Sull’appellabilità dell’ordinanza pronunciata sulla richiesta di accesso documentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2023, n. 4)
di Clara Napolitano
Sommario: 1. I fatti processuali e il principio espresso dalla Plenaria. – 2. Fondamento del principio: la natura decisoria dell’ordinanza ex art. 116, co. 2, c.p.a. – 3. Questioni collaterali: la «connessione» dei documenti oggetto della richiesta al giudizio in corso. – 4. Effettività della tutela, doppio grado di giudizio e principio di legalità processuale.
1. I fatti processuali e il principio espresso dalla Plenaria.
Il Supremo Consesso del Consiglio di Stato si esprime sull’appellabilità dell’ordinanza che si pronuncia in merito alla richiesta di accesso documentale inoltrata nel corso del giudizio ex art. 116, co. 2, c.p.a.
Qui di seguito i fatti della controversia che ha sollecitato l’intervento della Plenaria.
Nel 2020 la Consob[1] approva il regolamento del personale; la relativa delibera è quindi impugnata innanzi al Tar Lazio da alcuni avvocati appartenenti all’ufficio “consulenza legale” della Commissione, nella parte relativa al mancato adeguamento del trattamento giuridico ed economico, nonché dell’ordinamento delle carriere degli avvocati interni rispetto a quanto previsto dalla l. 31 dicembre 2012, n. 247[2] sull’ordinamento professionale forense e dall’ordinamento delle carriere degli avvocati della Banca d’Italia.
Nell’ambito del giudizio di annullamento, i ricorrenti propongono richiesta di accesso documentale ex art. 116, co. 2, c.p.a., finalizzata alla ostensione di tutti i documenti amministrativi afferenti al regolamento del personale e concernenti il profilo del trattamento economico, ivi compresi verbali delle riunioni di Commissione nei quali il tema è trattato; corrispondenza interna intercorsa tra le Unità organizzative della Consob; corrispondenza intercorsa tra la Consob e gli Ordini professionali. L’esibizione documentale – tematicamente limitata all’adeguamento del trattamento economico – è dichiaratamente funzionale alla difesa nel giudizio principale già incardinato.
A questa richiesta la Consob risponde con parziale reiezione, limitando l’ostensione alla sola corrispondenza intercorsa con gli Ordini professionali e negando, viceversa, l’accesso alla restante documentazione richiesta, ritenuta «connessa all’esercizio di potestà normativa» – tale intendendosi l’adozione del regolamento del personale – e, pertanto, non accessibile in forza dell’art. 24, co. 1, lett. c), l. n. 241/1990[3].
È qui che s’instaura una sub-fase processuale avverso quel diniego d’accesso, conclusasi con ordinanza[4] nella quale, rilevata la fondatezza dell’istanza e accertato il conseguente diritto dei ricorrenti di accedere alla documentazione richiesta[5], il Tar ordina alla Consob di consentire l’accesso entro i trenta giorni successivi dalla comunicazione del provvedimento giurisdizionale.
L’Amministrazione resistente appella l’ordinanza, chiedendo altresì la sospensione cautelare dei suoi effetti: la VI Sezione del Consiglio di Stato, investita del ricorso, accoglie (solo parzialmente) la sospensiva[6] e, con altro provvedimento[7], rimette all’Adunanza plenaria la questione circa l’ammissibilità dell’appello avverso l’ordinanza del Giudice che si pronuncia sull’accesso documentale in giudizio ex art. 116, co. 2, c.p.a.
Questione alla quale – lo si dichiara sin d’ora – il plenum del Consiglio di Stato risponde in senso affermativo, così ponendo fine a un serrato contrasto giurisprudenziale: «l’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. amm., è appellabile innanzi al Consiglio di Stato».
2. Fondamento del principio: la natura decisoria dell’ordinanza ex art. 116, co. 2, c.p.a.
Ora, il principio ha un fondamento logico-concettuale ben preciso: l’ordinanza di cui all’art. 116, co. 2, c.p.a. ha natura decisoria[8]; come tale, dev’esserne assicurata l’appellabilità in ossequio ai principi costituzionali di difesa (art. 24 Cost.) e del doppio grado di giudizio (art. 125 Cost.).
Non v’è dubbio che il decisum del Consiglio di Stato abbia consentito una maggiore effettività della tutela dei richiedenti l’accesso, nonché degli eventuali controinteressati, mediante l’attribuzione di autonoma valenza decisoria all’ordinanza; questo esito, peraltro, passa per una attività interpretativa delle disposizioni che, probabilmente, esula dallo stretto perimetro del principio di legalità processuale.
Ma andiamo per gradi.
La natura decisoria dell’ordinanza che si pronuncia sull’istanza di accesso in corso di giudizio, si diceva.
Per rifletterci bisogna guardare alla vicenda da un angolo visuale più ampio, che procede più addietro nel tempo, e che si affaccia anche al diritto procedimentale sostanziale.
Invero, quello dell’accesso, disciplinato dall’art. 116 c.p.a., è un rito speciale, più celere di quello ordinario: esso consente d’impugnare il diniego (espresso o tacito) di accesso entro trenta giorni dalla sua conoscenza (o dalla formazione del silenzio rifiuto) e si conclude con una sentenza in forma semplificata, nella quale il Giudice, accertata la fondatezza della domanda[9], ordina all’Amministrazione l’esibizione dei documenti richiesti[10]. La sentenza, ovviamente, è appellabile.
Il comma 2 della medesima disposizione[11] ha poi una funzione di economia processuale[12]: esso consente – nell’ambito di un giudizio pendente – d’inoltrare istanza di accesso ai documenti “connessi” al giudizio medesimo. Su quell’istanza, depositata presso la segreteria del Tar e notificata all’Amministrazione e alle altre parti processuali, il Giudice può pronunciarsi con apposita ordinanza oppure direttamente nella sentenza che decide il giudizio principale.
La strutturazione della norma nulla dice circa la natura dell’ordinanza, dunque il tenore letterale non suggerisce alcuno specifico orientamento sul punto.
Ciò contrariamente a quanto, invece, accadeva prima del 2010, dunque prima della codificazione, laddove il diritto procedimentale amministrativo[13] e le disposizioni organizzative e di rito processuali[14] attribuivano espressamente la natura «istruttoria» a quell’ordinanza.
L’eliminazione dell’attributo «istruttoria» nella disposizione codicistica induce a ritenere che il legislatore quod voluit dixit, quod non dixit noluit: sicché il dato normativo di cui all’art. 116, co. 2, c.p.a. – o meglio, il silenzio di quel dato – sarebbe il primo indizio – a livello interpretativo – della mutata natura dell’ordinanza sull’istanza di accesso.
E però è altresì vero che già prima del codice del processo amministrativo era emerso un contrasto giurisprudenziale, interno persino alle medesime sezioni, sul modo di concepire questo tipo di ordinanze e i relativi procedimenti: tanto che – a fronte di sentenze del Consiglio di Stato che sancivano l’inappellabilità dell’ordinanza, stante la sua natura istruttoria[15] – si è gradualmente manifestato un orientamento meno rigido – a dir così, casistico – per il quale la natura dell’ordinanza (e dunque la sua appellabilità) muterebbe a seconda del suo concreto contenuto[16], in particolare a seconda che il Giudice operi (o meno) un vaglio sull’effettiva rilevanza dei documenti per il giudizio in corso.
L’Adunanza plenaria sceglie di scartare quest’ultimo indirizzo, fonte di eccessive incertezze («la natura decisoria o meno di un provvedimento giudiziale va stabilita sulla base di criteri normativi», si legge nella sentenza in commento). E, come anticipato, di attribuire all’ordinanza ex art. 116, co. 2, c.p.a., natura decisoria.
Oltre al dato storico di cui s’è appena dato conto, che considera tanto il diritto processuale quanto quello sostanziale, la Plenaria si avvale di ragioni interpretative della disposizione codicistica per giungere alle sue conclusioni.
Anzitutto, la richiesta di accesso è collocata nell’alveo dell’art. 116 c.p.a. che, come detto, concerne il giudizio a fronte del diniego d’accesso: se avverso il diniego (espresso o tacito) può esser proposto ricorso, da decidersi con sentenza; e se quello stesso ricorso («il ricorso di cui al comma 1», sancisce la disposizione) può essere presentato in forma di richiesta nell’ambito di un giudizio già instaurato per ragioni di economia processuale; allora – anche quando presentato in forma di richiesta – esso dev’essere deciso con provvedimento impugnabile analogo alla sentenza.
A ciò si aggiunga che la richiesta non dev’essere solo depositata nella segreteria del Tar – come le altre richieste istruttorie – ma dev’essere anche notificata all’Amministrazione e agli eventuali controinteressati (non necessariamente coincidenti con le parti già evocate in giudizio), esattamente come un ricorso. Dato essenziale: l’istanza è rivolta non al Giudice, bensì all’Amministrazione. Ciò la rende intrinsecamente differente dalle altre richieste presentate in giudizio (da ritenersi effettivamente istruttorie) e la avvicina di molto a un’istanza procedimentale, della quale è data notizia in giudizio, e il cui esito è giustiziabile.
Questo crinale della distinzione tra piano sostanziale e processuale separa, dunque, l’accesso ai documenti amministrativi dall’acquisizione probatoria al giudizio. È qui che la Plenaria fa ricorso a un suo precedente – la sentenza n. 19/2020 – nel quale i due istituti sono nettamente separati.
Per il Giudice amministrativo del 2020, a differenza dell’accesso difensivo ai documenti, «gli strumenti di acquisizione probatoria […] si muovono esclusivamente sul piano e all’interno del processo; sono assoggettati alla prudente valutazione del giudice; eventuali rigetti non sono autonomamente impugnabili o ricorribili, potendo gli eventuali vizi dell’istruttoria rilevare come motivi di impugnazione della sentenza. Di conseguenza, il naturale corollario è che l’eventuale rigetto dell’istanza di esibizione di un documento della pubblica amministrazione […] non si pone in contrasto, né elude la ratio legis contenuta negli artt. 22 e ss. l. n. 241/1990, poiché le due disposizioni operano su un piano diverso, avendo la legge n. 241/1990 assunto l’interesse del privato all’accesso ai documenti come interesse sostanziale, mentre l’acquisizione documentale […] costituisce esercizio di un potere processuale e l’acquisizione del documento resta pur sempre subordinata alla valutazione della rilevanza dello stesso, ai fini della decisione, da parte del giudice al quale spetta di pronunciarsi sulla richiesta istruttoria […]»[17].
Se allora la richiesta di accesso ex art. 116, co. 2, c.p.a. è – di fatto – rispondente ai criteri di cui agli artt. 22 ss., l. n. 241/1990 e non può qualificarsi come mezzo istruttorio, in merito alla stessa il Giudice deve potersi pronunciare con provvedimento impugnabile.
Ciò anche per il più ampio principio costituzionale che assicura il diritto di difesa ex artt. 24 e 113 Cost. non soltanto del richiedente, ma anche dei controinteressati e della stessa p.A., qualora nel corso del processo sia emessa una ordinanza che accolga il ricorso ex art. 116, comma 2, c.p.a. e consenta l’ostensione dei documenti richiesti. Rispetto a quel provvedimento dev’esser garantita reazione sia da parte della p.A., sia dei controinteressati.
Il richiamo costituzionale della Plenaria si estende, infine, all’art. 125 Cost., ritenuto espressivo del principio del doppio grado di giudizio, come risultante dalla storica interpretazione offertane della stessa Plenaria nel 1978[18]: vero è che i provvedimenti espressamente appellabili sono le sentenze adottate dai Tribunali amministrativi regionali (artt. 91 e 100 c.p.a.) e le ordinanze cautelari adottate dai medesimi Tribunali (art. 62 c.p.a.); tuttavia, accanto a questi devono considerarsi le decisioni implicitamente appellabili, ovvero quelle che, a prescindere dalla forma e dal nomen, hanno un contenuto decisorio idoneo a incidere su situazioni giuridiche e suscettibili di passare in giudicato ovvero di risolvere «in contraddittorio tra le parti una specifica controversia»[19].
3. Questioni collaterali: la «connessione» dei documenti oggetto della richiesta al giudizio in corso.
Ora, l’impianto decisorio della Plenaria è indubbiamente chiaro e approda a una soluzione condivisibile perché ampliativa della tutela delle parti nel processo, così costituendo ancora attuazione del principio di effettività della tutela, garantito dall’art. 113 Cost. e dall’art. 1 c.p.a.
Le ragioni che inducono a preferire la natura decisoria dell’ordinanza sull’accesso rispetto a quella istruttoria sono tuttavia le medesime sulle quali è opportuno riflettere.
Si è detto che – sia in ragione di un criterio interpretativo storico, sia sistematico, sia puramente letterale dell’art. 116, co. 2, c.p.a. – quell’ordinanza contiene sempre determinazioni decisorie, come tali appellabili.
Ciò implica che il Giudice, quando decide sull’istanza di accesso formulata in giudizio, debba applicare il diritto sostanziale, e dunque debba verificare (soltanto) se sussistono i presupposti di cui agli artt. 22 ss., l. n. 241/1990: all’istanza si applica il diritto procedimentale in materia di accesso.
Affinché questo assunto sia sostenibile, deve venire in ombra il requisito della rilevanza della documentazione richiesta ai fini del giudizio: invero, per il diritto sostanziale, l’accesso documentale difensivo si sottrae a una previa «ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990»[20].
Il dato testuale dev’essere dunque interpretato. L’art. 116, co. 2, c.p.a. parla di richiesta di accesso «connessa» al giudizio in corso; questo requisito della connessione – e dunque del vaglio sulla rilevanza dei documenti per il giudizio instaurato – è stato valorizzato dall’orientamento che ha ritenuto la natura puramente istruttoria dell’ordinanza: secondo il quale, poiché il Giudice non deve guardare alla disciplina procedimentale dell’accesso, bensì alla rilevanza dei documenti ai fini della risoluzione della controversia, la richiesta ex art. 116, co. 2, c.p.a. sarebbe assimilabile a un mezzo istruttorio (una sorta di acquisizione probatoria, quindi).
Il Consesso in plenum diluisce, invece, il concetto di «connessione», riferendolo a una «strumentalità in senso ampio, in quanto la valutazione che deve essere effettuata dal giudice non è soltanto vòlta a verificare la possibile rilevanza del documento per la definizione del giudizio, ma può servire anche per risolvere in via stragiudiziale la controversia, per proporre una nuova impugnazione ovvero ancora una diversa domanda di tutela innanzi ad altra autorità giudiziaria»[21].
Come a dire: anche nella richiesta ex art. 116, co. 2, c.p.a. si deve guardare non alla stretta strumentalità alla conclusione del giudizio, bensì a una “più ampia” strumentalità che guarda – però – più che al processo, alla situazione sostanziale del richiedente. Così rischiando, però, di confondere il piano delle situazioni sostanziali con quello del processo.
Secondo la Plenaria, questa idea più ampia di «connessione» giustifica anche il fatto che l’art. 116, co. 2, c.p.a. consente al Giudice di non decidere in ordine all’istanza di accesso con ordinanza, ma di deciderla con la sentenza che definisce il giudizio: come statuito dal Consesso, il Giudice potrebbe infatti non ritenere necessaria la documentazione ai fini della definizione del giudizio e dunque rinviare la decisione incidentale sull’accesso al momento di adozione della sentenza.
Questa lettura non sembrerebbe scevra da contraddizioni: se la richiesta d’accesso è sottoposta alla disciplina sostanziale (e dunque non va considerata come acquisizione probatoria nel processo); se la valutazione sulla connessione è talmente ampia da escludere soltanto i documenti che – marcatamente – nulla hanno a che vedere col giudizio in corso; allora diventa meno agevole qualificare il potere del Giudice di differire l’accesso al momento della sentenza che conclude il giudizio, perché il suo esercizio implica una valutazione – più puntuale – circa la necessarietà della documentazione ai fini proprio di quella definizione del giudizio.
La costruzione, dunque, parrebbe restituire un potere – quello valutativo del Giudice circa la «connessione» dei documenti al giudizio – dai confini piuttosto incerti: che può giocarsi sul crinale oppositivo “inclusione/esclusione”.
Vale a dire che potrebbero avverarsi con la medesima plausibilità due scenari opposti.
Il primo, includente: se i documenti richiesti non devono essere necessariamente pregiudiziali per la decisione finale (ma, appunto, basta che siano «connessi» alla controversia per cui è causa), il Giudice ne ingiunge l’ostensione già in ordinanza, applica la l. n. 241/1990 e quindi estende la tutela del richiedente.
Il secondo, escludente: dato lo stesso presupposto, la semplice «connessione» al giudizio e la non stretta strumentalità alla decisione, il Giudice può anche differire la decisione rinviandola alla sentenza, così però non garantendo la tutela del diritto d’accesso del richiedente.
Potrebbe essere opportuno, pertanto, che il potere valutativo del Giudice circa la «connessione» della documentazione al giudizio in corso – mantenendosi sulla sua strumentalità in senso ampio – sia esercitato già nell’ordinanza sulla richiesta exart. 116, co. 2, c.p.a., in modo da differire il meno possibile la tutela del richiedente, rendendola effettiva.
4. Effettività della tutela, doppio grado di giudizio e principio di legalità processuale.
La sentenza dell’Adunanza plenaria in commento si presta a qualche riflessione, in cenno conclusivo, di più ampio respiro.
L’impressione che se ne trae leggendola è che la base fondativa su cui essa poggia, ovvero la dicotomia tra natura istruttoria e decisoria dell’ordinanza ex art. 116, co. 2, c.p.a., sia in realtà un – efficace – espediente argomentativo per ampliare la tutela giurisdizionale e consentire l’appellabilità di un provvedimento la cui impugnativa non è espressamente contemplata dalle disposizioni codicistiche.
Ciò è vieppiù evidente laddove si legga l’ordinanza di rimessione, la quale – nel tratteggiare il quadro giurisprudenziale e nell’aderire espressamente all’indirizzo che esclude l’appellabilità dell’ordinanza[22] – tocca temi processuali più generali.
Anzitutto, il rapporto tra la richiesta ex art. 116, co. 2, c.p.a. e le istanze istruttorie – in particolare e la richiesta di documenti che la parte può rivolgere direttamente al giudice (art. 64, co. 3)[23] – che confluiscono nel processo e che sono decise (anch’esse) con ordinanza, la quale però non è impugnabile bensì revocabile o modificabile dallo stesso Giudice che l’ha pronunciata.
La questione emerge perché – al di là della qualificazione formale come “istruttoria” – la richiesta ex art. 116, co. 2, al pari della richiesta ex art. 64, co. 3, comporta l’esibizione di atti e documenti che sono correlati al processo in corso e che contengono dati: probabilmente nel primo caso vi dev’essere solo la «connessione» al giudizio, mentre nel secondo vi dev’essere uno stretto rapporto di strumentalità alla decisione, ma – poiché la scelta del mezzo è operata dalla parte che lo richiede – ciò comporterebbe che sia la stessa parte richiedente, a qualificare il grado di connessione con il giudizio.
Secondo tema generale: il rapporto tra giudice di primo grado e giudice d’appello. Ammettere l’appellabilità dell’ordinanza ex art. 116, co. 2, c.p.a., non soltanto limita l’autonomia del primo, nella sua istruttoria processuale e nella conduzione del giudizio, ma rischia soprattutto di creare rallentamenti nella macchina giurisdizionale: sia perché una impugnazione potrebbe rivelarsi superflua, laddove superata da una sentenza comunque favorevole; sia perché l’ordinanza, sebbene non impugnabile, non solo è – come detto – modificabile e revocabile ma consente comunque un contraddittorio, pur differito alla impugnazione della eventuale sentenza da parte del soccombente nel merito.
Infine, il tema della esecuzione coattiva dell’ordinanza ex art. 116, co. 2, c.p.a.: laddove considerata provvedimento decisorio, la sua attuazione dovrebbe esser garantita anche tramite il rimedio dell’ottemperanza; viceversa, la sua mancata esecuzione da parte della p.A. dovrebbe esser valutata dal Giudice come argomento di prova (art. 64, co. 4, c.p.a.)[24].
L’Adunanza plenaria tace sulle questioni prospettate dalla Sezione rimettente, focalizzandosi strettamente sul tema della natura dell’ordinanza e offrendo una triplice – storica, letterale, sistematica – interpretazione dell’art. 116, co. 2, alla luce del principio costituzionale del doppio grado di giudizio di cui all’art. 125 Cost.
Il principio – che ha avuto un non univoco riconoscimento dalla dottrina[25] e dalla giurisprudenza costituzionale[26] – è apparso in particolare poco afferente alla funzione giurisdizionale, essendo riferibile, specialmente per la sua collocazione sistematica in Costituzione, più alla costruzione amministrativa del sistema ordinamentale italiano, implicando un riequilibrio tra centro e periferia tramite l’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali[27].
Esso è comunque utile, nella lettura fornitane dalla Plenaria[28], all’ampliamento della tutela, sebbene questo esito non si confronti con un altro principio costituzionale: quello della legalità processuale di cui all’art. 111 Cost., per il quale il giusto processo è «regolato dalla legge».
Siamo, cioè, di fronte alla introduzione per via pretoria di una nuova regola processuale – ovvero l’appellabilità di una ordinanza non tipizzata dalla disposizione quale provvedimento autonomamente impugnabile – e dunque all’ampliamento dello strumento dell’appello. L’ordinanza rientrerebbe tra i provvedimenti «implicitamente» impugnabili perché avente contenuto decisorio: sebbene anche la decisorietà del contenuto sia stata determinata per via pretoria.
La chiave di lettura sta, forse più fermamente, nell’art. 24 Cost., giustamente richiamato dalla Plenaria: «è necessario assicurare il diritto di difesa (artt. 24 e 113 Cost.; art. 1 cod. proc. amm.) dei controinteressati e della stessa pubblica amministrazione, qualora nel corso del processo sia emessa una ordinanza che accolga il ricorso ex art. 116, comma 2, cod. proc. amm. e consenta l’ostensione dei documenti richiesti. Se non si permettesse, infatti, l’immediata appellabilità si potrebbe determinare, a seguito dell’ordine di esibizione e del conseguente obbligo della sua esecuzione, un pregiudizio irreversibile per il diritto alla riservatezza privata dei controinteressati e per le prerogative pubbliche dell’autorità che detiene i documenti. Si tenga conto, inoltre, che, potendo la pubblica amministrazione e i controinteressati non coincidere con le parti del processo principale, se non si assegnasse valenza decisoria all’ordinanza le suddette parti oltre a subire il pregiudizio sopra indicato potrebbero anche non essere legittimate a proporre impugnazione autonoma avverso la sentenza che definisce la controversia».
Il riferimento al principio costituzionale della difesa in giudizio fornisce, a parer di chi scrive, la più condivisibile lettura costituzionalmente orientata per garantire un ampliamento della tutela: ciò non tanto per la necessità di applicare meccanicamente il doppio grado di giudizio – stante il fatto che, lo si ripete, anche l’ostensione dei documenti oggetto di richiesta probatoria può comportare un potenziale pregiudizio, pertanto qualunque atto di primo grado dovrebbe così esser soggetto a una impugnativa autonoma in secondo grado – bensì per assicurare la difesa non soltanto del richiedente che si veda negare l’accesso; ma anche del controinteressato laddove l’accesso sia consentito, il quale soprattutto – in difetto d’autonoma impugnabilità – resterebbe sguarnito di protezione dinanzi al Giudice.
E questo risultato è raggiunto dalla Plenaria tramite un’attività interpretativa che va oltre il dettato normativo[29], arricchendolo guardando alla effettività della tutela: si conferma, insomma, la forza del formante pretorio amministrativo, che dice lo jus integrando le disposizioni, stavolta quelle regolatrici del processo.
[1] Delib. Consob 10 dicembre 2020, n. 21621, resa esecutiva con D.P.C.M. del 18 marzo 2021, a sua volta modificato con delibera n. 22313 del 27 aprile 2022, resa esecutiva con D.P.C.M. del 18 maggio 2022, in https://www.consob.it/documents/1912911/1950567/reg_consob_2020_21621.pdf/c94d5a3e-435a-a516-f8ca-8da8571d8840.
[2] In particolare dall’art. 23 della medesima legge, rubricato «Avvocati degli enti pubblici», il quale prevede che agli avvocati degli enti pubblici debba essere assicurato «un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta».
[3] Secondo il quale il diritto di accesso è escluso «nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione».
[4] Tar Lazio, II-quater, ord. 15 luglio 2022, n. 10022.
[5] Nel merito, il Tar rileva che il diniego d’accesso difetta di legittima motivazione: quand’anche si volesse attribuire natura normativa alla delibera di approvazione del regolamento del personale, bisognerebbe comunque riconoscere la prevalenza dell’interesse sotteso all’accesso difensivo rispetto agli interessi posti a base di quella esclusione, fondandosi detta prevalenza sul comma 7 dell’art. 24, in ossequio al quale «[d]eve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici» (corsivo nostro).
Sul punto, peraltro, v. Cons. Stato, Ad. plen., 25 settembre 2020, n. 19: «L’utilizzo dell’avverbio “comunque” denota la volontà del legislatore di non ‘appiattire’ l’istituto dell’accesso amministrativo sulla sola prospettiva della partecipazione, dell’imparzialità e della trasparenza, e corrobora la tesi che esistano, all’interno della fattispecie giuridica generale dell’accesso, due anime che vi convivono, dando luogo a due fattispecie particolari, di cui una (e cioè quella relativa all’accesso cd. difensivo) può addirittura operare quale eccezione al catalogo di esclusioni previste per l’altra (e cioè, l’accesso partecipativo), salvi gli opportuni temperamenti in sede di bilanciamento in concreto dei contrapposti interessi (v. Cons. Stato, Sez. VI, ord. 7 febbraio 2014, n. 600).
[…] La logica difensiva è costruita intorno al principio dell’accessibilità dei documenti amministrativi per esigenze di tutela e si traduce in un onere aggravato sul piano probatorio, nel senso che grava sulla parte interessata l’onere di dimostrare che il documento al quale intende accedere è necessario (o, addirittura, strettamente indispensabile se concerne dati sensibili o giudiziari) per la cura o la difesa dei propri interessi.
La tecnica legislativa utilizzata nel comma 7, rispetto ai precedenti commi del medesimo art. 24, avvalora la tesi che questo aggravamento probatorio in tanto si giustifica, proprio in quanto si fuoriesce dalla stretta logica partecipativa e di trasparenza, per entrare in quella, diversa, difensiva» (pt. 9.1).
[6] Cons. Stato, VI, ord. 9 settembre 2022, n. 4444: «il principale motivo opposto dalla Consob alla richiesta di accesso, incentrato sulla natura normativa, ovvero regolamentare, dell’attività posta in essere, e quindi sulla previsione (in tesi escludente) di cui all’art. 24, comma 1, lett. c, della l. 241/1990, appare revocabile in dubbio, per (almeno) due ragioni:
- sia perché nel riferirsi all’attività “diretta all’emanazione di atti normativi”, la disposizione di legge parrebbe prevedere piuttosto un differimento dell’accesso, ovvero una causa di esclusione temporanea, destinata a venire meno una volta che tale attività sia conclusa e l’atto sia stato formato;
- sia perché la tesi seguita dal Giudice di primo grado, nel senso che l’accesso difensivo di cui all’art. 24, comma 7, avrebbe carattere “comunque” preminente, appare persuasiva».
Ciò nondimeno, secondo la Sezione, «in questa sede, valutati anche comparativamente i contrapposti interessi, per quanto sinora osservato la domanda cautelare dell’Avvocatura è fondata e può essere accolta solo limitatamente alla richiesta di accesso al parere dell’Avvocatura stessa, il cui documento non può quindi essere osteso ai ricorrenti in primo grado».
[7] Stante il fatto che, come anche riferito nell’ordinanza cautelare già citata, «è controversa tra le parti, in rito, la questione dell’appellabilità dell’ordinanza del Tar, anche al cospetto di indirizzi giurisprudenziali al riguardo (da sempre) divergenti, questione che giustifica la sua rimessione dell’Adunanza plenaria, come da separata ordinanza», la VI Sezione fa rinvio alla Plenaria con ordinanza n. 8367 del 28 settembre 2022.
[8] La stessa ordinanza di rimessione – Cons. Stato, VI, n. 8367/2022, cit. – lega la natura dell’ordinanza alla sua sorte processuale: «Tale questione [la natura decisoria o istruttoria dell’ordinanza, n.d.r.], sulla quale la giurisprudenza diverge, si riflette peraltro non solo sull’appellabilità o meno dell’ordinanza ma, anche, conseguentemente, sulle modalità della sua esecuzione e, in particolare, nell’ipotesi in cui l’amministrazione non si conformi spontaneamente, sulla possibilità, per gli interessati, di attivare i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza» (pt. 5).
[9] L. Iannotta, I rapporti tra accesso tradizionale ed accesso civico generalizzato: la riqualificazione dell'istanza di accesso in corso di giudizio, in Foro amm., n. 7-8/2020, pp. 1373 ss.: «Tale rito presenta i caratteri di un giudizio di accertamento, come si evince dallo stesso art. 116 c.p.a. nella parte in cui afferma che il giudice, sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione dei documenti richiesti. Il rito ha ad oggetto il rapporto amministrativo, disponendo il giudice di ampi e penetranti poteri di cognizione ed essendo direttamente chiamato a valutare, alla luce dei parametri normativi, se sussistono i presupposti per l’ostensione degli atti richiesti».
[10] Ripercorrendo sinteticamente l’art. 116, c.p.a., «1. Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi […] il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio […]. 4. Il giudice decide con sentenza in forma semplificata; sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione e, ove previsto, la pubblicazione dei documenti richiesti, entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando, ove occorra, le relative modalità. 5. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai giudizi di impugnazione».
[11] Art. 116, co. 2, c.p.a.: «In pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa, il ricorso di cui al comma 1 può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale, previa notificazione all’amministrazione e agli eventuali controinteressati. L’istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio».
[12] A. Travi, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2023, p. 364.
[13] L’art. 25, co. 5, l. n. 241/1990, nella versione risultante dopo la riforma attuata con l. n. 15/2005, prevedeva: «Contro le determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso e nei casi previsti dal comma 4 è dato ricorso, nel termine di trenta giorni, al tribunale amministrativo regionale, il quale decide in camera di consiglio entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne abbiano fatto richiesta. In pendenza di un ricorso presentato ai sensi della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, il ricorso può essere proposto con istanza presentata al presidente e depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso, previa notifica all’amministrazione o ai controinteressati, e viene deciso con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio. La decisione del tribunale è appellabile, entro trenta giorni dalla notifica della stessa, al Consiglio di Stato, il quale decide con le medesime modalità e negli stessi termini» (corsivo nostro).
[14] L’art. 21, co. 1, l. n. 1034/1971 (l. Tar), per effetto delle modifiche apportate dalla l. 205/2000, qualificava espressamente tale ordinanza come istruttoria, stabilendo che «il ricorso può essere proposto con istanza presentata al presidente e depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso, previa notifica all’amministrazione o ai controinteressati, e viene deciso con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio».
[15] Cons. Stato, VI, n. 403/2002, citata da Tar Lazio, ord. n. 8367/2022, cit.
[16] Cons. Stato, VI, n. 1629/2004: «se è vero che la impugnativa avverso le determinazioni concernenti il diritto di accesso, proposta con istanza al Presidente del TAR ai sensi dell’art. 1 L. n. 205 dovrebbe essere decisa con “ordinanza” come testualmente previsto dal citato art. 1, nondimeno si deve convenire che ogni qualvolta la pronuncia del Tribunale, senza nemmeno passare all’esame della pertinenza della documentazione richiesta (in relazione all’oggetto del giudizio pendente), ne escluda la accessibilità sulla sola base della ritenuta carenza dei presupposti stabiliti dalla disciplina generale ex artt. 22 e segg. L. n. 241/1990, allora la pronuncia stessa assume una connotazione decisoria e come tale è suscettibile di essere appellata (in tal senso cfr. la decisione della Sezione 10 febbraio 2002, n. 5450)». Indirizzo peraltro anche recentemente ripreso da Cons. Stato, VI, 14 agosto 2020, n. 5036; Cons. Stato, III, 7 ottobre 2020, n. 5944; Cons. Stato, IV, 27 ottobre 2011, n. 5765; Cons. Stato, III, 25 giugno 2010, n. 4068.
[17] Cons. Stato, Ad. plen., n. 19/2020, cit., pt. 9.3.1, che così prosegue: «Occorre in altri termini tenere distinti, da un lato, la pretesa all’ostensione del documento nei confronti della pubblica amministrazione, intesa quale protezione accordata all’interesse sostanziale alla conoscenza e, dall’altro lato, il diritto alla prova, inteso come protezione dell’interesse processuale della parte alla rappresentazione in giudizio, attraverso un determinato documento, dei fatti costitutivi della domanda, subordinato alla duplice valutazione giudiziale della concludenza e della rilevanza dello specifico mezzo di prova (v. Cons. Stato, Sez. IV, 6 marzo 1995, n. 158)».
[18] Ci si riferisce alla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 20 gennaio 1978, n. 1, nella quale si sancì l’appellabilità delle ordinanze cautelari, con commento di F. Satta in Foro It., vol. 101, 1978, pp. 1/2 - 7/8.
[19] Cons. Stato, Ad. plen., n. 1/1978, cit.
[20] Così il Tar Lazio nella sua ordinanza sull’accesso, la n. 10022/2022 già citata. L’assenza di valutazioni circa l’afferenza dei documenti al giudizio instaurato parrebbe condivisa anche dal Consiglio di Stato, il quale, in sede di appello della Consob con domanda cautelare, lo accoglie solo in parte, escludendo il parere dell’Avvocatura per ragioni normative (d.p.c.m. 26 gennaio 1996, n. 200, il cui art. 2 prescrive il segreto per determinati atti dell’Avvocatura, tra cui anche i «pareri resi in relazione a lite in potenza o in atto e la inerente corrispondenza»).
[21] Cons. Stato, Ad. plen., n. 4/2023 in commento.
[22] Così la VI Sezione motiva il suo orientamento: «Sebbene le particolari modalità di presentazione dell’istanza, che come visto va notificata alle altre parti (e che peraltro potrebbero anche non coincidere del tutto con quelle del giudizio principale), possano indurre a ritenere che con essa si apra una fase autonoma del giudizio suscettibile di concludersi con una pronuncia avente carattere decisorio, preminenti appaiono sul piano sistematico le considerazioni già ricordate. In particolare la richiesta connessione tra l’istanza di accesso e il giudizio già in corso, che ne suggerisce pur sempre la strumentalità, e, più in generale, anche per ragioni di economia, l’esigenza di non differenziare troppo, nel trattamento processuale, questo tipo di istanza da quelle altre istanze o domande, pacificamente di carattere istruttorio, con le quali è richiesta nel giudizio l’ammissione di mezzi di prova o di ricerca della prova e il cui esito, per quanto spesso potenzialmente in grado di ipotecare la sorte del giudizio persino in misura maggiore, non è autonomamente ed immediatamente appellabile» (pt. 8).
[23] Che recita: «Il giudice amministrativo può disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione».
[24] Secondo il quale «Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento e può desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo».
[25] Cfr. l’accurata ricostruzione di G. Serges, Doppio grado di giurisdizione (diritto costituzionale), in Dig. Disc. Pubbl., Agg., 2017, Torino, pp. 297 ss.
[26] Corte Cost., 22 giugno 1963, n. 110 e poi 15 aprile 1981, n. 62, nelle quali si afferma che l’art. 125 Cost. assicura la tutela in ogni stato e grado del processo ma «non garantisce la parte contro la soppressione di un grado»; v. inoltre Corte Cost., 31 marzo 1998, n. 395, nella quale il principio del doppio grado di giudizio è costruito nel senso che impedisce che il Tar sia giudice di unico grado.
[27] In questo senso, U. Pototschnig, A. Travi, Appello (diritto amministrativo), in Enc. dir., Agg. III, 1999, Milano, pp. 151 ss.
[28] In linea con Ad. plen., n. 1/1978, cit., in tema di ordinanze cautelari. Per una efficace ricostruzione del principio del doppio grado di giudizio, in senso critico, v. A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, in Federalismi.it, n. 1/2020. Dello stesso A., sul tema del potere giurisdizionale che muta sotto il medesimo formante giurisprudenziale, v. Dall’atipicità delle azioni all’atipicità dei poteri del G.A. Torsioni del processo amministrativo in nome della giustizia, in Dir. proc. amm., n. 1/2020, pp. 59 ss.
[29] Sulla pervasività del potere giurisdizionale rispetto alla norma di legge, in chiave metodologica, v. da ultimo P.L. Portaluri, Di poeti, giudici e sirene. Cantiunculae supra methodum, in Dir. amm., n. 4/2022, pp. 915 ss.; il tema è oggetto anche del recentissimo volume di F. Saitta, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023.