La pre-definizione dei criteri della decisione: un succedaneo della motivazione? Appunti su punteggio numerico e motivazione dei provvedimenti tecnico-discrezionali (nota a Consiglio di Stato, sez. VII, 29 dicembre 2022, n. 11693)
di Marco Ragusa
Sommario: 1. La fattispecie - 2. Obbligo di motivazione, punteggio numerico e pre-definizione dei criteri - 3. L’accesso diretto al fatto nel giudizio amministrativo: una conquista illusoria? - 4. Brevi conclusioni.
1. La fattispecie
La sentenza che si annota ha confermato una decisione con cui il Tar Lazio[1] aveva respinto il ricorso presentato da un’associazione culturale avverso il decreto della Direzione generale Spettacolo del MIBACT, recante l’approvazione dei progetti artistici a cui destinare il Fondo unico dello spettacolo per il triennio 2015-2017: provvedimento che aveva escluso dal novero dei beneficiari la ricorrente a causa della insufficiente “qualità artistica” del progetto da questa presentato.
Siffatto giudizio era stato espresso della Commissione consultiva competente – in applicazione dei criteri di valutazione indicati dalle tabelle di cui all’allegato B del d.m. 1 luglio 2014[2] – mediante l’attribuzione di un punteggio numerico al progetto stesso[3] e su tale aspetto della decisione amministrativa erano imperniati i primi due motivi di appello (sostanzialmente corrispondenti ai primi due motivi di ricorso in primo grado)[4].
Secondo la tesi dell’appellante, il provvedimento avrebbe dovuto essere annullato, innanzitutto, perché il punteggio attribuito dall’amministrazione, a monte, non trovava un’idonea giustificazione nei (troppo generici) criteri definiti dal d.m. del 2014 e, a valle, esso non era assistito da una motivazione che esplicitasse le ragioni poste a fondamento della decisione (primo motivo di appello). D’altronde, anche in considerazione del difetto di una adeguata griglia di criteri predeterminati e di una specifica motivazione, la decisione del MIBACT si palesava illogica, ignorando le qualità che il progetto, invece, possedeva e che avrebbero dovuto condurre alla sua ammissione a finanziamento (secondo motivo di appello). Da qui la dedotta erroneità della sentenza di primo grado che, discostandosi da tale ricostruzione, aveva respinto entrambi i motivi di ricorso.
Il primo motivo di gravame è stato ritenuto infondato dal Consiglio di Stato con argomenti idonei a sorreggere una statuizione di inammissibilità[5]: “l’appellante”, afferma la sentenza, “contesta il metodo dell’attribuzione del punteggio numerico in assoluto, ma senza superare gli argomenti contenuti nella motivazione della sentenza impugnata, che invece hanno riconosciuto la legittimità di tale metodo in relazione all’adeguata predeterminazione dei criteri di attribuzione”[6].
Il rigetto del secondo motivo è stato giustificato, invece, sulla base dell’inidoneità degli argomenti dell’appellante a confutare la statuizione (di inammissibilità) con cui il Tar aveva respinto le censure mosse in primo grado in punto di ragionevolezza (nel metodo e nell’esito) della valutazione effettuata dall’amministrazione con riferimento alla qualità artistica del progetto. Il punto nodale della motivazione della sentenza impugnata è integralmente riprodotto da quella d’appello, che lo fa proprio: “[se] è vero che la commissione che deve esaminare le domande e i progetti […] gode di ampia discrezionalità [e che] i relativi giudizi sono insindacabili in sede giurisdizionale a meno che non vengano in rilevo manifeste illogicità o erroneità nella valutazione […], non rinvenendosi alcuna manifesta arbitrarietà nel giudizio della commissione e non potendo questo giudice approfondire ulteriormente lo scrutinio tecnico […], non possono accogliersi le censure […] aventi quale bersaglio la valutazione del progetto operata dalla commissione per il criterio della qualità artistica” [7].
La pronuncia offre lo spunto per alcune brevi riflessioni concernenti sia la problematica della motivazione del provvedimento amministrativo resa mediante un voto o un punteggio numerico (§ 2), sia quella della sindacabilità della discrezionalità tecnica, con specifico riferimento alle ipotesi in cui questa sia esercitata dall’amministrazione per mezzo di provvedimenti motivati, appunto, mediante la ‘quantificazione’ di un voto o di un punteggio (§ 3).
2. Obbligo di motivazione, punteggio numerico e pre-definizione dei criteri
Si è già detto che la sentenza in commento non si sofferma molto sulla censura dell’appellante avente a oggetto l’inidoneità del punteggio numerico a costituire una motivazione conforme al paradigma di cui all’art. 3 l. n. 241/1990. Se è vero che, in materia di erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere, la motivazione del provvedimento ha la precipua funzione di dimostrare la “effettiva osservanza dei criteri e delle modalità” che l’amministrazione è tenuta a predeterminare (art. 12, c. 2, l. n. 241/1990), è altrettanto vero, secondo il Consiglio di Stato, che tale funzione possa essere assolta dall’indicazione, nel provvedimento, di un valore numerico che faccia applicazione di quei criteri e di quelle modalità, a condizione che questi ultimi risultino definiti in modo adeguato. E poiché tale condizione era stata accertata, con riferimento ai criteri di cui all’allegato B del d.m. 1 luglio 2014, dalla sentenza di primo grado, l’appellante non avrebbe potuto ottenere la riforma di quest’ultima limitandosi a reiterare una opposta lettura dei fatti (l’inadeguatezza dei criteri) e la contestazione, in termini astratti e assoluti, della idoneità di un numero a tenere luogo della indicazione dei “presupposti di fatto” e delle “ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria” (art. 3, c. 1, l. n. 241/1990).
Nulla di sorprendente: così argomentando, il giudice d’appello si è conformato all’indirizzo di massima che può ormai dirsi consolidato nella giurisprudenza amministrativa in materia di motivazione per punteggio numerico; indirizzo secondo il quale, ove il procedimento che conduce alla ‘quantificazione’ della decisione si conformi a criteri di accertamento stabiliti anteriormente all’istruttoria, il provvedimento finale non deve contenere una motivazione intesa come “discorso giustificativo”[8], poiché è il numero a esprimere e sintetizzare “in modo adeguato il giudizio tecnico-discrezionale […], contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti”[9].
È noto che tale orientamento si è formato principalmente nell’ambito di controversie in materia di concorsi e di esami pubblici e che, con riferimento alle modalità di valutazione delle prove previste per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, esso si è consolidato al punto da essere considerato (in difetto di un espresso supporto normativo) come “diritto vivente” dalla Corte costituzionale[10], che nel 2011 ne ha peraltro avallato i presupposti sistematici e le conclusioni[11].
Gli argomenti posti dalla giurisprudenza amministrativa a fondamento di questa posizione interpretativa sono stati principalmente tre.
Il primo, più risalente e radicale, concerne il tipo di decisione che il voto numerico è destinato a motivare, tipo che non sarebbe tout court riconducibile alla nozione di provvedimento accolta dall’art. 3 della l. n. 241/1990: “l’obbligo di motivazione […] riguarda espressamente la vera e propria attività provvedimentale della Pubblica Amministrazione, e non può essere quindi esteso ai semplici giudizi e alle valutazioni amministrative”[12].
Se non è più consueto ritrovare tale impostazione tra gli argomenti addotti a fondamento delle decisioni della giurisprudenza più recente – nella quale è rinvenibile, più di frequente, una sua formulazione attenuata[13] – ciò è probabilmente dovuto al fatto che essa si pone in troppo stridente contrasto con la lettera dell’art. 3 della legge sul procedimento, che espressamente assoggetta all’obbligo di motivazione anche i provvedimenti concernenti “lo svolgimento dei pubblici concorsi”. La nozione di provvedimento accolta dall’art. 3 cit., si è peraltro osservato, non può in ogni caso che essere riferita a ogni atto amministrativo che sia conclusivo di un procedimento o che sia comunque idoneo a produrre effetti costitutivi sulla sfera giuridica del destinatario[14].
L’argomento della natura non-provvedimentale di valutazioni e giudizi, del resto, pur sollevato dalla difesa erariale come eccezione alla questione di costituzionalità delle norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, non è fra quelli che la Corte ha posto a fondamento della citata pronuncia di rigetto del 2011, la quale ha invece sposato altre due ragioni che a tutt’oggi sorreggono l’indirizzo della prevalente giurisprudenza amministrativa in materia di motivazione resa mediante voto o punteggio numerico.
La prima di tali ragioni, che maggiormente rileva in questa sede, è quella richiamata dalla sentenza in commento nei passi sopra riportati. Essa è fondata sull’idea che il voto rappresenti una metodologia di motivare conforme al paradigma formalmente definito dall’art. 3 della legge sul procedimento, nella misura in cui esso costituisce applicazione di “specifici parametri di riferimento”[15] pre-definiti dalla legge, da atti amministrativi generali o dall’attività endoprocedimentale delle commissioni giudicatrici: conformandosi a tali criteri, il voto “rivela una valutazione che, attraverso la graduazione del dato numerico, conduce ad un giudizio di sufficienza o di insufficienza […] e, nell’ambito di tale giudizio, rende palese l’apprezzamento più o meno elevato che la commissione esaminatrice ha attribuito […]”[16].
La seconda ragione, anch’essa condivisa dalla Corte costituzionale e posta a fondamento della statuizione di rigetto del 2011, muove da un’interpretazione sistematica che mitiga la rigidità che dovrebbe invece essere riferita all’art. 3 l. n. 241/1990 sulla scorta del suo dato letterale: “il citato art. 3 […] va coordinato con l’art. 1, comma 1, della medesima legge n. 241 del 1990, in forza del quale l’attività amministrativa è retta (tra gli altri) da criteri di economicità e di efficacia, che giustificano la scelta del modulo valutativo”[17] espresso mediante voti o punteggi numerici.
Non è superfluo ricordare come, nell’ambito del giudizio di costituzionalità definito nel 2011, il giudice rimettente non avesse sollevato la questione di legittimità, oltre che delle disposizioni in materia di motivazione dei giudizi dettate dalla legislazione speciale, anche dell’art. 3 della legge sul procedimento[18]: aveva piuttosto invocato tale norma alla stregua di un sostanziale parametro di costituzionalità. Ciononostante la Corte – che pure avrebbe potuto rigettare le questioni con argomenti idonei a giustificare la deroga disposta dalla normativa in materia di esami di abilitazione rispetto al principio di cui all’art. 3 cit., ovvero non riconoscere affatto a quest’ultimo una valenza para-costituzionale tanto estesa e assorbente – ha preferito condividere l’impostazione del giudice a quo, negando però, in radice, che la motivazione imposta dalla legge sul procedimento debba sempre essere intesa come una indicazione dei “presupposti di fatto e [delle] ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. La Corte ha insomma considerato il punteggio numerico come species della motivazione imposta dall’art. 3 l. n. 241/1990.
In tal modo, gli argomenti della pronuncia del 2011, sebbene dotati di una autorevolezza nomofilattica di dubbio fondamento[19], possono con facilità proiettarsi su una classe di fattispecie ben più ampia di quella a cui era direttamente ascrivibile lo specifico oggetto del giudizio.
Tra le applicazioni dell’indirizzo interpretativo avallato dalla Corte costituzionale oltre l’ambito dei concorsi e degli esami pubblici, un posto di primario interesse è occupato dalle pronunce del giudice amministrativo in materia di contratti pubblici, le quali ammettono che la valutazione delle offerte tecniche effettuata da una commissione di gara possa essere motivata con la mera attribuzione di un punteggio numerico, a condizione che “l’apparato delle voci e sottovoci fornito dalla disciplina della procedura, con i relativi punteggi, [sia] sufficientemente chiaro, analitico e articolato, sì da delimitare adeguatamente il giudizio della Commissione nell’ambito di un minimo e di un massimo, e da rendere con ciò comprensibile l’iter logico seguito in concreto nel valutare i singoli progetti in applicazione di puntuali criteri predeterminati, permettendo così di controllarne la logicità e la congruità, con la conseguenza che solo in difetto di questa condizione si rende necessaria una motivazione dei punteggi numerici”[20].
Uno dei principali elementi che hanno consentito alla Corte costituzionale di escludere la illegittimità della normativa in materia di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato (vale a dire la predeterminazione di “specifici parametri di riferimento” da parte dei criteri di valutazione, ex art. 22, c. 9, r.d.l. n. 1578/1933 cit.) trova il proprio omologo, in queste diverse fattispecie, negli adempimenti imposti alle stazioni appaltanti dall’art. 95, c. 8, del Codice dei contratti pubblici, a mente del quale i documenti di gara “elencano i criteri di valutazione e la ponderazione relativa attribuita a ciascuno di essi, anche prevedendo una forcella in cui lo scarto tra il minimo e il massimo deve essere adeguato. Per ciascun criterio di valutazione prescelto possono essere previsti, ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi”[21].
L’indirizzo interpretativo in esame ha pressoché identica fortuna anche nella materia a cui è ascrivibile il caso risolto dalla pronuncia in commento: è la pre-definizione dei criteri, imposta dall’art. 12, c. 1, l. n. 241/1990[22], che consente di escludere la sussistenza di un puntuale obbligo di motivazione in sede di valutazione delle richieste di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere, a condizione che tali criteri siano “chiari, analitici e articolati” [23].
In concreto, l’applicazione del citato orientamento viene a dipendere dal metro alla stregua del quale il giudice ritenga soddisfatti, dalla disciplina di una specifica procedura, i requisiti della “chiarezza”, della “analiticità” e della “articolazione”.
“Articolati” sono i criteri che consentono di disaggregare il giudizio della commissione attraverso una pluralità di sotto-criteri, dotati di autonoma pesatura: il punteggio complessivo, in altri termini, deve rappresentare la somma di una pluralità di sotto-punteggi attribuiti a singoli elementi di ciascuna offerta o istanza.
In proposito, è significativa la posizione assunta dalla giurisprudenza con riferimento all’art. 95, c. 8 cit., la quale è concorde nell’escludere che la norma imponga in ogni caso alle commissioni di procedere a una puntuale disarticolazione dei criteri dettati dai documenti di gara: la scelta di provvedere in tal senso è tendenzialmente considerata il frutto di una valutazione tecnico-discrezionale dell’amministrazione[24], fermo restando che, nel caso in cui i criteri siano “troppo generici per poter ricostruire le ragioni della valutazione espressa sulla singola offerta”, il mancato esercizio, da parte della commissione, del potere di “individuare sub-criteri più stringenti” comporterà l’obbligo di affiancare ai “punteggi numerici attribuiti […] una motivazione idonea sulle valutazioni svolte, per rendere trasparente il percorso logico seguito nell’assegnazione”[25].
Da ciò è agevole dedurre che il requisito della (maggiore o minore) “articolazione” di criteri e sub-criteri non è altro che un dato quantitativo: esso indica, cioè, il numero di parametri la cui ponderazione è oggetto di valutazione e non dovrebbe consentire pertanto, ex se, di distinguere le ipotesi in cui sussiste o non sussiste l’obbligo di una motivazione espressa.
Ciò che conta, a tal fine, è piuttosto la “chiarezza” e la “analiticità” dei criteri (indipendentemente da quanti essi siano), qualità di cui la “articolazione” può al più costituire un indice indiretto: a rigore, argomentando a contrario, anche l’avvenuta definizione di una pluralità di “sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi” non sufficientemente chiari e analitici dovrebbe ritenersi inidonea a dispensare le commissioni di gara dall’obbligo di rendere una motivazione espressa.
D’altronde, nella misura in cui ogni istruttoria procedimentale è, essenzialmente, un accertamento di fatti, “chiarezza” e “analiticità” non possono essere considerate qualità perfettamente distinguibili.
Riferita a un criterio di valutazione o di giudizio, infatti, la “chiarezza” (vale a dire la sua intellegibilità e univocità) non può che derivare dalla possibilità di eseguire operazioni di sussunzione di singole fattispecie concrete in quella astratta, definita dal criterio stesso. Quest’ultimo può dirsi chiaro, in altri termini, allorché consenta di identificare e distinguere gli elementi strutturali della fattispecie astratta dallo stesso visualizzata e di verificarne la presenza o l’assenza in una fattispecie concreta (costituita dall’offerta, dal progetto o dalla domanda di partecipazione). E questa idoneità del criterio altro non è, appunto, se non la sua “analiticità”.
Sebbene la giurisprudenza non chiarisca con troppo scrupolo la ragione che pone la chiarezza e l’analiticità dei criteri quale discrimine tra le fattispecie che esigono o non esigono una motivazione espressa a complemento del punteggio numerico, tale ragione sembra agevolmente individuabile, almeno sul piano teorico. Ove dotato di un adeguato grado di chiarezza e dettaglio, infatti, ogni criterio rappresenta in qualche modo un marker del processo decisionale, evidenzia cioè gli snodi essenziali dell’accertamento compiuto: snodi che, in quanto predeterminati, dovrebbero rappresentare precipui vincoli imposti a una valutazione che è, nel suo complesso, manifestazione di un potere discrezionale[26].
I criteri (se chiari e analitici) consentono insomma di scomporre la valutazione discrezionale dell’amministrazione in una pluralità di accertamenti vincolati (o, quantomeno, dotati di un minore margine di discrezionalità): la sottrazione del giudizio finale all’obbligo di motivazione viene in questo modo a spiegarsi grosso modo negli stessi termini in cui la giurisprudenza giustifica tradizionalmente l’esenzione dei provvedimenti vincolati dal (o la loro solo parziale soggezione al) medesimo obbligo[27].
Schematica e coerente nella sua astratta formulazione di massima, una siffatta impostazione solleva tuttavia non poche perplessità: in primis, quelle stesse perplessità che consentono di dubitare della correttezza dell’assunto secondo il quale i provvedimenti vincolati non necessitano di una motivazione espressa ma, al più, di una ‘giustificazione’[28].
È possibile, infatti, ritenere che, poiché “il provvedimento (art. 3 comma 1, primo periodo) viene identificato con la «decisione amministrativa» (art. 3 comma 1, secondo periodo), […] gli atti vincolati, non comportando decisione alcuna, in senso vero e proprio (scelta tra più alternative), siano sottratti […] all’obbligo di motivazione”[29]. Ma non può escludersi che, anche nei casi in cui la norma attributiva del potere non rimetta all’amministrazione una “scelta tra più alternative”, essa imponga comunque di assumere una “decisione”: basti pensare ai casi in cui l’adozione del provvedimento presuppone la soluzione di un problema complesso in sede di interpretazione di norme giuridiche, casi in cui il rapporto che si instaura tra la legge e il provvedimento è, sul piano strutturale, identico a quello che corre tra la legge e l’atto giurisdizionale (a cui nessuno negherebbe la qualificazione di “decisione” in senso stretto).[30]
Allo stesso modo, non sembra possibile aderire incondizionatamente alla tesi secondo cui la scomposizione di una valutazione discrezionale in una pluralità di accertamenti, rispondenti a criteri chiari e analitici, equivale a una motivazione (e dispensa l’amministrazione dall’obbligo di motivare): occorrerebbe piuttosto, a tal fine, comprendere quale sia il metodo che il giudice è tenuto a seguire per accertare in concreto il carattere chiaro e analitico di ciascun criterio.
Non soccorre, a tal fine, l’indicazione rinvenibile nella quasi totalità delle pronunce in materia, secondo la quale il grado appropriato di specificazione dei criteri è quello che consente di “rappresentare in modo adeguato l’iter logico” seguito dall’amministrazione nel processo di valutazione[31]: è sufficiente un sommario esame delle sentenze che coralmente la ribadiscono, infatti, per accorgersi di quanto disomogenea possa essere l’applicazione di questa regola.
Alcune di tali pronunce, infatti, giudicano adeguato un criterio limitandosi, sostanzialmente, all’esame della sua formulazione letterale e pertanto rigettano ogni censura di difetto (o di insufficienza) della motivazione qualora il criterio stesso (o i sotto-criteri in cui esso talora si articola) fornisca una sufficiente indicazione di senso. È questo filone giurisprudenziale quello che valorizza maggiormente il requisito della “articolazione” per dedurne la idoneità del punteggio numerico a tenere luogo di una motivazione espressa[32].
In altre decisioni, invece, il giudice amministrativo procede a una verifica ‘sul campo’: non si limita ad appurare se, in astratto (per la sua formulazione letterale o per la sua disarticolazione), il criterio consenta di “rappresentare in modo adeguato l’iterlogico” seguito dall’amministrazione ai fini dell’attribuzione del voto o del punteggio, ma ripercorre effettivamente, in sede istruttoria, quell’iter (e dell’esito di questa emulazione dà conto nella motivazione della sentenza)[33].
3. L’accesso diretto al fatto nel giudizio amministrativo: una conquista illusoria?
Al primo dei due filoni giurisprudenziali or ora sinteticamente descritti – i quali non possono propriamente definirsi “orientamenti”, giusto il carattere implicito degli elementi che li distinguono – è riconducibile la pronuncia in commento, la quale si accontenta di accertare, sposando le conclusioni della sentenza di primo grado, la ‘plausibile’ corrispondenza del punteggio ai criteri di cui al d.m. 1 luglio 2014: non proiettando questi ultimi sulle concrete caratteristiche del progetto non ammesso a finanziamento, il giudice omette infatti una effettiva verifica del loro grado di chiarezza e di analiticità.
Il Consiglio di Stato, si è visto, ha rigettato il primo motivo di gravame in quanto privo di specifiche censure avverso la motivazione della sentenza impugnata, la quale, lungi dall’essere affetta dal vizio di omessa pronuncia denunciato dall’appellante, avrebbe “analiticamente operato una ricognizione delle caratteristiche disciplinari della procedura in esame, per concludere nel senso della sussistenza, nel caso di specie, delle garanzie di predeterminazione dei criteri tali da legittimare il ricorso ad un simile meccanismo di espressione del giudizio”[34].
Le “articolate ed approfondite conclusioni […] in relazione all’adeguata predeterminazione dei criteri […] che il Collegio condivide ed alle quali per brevità rinvia”[35] sono, in realtà, contenute in meno di 3 delle 26 pagine in cui si articola la motivazione della sentenza di primo grado[36].
Ivi, il Tar si è limitato a elencare gli indicatori definiti dall’All. B (tabella 19) del D.M. 1 luglio 2014 per la valutazione della “qualità artistica” dei progetti (macro-criterio in relazione al quale l’appellante ha conseguito un punteggio insufficiente) e a riportare il punteggio massimo attribuibile a ciascuno di essi. Nessuno di tali indicatori (di cui la sentenza di primo grado valorizza, essenzialmente, l’articolazione) presenta un grado di chiarezza e analiticità idoneo a “rappresentare l’iter logico” seguito in concreto dall’amministrazione per l’adozione della decisione impugnata: basti dire che tra i due indicatori ai quali è associato il sub-punteggio massimo più elevato, il primo costituisce una tautologica ripetizione del macro-criterio (“qualità artistica del progetto”) e il secondo non è meno vago (“innovatività” e “sostegno al rischio culturale”); tutti gli indicatori, inoltre, sono all’evidenza privi di caratteri che consentano una diretta e univoca misurabilità dei progetti in termini assoluti e, talora, anche in termini comparativi (“strategia di comunicazione”, “qualità della direzione artistica”).
Né il Consiglio di Stato, né il Tar danno dunque conto di avere almeno provato a ipotizzare le ragioni di fatto che hanno condotto l’amministrazione ad attribuire al progetto un punteggio insufficiente sulla base dei descritti parametri.
La pronuncia in commento nega addirittura ogni rilevanza alla circostanza che, in fase cautelare, il Tar avesse imposto alla P.A. di produrre una relazione tecnica integrativa per far luce sulle concrete modalità di assegnazione di punteggi e sub-punteggi e che, in sede di decisione, avesse invece omesso di verificare se i dati così acquisiti fossero completi e chiarificatori: “appare comunque dirimente […] che la valutazione del giudicante […] in relazione al superamento della soglia di sindacabilità giurisdizionale delle valutazioni di merito, assorbe quella relativa alle conseguenze dell’inadempimento dell’incombente istruttorio, dal momento che la qualificazione [fornita dalla sentenza] delle censure come esorbitanti la ridetta soglia rende del tutto superfluo l’esame della documentazione di cui il precedente Collegio aveva, in fase cautelare, ordinato l’esibizione”[37].
L’omissione di una verifica in concreto della qualità e del grado di dettaglio di criteri e indicatori, da parte della sentenza annotata, è dunque pienamente consapevole: la motivazione di tale omissione la si rinviene, tuttavia, non nel capo in cui essa rigetta il primo motivo di impugnazione (contenente, appunto, la doglianza relativa alla genericità dei criteri stessi), ma in quello relativo al secondo motivo, con cui l’appellante aveva dedotto specifiche censure relative alle modalità di svolgimento dell’istruttoria e al suo esito conseguentemente illogico, irragionevole e incongruo (anche in questo caso, denunciando la violazione degli artt. 3 e 12 l. n. 241/1990). Ripercorrere l’iter decisionale seguito dall’amministrazione, per il Consiglio di Stato (come per il giudice di primo grado), equivarrebbe a “tracimare nel merito amministrativo, territorio che, come è noto, fatta esclusione per le materie tassativamente ed esaustivamente indicate nell’art. 134 c.p.a., non è percorribile dal giudice amministrativo in ossequio allo storico ed attuale principio della tripartizione dei poteri”[38].
A ben guardare, è solo con riferimento all’analisi di quest’ultima (teorica e generale) tematica – non al giudizio (concreto e specifico) sull’adeguatezza dei criteri applicati nel caso di specie dall’amministrazione – che la motivazione offerta dal giudice di primo grado può dirsi “articolata e approfondita”: vi si rinviene infatti una lunghissima trattazione dell’istituto della discrezionalità tecnica[39], in appendice alla quale è più sinteticamente analizzato (anch’esso in termini astratti e generalissimi) il problema della sufficienza della motivazione resa mediante voto o punteggio numerico[40].
Sia il giudice di primo grado, sia quello di appello (che ne sposa appieno le conclusioni) intendono in questo modo esporre, richiamando i più recenti approdi giurisprudenziali, gli sviluppi della nota lezione gianniniana sulla “dequotazione” dell’obbligo di motivazione[41]: la legittimità di un provvedimento motivato esclusivamente mediante un valore numerico, in tale prospettiva, sarebbe oggi giustificata dalla maggiore intensità che connota il potere del giudice di accedere alla cognizione del fatto amministrativo in via diretta (al di là della indicazione dei “presupposti di fatto” fornita dalla motivazione) per giudicare del corretto esercizio del potere tecnico-discrezionale.
La ricostruzione del Tar, richiamata dal giudice d’appello, non dimostra, tuttavia, un effettivo incremento dei poteri di accertamento del giudice amministrativo rispetto all’epoca in cui si è affermata “l’impostazione dottrinaria tradizionale [che] ha per lungo tempo assimilato la discrezionalità tecnica alla discrezionalità pura, ammettendo un sindacato del giudice amministrativo su di essa solo rispetto al profilo dell’eccesso di potere”[42]: anche oggi, secondo la sentenza di primo grado, il giudice può esclusivamente, “verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della deliberazione”[43].
I limiti attuali dell’accertamento giudiziale sembrano insomma, già per come descritti in motivazione, del tutto sovrapponibili a quelli del “tradizionale” sindacato sull’esercizio della discrezionalità ‘pura’[44]. Oggi come allora, pertanto, il punto nodale – sia nell’impostazione del problema in termini teorici, sia per la soluzione del caso concreto – sembra essere un altro, vale a dire il filtro che il giudice amministrativo impiega per dar corso a un siffatto sindacato.
Il Consiglio di Stato afferma in proposito che, per stimolare i poteri istruttori dell’autorità giudiziaria, il ricorrente dovrebbe dimostrare “la manifesta irrazionalità od illogicità delle valutazioni contestate”[45]: qualora questa “soglia di sindacabilità” non sia superata, l’accertamento giudiziale risulta precluso, poiché “la censurabilità della discrezionalità tecnica non deve mai arrivare alla sostituzione del giudice all’amministrazione nell’effettuazione di valutazioni opinabili, ma deve consistere nel controllo, ab externo, dell’esattezza e correttezza dei parametri della scienza utilizzata nel giudizio”[46].
Così impostato il problema, risulta difficilmente comprensibile quando il potere di accertamento del giudice possa essere effettivamente provocato dalla parte (e debba essere esercitato) nell’ambito di fattispecie come quella in esame. Infatti, se, da un lato, le censure che lo attivano devono necessariamente riguardare elementi “manifesti”, ciò significa che il loro riscontro non necessita di una vera istruzione probatoria; d’altro canto (e soprattutto), questo carattere “manifesto” è riferito alla “irrazionalità” e alla “illogicità”, vizi da cui solo un ragionamento può essere affetto. E un ragionamento, per definizione, difetta nei provvedimenti motivati esclusivamente mediante un voto o un punteggio.
È indubbio, insomma, che, secondo l’impostazione accolta in sentenza, il privato possa direttamente dedurre l’incongruenza tra il voto o il punteggio, da un lato, e i criteri sulla base dei quali esso è stato quantificato, dall’altro. Tale possibilità è data, tuttavia, soltanto a fronte di criteri che, già prima facie, consentano (altrettanto direttamente) un siffatto esame, quando cioè, per giudicare della legittimità del provvedimento, sia sufficiente un raffronto tra il voto e il criterio, senza alcuna necessità di ripercorrere “l’iter logico” seguito dall’amministrazione per addivenire alla decisione. L’indagine sui fatti da parte del giudice, in questi casi, si atteggia negli stessi termini che sono propri del più elementare accertamento della violazione di legge in un provvedimento vincolato.
Ma quando i criteri non presentino tale idoneità (e l’attribuzione del punteggio non sia dunque passibile di una censura diretta), l’impostazione del Consiglio di Stato conduce a ritenere sostanzialmente non tutelabili gli interessi del cittadino. Non solo, infatti, questi non potrà chiedere al giudice di sostituire il suo apprezzamento a quello della P.A., ma non potrà nemmeno lamentare l’insufficiente “chiarezza” e “analiticità” dei criteri al fine di ottenere un annullamento per vizio di motivazione del provvedimento: anche l’esame di questa censura, infatti, richiederebbe l’esercizio del potere di accertamento che la sentenza in commento ritiene precluso al giudice, in difetto di “manifesta irrazionalità od illogicità delle valutazioni contestate”.
4. Brevi conclusioni
I rilievi svolti nei paragrafi che precedono mirano a evidenziare il corto-circuito argomentativo a cui può condurre, nella sua concreta applicazione da parte del giudice amministrativo, la tesi della fungibilità tra il prototipo di motivazione definito dall’art. 3 l. n. 241/1990 e un voto o un punteggio numerico che faccia applicazione di criteri di decisione predeterminati: nella convinzione di operare una giustificata “dequotazione” dell’obbligo di motivazione, il giudice perviene infatti a un effettivo “depotenziamento”[47] di quest’ultimo.
Non si tratta di un corto-circuito innescato dalle peculiarità del caso affrontato dalla sentenza in commento. La possibilità di impiegare un valore numerico quale sintesi della decisione è infatti riconosciuta assai frequentemente all’amministrazione proprio nelle fattispecie in cui la stessa è titolare di un potere tecnico-discrezionale[48]: ove la tesi della ‘sufficienza del numero’ non sia affiancata da una prudente impostazione del tema della discrezionalità tecnica – e, più in generale, di quello relativo al sindacato del giudice amministrativo sulle questioni di fatto sottese a una controversia – il corto-circuito è pressoché inevitabile.
La sentenza qui annotata afferma essenzialmente che (i) il punteggio numerico costituisce una motivazione sufficiente qualora faccia applicazione di criteri di decisione adeguatamente predeterminati, anche in considerazione del fatto che (ii) il giudice amministrativo può e deve verificare tale adeguatezza, ma (iii) questa verifica non può consistere nella ri-edizione, in sede di istruttoria processuale, degli accertamenti che la legge demanda all’amministrazione, pena l’invasione da parte del potere giudiziario di un ambito riservato al merito amministrativo.
Il corto-circuito sta nel fatto che, nella gran parte dei casi, (iii) lo svolgimento di un’istruttoria processuale idonea a replicare l’iter valutativo seguito dall’amministrazione è imprescindibile (ii) per attestare l’adeguatezza (o l’inadeguatezza) dei criteri e la loro logica (o illogica) applicazione al caso concreto, di modo che, ritenendo precluso al giudice un siffatto sindacato, (i) l’equivalenza tra il punteggio numerico e il paradigma di motivazione definito dall’art. 3 l. n. 241/1990 resta indimostrata.
Non sembra del resto che, valutando in concreto le qualità dei criteri che la giurisprudenza è solita indicare con “chiarezza” e “analiticità”, il giudice amministrativo possa invadere in alcun modo l’ambito del merito amministrativo e ancor meno che possa attentare al principio di separazione dei poteri: questo timore, troppo spesso esternato dalla giurisprudenza, sembra infatti fondato su un’erronea confusione tra i limiti dei poteri cognitori e i limiti dei poteri decisori esercitabili nella giurisdizione di legittimità.
Emulare in sede giudiziale il procedimento amministrativo di valutazione, infatti, non dà di per sé luogo ad alcuna “sostituzione del giudice all’amministrazione”. Ciò potrebbe dirsi qualora la replica dell’accertamento in sede di istruttoria processuale fosse strumentale a verificare la correttezza delle conclusioni raggiunte dal provvedimento impugnato: l’effetto conformativo della sentenza, in questo caso, potrebbe infatti dar luogo, pro futuro, a una “sostituzione” della valutazione giudiziale a quella (discrezionale) dell’amministrazione.
Allorché (come nelle fattispecie qui in esame) la pretesa ‘intrusione’ del giudice nell’ambito delle valutazioni discrezionali abbia, invece, il limitato fine di accertare il razionale fondamento del provvedimento (l’adeguatezza dei criteri) e la sua logica tenuta rispetto ai fatti per cui è causa (il voto o punteggio assegnato), non pare profilarsi alcun rischio di “sostituzione” di una valutazione del giudicante alle scelte dell’amministratore. Ferma restando l’esclusiva pertinenza della “opinabilità” della decisione alla sfera di attribuzione della P.A., infatti, non v’è dubbio che anche le opinioni debbano essere logiche, razionali e pertanto giustificabili mediante un’argomentazione: e la possibilità di argomentare in modo univoco una (sia pure opinabile) decisione amministrativa carente di una motivazione espressa costituisce, almeno in questi casi, il precipuo e unico fine di un accesso del giudice alla piena cognizione del fatto controverso, senza sbarramenti derivanti da pretese (e inesistenti) “soglie di sindacabilità”.
Questa conclusione non è di certo appagante, poiché non risolve – e anzi apre la strada a – una teoria di spinosi e insoluti problemi (a partire da quello relativo al rilievo degli eventuali apporti istruttori forniti in giudizio dall’amministrazione per chiarire il fondamento della decisione ‘numerica’ impugnata) e suscita timori senz’altro fondati (in primis, appunto, quello di ammettere senza riserve la c.d. motivazione postuma in corso di causa)[49].
È poi evidente che – in disparte problemi e timori – la stessa conclusione relega in secondo piano quelle esigenze di economicità che non è troppo malizioso considerare il principale fondamento dell’orientamento del giudice amministrativo e della Corte costituzionale in materia di ‘motivazione numerica’: essa finisce con il trasferire sull’attività giurisdizionale (e probabilmente in grado più elevato) l’antieconomicità da cui lo stesso orientamento intende porre al riparo l’azione amministrativa. La scarsa attenzione per tali esigenze (del resto figlie di una lettura quantomeno opinabile del principio di buon andamento[50]) è tuttavia inevitabile una volta assodato che, in una molteplicità di fattispecie concrete, l’obbligo di esternare una motivazione (o almeno di fornire gli elementi sufficienti e necessari per la sua concreta ricostruzione in sede processuale) si rivela indispensabile per consentire l’accesso del cittadino alla tutela giurisdizionale ed è, pertanto, indubbiamente diretto “a presidiare l'adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall'ordinamento per la tutela in giudizio” [51].
[1] Tar Lazio, Roma, 4 luglio 2017, n. 7699.
[2] Decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, 1 luglio 2014 (in G.U.R.I., serie gen. 19 agosto 2014, n. 191, suppl. ord. n. 71), recante “Nuovi criteri per l’erogazione e modalità per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo unico per lo spettacolo, di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163”, ai sensi dell’articolo 9 del d.l. 8 agosto 2013, n. 91 (convertito in legge 7 ottobre 2013, n. 112), sostitutivi dei criteri precedentemente fissati dai decreti ministeriali 8 novembre 2007, 9 novembre 2007, 12 novembre 2007 e 20 novembre 2007, e successive modificazioni, per l’erogazione dei contributi in favore, rispettivamente, delle attività di danza, musicali, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante (art. 1).
[3] Ai sensi dell’art. 5, c. 2, d.m. 1 luglio 2014, “Le domande di contributo […] sono valutate […] attribuendo ai relativi progetti un punteggio numerico, fino ad un massimo di punti cento, articolato secondo le seguenti categorie e relative quote: a) qualità artistica, fino ad un massimo di punti trenta, attribuiti dalle Commissioni consultive competenti per materia, secondo i parametri previsti per ogni settore di cui all’Allegato B del presente decreto, che ne costituisce parte integrante, e le modalità di cui al comma 3 del presente articolo; b) qualità indicizzata […]; c) dimensione quantitativa […].
[4] Non si terrà qui conto del capo della sentenza con cui è stato respinto il terzo motivo di appello, concernente il mancato esame, da parte del Tar, della censura di cui al terzo motivo di ricorso in primo grado, con il quale si lamentava un difetto di istruttoria derivante dall’omesso controllo, da parte dell’amministrazione, sul contenuto delle dichiarazioni sostitutive presentate dagli altri partecipanti a corredo delle rispettive istanze (cfr. il par. 9 della sentenza in commento).
[5] Sulla inammissibilità del motivo di appello che si limiti a reiterare le censure mosse in primo grado, senza esprimere specifiche critiche alla sentenza impugnata, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21 marzo 2019, n. 1873; sez. IV, 27 dicembre 2018, n. 7234; sez. V, 16 novembre 2018, n. 6464; sez. V, 13 settembre 2018, n. 5369.
[6] Così la sentenza in commento, al par. 3.
[7] Cfr. il par. 5 della pronuncia annotata e il punto 15 di Tar Lazio n. 7699/2017 cit.
[8] Per la nozione di motivazione intesa come discorso giustificativo v. per tutti A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato giurisdizionale, Milano 1987, 18.
[9] Così la sentenza di primo grado (par. 13), che richiama il principio di diritto riportato nella gran parte delle pronunce del giudice amministrativo in materia (cfr., da ultimo, Tar Lazio, Roma, 27 gennaio 2023, n. 1456 e 16 dicembre 2022, n. 16977; Consiglio di Stato, sez. III, 29 dicembre 2022, n. 11547, sez. VII, 21 novembre 2022, n. 10260 e sez. V, 10 novembre 2022, n. 9845) e di cui fa menzione anche la giurisprudenza costituzionale di cui subito si dirà.
[10] Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009, n. 20, sulla quale v. R. Basile, La querelle sulla motivazione delle prove dell'esame per l'abilitazione alla professione di avvocato e l'assenza di un dialogo fecondo tra la Corte costituzionale e i giudici amministrativi, in Il Foro amministrativo (T.a.r), 12/2010, 4083 ss.; M. Didonna, È “diritto vivente” il voto alfanumerico. La Consulta finalmente ammette, ma respinge: a un passo dal pronunciamento di merito, in Il Corriere Giuridico, 6/2009, 766 ss.; Id., Il voto numerico dell'esame di avvocato torna alla Consulta: "fuochino" del T.A.R. Lombardia, ibid., 6/2010, 794.
[11] Corte costituzionale, 8 giugno 2011, n. 175, su cui v. i commenti di F.G. Scoca, Punteggio numerico e principio di buon andamento, in Giurisprudenza costituzionale, 3/2011, 2279 ss; M. Didonna, “Il voto alfanumerico è motivazione": la Consulta chiude la partita degli avvocati, in Il Corriere giuridico, 12/2011, 1669 ss.; I. Sigismondi, La Corte costituzionale salva il "diritto vivente", in Giurisprudenza italiana, 6/2012, 1267 ss.
[12] Così Tar Lazio, Roma, 8 luglio 2013, n. 6672, che riferisce l’indirizzo alla giurisprudenza prevalente richiamando Consiglio di Stato, sez. IV, 19 ottobre 2007, n. 5468; 20 novembre 2000, n. 6160; 1 febbraio 2001, n. 367; sez. VI, 13 gennaio 1999, n. 14 e 27 maggio 1996, n. 747. Più di recente fa proprio l’argomento il parere su ricorso straordinario espresso da Consiglio di Stato, sez. II, 26 settembre 2016, n. 1979.
[13] Cfr. da ultimo Tar Lazio, Roma, 21 luglio 2022, n. 10428, ove si richiama il “consolidato assunto [sulla] natura delle decisioni delle commissioni esaminatrici, che sono atti di natura mista, e cioè di natura provvedimentale e di natura di “giudizio””: in termini v. già Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 novembre 2012, n. 5581 e 6 giugno 2011, n. 3402. Ambigua, sul punto, anche la posizione espressa dal Tar Lazio nella pronuncia confermata dalla sentenza in commento, ove l’attenuazione dell’obbligo di motivazione è giustificata mediante il richiamo della nozione di discrezionalità tecnica (par. 13, lett. a): “allorquando si procede con l'attribuzione di un giudizio di valore, non si è nel campo della discrezionalità amministrativa, ma in quello della discrezionalità tecnica, nell'ambito della quale, non sussistendo una scelta fra opposti interessi, non vi è luogo ad una motivazione, che è invece l’espressione tipica della spiegazione di una scelta amministrativa (cfr, in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 19 febbraio 2007 n. 5468)”
[14] Cfr. G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enciclopedia del diritto, Milano 2001, ad vocem, 782, ove efficacemente si rileva che, se la propugnata distinzione tra i concetti di giudizio e di provvedimento fosse fondata, “ne dovremmo dedurre che neppure i pareri del Consiglio di Stato (anch’essi non provvedimenti) devono essere motivati”.
[15] C. cost. n. 175/2011 cit., par. 3.
[16] Ibid.., par. 3.1.
[17] Ibid., loc. cit.. Il riferimento all’anti-economicità della motivazione espressa è pressoché costante nella giurisprudenza amministrativa in materia, sebbene, nella gran parte dei casi, nella forma di un argomento ad colorandum: v. ad es. Tar Lazio 7699/2017 cit. (non espressamente richiamata sul punto dalla pronuncia annotata), secondo la quale “il voto numerico […] esprime e sintetizza in modo adeguato il giudizio tecnico-discrezionale espresso da una commissione di valutazione, contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, atteso che la motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere al principio di economicità e proporzionalità dell'azione amministrativa di valutazione, consente la necessaria spiegazione delle valutazioni di merito compiute dalla commissione e il sindacato sul potere amministrativo esercitato” (par. 13, lett. b). La sentenza richiama Consiglio di Stato, sez. VI, 4 novembre 2013, n. 5288, 21 ottobre 2013, n. 5075; sez. IV, 21 ottobre 2013, n. 5107; sez. V, 11 giugno 2013, n. 3219, 13 febbraio 2013, n. 866; sez. VI, 11ottobre 2007, n. 5347, TAR Lazio, Roma, 15 ottobre 2013 n. 8860 e 18 ottobre 2012 n. 8633.
[18] Questa era stata, invece, l’impostazione delle questioni di legittimità costituzionale respinte da Corte Costituzionale, ord. 3 novembre 2000, n. 466, in Il Corriere giuridico, 12/2000, con nota di A.L. Tarasco, Diritto vivente e obbligo di motivazione nei concorsi pubblici: la Corte costituzionale “si astiene” (1571 ss.)
[19] Non sembra, infatti, che alle decisioni della Corte costituzionale possa essere riconosciuta la funzione di garantire l’uniforme interpretazione della legge ordinaria (al di fuori ovviamente, delle ipotesi in cui tale effetto derivi da una pronuncia interpretativa di rigetto e nella stretta misura in cui questa abbia lo scopo di impedire letture della norma di legge contrarie al dettato costituzionale): la Corte avrebbe potuto a pieno titolo escludere, insomma, che le garanzie del giusto procedimento imposte dalla Carta fondamentale includano un obbligo di motivazione corrispondente al modello definito dell’art. 3 l. proc., non offrire una lettura della stessa norma che, senza alcuno scopo di garantirne un’interpretazione conforme a Costituzione, ne depotenzia la portata precettiva.
[20] Per questa formulazione del principio, pacifico in giurisprudenza, cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 12 marzo 2021, n. 2118. L’indirizzo si era già consolidato sotto la vigenza dell’art. 83, c. 4, del vecchio Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006): cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14 gennaio 2019, n. 291; Consiglio di Stato, sez. V, 8 ottobre 2010, n. 7346.
[21] In argomento v. F. Cardarelli, Criteri di aggiudicazione, in M.A. Sandulli, R. De Nictolis, Trattato sui contratti pubblici, III, Milano 2019, 560 ss.
[22] Nel caso qui in esame, operata dal d.m. 1 luglio 2014.
[23] Cfr. in questo senso Tar Lazio, Roma, 8 novembre 2021, n.11421: “Quando l'insieme dei criteri o dei sub-criteri fornito dalla disciplina della procedura, con i relativi punteggi e i sub-punteggi, è sufficientemente chiaro, analitico e articolato, sì da delimitare adeguatamente il giudizio della Commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo e da rendere con ciò comprensibile l’iter logico seguito in concreto nel valutare i singoli progetti in applicazione di puntuali criteri predeterminati, permettendo così di controllarne la logicità e la congruità, la motivazione con i punteggi numerici è sufficiente. Nell'ambito di procedimenti valutativi di offerte o progetti per l’attribuzione di un contributo pubblico, come quello di specie, deve ritenersi che rientra nell'ambito della discrezionalità dell'amministrazione l'individuazione e la conformazione dei criteri di valutazione delle offerte o dei progetti stessi. Questa scelta è passibile di sindacato giudiziale solo qualora tali criteri siano manifestamente irragionevoli, illogici o abnormi”. V. anche Consiglio di Stato, sez. II, 24 luglio 2020, n. 4733.
[24] Tar Campania, Napoli, 29 luglio 2020, n. 3413.
[25] Il virgolettato nel testo è tratto da Tar Calabria, Catanzaro, 10 luglio 2019, n. 1410; nello stesso senso v. Tar Lombardia, Milano, 13 maggio 2022, n. 1113; Tar Liguria, 30 novembre 2018, n. 935.
[26] Sul tema v. ampiamente A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell'esercizio del potere discrezionale, Napoli 1999.
[27] In questo senso, da ultimo, v. di recente Consiglio di Stato, sez. VI, 30 luglio 2019, n. 5388; contra sez. VI, 7 novembre 2019, n. 7603.
[28] M.S. Giannini, Motivazione. III Motivazione dell’atto amministrativo, in Enciclopedia del diritto, Milano 1977, ad vocem, 258 ss. e 262 ss.. La giustificazione è qui intesa come semplice enunciazione dei presupposti normativi e fattuali del provvedimento e, in questa misura, può comunque essere distinta dalla motivazione in senso stretto, anche depurando quest’ultima nozione dai connotati soggettivo-psicologici che le attribuiva la dottrina più risalente (C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione con particolare riguardo agli atti amministrativi, Roma, 1933). A differenza di una giustificazione, infatti, la motivazione consiste sempre nella formulazione di un ragionamento in grado di collegare in modo logico i presupposti normativi e i dati fattuali acquisiti in sede istruttoria con il contenuto dispositivo della decisione. Cfr. G. Corso, Motivazione degli atti amministrativi e legittimazione del potere negli scritti di Antonio Romano Tassone, in Diritto amministrativo, 3/2014, 463 ss.
[29] G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo, cit., 780.
[30] La complessità dell’attività interpretativa può, peraltro, avere a oggetto i presupposti fattuali identificati dalla norma e dunque tradursi in complessità dell’accertamento di fatto anche nell’ambito dei provvedimenti vincolati. La distinzione tra questioni di fatto e di diritto – da sempre dibattuta (e talvolta negata: cfr. A. Nasi, Fatto (giudizio di), in Enciclopedia del diritto, Milano 1967, 981) con riferimento alla funzione (e ai limiti) dell’accertamento processuale (v. per tutti S. Satta, Commentario al Codice di procedura civile, Milano, 1959/62, II, pt. II, 190 ss. e F. Mazzarella, Analisi del giudizio civile di Cassazione, Padova, 2003, 83 ss.) – assume fisionomia peculiare nell’ambito del diritto amministrativo allorché il “fatto” sia oggetto di una valutazione discrezionale dell’amministrazione. La difficoltà di tracciare una netta linea di confine tra il sindacato che il giudice è chiamato a svolgere sugli accertamenti di fatto, sulla qualificazione giuridica dei fatti o sulla valutazione discrezionale dei presupposti fattuali accomuna per molti aspetti gli ordinamenti di civil e common law (cfr. P. Craig, Eu Administrative Law, Oxford 2018, 436 ss.), ma nel sistema italiano rappresenta, notoriamente, un tema di cruciale importanza per definire la fisionomia e i limiti della giurisdizione amministrativa di legittimità: in argomento cfr. V. Berlingò, Fatto e giudizio. Parità delle parti e obbligo di chiarificazione nel processo amministrativo, Napoli 2020, 143 ss.
[31] Per la giurisprudenza più recente (oltre alle già citate C.d.S. n. 2118/2021, Tar Lazio n. 11421/2021, Tar Campania n. 3413/2020, Tar Lombardia n. 1113/2022), cfr. ex multis Tar Lazio, Roma, 21 febbraio 2022, n. 2016; Consiglio di Stato, sez. V, 14 gennaio 2019, n. 291 e sez. III, 29 ottobre 2020, n. 6618.
[32] Tale approccio, ampiamente rappresentato dalla giurisprudenza dei Tar (v. ad es. Tar Marche, 14 luglio 2022, n. 415; Tar Lazio, Roma, 25 giugno 2022, n. 8627; Tar Friuli-Venezia Giulia, 10 maggio 2022, n. 224) non è estraneo alle decisioni del Consiglio di Stato (v. ad es., di recente, Consiglio di Stato sez. I, 1 agosto 2022, n. 1332; sez. V, 14 gennaio 2019, n. 291) specialmente ove oggetto del giudizio siano le valutazioni rese all’esito di selezioni, concorsi o esami pubblici: cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 10 maggio 2021, n. 3677; Consiglio di Stato sez. II, 12 febbraio 2021, n. 1290 (la quale conferma la decisione di primo grado – Tar Lazio, Roma, 24 aprile 2013, n. 4180 – riformandone però la motivazione, nella misura in cui essa dava conto di un “approccio cognitivo” che il giudice di appello ritiene invece precluso al giudice amministrativo, vale a dire la “verifica della correttezza del giudizio negativamente espresso dalla commissione concorsuale”); Consiglio di Stato, sez. IV, 15 ottobre 2020, n. 6258.
[33] In questo senso, da ultimo, C.d.S. n. 9845/2022 cit. e n. 2118/2021 cit.; v. anche Tar Lombardia, Milano, n. 1113/2022 cit.. Di notevole interesse anche C.d.S. n. 6618/2020 cit., che annulla la sentenza di primo grado (T.A.R. Sardegna, 14 aprile 2020, n. 218) pur condividendo il principio di diritto dalla stessa enunciato, secondo cui “il punteggio numerico espresso sui singoli oggetti di valutazione opera alla stregua di una sufficiente motivazione solo allorquando l'apparato delle voci e sottovoci fornito dalla disciplina della procedura, con i relativi punteggi, è sufficientemente chiaro, analitico e articolato, sì da delimitare adeguatamente il giudizio della Commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo e da rendere con ciò comprensibile, e controllabile nella sua congruità, l'iter logico seguito in concreto nel valutare le proposte in gara”: l’errore del Tar, secondo il giudice d’appello, consiste nell’avere richiamato la consolidata massima senza procedere a una verifica in concreto della possibilità di ricostruire il percorso logico seguito dall’amministrazione e di avere così reputanto legittimo l’operato di quest’ultima con una motivazione “del tutto apodittica ed elusiva”.
[34] Cfr. la sentenza in commento, par. 3.
[35] Ibid., loc. cit.
[36] Tar Lazio n. 7699/2017 cit., par. 15.
[37] Par. 6.
[38] Così la sentenza in commento al par. 5, mutuato integralmente dalla pronuncia di primo grado (par. 15).
[39] Tar Lazio n. 7699/2017 cit., parr. 11 e 12.
[40] Ibid., par. 13.
[41] Com’è noto, secondo la ricostruzione dell’A., l’obbligo di motivazione, originariamente unico strumento impiegabile dal giudice per esercitare un controllo che andasse oltre la legalità formale del provvedimento, avrebbe in parte ceduto il passo, in progresso di tempo, a più incisive forme di indagine sul cuore dell’agire amministrativo: il correlato storico dell’ampliamento del sindacato sull’eccesso di potere è, insomma, l’emersione di ipotesi in cui l’esistenza sostanziale del motivo ‘salva’ dall’annullamento il provvedimento lacunoso in punto di motivazione: M.S. Giannini, Motivazione, cit., 265 s.
[42] Così l’incipit del par. 11 di Tar Lazio n. 7699/2017 cit.
[43] Ibid., par. 12.
[44] Diversamente dalla “analitica e approfondita” ricostruzione di Tar Lazio n. 7699/2017 cit., buona parte della giurisprudenza non mette in dubbio, nell’approdare alle medesime conclusioni in relazione all’ampiezza del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica, la sua assimilabilità al sindacato sulla discrezionalità pura: cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. II, 23 febbraio 2021, n. 1568.
[45] Così la sentenza in commento al citato par. 5 e al par. 8.
[46] Così Tar Lazio n. 7699/2017 cit., par. 12.
[47] M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, 3/2017, 896.
[48] È il caso di avvertire che l’analisi svolta nel testo prescinde per scelta da un’indagine sulla nozione di discrezionalità tecnica (su cui v. per tutti D. De Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova 1995), dall’esame degli argomenti che ne evidenziano la “intima contraddittorietà” (F.G. Scoca, Punteggio numerico e principio di buon andamento, cit., 2282) e che sottolineano come la sua “insindacabilità piena ed effettiva” rappresenti un “mito” della giurisprudenza amministrativa (così Id., Sulla effettività della tutela dell’interesse legittimo nel processo, in G. Corso, F.G. Scoca, A. Ruggeri, G. Verde (a cura di), Scritti in onore di Maria Immordino, Vol. IV, Napoli 2022, 3367 ss.), mito per buona parte smentito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. sent. 7 settembre 2020, n. 18592). Né, con specifico riferimento al caso esaminato, si intende sottoporre a specifica critica la (pur poco convincente) tesi secondo cui sarebbero le nozioni della scienza e della tecnica a consentire la valutazione della “qualità artistica” di un progetto: le riflessioni qui proposte intendono piuttosto assumere la nozione di discrezionalità tecnica in termini puramente stipulativi, identificandone la fisionomia e l’ampiezza così come descritte dalla pronuncia di appello, da quella di primo grado che essa conferma e dalla giurisprudenza ivi richiamata. Sembra, infatti, che la prospettiva metodologica in cui si inscrive la decisione annotata riveli i propri punti di debolezza e contraddittorietà pur dando per buona tale ricostruzione.
[49] In tema v. F.A Bella, Limiti alla convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio (nota a Cons. Stato, sez. VI, n. 3385/2021), in questa Rivista, 10 novembre 2021. Cfr. anche G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Diritto processuale amministrativo, 4/2017, 1235 ss.
[50] F.G. Scoca, Punteggio numerico e principio di buon andamento, cit. 2281 ss.
[51] Ciò è, invece, quanto la Corte costituzionale ha negato con le citate pronunce n. 20/2009 e 175/2011 (dal cui par. 3.2. è tratto il virgolettato nel testo). È noto, peraltro, come il giudice delle leggi abbia adottato in altre (e altrettanto recenti) occasioni una posizione opposta, affermando espressamente che l’obbligo di motivazione ha proprio la funzione di consentire “al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale” e ha pertanto dichiarato l’illegittimità di norme di legge che non ne garantivano il rispetto per violazione dell’art. 24 Cost. (cfr. Corte costituzionale, 5 novembre 2010, n. 310).