Obbligo di vaccinazione e principi di precauzione e solidarietà (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) di Fortunato Gambardella
Sommario: 1. Esitazione vaccinale e politiche pubbliche di incentivazione - 2. Le politiche di vaccinazione tra raccomandazione e obbligo: gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale - 3. L’obbligo di vaccinazione per SARS-CoV-2: profili procedimentali - 4. La legittimità dell’obbligo di vaccinazione per SARS-CoV-2 nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato - 5. Le misure di sanità pubblica in un contesto di pandemia: oltre l’amministrazione di prevenzione.
1. Esitazione vaccinale e politiche pubbliche di incentivazione
Il tema dei trattamenti di vaccinazione obbligatoria è da sempre una questione divisiva, che tocca la salute individuale e coinvolge le preoccupazioni più rispettabili dell’individuo. Diventa ancora più sensibile nel momento in cui la necessaria risposta alla pandemia in corso passa per il doveroso impiego, su larga scala, di prodotti farmaceutici innovativi, di recente immissione nel mercato, approvati dalle competenti Autorità di regolazione attraverso procedure accelerate e solo in parte semplificate.
Da una parte c’è la spinta delle Autorità per la più veloce e diffusa profilassi, dall’altra ci sono le legittime preoccupazioni dei soggetti chiamati a trattamenti intesi a prevenire patologie neppure sempre percepite come individualmente pericolose. Nel mezzo resta la cd. esitazione vaccinale[1], un fenomeno storicamente noto e dalle evidenze consolidate, che da tempo rappresenta un problema con il quale è chiamato a confrontarsi il decisore pubblico.
Le soluzioni in concreto sperimentate variano, oscillando dalla raccomandazione persuasiva all’imposizione di specifici obblighi vaccinali, nell’ambito di prassi che tradizionalmente vengono ascritte al capitolo dell’amministrazione della prevenzione.
L’utilizzo di tecniche di prevenzione del rischio rappresenta infatti il piano privilegiato di espressione delle misure di sanità pubblica, per tale intendendosi l’insieme delle misure amministrative e sanitarie finalizzate a proteggere e migliorare la salute generale e la qualità della vita di intere popolazioni, principalmente attraverso iniziative destinate alla prevenzione delle malattie ed a garantire l’assistenza sanitaria collettiva. Il quadro delle azioni è dunque articolato e abbraccia una vasta serie di interventi, i cui settori di elezione riguardano: l’epidemiologia; la prevenzione delle malattie infettive e cronico-degenerative; l’igiene degli alimenti e della nutrizione; l’igiene edilizia, civile e ambientale[2].
In questo quadro, le misure di profilassi vaccinale rappresentano ovviamente uno strumento di impiego prioritario, funzionale alla prevenzione delle malattie infettive ed alla mitigazione del rischio epidemico.
Eppure, le politiche di vaccinazione, a partire dall’introduzione, nel Settecento, delle prime terapie di profilassi sanitaria contro il vaiolo, hanno dovuto storicamente confrontarsi con resistenze ed opposizioni di segmenti (anche cospicui) della popolazione, con conseguenze rilevanti in termini di difficoltà nel contenimento delle malattie infettive[3].
Stando all’Italia (ma il fenomeno ovviamente ha rilevanza globale) e guardando ai tempi più recenti, ad esempio, il problema sì è posto con particolare criticità con riguardo alle epidemie di morbillo, favorite da tassi di vaccinazione che, nel 2013, sono stati stimati ben al di sotto della soglia di sicurezza raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Circostanza che, come noto, ha infatti costretto il legislatore nazionale ad intervenire con il d.l. n. 73 del 2017, che ha determinato un incremento della copertura non solo per la vaccinazione contro gli agenti patogeni di morbillo, parotite e rosolia, ma anche per i vaccini non obbligatori e per tutti i gruppi di età.
2. Le politiche di vaccinazione tra raccomandazione e obbligo: gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale
La riferita normativa del 2017 sulla reintroduzione delle vaccinazioni obbligatorie ha, in ogni caso, rilanciato all’attenzione della giurisprudenza costituzionale il tema del presunto contrasto delle misure di imposizione vaccinale con l’impianto della Costituzione, a partire dall’articolo 32 della Carta sulla tutela del diritto fondamentale alla salute.
Il giudice delle leggi, nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018[4], ha tuttavia precisato come, in un ordinamento democratico, rientri nella discrezionalità del legislatore prevedere la raccomandazione dei vaccini o l’obbligatorietà degli stessi.
La scelta tra la tecnica della persuasione e quella dell’obbligo, segnatamente, vien fatta dipendere dal grado di efficacia persuasiva[5] con il quale il legislatore, sulla base delle acquisizioni scientifiche più avanzate ed attendibili, riesce a sensibilizzare i cittadini in ordine alla necessità di vaccinarsi per il bene proprio e, ad un tempo, dell’intera società. Muovendo da questa premessa, la Corte costituzionale ha poi chiarito come la legge impositiva di un trattamento sanitario non sia incompatibile con l’art. 32 Cost. qualora il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale. Per questa via, la Corte ha enfatizzato la previsione dell’articolo 32 laddove qualifica la tutela della salute non solo come diritto dell’individuo ma anche come interesse della collettività.
Quella previsione è la premessa che consente alla Costituzione di ammettere, al secondo comma dello stesso articolo 32, che disposizioni di legge possano imporre specifici trattamenti sanitari, al contempo ancorando tale fattispecie al doveroso “rispetto della persona umana”. La misura del rispetto della persona, con riguardo alle norme che impongano trattamenti di profilassi, è peraltro individuata dalla stessa giurisprudenza costituzionale, che ritiene legittime le relative disposizioni: a condizione si preveda che il vaccino non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e in ogni caso purché sia prevista, nell’ipotesi di danno ulteriore, la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.
Sul punto, peraltro, la Corte Costituzionale si è mossa nell’ambito di un percorso tracciato a partire dalla sentenza n. 307 del 1990[6], nella quale, posta la compatibilità, nei termini appena riferiti, della legge 4 febbraio 1966, n. 51 sull’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica rispetto alle previsioni contenute nell’articolo 32 della Carta fondamentale, al contempo ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevedeva, a carico dello Stato, un’equa indennità per il caso di danno derivante, al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c., da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione antipolio.
L’indirizzo emergente dalla giurisprudenza costituzionale è dunque nel senso di ritenere che la problematica delle politiche di promozione vaccinale intersechi una pluralità di valori costituzionali, fino a coprire uno spazio che muove dalla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie, in una dimensione individualistica dell’opzione terapeutica, fino alla valorizzazione della tutela della salute come bene di fruizione collettiva, nell’ambito di una lettura ermeneutica che attribuisce specifico risalto al principio costituzionale di solidarietà, come canone di giustificazione delle politiche di promozione vaccinale, sia che assumano la forma dell’obbligo che della raccomandazione.
La considerazione della solidarietà come pilastro costituzionale degli interventi legislativi e amministrativi in materia emerge peraltro, nella lettura della giurisprudenza della Consulta, da tutte quelle sentenze nelle quali si estende progressivamente la portata dell’obbligo di indennizzo a favore di quanti abbiano riportato danni permanenti in accertata conseguenza della sottoposizione a trattamenti di vaccinazione, tanto obbligatoria quanto meramente raccomandata. Il diritto all’indennizzo, ha chiarito la Corte, trova la sua ratio infatti nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia[7]) effettuato anche nell’interesse della collettività, in capo alla quale si giustifica la traslazione degli effetti dannosi eventualmente conseguenti alla scelta vaccinale e solidale del singolo (vedi Corte Cost., 26 aprile 2012, n. 107).
Resta quindi chiarito come, alla base delle politiche di promozione vaccinale insistano molteplici principi di rilevanza costituzionale, il cui contemperamento lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare la più efficace prevenzione delle malattie infettive. Posto che l’adesione spontanea, per quanto raccomandata, resta ovviamente la strada da percorrere con priorità nelle compagne di vaccinazione, a fronte di resistenze ed esitazioni particolarmente rischiose per la salute collettiva, resta nella disponibilità del legislatore attingere alla tecnica dell’obbligo, calibrando variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantirne l'effettività.
3. L’obbligo di vaccinazione per SARS-CoV-2: profili procedimentali
È a questi indirizzi costituzionali che fa riferimento la recente sentenza della terza sezione del Consiglio di Stato del 20 ottobre 2021, n. 7045, con la quale è stato respinto nel merito l’appello proposto avverso precedente decisione del Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia (sez. I) con la quale era stato dichiarato inammissibile il ricorso collettivo e cumulativo proposto contro gli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane hanno inteso dare applicazione alla regola dell’obbligo di vaccinazione contro il virus SARS-CoV-2, prevista dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021[8] (conv. con mod. in l. n. 76 del 2021) a carico degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario[9].
Il citato art. 4, nel comma 1, in particolare, dispone che, in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica, fino alla completa attuazione del Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della l. n. 43 del 2006, che svolgano attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali siano obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione dal riferito agente patogeno. Si tratta di un obbligo che copre dunque interamente le categorie professionali ivi contemplate, con l’unica eccezione (comma 2), relativa all’ipotesi di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate e attestate dal medico di medicina generale e con conseguente possibilità di differimento del trattamento sanitario ovvero esenzione dallo stesso.
L’attuazione dell’obbligo passa per una procedura articolata in più fasi. La prima, di tipo istruttorio, prevede che ciascun ordine professionale territoriale competente trasmetta l’elenco degli iscritti alla Regione o alla Provincia autonoma in cui ha sede, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza. Medesima trasmissione, parallelamente, deve essere peraltro curata anche dai relativi datori di lavoro con destinatari, ancora una volta, Regioni o Province autonome nel cui territorio operino i dipendenti.
La seconda fase, propriamente di verifica, invece è in capo alle Regioni e alle Province autonome, tenute a verificare l’avvenuta vaccinazione dei soggetti rientranti negli elenchi ricevuti, avvalendosi dei servizi informativi vaccinali. Qualora dall’istruttoria emerga che determinati soggetti non si siano sottoposti alla vaccinazione, né abbiano presentato richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell’ambito della campagna vaccinale, la Regione o la Provincia autonoma è tenuta a segnalare immediatamente all’Azienda sanitaria locale, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, i nominativi dei soggetti non vaccinati.
La terza fase è invece quella di azione funzionale all’adempimento dell’obbligo e prevede, innanzitutto, che l’A.S.L. inviti l’interessato a produrre la documentazione intesa a comprovare, alternativamente: l’avvenuta vaccinazione; l’omissione o il differimento della stessa, nei limiti in cui consentiti; la presentazione della richiesta di vaccinazione; l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale. In risposta all’invito dell’Azienda sanitaria, possono darsi due eventualità: la prima corrisponde all’ipotesi in cui il destinatario dell’invito presenti documentazione che attesti la richiesta di vaccinazione, con conseguente invito dell’A.S.L. a trasmettere tempestivamente la certificazione dell’avvenuto adempimento; la seconda riguarda invece l’ipotesi di mancata presentazione della documentazione richiesta, con conseguente formale invito dell’Azienda sanitaria a sottoporsi alla terapia profilattica, con indicazione di modalità e termini per l’adempimento.
La quarta fase, meramente eventuale, vede convivere elementi di accertamento e profili sanzionatori. Essa riguarda l’ipotesi di inadempimento dell’obbligo vaccinale a seguito del formale invito dell’Azienda sanitaria, cui compete l’accertamento dell’inosservanza e la comunicazione scritta della stessa all’interessato, al datore di lavoro e all’ordine professionale di appartenenza. Sul piano propriamente sanzionatorio, posto che la normativa qualifica espressamente la vaccinazione come “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati”, il comma 6 dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 dispone che l’atto di accertamento dell’A.S.L. comporti “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”, con adibizione del lavoratore a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle che implichino il rischio di diffusione del contagio e con attribuzione del trattamento corrispondente alle mansioni effettivamente esercitate. L’individuazione delle mansioni inferiori resta, ovviamente, in capo al datore di lavoro e, qualora tale assegnazione non fosse possibile, è stabilito non siano dovuti retribuzione né altro compenso o emolumento “fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”.
4. La legittimità dell’obbligo di vaccinazione per SARS-CoV-2 nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello in discorso sulla base di un’esposizione articolata, nella quale è ravvisabile innanzitutto una sorta di premessa di ordine scientifico e giuridico, cui segue la reiezione puntuale dei singoli motivi di impugnazione.
In sede di premessa, le preoccupazioni del giudice sono due: offrire idonee garanzie in rapporto alla sicurezza ed efficacia delle terapie vaccinali e inquadrare il trattamento profilattico nell’ambito dei principi generali e costituzionali che renderebbero legittima l’imposizione del relativo obbligo.
Sotto il primo profilo, relativo alla sicurezza ed efficacia dei prodotti farmaceutici in uso per la vaccinazione di massa, il percorso argomentativo si sviluppa a sua volta su due piani intimamente connessi: quello della legittimità ed affidabilità della procedura di autorizzazione al commercio dei vaccini e quello delle evidenze scientifiche emergenti intorno all’efficacia della protezione assicurata dagli antidoti.
In punto di autorizzazione al commercio, la sentenza ricostruisce la normativa europea sull’autorizzazione all’impiego dei vaccini e chiarisce come la procedura di “immissione in commercio condizionata” (CMA, Conditional marketing authorisation)[10], utilizzata per garantire il più celere accesso alla terapia in costanza di pandemia, non sia “una scorciatoia incerta e pericolosa escogitata ad hoc per fronteggiare irrazionalmente una emergenza sanitaria, ma una procedura di carattere generale, presidiata da particolari garanzie e condizionata a specifici obblighi in capo al richiedente e peraltro già applicata negli anni passati (anche recenti, soprattutto in campo oncologico), a fronte di necessità contingenti”. La circostanza consente di superare ogni obiezione sul presunto carattere ancora “sperimentale” della terapia vaccinale in uso, essendo la CMA una procedura in cui la maggiore rapidità e la parziale sovrapposizione delle fasi di sperimentazione (fast track/partial overlap) consentono comunque l’acquisizione di dati sufficientemente solidi e attendibili in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci.
Sul piano dell’efficacia della terapia, pur con i riconosciuti “ovvi limiti del sindacato che spetta al giudice amministrativo sugli atti adottati dalle autorità e dagli enti sanitari nazionali nell’esercizio della loro discrezionalità tecnica”[11], il Consiglio di Stato evidenzia l’utilità della vaccinazione in termini di prevenzione, per quanto non assoluta, del contagio e, massimamente, di protezione dagli stadi patologici più gravosi. L’evidenza, nel ragionamento del giudice, muove dalla combinazione dei dati prodotti in fase di sperimentazione con quelli acquisiti sul campo, nell’ambito della vastissima campagna vaccinale avviata a seguito dell’autorizzazione condizionata.
Il capitolo della sicurezza riguarda invece l’ampiamente favorevole rapporto costi/benefici della somministrazione vaccinale su larga scala, come emergente dalle risultanze parziali dei rilevamenti di farmacovigilanza, cui è preposta l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA).
Come anticipato, il ragionamento del giudice amministrativo transita poi sui principi che renderebbero legittima l’imposizione dell’obbligo a carico dei sanitari e delle categorie affini, con particolare attenzione ai canoni di precauzione e solidarietà[12].
L’istanza precauzionale[13], nell’ordito della sentenza, assume una valenza prioritaria, posto che, nella contingente emergenza pandemica, la pubblica amministrazione ha “il dovere di promuovere e, se necessario, imporre la somministrazione dell’unica terapia – quella profilattica – in grado di prevenire la malattia o, quantomeno, di scongiurarne i sintomi più gravi”.
Singolare appare peraltro la tecnica di applicazione del canone di precauzione utilizzata dal giudice in relazione alla fattispecie esaminata. Nella sentenza si legge infatti che “in fase emergenziale, di fronte al bisogno pressante di tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all’ordinario e, per così dire, controintuitivo, perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l’utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco”.
In ogni caso, chiarisce il giudice, nel contesto pandemico emergenziale, l’esigenza di tutela precauzionale acquisirebbe rilevanza tale da prevalere sulla libera autodeterminazione del singolo, il quale, all’opposto, cercherebbe conforto rispetto al cd. ignoto irriducibile “corrispondente alla circostanza per cui, ad oggi, non si dispone di tutti i dati completi per valutare compiutamente il rapporto rischio/beneficio nel lungo periodo”. Si tratta di valutazioni che richiederebbero tempi lunghissimi, del tutto incompatibili[14] con l’esigenza di rapida risposta sanitaria che l’attualità pandemica impone.
Quell’istanza di pronta tutela trae invece la sua ragione di giustificazione più profonda nella valenza costituzionale del principio di solidarietà (articolo 2 della Carta) e nel momento in cui lo stesso offre la possibilità di restituire il rapporto tra libertà e responsabilità individuale in termini di endiadi. Il Consiglio di Stato, per questa via, mette a sistema una pluralità di insegnamenti della Corte costituzionale. Il discorso riguarda tanto il valore di premessa della solidarietà come “base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione” (Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75) e della tutela della salute come “patto di solidarietà” tra individuo e collettività (Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118), quanto la corretta ermeneutica intorno al valore della dignità della persona, che non può prescindere dalla protezione della salute di tutti, quale interesse collettivo (Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258) “conformemente, del resto, al principio universalistico a cui si ispira il Servizio sanitario in Italia (art. 1 della l. n. 833 del 1978), e nella prospettiva di assicurare la tutela primaria delle persone più vulnerabili”, la cui condizione li espone a più frequenti e intense occasioni di contatto nei luoghi di cura e assistenza.
Poste queste premesse di carattere generale e costituzionale, la decisione passa in rassegna gli ulteriori elementi di diritto positivo che sorreggono l’opzione del legislatore per l’obbligo vaccinale nel caso di specie. Qui il discorso intercetta il doppio piano dell’esigenza di tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro a protezione degli stessi lavoratori, disciplinata dal d. lgs. n. 81 del 2008, e della effettività del principio di sicurezza delle cure, che si colloca a fondamento della relazione di fiducia che deve intercorrere tra sanitari e pazienti e che, in questa prospettiva, è enunciato dalla l. n. 24 del 2017 (c.d. legge Gelli - Bianco), laddove, all’art. 1, comma 1, si chiarisce che la sicurezza delle cure è “parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività”[15].
L’ultima parte della sentenza è invece dedicata al superamento degli specifici motivi di impugnazione.
C’è un primo gruppo di questioni che attengono all’asserita incompatibilità tra l’imposizione dell’obbligo vaccinale e fonti sovranazionali, molte delle quali sono in realtà invocate impropriamente. È il caso, ad esempio, dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La norma, nel sancire il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, chiarisce infatti non possa “esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Eppure quella petizione non assume rilevanza in ordine nel caso di specie, posto che, di recente, la stessa Corte EDU, nella sentenza Vavřička e altri c. Repubblica Ceca dell’8 aprile 2021[16], proprio in tema di vaccinazioni obbligatorie (nella specie introdotte a protezione dei minori), ha ritenuto che l’imposizione di un obbligo vaccinale possa rappresentare, ai sensi dell’art. 8 della CEDU, una legittima interferenza nel diritto al rispetto della vita privata qualora, chiarisce il Consiglio di Stato nella sentenza in commento, “vi sia comunque una base legale, uno scopo legittimo e le vaccinazioni siano necessarie in una società democratica per garantire il principio di solidarietà, che consiste nell’esigenza di proteggere tutti i membri della società e, in particolare, quelli che sono più vulnerabili, a tutela dei quali si chiede al resto della popolazione di assumersi un minimo rischio sotto forma di vaccinazione”.
Altre doglianze hanno invece a che fare con il diritto interno. Centrale, in questo quadro, il riferimento all’articolo 32 della Costituzione e all’idea che il diritto di autodeterminazione terapeutica ivi contemplato risulterebbe menomato dall’imposizione dell’obbligo di profilassi sanitaria. All’obiezione, il giudice amministrativo risponde sulla scorta delle già richiamate acquisizioni della giurisprudenza costituzionale, assumendo come parametro più recente e comprensivo la sentenza n. 5 del 2018 nella sua capacità di compendiare i requisiti che l’ordinamento pone al legislatore per la costruzione normativa di specifici obblighi vaccinali. Tra questi, un ragionamento più approfondito, nell’ordito della sentenza in commento, è dedicato alla necessaria corresponsione di una posta di indennizzo per l’eventuale danno grave e/o permanente per l’integrità fisica che rappresenti conseguenza della profilassi sanitaria. Sul punto, l’appello si spingeva infatti a contestare la stessa legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, in rapporto agli artt. 2 e 32 Cost., per via della mancata espressa previsione, nel testo normativo, del riferito indennizzo. L’argomento viene tuttavia superato dal giudice in una chiave normativo-sistemica, riflettendo sulla non necessarietà di una espressa previsione di indennizzo nel testo dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, posto che la vaccinazione ivi imposta s’iscrive, a pieno titolo, tra quelle previste dall’art. 1 della legge n. 210 del 1992, a norma del quale “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”.
5. Le misure di sanità pubblica in un contesto di pandemia: oltre l’amministrazione di prevenzione
Come già rilevato, nell’impianto della sentenza, al netto degli argomenti a rilevanza processualistica affrontati nell’incipit, alla analisi (e reiezione) dei motivi di appello, il giudice premette una sorta di parte generale, nella quale si offre una giustificazione di sistema dell’obbligo vaccinale a carico dei sanitari e delle categorie affini. Quella giustificazione fa perno, sostanzialmente, intorno alla riconosciuta valenza dei principi di precauzione e di solidarietà.
Da questo punto di vista, il compito che si dà il giudice è certamente lodevole. Rispetto a questioni così delicate e divisive nel dibattito sociale, offrire una lettura che risolva il caso di specie non soltanto nell’ottica della contestazione degli addotti motivi di illegittimità di una determinata misura, ma anche volendo restituire alla materia una coerenza generale che guardi ai principi, può contribuire alla costruzione di una maggiore consapevolezza sociale e, in ultima analisi, alla auspicabile accettazione di determinate scelte politiche e amministrative anche da parte dei segmenti dell’opinione pubblica che coltivano posizioni di più dura opposizione.
In questo quadro, nessun dubbio riguardo al fatto che il richiamo al principio di solidarietà appaia più che opportuno, posto che nella struttura dell’articolo 2 della Costituzione, l’adempimento dei doveri di solidarietà sociale comporta che ogni individuo debba mettersi a disposizione di chi ha bisogno, offrendo assistenza morale e materiale, e posto che sta alla Repubblica il compito di rendere “inderogabili” i doveri di solidarietà sociale[17], nella specie attraverso l’imposizione dell’obbligo vaccinale che incomba su categorie prioritariamente a contatto con gli individui più fragili e bisognosi di assistenza.
Più incerto mi sembra invece, nel caso di specie, il riferimento al principio di precauzione, del quale peraltro nella sentenza si evoca un’applicazione di tipo controintuitivo, perché ammette possa il decisore pubblico imporre la terapia vaccinale pur sulla base di una procedura di autorizzazione condizionata all’immissione in commercio, nella quale evidentemente i dati non sono completi ma fermo che il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo resti di gran lunga inferiore al danno sociale che possa procurare il mancato pronto ricorso alla vaccinazione.
Il punto, più che una contro-intuizione, può rischiare di apparire un cortocircuito nel ragionamento del giudice, perché utilizza una norma di principio attraverso un modello di applicazione non del tutto adeguato al contesto emergenziale[18] che l’attualità propone.
Come noto, il principio di precauzione[19] si è sedimentato nel linguaggio giuridico e nella prassi amministrativa a partire dalla Dichiarazione di Rio del Janeiro, sottoscritta al termine della Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Earth Summit) del 1992. In quel testo si raccomandava che “al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale”. Nel tempo, l’ambito di applicazione del canone si è progressivamente esteso alla politica di tutela dei consumatori, della salute umana, animale e vegetale. In ambito europeo, in particolare, la Comunicazione COM(2000)-1 della Commissione europea definisce il principio di precauzione come una strategia di gestione del rischio nei casi in cui si evidenzino indicazioni di effetti negativi sull’ambiente o sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante, ma i dati disponibili non consentano una valutazione completa del rischio. Per questa via, nel nostro ordinamento, il Servizio sanitario nazionale adotta (e rimborsa) soltanto quelle terapie e trattamenti che siano di comprovata efficacia, clinica o terapeutica.
Poste queste coordinate basilari di applicazione del principio, l’evocata applicazione controintuitiva del principio rischia di introdurre, anche nel dibattito sociale, elementi contraddittori.
In realtà la giustificazione di sistema dell’obbligo vaccinale è probabilmente ricavabile ragionando sulla valenza specifica che, in un contesto di pandemia, assume il principio di solidarietà[20] nella sua dimensione sociale in rapporto alla declinazione della tutela della salute come interesse della collettività, di cui è traccia nell’articolo 32 della Costituzione.
Siamo partiti dall’inquadrare, infatti, la misura dell’obbligo vaccinale nell’ambito delle misure di sanità pubblica, ovvero quell’insieme di strumenti amministrativi e sanitari intesi a proteggere e migliorare la salute generale e la qualità della vita della popolazione complessivamente considerata. Queste iniziative abbiamo evidenziato comportino prioritariamente azioni finalizzate alla prevenzione delle malattie ed a garantire l’assistenza sanitaria collettiva, discostandosi profondamente dagli interventi di medicina individuale, nell’ambito dei quali oggetto del “trattamento” è il singolo.
La differenza di approccio tra sanità pubblica e medicina individuale determina, conseguentemente, anche una differenza nel concepire il ruolo del pubblico potere. Nella medicina individuale, infatti, il ruolo del potere pubblico è prioritariamente un ruolo di pubblico servizio, quindi di assicurazione di efficienza del servizio e di garanzia della soddisfazione dei livelli essenziali delle prestazioni terapeutiche e assistenziali. Nella sanità pubblica, invece, il ruolo del pubblico potere si esplica in forma consistente negli spazi della funzione amministrativa, come abbiamo avuto modo di osservare, anche di recente e prima dell’emergenza pandemica, con l’introduzione delle riferite misure di profilassi obbligatoria nel 2017.
Il richiamo alle misure di incentivazione vaccinale ci restituisce, in ogni caso, la dimensione privilegiata di espressione delle misure di sanità pubblica che, in questi termini e propriamente, è amministrazione di prevenzione. Al contempo è tuttavia anche amministrazione di precauzione, nella misura in cui attinge a presidi farmaceutici di comprovata efficacia, in quanto approvati attraverso procedure standardizzate nelle quali i dati acquisiti risultano completi.
Viene però da chiedersi se una politica vaccinale in un contesto di pandemia risponda alle medesime istanze ed ambizioni e fino a che punto possa legittimamente farsi carico dell’applicazione ortodossa del principio di precauzione. Se le misure di sanità pubblica sono infatti solitamente misure di prevenzione (implementate con tecniche precauzionali) che dispiegano la loro efficacia sulla scala vasta della popolazione e non del singolo soggetto, la contemporanea esperienza pandemico-emergenziale porta le azioni di sanità pubblica a doversi confrontare non più con una con una popolazione da proteggere, con le misure preventive di profilassi, ma con una popolazione malata, da dover curare per via di un virus ad alta capacità di contagio e di rilevante efficacia patogena.
Rispetto alla popolazione malata nel contesto pandemico, la terapia che mette in campo la sanità pubblica è innanzitutto una terapia amministrativa, che attinge ai “farmaci amministrativi” che la scienza suggerisce allo stato dell’arte[21]. In questi termini, il frangente storico che attraversiamo ci ha restituito “provvedimenti terapeutici” di varia natura: dagli obblighi di utilizzo delle mascherine di protezione alle misure di distanziamento fisico, dal contingentamento dei trasporti pubblici ai cd. lockdowns, di portata più o meno generalizzata e più o meno pervasiva. Si tratta, in ogni caso, di cure amministrative impiegate per soccorrere un paziente malato, riconoscibile in termini di popolazione e non già di singolo individuo.
In questo quadro, oggi il più efficace strumento disponibile di cura, sul piano strettamente terapeutico-sanitario, è la vaccinazione con i prodotti in commercio e con questo dato devono confrontarsi le politiche pubbliche di suasion vaccinale. Sta al legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che la Carta fondamentale gli riconosce nella prospettiva della piena attuazione del dettato costituzionale che reclama la tutela della salute come interesse della collettività e fermi i limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale, individuare la soglia dell’induzione: per alcune categorie, dove i rischi sociali sono più evidenti, l’obbligo (i sanitari: l’organo più a rischio del paziente malato); per altre, la certificazione di adempimento vaccinale come titolo di accesso in determinati contesti (cd. green pass). Sta di fatto che la circostanza per cui determinate misure di sanità pubblica si collochino in un contesto di pandemia ascrive quelle misure non tanto nei capitoli dell’amministrazione della precauzione ma dell’amministrazione che, legittimamente e doverosamente, cura su di una scala che è diversa da quella individuale.
[1] La definizione di “Vaccine Hesitancy” deriva da uno studio promosso dallo Strategic Advisory Group of Experts (Sage) on Immunizationdell’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2012, che ha creato un gruppo di lavoro specifico sul tema. Il materiale prodotto è stato raccolto e pubblicato, ad agosto 2015, su un numero monografico della rivista Vaccine dedicato interamente all’esitazione vaccinale e intitolato “WHO Recommendations Regarding Vaccine Hesitancy”. Il gruppo di lavoro ha formulato una definizione dell’esitazione vaccinale come un ritardo nell’adesione o come rifiuto della vaccinazione, nonostante la disponibilità di servizi vaccinali.
[2] Per un approfondimento sul catalogo degli interventi e sulle strategie, si rinvia all’Health Promotion Glossary, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1998.
[3] Sul tema si rinvia ampiamente a M. Pontecorvo, Storia delle vaccinazioni, Varese, 1991.
[4] Per un commento: M. Tomasi, Lo stato dell’arte sugli obblighi vaccinali all’indomani della sentenza costituzionale n. 5 del 2018, in Studium iuris, 2018, 7-8, 819.
[5] G. Pascuzzi, La spinta gentile verso le vaccinazioni, in Mercato concorrenza regole, 2018, 1, 89.
[6] Si tratta di un indirizzo consolidato e ribadito dalla Corte Costituzionale a più riprese. Si veda: Corte Cost., 20 giugno 1994, n. 258; 23 febbraio 1998, n. 27; 16 ottobre 2000, n. 423; 20 giugno 1994, n. 258; 26 aprile 2012, n. 107. Di recente e successivamente alla pronuncia del 2018; C. Cost., 26 maggio 2020, n. 118.
[7] L. Principato, La parabola dell’indennizzo, dalla vaccinazione obbligatoria al trattamento sanitario raccomandato, in Giurisprudenza costituzionale, 2018, 1, 375.
[8] Per un inquadramento dell’istituto si veda anche M. Giovannone, La somministrazione vaccinale nei luoghi di lavoro dopo il d.l. n. 44/2021, in www.federalismi.it, 2021, 14, 103. Prima dell’introduzione della norma ma comunque successivamente all’inizio della pandemia: G. Scarselli, Note sulla obbligatorietà o meno della vaccinazione anti Covid 19, in www.ambientediritto.it, 2020, 4, 1079.
[9] Per un approfondimento sulle prime pronunce del giudice amministrativo sull’obbligo vaccinale per SARS-CoV-2, S. Caggegi, Premesse alla lettura della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. Terza 20 ottobre 2021 n. 7045 sull’obbligo vaccinale, in Questa Rivista, 28 ottobre 2021.
[10] La procedura prevede, al pari dello strumento abilitativo ordinario, che l’autorizzazione alla commercializzazione nel mercato dell’Unione sia di competenza della Commissione Europea, previa raccomandazione dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA), che valuta sicurezza, efficacia e qualità del vaccino. Il profilo differenziale riguarda invece la scansione delle fasi di sperimentazione clinica. Le stesse, nella procedura ordinaria, sono infatti sequenziali, laddove nella procedura condizionata si assiste ad una parziale sovrapposizione dei segmenti, con l’avvio della fase successiva a poca distanza dall’avvio della precedente, il che permette l’acquisizione di un insieme di dati meno ampio ma comunque ampiamente qualificante. In ogni caso, l’autorizzazione condizionata, nella previsione dell’art. 4 del Reg. (CE) n. 507/2006, viene accordata in costanza dei seguenti rigorosi requisiti: che il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulti positivo; che sia probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi (da cui deriva, per l’appunto, il carattere condizionato della procedura); che il medicinale risponda a specifiche esigenze mediche insoddisfatte; che i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che siano comunque necessari dati supplementari.
[11] La decisione, sul punto, rinvia a: Cons. St., sez. III, 10 dicembre 2020, ord. n. 7097; nonché, più di recente, Cons. St., sez. III, 9 luglio 2021, n. 5212.
[12] Sul tema, N. Vettori, Le decisioni in materia di salute tra precauzione e solidarietà. Il caso delle vaccinazioni, in Diritto Pubblico, 2018, 1, 181.
[13] Con specifica attenzione al rapporto tra principio di precauzione e obblighi vaccinali, G. Manfredi, Vaccinazioni obbligatorie e precauzione, in Giurisprudenza italiana, 2017, 6, 1418.
[14] Sul punto, la decisione del Consiglio di Stato richiama l’orientamento manifestato dalla Corte costituzionale con riguardo alla normativa introduttiva della vaccinazione obbligatoria contro l’epatite virale di tipo B, impugnata anche per la omessa previsione di accertamenti preventivi idonei quantomeno a ridurre il rischio, pur percentualmente modesto, di lesioni all’integrità psicofisica per le complicanze del vaccino. Nella sentenza 23 giugno 1994, n. 258, la Corte ebbe infatti modo di chiarire che “la prescrizione indeterminata e generalizzata di tutti gli accertamenti preventivi possibili, per tutte le complicanze ipotizzabili e nei confronti di tutte le persone da assoggettare a tutte le vaccinazioni oggi obbligatorie” renderebbe “di fatto impossibile o estremamente complicata e difficoltosa la concreta realizzabilità dei corrispondenti trattamenti sanitari”.
[15] La sicurezza delle cure, precisa il comma 2, si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative. Aggiunge il comma 3 del richiamato art. 1 che le attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, è tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale.
[16] Emessa dalla Grande Camera in ric. n. 47621/13, n. 3867/14, n. 73094/14, n. 19306/15, n. 19298/15 e n. 43883/1.
[17] F. Polacchini, Doveri costituzionali e principio di solidarietà, Bologna, 2016.
[18] In argomento, F. Scalia, Principio di precauzione e ragionevole bilanciamento dei diritti nello stato di emergenza, in www.federalismi.it, 2020, 32.
[19] Sul tema si rinvia ampiamente a F. de Leonardis, Il principio di precauzione nell'amministrazione di rischio, Milano 2005. Più di recente, nell’ambito dei contributi monografici: R. Titomanlio, Il principio di precauzione fra ordinamento europeo e ordinamento italiano, Torino, 2018.
[20] Sul rapporto tra emergenza sanitaria e tutela del principio di solidarietà, M. Ramajoli, Emergenza, disordine, solidarietà, in Il diritto dell’economia, 2020, 3, 1.
[21] Sul tema si rinvia a D. Zanoni, Razionalità scientifica e ragionevolezza giuridica a confronto in materia di trattamenti sanitari obbligatori, in Costituzionalismo.it, 2020, 1, 140.
su questa rivista nota a Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045 di Giuliano Scarselli