare e valorizzare cose culturali, ma anche di salvaguardare l’interesse dei consociati a trarre da essi gli effetti emozionali che solo la bellezza può dare. Inoltre la collocazione nella medesima disposizione della promozione della cultura, unitamente alla ricerca scientifica e tecnica, tutela non solo la bellezza che deriva da ciò che è stato, ma anche quella che deriverà da ciò che sarà.
Il vocabolo ‘bellezza’, di cui già parlavano le giustamente famose leggi Bottai del 1939 ma anche la legge Croce n. 778 del 1922, compare a più riprese nell’art. 136 del d. l.vo 22 gennaio 2004, n. 42 (il già ricordato codice dei beni culturali e del paesaggio), laddove nello stabilire i criteri per l’individuazione dei beni paesaggistici, usa espressioni come ‘cospicui caratteri di bellezza naturale, ‘non comune bellezza’ e ‘bellezze panoramiche’.
A livello comunitario, va ricordata la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società (Convenzione di Faro, dalla città portoghese dove è stata stipulata il 27 ottobre del 2005, sottoscritta dall’Italia nel 2013 e finalmente ratificata con la legge 1 ottobre 2020, n. 133). In forza di essa si riconosce che “il diritto al patrimonio culturale è inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” affermando altresì “una responsabilità individuale e collettiva nei confronti del patrimonio culturale”. Inoltre stabilisce che “la conservazione del patrimonio culturale, ed il suo uso sostenibile, hanno come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità della vita” e che “il patrimonio culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”. Infine “l’esercizio del diritto al patrimonio culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altri diritti e libertà”.
Quindi i dati normativi immettono direttamente l’interprete nel campo cui rinvenire un possibile diritto alla bellezza, ossia i beni culturali e il paesaggio, nonostante l’assorbimento di quest’ultimo nell’ambiente latamente inteso. Con l’avvertenza che il diritto alla bellezza delinea un campo più largo.
2. Bellezza e cultura.
Fare della bellezza l’oggetto di un diritto postula l’esigenza di individuare, oltre al già visto interesse protetto, sia i soggetti che ne sono titolari sia il suo contenuto; il che poi consente di classificarlo tra le varie tipologie dei diritti, individuali sociali dominicali personali di godimento e così via.
Il punto nodale è stabilire il rapporto tra cultura e bellezza, che non sembrano essere la stessa cosa, a meno che non si voglia ritenere che vi sia una perfetta identità per cui la bellezza sarebbe sinonimo di cultura e viceversa. E così il discorso si potrebbe chiudere, concludendo che la bellezza sia l’espressione enfatica “del diritto al patrimonio culturale”, che è l’unico diritto che viene contemplato dai testi normativi sovranazionali. In effetti il patrimonio culturale è naturalmente predisposto ad attivare il sentimento della bellezza.
Si è già fatto cenno all’elemento comune, ossia l’indeterminatezza di entrambi i concetti. Non pochi anni fa, nell’occuparmi della cultura nell’ordinamento giuridico interno ed europeo, e in particolare di come i poteri pubblici l’avessero da sempre assunta tra le proprie finalità essenziali, si arrivò alla conclusione che fosse vero quanto autorevolmente sostenuto da Giannini, ossia che un testo normativo non può adottare predefinizioni o nozioni extragiuridiche totalizzanti. Sicché esso “non può che accettare una nozione del tutto empirica di cultura, ossia quella espressa dalla locuzione di complesso di manifestazioni della vita intellettuale”[4].
Tuttavia delle varie nozioni che mi capitò allora di leggere quella che più si avvicina all’essenza della definizione l’ha fornita Giovanni Paolo II, ossia che “la cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo”[5].
Quindi entrambi i concetti impingono nella dimensione antropologica fondamentale dell’individuo, di cui si è detto. Bellezza e cultura si saldano nell’immanente umanità dell’uomo.
Si può azzardare l’ipotesi che l’ambito occupato dalla cultura sia più ampio rispetto a quello occupato dalla bellezza e che la prima è in funzione, non esclusiva, della seconda. La cultura della persona deve contenere in sé anche la predisposizione a fruire della bellezza del mondo che ci circonda, poiché essa realizza appieno le parti più profonde della personalità e quindi dell’intera società umana (art. 2 della Costituzione).
In questo processo un ruolo fondamentale deve essere svolto dall’educazione scolastica e familiare, che non può limitarsi a sviluppare solamente le facoltà conoscitive della persona, ma anche quelle emotive. In altri termini deve educare anche alle sane emozioni derivanti dalla bellezza, aggiungendo così vita alla vita. Questo entra in connessione con “l’altrove”, ad esempio, della grande poesia leopardiana (oltre la siepe). Ma pare che tutti i veri poeti in quanto tali siano calati nell’altrove (ivi compresa la vita o il nulla che verranno dopo la morte), che è la dimensione naturale della poesia.
E le istituzioni culturali, pubbliche e private, debbono rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo sincronico della mente e del cuore della persona (art. 3 della Costituzione). Se esiste, come sembra, un diritto al patrimonio culturale (ossia alla bellezza che da esso deriva) esiste anche la responsabilità di ciascun individuo e dei poteri pubblici e privati qualora esso venga in vario modo pregiudicato[6].
Dalle considerazioni svolte pare che il contenuto del diritto alla bellezza sia costituito dal patrimonio culturale (in cui la stessa legge include anche il paesaggio) identificativo della storia e della civiltà di un popolo e che sicuramente provoca, in maniera quasi naturale secondo l’ordinamento, in chi ne goda l’emozione della bellezza. Tuttavia, come avvertito, il diritto alla bellezza ha una portata più ampia, ossia ha una vocazione universale, visto che ciascuno può rinvenire il sentimento della bellezza ovunque essa si trovi, pretendendone rispetto.
3. Le diverse prospettive di inquadramento e il ruolo delle istituzioni e dei soggetti privati nella conservazione e diffusione della bellezza.
Ma torniamo al terreno più sicuro del sistema legislativo.
Come per la cultura e la scienza, l’ordinamento giuridico prende in considerazione la bellezza almeno da tre angolature diverse: la prima, in cui cerca di definire e delimitare gli ambiti di operatività degli apparati pubblici rispetto all’attività che prende in considerazione l’interesse, appuntato sui beni culturali e il paesaggio, alla bellezza; il secondo, in cui tenta di proteggere tutto ciò che è depositario di bellezza, regolandone lo scambio e la fruizione, secondo trame molto complesse; il terzo, in cui, partendo dalla naturale vocazione universale della bellezza, tenta di radicare una sorta di diritto collettivo alla fruizione delle bellezze. Sicché tutto ruota intorno ai tre protagonisti di siffatte attività, ossia l’apparato pubblico, l’operatore e i movimenti culturali, il fruitore dell’attività culturale in senso lato.
In questa sede, si può solamente osservare come la Costituzione (art. 118, 4 comma), laddove stabilisce che “Stato, Regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”, privilegia la sussidiarietà orizzontale rispetto a quella verticale. Apre così alla partecipazione dei privati nell’amministrazione dei beni culturali, naturalmente predisposti a produrre bellezza, fornendo una importante direttrice nella valorizzazione del patrimonio culturale, che va oltre il confine dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”, di cui tanto si discuteva negli ambienti ministeriali degli anni ’90 (si pensi che allora il prezzo del biglietto per entrare nei musei era considerata una tassa). È utile ricordare l’art. 151, comma 3, del codice dei contratti pubblici del 2016, che non pare toccato dalla imminente riforma del settore, consente di attivare forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici per ottenere il recupero, il restauro e la manutenzione programmatica dei beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate.
Vi è una chiara scelta di garantire le libertà sociali, che debbono sopravvivere ai criteri rigidamente economicistici talvolta imposti dalle pubbliche amministrazioni. Non va tuttavia dimenticato che anche il diritto sociale alla bellezza ha dei costi e che i cittadini debbono essere educati a sopportare il ricorso alla fiscalità generale per garantire tale diritto, che non ha una dignità inferiore agli altri diritti fondamentali della persona[7].
Alla fine anche questo implica l’esercizio di una cittadinanza attiva e inclusiva. A tal proposito è utile segnalare come il problema dell’accoglienza e dell’inclusione nel suo rapporto con la cittadinanza non è estraneo al tema della bellezza, data la sua portata universale basata su un concetto metagiuridico quale l’humanitas. Studiosi autorevoli del diritto romano hanno a lungo dibattuto il tema se la struttura della civitas avesse carattere escludente o includente presso l’Impero romano[8].
Da parte degli studiosi più attenti viene segnalata la necessità di istituire un vero e proprio sistema nazionale per la bellezza[9], che vede protagonisti i soggetti pubblici e privati, che possono utilizzare gli schemi organizzativi previsti dal diritto pubblico dell’economia. Una più meditata attenzione da parte del legislatore andrebbe rivolta alle attività culturali e dello spettacolo, ivi compresi i luoghi frequentati in passato da uomini di cultura (si pensi alle trattorie storiche), la cui disciplina è rimasta fuori dal codice dei beni culturali e del paesaggio, che si distacca dalle dizioni contenute in precedenti testi normativi, dapprima il d.P.R. n. 616 del 1977, indi l’art. 148 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, abrogato dallo stesso, che presentavano aperture anche verso beni immateriali, inserendo in un unico elenco tanto i “beni culturali”, quanto le “attività culturali”, intendendosi per tali quelle “rivolte ad affermare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte” (lettera f): ne emerge una certa incertezza sul piano della sistemazione concettuale.
In questo possibile disegno i beni culturali, il paesaggio e tutto quanto possa contenere in sé l’interesse alla bellezza sono da considerarsi beni comuni, che sfuggono alla logica dominicale e vanno considerati per il loro valore d’uso. Tanto più che i beni comuni sono stati attratti dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’alveo degli artt. 2 e 3 della Costituzione; e quindi sono strumenti per la realizzazione della personalità umana e tutti debbono potervi accedere[10].
4. Le diverse concezioni del paesaggio come depositario della bellezza.
Il tema prescelto impone alcune brevi considerazioni sul paesaggio.
Esso viene incluso dal Codice sui beni culturali e del ‘paesaggio’ (appunto), al pari del Testo unico del 1999, nel patrimonio culturale, nel quale dunque rientrano (art. 2) “gli immobili e le aree indicati all’art. 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge”.
In attuazione dell’art. 9 della Costituzione e sulla scia della Convenzione europea del paesaggio (20 ottobre 2000), il codice individua l’oggetto della tutela e della valorizzazione nel “paesaggio”, termine con il quale si intende “il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle reciproche interrelazioni” (art. 131). E tale tutela è relativa “a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.
Dalle espressioni usate dal legislatore risulta evidente il passaggio dall’originaria impostazione estetizzante delle leggi del 1939 a quella attuale, dove diventano centrali i valori che il paesaggio esprime quali “manifestazioni identitarie percepibili” per arrivare poi, a seguito della modifica dell’art. 131 del codice nel 2008, alla nozione di paesaggio come “identità estetica dei luoghi, che siano lo specifico “carattere distintivo” di quel territorio.
Nell’attuale dibattito dottrinario si tende a distinguere la categoria dei beni paesaggistici (aree naturali caratterizzate da singolarità geologica; aree ecologiche di particolare rilievo naturalistico; paesaggi artificiali) da quella dei beni di tipo urbanistico (comprendente le strutture urbanistiche “urbane” ma anche delle campagne). Va da sé che la prima categoria, in cui risultano evidenti le concezioni delle leggi della prima parte del secolo scorso, per fortuna continua ad avere un suo contenuto e la legge non può che andare nel senso della sua conservazione. Tuttavia, per numero e importanza, la seconda categoria è diventata centrale poiché essa costituisce la forma del territorio creata dalla comunità umana che vi è insediata ed evoca la continua interazione della natura e dell’uomo, come forma dell’ambiente. Sicché la conservazione e la tutela riguardano lo stesso ambiente naturale così come modificato dall’uomo, che è intervenuto nelle varie epoche storiche sull’intero territorio nazionale, per cui si rende necessario individuare quali parti dell’opera modificativa dell’uomo siano espressioni delle civiltà che si sono succedute, che poi sembrano ridursi, ma non è poco, alla civiltà contadino-artigianale e a quella industriale. E il criterio che si ispira alla bellezza può essere una guida infallibile in tale opera di identificazione.
Nell’alveo del paesaggio vanno ricondotti anche la flora e la fauna poiché anch’esse concorrono a formare l’ambiente in cui vive e agisce l’uomo.
In conclusione, sembra sia prevalsa la concezione socio-antropologica del paesaggio da includere nell’ambiente, soprattutto per effetto degli studi da tutti apprezzati di Alberto Predieri[11]. Tuttavia la legge non ha dimenticato le bellezze naturali delle leggi del 1939, da conservare e godere. Però è penetrata nelle dottrine e nella giurisprudenza l’idea che paesaggio da custodire e valorizzare sia tutto ciò è stato costruito dagli uomini e che il trascorrere del tempo storico l’ha reso espressivo di un mondo che non c’è più, ma che è ancora in grado sia di raccontare la piccola e la grande storia dei singoli e delle comunità sia di emozionare i contemporanei, che è poi l’essenza della bellezza. In altri termini la bellezza non è solo contemplazione estatica dei luoghi e delle cose, ma soprattutto un modo di vivere.
5. Il diritto al borgo e il diritto del borgo: tra bellezza perduta e bellezza trattenuta.
In questo quadro si inserisce il diritto al borgo.
I diritti sociali nascono da un bisogno che chiede di essere soddisfatto.
Nel nostro caso sia il bisogno sia il diritto sono dati “dalla situazione sulla base della quale i cittadini delle aree interne intendono riscattarsi dalla loro precaria condizione di vita locale rivendicando la pari dignità con le aree più sviluppate, nell’ottica di riappropriarsi della città, dei suoi spazi comuni oramai abbandonati, dei sui luoghi di aggregazione non più frequentati, delle bellezze culturali trascurate; diritto, questo, la cui duplice dimensione allo stesso tempo, soggettiva e collettiva, ha finito per trascendere ad uno stadio in qualche modo più oggettivo, riferendosi ad una condizione che più che riguardare l’individuo in se, ha preso di mira il luogo in cui la comunità insediata, facendo sì che dal ‘diritto al borgo’ si passasse al ‘diritto del borgo’, chiaramente calibrato sui piccoli centri urbani di periferia. Così, partendo dalla posizione sociale e giuridica degli individui, si è preso atto del fatto che il centro di imputazione degli effetti delle iniziative intraprese non dovesse più essere il cittadino in sé ma il luogo in cui si dispiega la sua personalità, nella consapevolezza che tutelando le esigenze emergenti dei piccoli borghi si accorderebbe comunque protezione, seppur di riflesso, alla comunità insediata. In questa direzione, dunque, il ‘diritto al borgo’ si traduce in una sorta di diritto ad esistere e a contare nello scacchiere territoriale italiano, il che implica l’adozione di una serie di attività volte ad assicurare la rivitalizzazione e la rigenerazione, seppur in sintonia con i valori ambientali e culturali territorialmente espressi e le insite prospettive di turismo”[12].
Si è voluto riprodurre fedelmente la felice definizione del diritto al borgo rinvenuta nell’interessante approfondimento di Di Mauro per la sua precisione e completezza.
In esso si avverte l’eco del c. d. diritto alla città, di cui si parla la New Urban Agenda, firmata a margine della terza Conferenza delle Nazioni Unite sulle città sostenibili e gli insediamenti urbani, tenutasi a Quito il 7 ottobre 2016, in cui si fa riferimento all’uguaglianza nell’uso della fruizione delle città e gli insediamenti urbani da garantire a tutti gli abitanti, presenti e futuri, senza discriminazioni.
Anche se non si può non segnalare il momento terribile che stanno attraversando i centri storici delle nostre città, che è quello “delle saracinesche abbassate, delle insegne luminose spente, dei vetri appannati e degli scatoloni accatastati”[13].
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, è utile ricordare che dottrina autorevole[14] suddivide i borghi italiani in tre categorie a seconda del diverso processo di antropizzazione che li ha caratterizzati, ossia gli insediamenti storici intrappolati nell’espansione edilizia e nell’agricoltura industrializzata; gli insediamenti storici abbandonati per ragioni naturali (si pensi alla bellissima Roscigno vecchia nel Cilento); i nuovi centri abitativi trasfigurati dal recupero omologante del turismo.
Le caratteristiche comuni di tutte e tre le tipologie sono spesso costituite dal deterioramento del patrimonio abitativo, dal degrado e dall’incuria manutentiva del patrimonio storico artistico, dall’impoverimento del tessuto produttivo, dall’isolamento e lo spopolamento.
Dagli studi dell’Istat (rapporto sul territorio del 2020) i comuni ricompresi nelle aree interne sono pari al 51,4% del totale e rappresentano il 21,9% della popolazione e circa il 60% della superficie nazionale. Si registrano alti livelli di spopolamento e fragilità demografica. Il numero delle persone che vivono stabilmente nei comuni delle aree interne si è ridotto di circa 250.000 unità e l’indice di vecchiaia del 2019 è superiore alla media nazionale in tutte le ripartizioni, con un picco nel nord-ovest. Questo è la conseguenza sia dell’aumento della popolazione anziana, sia della diminuzione di quella giovanile, aggravando lo squilibrio generazionale e minando la sostenibilità della popolazione.
Bisogna riconoscere che vi sono state varie iniziative normative per risolvere la questione delle aree interne del paese. Forse quella dove si rinviene la maggiore consapevolezza del problema riguarda il Piano di ripresa e resilienza (PNRR), che ha tentato di cogliere l’occasione per rilanciare e sviluppare il programma Next Generation Eu (NGEU) dell’Unione Europea, con la mobilitazione di circa 2,1 miliardi di Euro nei prossimi cinque anni. A riprova che i piccoli borghi sono considerati centrali nell’economia territoriale italiana.
Esso è in linea con le iniziative legislative degli ultimi anni. Le più importanti sono state: a) la fondamentale legge “piccoli comuni” o “salva borghi” (L. n. 158/2017) per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni e per la riqualificazione e il recupero dei centri storici; b) le politiche di coesione attuate dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne; c) le politiche del Ministro della cultura che ha istituito nel 2017 l’Anno dei Borghi; d) le numerose leggi regionali in materia urbanistica.
Il PNRR ha anche previsto alcune misure specifiche in tema di rigenerazione sociale e culturale dei piccoli siti storici, con l’obiettivo di arginare il fenomeno di marginalizzazione delle aree interne e di correggere i flussi turistici in atto. È importante sottolineare come i flussi turistici debbono assumere nuove forme (c. d. turismo culturale) teso a valorizzare molti altri luoghi pressoché sconosciuti ma che hanno un grande valore culturale, senza impoverire quelli più frequentati.
Diffondere la cultura dei piccoli borghi storici significa attrarre flussi turistici, che a sua volta produce sviluppo economico, ossia nuove iniziative imprenditoriali e creazione di nuova occupazione.
Le dottrine urbanistiche però insistono sulla necessità di coordinare le attività, sviluppando la leale collaborazione tra i diversi livelli territoriali di governo nella decisione ed attuazione degli interventi da realizzare, senza dimenticare il coinvolgimento delle comunità territoriali di riferimento. Questo era mancato nell’attuazione della ricordata legge sui piccoli borghi (la già richiamata L. n. 158/2017), che non prevede un particolare coinvolgimento delle autonomie locali nella fase decisoria.
È importante ricordare come sia necessario promuovere la più ampia partecipazione dei privati sia nella fase della progettazione sia in quella della esecuzione, in attuazione dei ricordati artt. 118 della Costituzione e della Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società umana.
Si sono volute fornire queste disordinate e molto parziali informazioni al fine di poter dare una certa sostanza al diritto al borgo, che alla luce di quanto esposto all’inizio diventa una sorta di meta-diritto o di diritto-meta, come pure è stato segnalato in dottrina.
Va da sé che se l’altrove è anche uno spazio giuridico, il borgo, proprio per il particolare regime che ne connota i tratti, si inserisce a pieno titolo tra quelle cose che il diritto deve proteggere, favorendo la dimensione emozionale e sentimentale delle persone che in qualche modo si sentono coinvolte.
In altri termini anche tale diritto, alla luce del riformato art. 9 della Costituzione, si inserisce appieno nel diritto alla bellezza e ne costituisce una declinazione importante. E questo proprio perché ha una valenza sociale e individuale al tempo stesso. Infatti anch’esso consente di considerare in maniera unitaria il passato il presente e il futuro. Nel passato rientra il patrimonio artistico e storico, nel presente il paesaggio l’ambiente la biodiversità e l’ecosistema, nel futuro la cultura la ricerca tecnico-scientifica e le future generazioni.
6. Considerazioni finali.
Le conclusioni che si possono trarre, per fermarsi al diritto al borgo, non possono che avere ad oggetto la pluralità dei bisogni che ne costituiscono il fondamento. C’ è il bisogno di coloro che sono restati, quasi mai per scelta; il bisogno di coloro che sono andati via senza mai dimenticare il teatro della loro giovinezza, e che vorrebbero tornare per poco o per sempre (si parla di “turismo delle radici”); il bisogno di chi, stanco della vita estraniante della grande città, vorrebbe vivere in un piccolo borgo che però non sia un museo delle porte chiuse, come è stato definito l’attuale stato dei paesi[15], bensì un luogo di armonia e bellezza. Per soddisfare questo bisogna costruire una economia locale che dia lavoro e possibilità di scambio culturale; cosa sempre più difficile nell’economia globale, che è sempre più omologante. L’omologazione tende a distruggere la bellezza, poiché, annullando le differenze create dalla storia, elimina la diversità di ciascuno di noi che deve esserci nonostante si viva lo stesso tempo storico.
L’imperatore Adriano si sentiva responsabile della bellezza del mondo. Gli attuali governanti debbono quantomeno sentire che la rigenerazione dei piccoli borghi è una necessità storica per la valorizzazione attiva di una parte fondamentale del nostro patrimonio storico-culturale e per contribuire a restituire a tutti noi una vita più umana.
*Relazione tenuta al convegno “Diritto e Bellezza. Verso l’altrove”, VII dialogo tra giuristi, Ravello, 23-24 marzo 2023. Nelle more della pubblicazione degli atti del convegno, la Rivista anticipa la pubblicazione del presente scritto per gentile concessione dell’Autore.
[1] Agostino, Le confessioni, 14-17, dove il concetto viene espresso a proposito del tempo. Ma si veda anche C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017, dove la nozione del tempo diventa un fatto scientifico concreto.
[2] A proposito dell’arte, si veda V. Trione, L’opera interminabile. Arte e XXI secolo, Milano, 1983, 2019.
[3] La definizione è di M. A. Cabiddu, Diritto alla bellezza, in Rivista AIC, fasc. n. 4, 2020, p. 368. Sulla medesima scia si muove il volume A.A. V.V. Le arti e la dimensione giuridica, curato da O. Roselli, Bologna, 2020. Per il rapporto del diritto con la musica si veda il classico S. Pugliatti, L’interpretazione musicale, Messina, 1938, ma anche il recente E. Picozza, Scritti vari su musica e diritto, E. S. 2022. Il rapporto tra diritto e letteratura è indagato nella trilogia, Giustizia e letteratura, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A Visconti, Milano, voll. I, II e III 2012-2014-2016.
[4] Si vedano i fondamentali scritti di M. S. Giannini, I beni culturali, in Riv. Trim Dir. Pubbl., 1976, p. 1026 e Sull’art. 9 della Costituzione, in Scritti in onore di A. Falzea, II, Milano, 1991, p. 435. ss; F. Santoro-Passarelli, I beni della cultura secondo la Costituzione, in A.A.V.V.. Studi per il XX anniversari dell’Assemblea Costituente, II, Firenze, 1969, 430 ss. Per una visione d’insieme con la scienza e la tecnica, G. P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Cedam, II edizione, 2021, p. 358-373.
[5] Discorso tenuto all’Unesco a Parigi il 2 giugno 1980, sviluppando concetti già contenuti nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, artt. 53-62).
[6] M. Luciani, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in Astrid Rassegna, n. 3, p. 1673 ss.
[7] Si rinvia alle interessanti considerazioni svolte da I. Baldriga, Diritto alla bellezza. Educazione al patrimonio artistico, sostenibilità e cittadinanza, Le Monnier Università, 2018.
[8] A. Palma, Civitas Romana, civitas mundi. Saggio sulla cittadinanza romana, Giappichelli, 2020, p. 57; In senso opposto G. Valditara, Civis Romanus sum, Torino, 2018.
[9] M. A. Cabiddu, op. cit., p. 383 ss.
[10] G.P.Cirillo, op cit, p. 342 ss.
[11] A. Predieri, Urbanistica, Tutela del paesaggio, Espropriazione, Milano, 1969, p. 152 ss.; G. Berti, Problemi giuridici della tutela dei beni culturali nella pianificazione territoriale regionale, in Riv. Amm. Rep. It, 1973, p. 619 ss.; P. Carpentieri, Paesaggio, urbanistica e ambiente. Alcune riflessioni in occasione del centenario della legge Croce n. 778 del 1922, in WWW. Giustizia amministrativa.it.; G. Montedoro, La concezione crociana del paesaggio, in corso di pubblicazione, per i tipi della Editoriale Scientifica, in un volume a cura del Prof. Iannello. Ma sul tema esiste una letteratura assai vasta.
[12] Biagio G. Di Mauro, Il diritto dei borghi nel PNRR: verso una stagione di rigenerazione urbanisticamente orientata alla conservazione e allo sviluppo dei valori locali, in Urb. e Ap. n. 4/2022, p. 458-471.
[13] W. Veltroni, Le nostre città da curare, in Corriere della Sera del 10 marzo 2023. Peraltro, come già scriveva lo studioso risorgimentale, antesignano del federalismo, Carlo Cattaneo nella sua opera del 1858, “La città considerata come principio ideale delle istorie italiane”, “Talora il territorio rigenera la città distrutta”.
[14] P. L. Cervellati, La sorte dei piccoli centri storici: abbandonati, trasfigurati, turisticizzati. Minori e maltrattati, in Bollettino Italia Nostra, 2009 p. 445: Si veda anche il più recente G. A. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Editoriale Scientifica, p. 219 ss., dove si ritiene che la rigenerazione urbana sia l’unica alternativa sostenibile al consumo di suolo.
[15] F. Arminio, Museo delle porte chiuse, comunitaprovvisoria.wordpress.com.