Accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori e condanna alle spese in caso di cessata materia del contendere (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824).
Silia Gardini*
Sommario: 1. Inquadramento dell’istituto della cessazione della materia del contendere nell’ambito del processo amministrativo – 2. L’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse – 3. La sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824 della VI sezione del Consiglio di Stato – 3.1 L’accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori – 3.2 Soccombenza c.d. “virtuale” e condanna alle spese
1.Inquadramento dell’istituto della cessazione della materia del contendere nell’ambito del processo amministrativoL’espressione “cessazione della materia del contendere” è una formula terminativa del processo emersa dalla necessità pretoria di fronteggiare – in pendenza del procedimento giurisdizionale – il sopraggiungere di un elemento che abbia diretta incidenza sulla vicenda dedotta in giudizio. Affrontare il tema della cessazione della materia del contendere vuol dire, dunque, esaminare tutti quei casi in cui l’irrompere sulla scena processuale di una sopravvenienza (fattuale o provvedimentale), atta a modificare la situazione che era stata cristallizzata al momento della proposizione del ricorso, possa produrre effetti estintivi sullo stesso giudizio. Sotto questo profilo, le dinamiche sottese al processo amministrativo sono del tutto peculiari e risultano strettamente connesse all’evoluzione che, nel corso degli anni, ha attraversato lo stesso sistema di giustizia amministrativa.
Diversamente da quanto è avvenuto nell’ambito del processo civile[1], nel processo amministrativo la declaratoria di cessazione della materia del contendere si riconnette storicamente alla necessità di inglobare nella vicenda processuale l’atto o il fatto sopravvenuto che incida sul provvedimento impugnato. Se il giudizio era, in una prima fase, proiettato alla sola verifica della legittimità di un determinato provvedimento, l’intero processo risultava inevitabilmente condizionato dalla vita di quello stesso atto, «con riferimento alla sua insorgenza, al suo decorso, alla sua estinzione»[2] ed appariva quasi doveroso per il giudice il rilevarne d’ufficio le relative implicazioni. Così, in tutti i casi di provvedimento sopravvenuto (anche laddove ciò non risultasse soddisfacente per l’interesse del ricorrente), veniva emessa una pronuncia di cessazione della materia del contendere sulla base della sola constatazione del venir meno dell’atto. Come rilevato in dottrina, questo assetto giurisprudenziale «deriva[va] direttamente dalla rigida concezione del processo amministrativo come processo di impugnazione di un atto: di un processo, cioè, i cui limiti sono rigorosamente posti dall’atto stesso»[3].
Il riconoscimento legislativo dell’istituto della cessazione della materia del contendere è avvenuto soltanto con la legge n. 1034/1971 (c.d. Legge T.a.r.), il cui art. 23, comma 7 disponeva che, se entro il termine per la fissazione dell’udienza, l’amministrazione avesse annullato o riformato l’atto impugnato in modo conforme alla istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo regionale avrebbe dovuto “dare atto” della cessata materia del contendere e provvede sulle spese[4]. La portata innovativa della norma – già auspicata, de iure condendo, dalla dottrina – era evidente: circoscrivendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere alle sole ipotesi in cui l’atto di annullamento o di riforma del provvedimento impugnato risultasse conforme alle istanze del ricorrente, la Legge T.a.r. rendeva il Giudice amministrativo conoscitore del fatto al fine di accertare il permanere di una lesione, pur nel venir meno del provvedimento amministrativo che aveva dato origine al giudizio.
La pronuncia di c.m.c. venne, così, ricondotta all’accertamento di una vicenda sostanziale, dal quale si fece discendere altresì la preclusione nei confronti dell’amministrazione a modificare la situazione giuridica posta in essere con il provvedimento, anteriormente emanato, da cui fosse conseguita l’integrale soddisfazione dell’interesse legittimo fatto valere dal ricorrente[5].
In una prima fase, però, nel silenzio del legislatore, non appariva ancora del tutto certo se alla sentenza – poi decreto[6] – di cessazione della materia del contendere dovesse attribuirsi natura di pronuncia di rito ovvero di merito. Ad ogni modo, dopo qualche incertezza, la giurisprudenza prevalente optò per il riconoscimento della natura di pronuncia di merito della c.m.c., facendo leva sulla tipologia di accertamento (relativo alla conformità della sopravvenienza rispetto all’interesse del ricorrente) che il giudice, con essa, era chiamato ad operare.
Le risultanze di questa lunga elaborazione dell’istituto sono, poi, confluite nel Codice del processo amministrativo che – com’è noto – ha inserito la disciplina della pronuncia di cessazione della materia del contendere nell’art. 34, dedicato alle sentenze di merito, disponendo che «qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta, il giudice dichiara cessata la materia del contendere».
La novità più rilevante introdotta dalla norma codicistica si rinviene nell’impiego di una locuzione più chiara e sintetica rispetto alla formula lessicale adoperata dalla normativa previgente, che – espungendo il riferimento espresso all’annullamento o alla riforma dell’atto impugnato da parte dell’Amministrazione – connette, senza più alcun dubbio interpretativo, la pronuncia di cessata materia del contendere esclusivamente al pieno soddisfacimento della pretesa azionata con il ricorso, indipendentemente dalla domanda esperita.
Di conseguenza, oltre all’ipotesi tradizionale di annullamento con efficacia ex tunc – ovvero la riforma in chiave satisfattoria – del provvedimento impugnato, si avrà certamente una pronuncia di cessazione della materia del contendere ai sensi dell’art. 34, comma 5 c.p.a., ad esempio, nel casi di pagamento di una somma di denaro pretesa dal privato (anche nel corso di un giudizio risarcitorio), di rilascio del provvedimento richiesto nell’ambito del giudizio avverso il silenzio dell’Amministrazione, di esecuzione della sentenza da parte della P.A. in pendenza di un giudizio di ottemperanza. A contrario, non potranno in alcun modo determinare cessazione della materia del contendere l’atto di revoca del provvedimento impugnato, avente ex lege efficacia ex nunc, l’annullamento parziale dell’atto lesivo, la sostituzione dello stesso provvedimento con altro atto sostanzialmente confermativo delle decisioni precedentemente assunte, né – nell’ambito del rito avverso l’inerzia della p.a. – l’emanazione di un provvedimento espresso di diniego[7].
A ben vedere, il minimo comun denominatore di tutte le fattispecie di cessazione della materia del contendere si sostanzia nell’accertamento da parte del giudice – attraverso una pronuncia di merito idonea a formare giudicato sostanziale e, dunque, a condizionare, con effetti preclusivi e conformativi, il successivo esercizio del pubblico potere – della natura della sopravvenienza (fattuale o provvedimentale), che deve risultare capace di determinare una nuova configurazione del rapporto tra privato e pubblica amministrazione e riconoscere al primo le stesse identiche utilità che avrebbe potuto conseguire con l’accoglimento del ricorso[8].
2. L’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse
Prima della legge n. 1034/1971, le ipotesi di sopravvenienza idonee ad influire sul giudizio in corso di venivano fatte confluire indistintamente nelle due formule decisorie della “cessazione della materia del contendere” e della “improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse”. Solo successivamente all’emanazione della Legge T.a.r., la giurisprudenza si proiettò verso la piena scissione concettuale dei due istituti.
Il discrimine si coglieva in pieno volgendo lo sguardo agli effetti prodotti dalla sopravvenienza nella sfera giuridica soggettiva del ricorrente: se la pronuncia di cessazione della materia del contendere discendeva da eventi direttamente incidenti sull’oggetto del giudizio (fosse esso identificato con il provvedimento impugnato, ovvero con il rapporto instaurato tra amministrazione e privato), facendo conseguire al privato l’utilità agognata, la sopravvenuta carenza di interesse si ricollegava ad una modificazione della sfera personale del soggetto che interferiva con il mantenimento dell’interesse ad agire[9]. In altre parole, si rilevò che nella prima figura la sopravvenienza causava il venir meno dell’interesse materiale alla tutela giurisdizionale, in virtù del pieno soddisfacimento della pretesa sostanziale del ricorrente, laddove, nella seconda, essa incideva sul mantenimento di un presupposto processuale, determinando l’impossibilità per il ricorrente di conseguire un risultato vantaggioso da una eventuale pronuncia di accoglimento e, di conseguenza, l’inutilità di un pronunciamento giudiziale sulla fondatezza del ricorso[10]. Da qui la configurazione della dichiarazione di carenza sopravvenuta di interesse come pronuncia di mero rito, a fronte della natura di merito dell’accertamento posto alla base della cessazione della materia del contendere.
Il Codice del processo amministrativo, a differenza della Legge T.a.r. del 1971, ha previsto espressamente la figura della carenza sopravvenuta di interesse: l’art. 35, comma 1, lett. c) c.p.a. ricomprende tale formula processuale tra le sentenze di rito, stabilendo che «il giudice dichiara, anche d’ufficio, il ricorso (…) improcedibile quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse di una delle parti alla decisione». L’art. 84, comma 4 c.p.a. – ad integrazione della disposizione precedente – prevede, poi, che il giudice, anche a prescindere da una rinuncia di parte, possa desumere dall’intervento di fatti o atti univoci, successivi alla proposizione del ricorso, nonché dal comportamento delle parti, argomenti che provino la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa.
Sul punto, la giurisprudenza più recente ha sostanzialmente mantenuto l’orientamento già consolidatosi sotto la vigenza della l. n. 1034/1971, affermando a più riprese che la sopravvenuta carenza di interesse si verifica quando – a seguito della modificazione della situazione di fatto e di diritto cristallizzata al momento della proposizione della domanda – l’eventuale accoglimento del ricorso non produrrebbe più alcuna utilità per il ricorrente, facendo venir meno la condizione dell’azione dell’interesse a ricorrere[11]. L’esempio tipico di sopravvenuta carenza di interesse si verifica laddove l’Amministrazione adotti, nelle more del giudizio, un nuovo provvedimento che fissi un diverso assetto degli interessi, in modo che i rapporti con il privato risultino regolati dal nuovo atto e l’eliminazione giurisdizionale di quello impugnato non avrebbe più alcuna utilità. L’esclusione di ogni risultato utile può verificarsi, inoltre, quando l’atto del cui annullamento si discute abbia consumato la sua efficacia, ovvero quando il rapporto giuridico sotteso al provvedimento impugnato sia stato oggetto di una nuova regolazione intervenuta nel corso del giudizio, o – ancora – quando il ricorrente non abbia impugnato un atto presupposto o collegato da cui derivano effetti sfavorevoli.
In ogni caso, però, al fine di scongiurare la possibile elusione dell’obbligo di decidere sulla domanda proposta[12], l’indagine condotta dal giudice in tali circostanze è considerata particolarmente gravosa, sicché il mantenimento di qualsivoglia interesse di parte all’esame della censura (sia pure esso solamente strumentale o morale, ma pur sempre correlato ad una lesione attuale cagionata dall’azione amministrativa[13]) giustificherebbe l’esigenza di una decisione di merito[14].
In particolare, ciò si verifica quando il ricorrente, pur non potendo trarre più alcuna utilità dall’annullamento del provvedimento impugnato, mantenga tuttavia un interesse ad ottenere il ristoro per il pregiudizio patito in conseguenza dell’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa. In altre parole, in tutti quei casi in cui viene meno l’interesse alla tutela in forma specifica consistente nell’annullamento dell’atto, ma permane l’interesse a conseguire una tutela per equivalente che risarcisca il privato dei danni eventualmente subiti.
La fattispecie, disciplinata espressamente dall’art. 34, comma 3 c.p.a. – a norma del quale «quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori» – ha dato vita ad un intenso dibattito giurisprudenziale ed è stata analizzata dall’annotata sentenza del Consiglio di Stato, che ne ha efficacemente chiarito l’ambito di applicazione, anche con riguardo all’istituto della cessazione della materia del contendere.
3. La sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824 della VI sezione del Consiglio di Stato
Il caso oggetto della pronuncia in commento, esaminato dal Consiglio di Stato con la sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824, si riferisce ad una procedura valutativa per la chiamata di due professori di seconda fascia, indetta nel 2016 dall’Università di Padova.
Dopo un primo annullamento della procedura ed a seguito della rinnovazione della stessa, uno dei candidati non vincitori impugnava gli atti dinnanzi al T.a.r. del Veneto che, ancora una volta, aveva deciso per l’accoglimento del ricorso. Incardinato il giudizio di appello dinnanzi al Consiglio di Stato, l’Università appellante aveva, però, fatto presente che il ricorrente vittorioso in primo grado era nel frattempo risultato vincitore di una nuova procedura concorsuale – indetta dalla medesima Università e per il medesimo ruolo – ed aveva, dunque, richiesto al giudice di dichiarare l’inammissibilità (improcedibilità) del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. La parte appellata, dal canto suo, aveva rilevato l’impossibilità di dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse, stante la necessità di ottenere una pronuncia di accertamento sull’illegittimità degli atti impugnati ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., al fine del successivo risarcimento dei danni.
Il Consiglio di Stato, disattendendo le ipotesi prospettate da entrambe la parti, ha deciso per la declaratoria della cessazione della materia del contendere, rifacendosi a quell’orientamento – sopra ampiamente richiamato – che individua la linea di demarcazione tra c.m.c. e s.c.i. nel diverso accertamento sotteso alla loro adozione e connesso alla piena soddisfazione dell’interesse sostanziale sotteso alla proposizione dell’azione. Nel caso di specie, infatti, la parte appellata – con la chiamata come professore di seconda fascia da parte dell’Università di Padova – aveva conseguito interamente il bene della vita oggetto del giudizio, ottenendo, anzi, sul piano sostanziale più di quanto avrebbe potuto ricavare da una sentenza favorevole, la quale avrebbe potuto statuire, al più, l’obbligo di rinnovamento della procedura concorsuale.
La sentenza non ha, dunque, posto in essere particolari innovazioni sul piano della definizione della pronuncia di cessazione della materia del contendere, assestandosi invero sulle risultanze da tempo cristallizzate dalla giurisprudenza prevalente e già esaminate nei paragrafi precedenti. Essa contiene, tuttavia, delle riflessioni particolarmente interessanti con riguardo ai profili di connessione tra cessazione della materia del contendere, sopravvenuta carenza di interesse e declaratoria dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori che – nella prassi giudiziaria – tendono spesso ad essere sovrapposti ed alternativamente utilizzati e richiamati.
3.1 L’accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori
Come già anticipato, ai sensi dell’articolo 34, comma 3 del Codice del processo amministrativo, «quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori». La norma prevede, dunque, la possibilità di convertire l’azione di annullamento in azione di mero accertamento, regula iuris che si connette al più rilevante principio di effettività della tutela giurisdizionale ed al corollario che da tale principio deriva, costituito dall’ammissibilità di azioni di accertamento anche atipiche[15]. Prima di esaminare le direttive fornite sull’argomento dal Giudice amministrativo con la sentenza annotata, è – però – opportuno ripercorrere brevemente i principali filoni interpretativi formatisi sulla norma in esame.
Un primo orientamento, facendo leva sulla formulazione letterale della norma e sulle esigenze di economia processuale ad essa sottese, rinviene nell’art. 34, comma 3 c.p.a. un vero e proprio potere-dovere di decidere il merito della causa, esercitabile ex officio dal giudice. Appare evidente come, da un’applicazione rigorosa di tale orientamento, discendano difficoltà di coordinamento tra la disposizione normativa in esame ed il principio della domanda, problema – tuttavia – “risolto” dalla giurisprudenza ricorrendo al principio di continenza e considerando che la domanda di annullamento racchiuderebbe in sé, necessariamente, anche un’attività di accertamento[16].
Di contro, l’orientamento più restrittivo ritiene che l’accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori sia ammissibile soltanto laddove la domanda di risarcimento sia stata proposta nello stesso giudizio, oppure quando parte ricorrente dimostri di aver già incardinato un separato giudizio di risarcimento (o di essere in procinto di farlo)[17].
Ancora, secondo un’interpretazione più recente, meno stringente della precedente, l’art. 34, comma 3, c.p.a. non può essere inteso nel senso che – in seguito ad una semplice generica indicazione della parte e in mancanza di una specifica domanda in tal senso – il giudice debba automaticamente verificare la sussistenza di un interesse a fini risarcitori. Secondo questa impostazione, diversamente opinando, perderebbe di senso a livello sistematico il principio dell’autonomia dell’azione risarcitoria, così come enucleato dall’art. 30 c.p.a. e verrebbe svalutato anche il principio dispositivo che informa il giudizio amministrativo e che preclude la mutabilità ex officio del giudizio di annullamento, una volta azionato[18]. L’applicazione della norma de qua rimarrebbe, dunque, subordinata alla esplicita istanza di parte ed alla puntuale allegazione in relazione al perdurante interesse risarcitorio.
Orbene, con la sentenza n. 6824/2021, il Consiglio di Stato pare aderire all’ultimo degli orientamenti richiamati. La ricostruzione effettuata – partendo dalla precisazione che l’unica forma d’interesse che, una volta acclarata l’inutilità dell’annullamento, legittima la prosecuzione del giudizio è quella che sorregge l’azione risarcitoria e che qualsiasi diversa apertura si porrebbe contra legem[19] – assegna alla disponibilità della parte la deduzione dell’esistenza di suddetto interesse con apposita istanza, mentre onera il giudice dell’accertamento puntuale della sussistenza dei presupposti necessari ai fini dell’adozione della relativa pronuncia.
Definito il proprio orientamento sul punto, la sentenza precisa, poi, che l’istituto in esame non può trovare applicazione nei casi in cui la soddisfazione dell’interesse sostanziale del ricorrente determini una pronuncia sulla cessazione della materia del contendere, neppure ai fini di una statuizione limitata alla c.d. soccombenza virtuale per la condanna alle spese. L’ambito di applicazione dell’art. 34, comma 3 viene – dunque – riconnesso e circoscritto a quello della dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, nel senso che, ove ne ricorrano i presupposti, l’illegittimità dei provvedimenti impugnati può essere accertata esclusivamente per evitare una pronuncia di rito relativa all’improcedibilità del ricorso.
L’interpretazione del Giudice appare coerente con la natura delle pronunce esaminate. Prendendo le mosse dagli effetti che l’intervento di una sopravvenienza – fattuale o provvedimentale – sulla scena processuale può determinare, le tre situazioni che possono configurarsi sono, infatti, le seguenti: 1) la piena realizzazione dell’interesse sostanziale del ricorrente, con pronuncia di cessazione della materia del contendere; 2) l’impossibilità dell’ottenimento del bene della vita per la via processuale, con pronuncia di sopravvenuta carenza di interesse al ricorso; 3) la necessità, pure in assenza di un interesse all’annullamento degli atti, di una pronuncia di accertamento della loro illegittimità ai fini risarcitori.
Ebbene, nei casi di cui al punto 1), sulla scorta della valenza di pronuncia di merito della declaratoria di c.m.c., l’illegittimità dei provvedimenti impugnati può essere desunta indirettamente dal riconoscimento della spettanza del bene della vita oggetto del giudizio da parte dell’Amministrazione. In altre parole, la declaratoria di cessazione della materia del contendere – per sua stessa natura – non necessita in alcun caso di essere “integrata” dall’accertamento di cui all’art. 34, comma 3 c.p.a., essendo essa già di per sé una pronuncia di merito idonea ad accertare il soddisfacimento della pretesa sostanziale dedotta in giudizio. Di conseguenza, la parte, per poter proporre una successiva azione risarcitoria, non avrebbe bisogno di un’ulteriore indagine giudiziale sulla illegittimità degli atti, rinvenendosi il presupposto oggettivo della illiceità della condotta pubblica nell’accertamento implicito alla pronuncia in esame.
Diversamente avviene nei casi di carenza sopravvenuta di interesse, laddove la pronuncia di mero rito che ne rileva l’operatività nulla potrebbe dire in merito al rapporto sostanziale sotteso al ricorso e, dunque, alla eventuale illegittimità dell’azione amministrativa. In definitiva, è solo per evitare una pronuncia di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse (nelle modalità sopra richiamate ed al solo dichiarato fine di consentire la proposizione dell’azione risarcitoria) che la parte può rappresentare al giudice la necessità di una pronuncia di accertamento ex art. 34, comma 3 c.p.a.
3.2 Soccombenza c.d. “virtuale” e condanna alle spese
Com’è noto, nel processo amministrativo il pagamento delle spese di lite è da sempre stato ancorato al principio di soccombenza[20]. Pertanto, in tutte quelle ipotesi in cui il giudice non giunga ad una pronuncia di espresso accoglimento o rigetto della domanda proposta, è necessario individuare un criterio per la corretta attribuzione degli oneri economici del processo.
Sotto questo profilo, la posizione del ricorrente nel processo amministrativo è stata – fino ad un certo punto – mortificata dall’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che, in caso di cessazione della materia del contendere, stabiliva la doverosa compensazione delle spese giudiziali. Fu, infatti, soltanto dopo l’entrata in vigore della Legge T.a.r., che la giurisprudenza iniziò a mostrarsi più sensibile alla necessità di tutelare il privato che – pur in assenza di una sentenza di formale accoglimento del ricorso – risultasse parte sostanzialmente vittoriosa, spianando la strada all’operatività della c.d. soccombenza virtuale. Tale locuzione è ancora oggi ampiamente utilizzata dal giudice amministrativo e, con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per chiarirne l’operatività laddove il giudice chiuda il processo con una sentenza di cessazione della materia del contendere ovvero di sopravvenuta carenza di interesse.
Nei casi in cui venga pronunciata una sentenza che dichiara la c.m.c., il Giudice ritiene che la norma di cui all’art. 34, comma 3 c.p.a. non risulti applicabile neppure ai fini dell’individuazione della parte virtualmente soccombente. Ciò perché, trattandosi di una pronuncia di merito, per sua natura idonea ad accertare il rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, essa dovrebbe essere automaticamente in grado di orientare il giudice anche sul versante della regolazione delle spese. Ed è sulla scorta delle motivazioni che lo hanno indotto a dichiarare la c.m.c. che il giudice si pronuncerà in merito alla soccombenza (più o meno) virtuale dell’amministrazione.
Diversa e più complessa la situazione in caso di sentenza che, in rito, rilevi la carenza sopravvenuta di interesse. Si è detto che – in questi casi – l’art. 34, comma 3 c.p.a. può essere applicato se il ricorrente, pur non potendo trarre più alcuna utilità accoglimento della domanda, mantenga un interesse concreto ed attuale ad ottenere un ristoro patrimoniale per il pregiudizio patito in conseguenza dell’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa. Ed è certo che, laddove il giudice si pronunci in tal senso, il relativo accertamento sia idoneo ad acquisite lo status di cosa giudicata sostanziale, utile ai fini della domanda risarcitoria.
Ciò non avviene, invece, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, con il capo della sentenza volto a regolare le spese di giudizio, che «non è mai idoneo alla formazione di un giudicato sul merito» e non incide dunque sul contenuto sostanziale della pronuncia principale, cui resta estraneo[21]. Pertanto, in assenza di un’espressa statuizione ex art. 34, comma 3 (e, dunque, di un interesse concreto ed attuale all’accertamento dell’illegittimità degli atti impugnati ai fini risarcitori) le considerazioni svolte ai fini della valutazione della c.d. soccombenza virtuale per la liquidazione delle spese di lite, anche nell’ambito di una pronuncia di rito dichiarativa dell’improcedibilità, non sono idonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni oggetto della controversia, ma valgono – se non impugnate – a rendere irrevocabili soltanto i rapporti di dare/avere tra le parti del processo relativamente, appunto, alla regolamentazione delle spese del giudizio.
Ne consegue che le due pronunce non possono essere in alcun caso sovrapposte, ma mantengono completa autonomia. Va da sé che, in tutti quei casi in cui il giudice, nel dichiarare l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, accerti pure l’illegittimità degli atti ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., la soccombenza virtuale dell’amministrazione conseguirà in via diretta alla valutazione di merito compiuta dalla sentenza. Diversamente, laddove il giudice – pur non ravvisando la sussistenza delle condizioni necessarie per l’accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori – ritenga di non voler disporre la compensazione delle spese, ovvero di prevedere l’addebito delle spese per l’acquisto del contributo unificato in capo alla parte resistente, sarà necessaria una espressa pronuncia sulla soccombenza virtuale.
In definitiva, accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori e soccombenza virtuale sono due istituti distinti e non sovrapponibili: il primo consiste in una statuizione di merito utile ai fini risarcitori in caso di pronuncia si sopravvenuta carenza di interesse, mentre il secondo è volto a regolare la ripartizione delle spese di giudizio nei casi in cui il processo non si chiuda con una espressa pronuncia di accoglimento o di rigetto.
* Ricercatore di Diritto amministrativo, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.
[1] Nel processo civile la formula di “cessata materia del contendere” non è frutto di una particolare elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, ma si è sostanzialmente imposta nella pratica giudiziaria dei Tribunali in due distinte circostante: 1) in tutte le ipotesi di spontanea autocomposizione della lite tra le parti in giudizio, sia che ad essa si giungesse mediante reciproche concessioni, sia che la stessa dipendesse dalla sottomissione unilaterale di una parte alle pretese dell’altra; 2) nelle ipotesi di eventi estintivi delle ragioni sostanziali di contesa che, pur in presenza di una formale ragione di contrasto, avrebbero reso iniqua (o, quantomeno, inutile) una pronuncia di rigetto. Peraltro, diversamente da quanto avviene nel processo amministrativo, la giurisprudenza civile – nel silenzio del legislatore – ha da sempre assegnato alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere natura di pronuncia di mero rito che determina, dunque, la conclusione del processo in assenza di una valutazione di merito sulla domanda (cfr., di recente, Cass. civ., 31 agosto 2015, n. 17312). Ai fini della declaratoria di c.m.c., la giurisprudenza civile richiede altresì che si registri il pieno accordo tra le parti in relazione all’idoneità dell’evento a rimuovere ogni motivo di contenzioso tra le stesse (cfr., Cass., 26 luglio 2002, n. 11038). Per un inquadramento dottrinale dell’istituto nell’ambito del processo civile, si vedano A. Panzarola, voce Cessazione della materia del contendere (diritto processuale civile), in Enciclopedia del diritto, Milano, agg. VI, 2002; E. Vianello, voce Cessazione della materia del contendere, in Digesto, discipline privatistiche, 2000, 129; B. Sassani, Cessazione della materia del contendere – Diritto processuale civile, in Enc. giur., VI, Roma, 1988; F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, Padova, 1939, spec. 490 ss.; G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960, 153 ss.; S. Satta, Commentario al Codice di procedura civile, Milano, 1960, I, 426; A. Attardi, Riconoscimento del diritto, cessazione della materia del contendere e legittimazione ad impugnare, in Giur. It., 1987, IV, 482 ss.
[2] In tali termini, V. Caianiello, voce Cessazione della materia del contendere (diritto amministrativo), in Enciclopedia del diritto, Milano, agg. III, 2000. Si veda anche l’importante pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che – pronunciandosi in materia di silenzio-rifiuto – aveva riaffermato l’esatta coincidenza tra provvedimento impugnato ed oggetto del processo (in virtù della quale dal venir meno dell’atto si faceva discendere, in ogni caso ed a prescindere da qualsivoglia valutazione di merito, la conclusione del giudizio) ed aveva dunque consolidato la natura di pronuncia di rito della declaratoria di cessazione della materia del contendere: cfr., Cons. di Stato, Ad. Plen., 3 maggio 1960, n. 8, in Giur. it., 1960, III, 257 ss., con nota di E. Guicciardi.
[3] Così, A. Romano, Cessazione della materia del contendere e carenza sopravvenuta d’interesse, in Problemi del processo amministrativo, Atti del Convegno di studi di scienza dell'amministrazione promosso dalla Amministrazione provinciale di Como, Varenna, Villa Monastero, 19-22 settembre 1963, Milano, 1964, 353 ss.
[4] Cfr., in dottrina, C. Galtieri, La cessazione della materia del contendere davanti ai tribunali amministrativi regionali, in Cons. Stato, 1974, II, 1187 ss.
[5] Cfr., ex multis, Cons. di Stato, VI Sez., 30 marzo 1982; Cons. di Stato, sez. V, 19 novembre 1992, n. 1319; Cons. di Stato, sez. V, 20 aprile 1994, n. 331; Cons. di Stato, sez. VI, 7 luglio 1995, n. 661, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Per un approfondimento, si vedano le riflessioni di P. Numerico, voce Cessazione della materia del contendere - Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., VI, Roma, 1988 e la giurisprudenza ivi richiamata.
[6] La l. n. 205/2000, con l’intento di semplificare le regole procedurali relative alla estinzione e conclusione del giudizio amministrativo, aveva successivamente integrato l’art. 26 della Legge T.a.r., stabilendo che la cessazione della materia del contendere – al pari della rinuncia al ricorso e della perenzione – fosse pronunciata con decreto monocratico del presidente della sezione competente o di un magistrato da lui delegato. Per un approfondimento sul punto, si rinvia alla ricostruzione di N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Milano, 2021, 515 ss.
[7] Cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Sul punto la giurisprudenza è pacifica. Cfr., anche Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2009, n. 1316; Id., 24 novembre 2009, n. 7363; Id., 21 dicembre 2010, n. 9319; Id. 5 marzo 2012, n. 1258; Id., 5 aprile 2016, n.1332; Id., sez. IV, 14 ottobre 2011, n. 5533; Id., 28 giugno 2016, n. 2909; Id., 24 luglio 2017, n. 3638, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[9] Cfr., R. Villata, voce Interesse ad agire, Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., vol. XVII, Roma, 1989.
[10] Cfr., V. Caianiello, voce Cessazione della materia del contendere (diritto amministrativo), cit.; A.M. Corso, Cessazione della materia del contendere ed oggetto del giudizio amministrativo, in Una giustizia per la pubblica amministrazione, a cura di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 1983, 411 ss. In giurisprudenza, cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. V, 23 aprile 1998, n. 474; Id. 10 marzo 1997, n. 242, in www.giustizia.amministrativa.it.
[11] Cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. IV, 24 luglio 2017, n. 3638; C.G.A.R.S., 20 maggio 2019, n. 453, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] Cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 12 aprile 2017, n. 1700; Id., sez. V, 8 aprile 2014, n. 1663; Id., sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4637, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Cfr., Cons. di Stato, sez. V, 12 maggio 2020, n. 2969, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] Cfr., Cons. di Stato, sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2224; Id., sez. IV, 15 settembre 2015, n. 4307; Id., sez. V, 6 novembre 2011, n. 5070; Id., 27 novembre 2015, n. 5379; Id., sez. IV, 14 dicembre 2015, n. 5663; Id., 16 dicembre 2016, n. 5340, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Cfr., Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; Id. sez. IV, 5 dicembre 2016, n. 5102; Id. 16 giugno 2015, n. 2979; Id., sez. V, 24 luglio 2014, n. 3957 Id., 17 luglio 2020, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] Cfr., Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817; Id., 28 luglio 2014, n. 3997 e 24 luglio 2014, n. 3939; Id., sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2916; Id., 4 febbraio 2013, n. 646; Id., sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848, in www.giustizia-amministrativa.it.
[17] Cfr., Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848; Id., sez. V, 24 luglio 2014, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] In questo senso, Cons. Stato, sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736; Id., sez. IV, 17 gennaio 2020, n. 418; Id., sez. III, 8 gennaio 2018, n. 5771, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Cfr., sul punto, anche Cons. di Stato, sez. III, 15 aprile 2021, n. 3086, in www.giustizia-amministrativa.it. Parte della giurisprudenza ha, invero, ritenuto sufficiente – ai fini della norma in esame – la sussistenza di un mero interesse “morale” alla pronuncia di accertamento dell’illegittimità dell’azione amministrativa (cfr., Cons. di stato, sez. V, 15 giugno 2015, n. 2952, in www.giustizia-amministrativa.it).
[20] La regola della soccombenza era espressamente prevista dalla l. n. 1034/1971 ed è stata confermata dal vigente art. 26, comma 1, c.p.a., secondo il quale il giudice provvede sulle spese a norma degli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e di sinteticità degli atti. Cfr., M. Mengozzi, Spese di giudizio, in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. Morbidelli, Milano, 2015, 359 e ss. e dottrina e giurisprudenza ivi citate.
[21] Cfr., da ultimo, Cons. di Stato, sez. V, 25 febbraio 2020, n. 1394; Id, sez. VI, 18 marzo 2019, n. 1766, in www.giustizia-amministrativa.it.