Forme di tutela dell’interesse alla (tempestiva) conclusione del procedimento (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 20 aprile 2021, n. 4597)
di Marco Ragusa
Sommario: 1. La fattispecie- 2. Le ragioni della decisione: l’ambigua natura dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990 - 2.1. L’indennizzo (o gli indennizzi?) introdotti dall’art. 28 del «decreto del fare; 2.2. Indennizzo e risarcimento del danno da ritardo nell’art. 2 bis l. n. 241/1990 - 3. Considerazioni sull’impianto motivo della decisione - 4. Osservazioni conclusive.
1. La fattispecie
Gli eredi di un noto artista, le cui spoglie erano state inizialmente seppellite presso il Comune di Ardea, richiedevano a quest’ultimo, il 23 maggio del 2019, l’autorizzazione all’estumulazione della salma e al trasporto della stessa presso il cimitero di San Benedetto del Tronto, per potere lì provvedere alla sua cremazione. Con la stessa istanza veniva richiesta l’autorizzazione al successivo trasferimento delle ceneri presso il Comune di Aprilia, dove l’urna avrebbe dovuto essere custodita per il futuro, insieme a quella contenente le ceneri della moglie dell’artista, in ossequio alla volontà testamentaria espressa dai coniugi[1].
L’amministrazione ardeatina non concludeva il procedimento nel termine allo stesso applicabile: gli eredi agivano così innanzi al Tar del Lazio che, accertato l’obbligo di provvedere in capo al Comune, condannava quest’ultimo all’adempimento, nominava un commissario ad acta per l’ipotesi del protrarsi dell’inerzia e disponeva il mutamento del rito in ordinario al fine dell’esame della domanda di risarcimento del danno da ritardo e di quella volta al pagamento dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990[2].
Con la sentenza qui annotata il Tar ha definito tali azioni consequenziali, respingendole.
Merita alcune brevi riflessioni, in particolare, il capo della pronuncia in cui, negando il diritto dei ricorrenti all’indennizzo, il Tribunale ha dato di tale istituto un inquadramento non conforme alle posizioni più diffuse in giurisprudenza (sebbene, alla stregua di queste, idoneo a limitarne sensibilmente l’ambito di applicazione).
2. Le ragioni della decisione: l’ambigua natura dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990
La motivazione della sentenza illustra i fatti successivi alla pubblicazione della prima pronuncia, con la quale il Comune resistente è stato condannato a provvedere: l’adozione, da parte del sindaco, di un atto elusivo della decisione emessa ex art. 117, c. 2, c.p.a.; il conseguente insediamento del commissario ad acta e l’accoglimento, da parte di quest’ultimo, dell’istanza dei ricorrenti (26 novembre 2020); la reiterazione della medesima autorizzazione a fronte della perdurante inottemperanza degli uffici comunali (4 gennaio 2021); l’ulteriore ritardo dell’ente nel consentire il concreto svolgimento delle operazioni di estumulazione. A fronte di un termine di trenta giorni previsto per la conclusione del procedimento, in sintesi, l’istanza veniva definitivamente accolta dopo poco meno di seicento giorni.
L’omessa allegazione e prova, da parte dei ricorrenti, dei danni dai medesimi patiti a causa del ritardo dell’amministrazione costituisce l’unico argomento posto espressamente dalla decisione a fondamento della (più che succinta) statuizione di rigetto della domanda risarcitoria[3].
La medesima ragione è, tuttavia, anche il primo pilastro della più articolata motivazione relativa al mancato riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Il risarcimento del danno e l’indennizzo, contemplati rispettivamente dai commi 1 e 1 bis dell’art. 2 bis l. proc., secondo il Tar, «dipendono da un medesimo presupposto in fatto (ossia la violazione del termine di conclusione del procedimento) e condividono la medesima finalità compensativa»[4].
Il primo aspetto – che, cioè, i diritti contemplati dai due commi dell’art. 2 bis cit. derivino entrambi dal medesimo fatto illecito[5] – è centrale nell’argomentazione del Tar.
Tale rilievo impedirebbe, infatti, l’assimilazione dell’indennizzo a omonimi istituti aventi il fine di riequilibrare «interessi meritevoli di tutela in conflitto fra loro»: non costituendo, al contrario di questi, un «meccanismo che la legge predispone a fronte di attività legittime […] per motivi di equità sostanziale»[6], l’indennizzo (come il risarcimento) non potrebbe considerarsi un mero automatismo attivabile a fronte dell’inerzia provvedimentale, ma rappresenterebbe piuttosto una forma di riparazione del sacrificio imposto a «un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento»[7].
In altri termini: l’interesse alla tempestiva conclusione del procedimento non si distinguerebbe, in sé, dall’interesse alla conclusione (senza aggettivi) del procedimento. Esso dovrebbe pertanto ritenersi pienamente soddisfatto dall’emanazione del provvedimento: poco importa che tale risultato sia conseguito dall’istante a distanza di molto tempo dalla scadenza del termine (magari con defatigante e superfluo aggravio degli oneri di partecipazione procedimentale e solo a seguito del vittorioso esperimento di un giudizio avverso il silenzio), salvo che sia data prova dell’esistenza di specifici danni subiti in ragione delle lungaggini procedimentali[8].
La validità di questa interpretazione dell’art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. viene dimostrata in sentenza mediante il ricorso a due distinzioni: da una parte quella tra l’istituto in parola e l’indennizzo di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 69 del 2013[9], dall’altra quella tra i diritti contemplati dai due commi dell’art. 2 bis cit.. La novità di questo approccio ne consiglia una più dettagliata descrizione.
2.1. L’indennizzo (o gli indennizzi?) introdotti dall’art. 28 del «decreto del fare»
Il comma 1 bis è stato aggiunto all’art. 2 bis della legge sul procedimento dall’art. 28, c. 9, d.l. n. 69/2013. La norma dispone che, fatto salvo il diritto al risarcimento del danno «e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento».
È noto che il comma 1 dell’art. 28 cit. ha altresì disposto, con previsione in parte analoga, che le pubbliche amministrazioni, «in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, corrispondono all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro». A tal fine l’istante ha l’onere di attivare, entro venti giorni dalla scadenza del termine procedimentale, la procedura contemplata dal comma 9 ter dell’art. 2 l. n. 241/1990, chiedendo all’organo titolare del potere sostitutivo anche il pagamento dell’indennizzo (art. 28, c. 2, d.l. n. 69/2013). Tanto nell’ipotesi di perdurante inerzia provvedimentale, quanto nel caso di mancata liquidazione dell’indennizzo dovuto, può essere proposta domanda giudiziale nelle forme dei riti speciali ex art. 117 o 118 c.p.a. (art. 28 cit., cc. 3 e 4). Le informazioni relative all’indennizzo, alle modalità per ottenerlo, al titolare del potere sostitutivo e ai termini a questi assegnati per la conclusione del procedimento devono essere fornite con la comunicazione di avvio del procedimento e pubblicate in conformità all’art. 35 d.lgs. n. 33 del 2013.
Comprendere quale sia il rapporto tra le disposizioni dettate dai commi 1 e 9 del citato art. 28 – se cioè essi contemplino due diversi diritti all’indennizzo, oppure si riferiscano al medesimo istituto – rileva, ad avviso del Tar, sotto due principali aspetti.
In primo luogo perché, considerando l’indennizzo introdotto dalla novella alla legge sul procedimento distinto da quello di cui all’art. 28 c. 1 cit., la disciplina per quest’ultimo specificamente dettata dovrebbe ritenersi non estensibile al primo: la predeterminazione ex lege dell’ammontare, l’onere di previa attivazione della competenza sostitutiva (nonché, potrebbe aggiungersi, l’espresso assoggettamento della domanda al rito camerale e gli obblighi di comunicazione e di pubblicazione imposti all’amministrazione) riguarderebbero, insomma, soltanto il secondo istituto.
Inoltre (e soprattutto), se si trattasse di due istituti distinti, potrebbe ritenersi riferito soltanto all’indennizzo di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 68/2013 il successivo comma 10, ai sensi del quale «le disposizioni del presente articolo si applicano, in via sperimentale e dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa iniziati successivamente alla medesima data di entrata in vigore». Il comma 12 dell’art. 28 prevede inoltre che, al termine del periodo «sperimentale» (della durata minima di diciotto mesi) con regolamento di delegificazione si possano confermare o modificare le condizioni e le modalità stabilite ai commi 1 ss. dell’art. 28, nonché l’ambito di applicazione definito dal citato comma 10: anche questa previsione, secondo il Tar, non sarebbe riferibile all’indennizzo ex art. 2 bis l. proc., qualora quest’ultimo si ritenesse distinto da quello di cui al citato art. 28, c. 1[10].
Per il Tribunale è indubbio che le due norme con cui, nel d.l. del 2013, è stata introdotta una tutela indennitaria per le ipotesi di inerzia provvedimentale non siano tra loro in alcun modo sovrapponibili: questa conclusione è raggiunta attraverso un’analisi sistematica delle disposizioni di cui all’art. 28 cit., dalla quale la sentenza trae una precisa interpretazione della volontà del legislatore.
Quest’ultimo avrebbe inteso apprestare una tutela indennitaria, limitata e uniforme nell’ammontare, in favore delle imprese, «per le quali è non irragionevole ritenere il “tempo” e la certezza della conclusione del procedimento quale interesse meritevole di tutela» e rispetto alle quali il «bene tempo» non rappresenterebbe «un valore fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario»[11].
Tale forfettizzazione, ad una con il suo massimale, non sarebbe invece applicabile all’indennizzo previsto dall’art. 2 bisdella legge n. 241/1990: quest’ultimo potrebbe essere dunque liquidato equitativamente e senza necessità di attivare la procedura di cui all’art. 2, c. 9 ter, della legge sul procedimento.
La distinzione che ha più rilievo ai fini del rigetto della domanda, tuttavia, riguarda il profilo dell’automaticità: pacifica con riferimento alla misura indennitaria di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 69/2013, da escludersi in relazione a quella contemplata dall’art. 2 bis l. proc., che esige invece l’allegazione e la prova del danno subito dall’amministrato.
Ricostruendo a contrario gli argomenti impiegati in motivazione, sembrerebbe dunque che nei confronti delle imprese, a differenza che per ogni altro amministrato, il legislatore attribuisca rilievo giuridico autonomo all’interesse alla tempestiva conclusione del procedimento, distinguendolo da quello all’adozione (in sé) del provvedimento[12].
Benché il Tar non lo dica espressamente, peraltro, è la stessa predeterminazione legale dell’importo a neutralizzare, limitatamente all’indennizzo ex art. 28, c. 1, cit., un altro argomento che la sentenza impiega per escludere che il diritto ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. sorga automaticamente, a fronte del mero spirare del termine procedimentale. Benché, infatti, l’art. 28 c. 1 cit. imponga la liquidazione dell’indennizzo anche in assenza di un effettivo danno subito dall’impresa istante – circostanza che, secondo uno dei motivi che sorreggono la decisione qui annotata, ne dovrebbe attestare la «natura sostanzialmente sanzionatoria» – la norma non solleverebbe dubbi di legittimità costituzionale, poiché la determinazione della «sanzione [non] risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice»[13].
Non v’è dubbio, in sintesi, che l’indennizzo di cui all’art. 2 bis l. n. 241/1990 abbia, secondo il Tar, natura risarcitoria: se esso non funge da corrispettivo per il trasferimento forzoso di un diritto o per la costituzione di un nuovo diritto in capo ad altri, non esprime la corrispettività tra il «prezzo» di un rischio diffuso e il «prezzo» del pregiudizio subito dal titolare del diritto in cui danno quel rischio si è concretato, non mira a mitigare, per ragioni di equità, la responsabilità dell’obbligato, non è soggetto a criteri di liquidazione forfettari, o comunque svincolati dall’entità del danno, allora è evidente come tale misura debba necessariamente ritenersi (puramente e semplicemente) strumentale a reintegrare il patrimonio dell’amministrato a fonte della lesione materiale di un suo bene o interesse. E, così configurato, l’indennizzo da ritardo contemplato dalla legge sul procedimento non potrebbe qualificarsi se non come un risarcimento del danno in senso stretto[14].
2.2. Indennizzo e risarcimento del danno da ritardo nell’art. 2 bis l. n. 241/1990
Veniamo allora alla seconda distinzione, per comprendere in cosa, a opinione del Tar Lazio, il risarcimento del danno previsto dal comma 1 bis dell’art. 2 bis l. n. 241/1990, che il legislatore qualifica «indennizzo», si differenzi dal risarcimento contemplato dal comma 1.
Tale distinzione, si afferma, risiederebbe, da un lato, nella natura dei danni risarcibili e, dall’altro, nella «liquidazione semplificata» ammessa dal legislatore per i pregiudizi alla cui riparazione è destinata la tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc., rispetto a quella (non «semplificata») imposta dal comma 1.
Sotto il primo aspetto, il Tribunale amministrativo ritiene che la misura indennitaria sia volta alla compensazione di pregiudizi a carattere non patrimoniale, mentre il risarcimento ex art. 2 bis, c. 1, mirerebbe alla riparazione di danni patrimoniali[15].
Questa interpretazione dell’art. 2 bis cit. è strettamente collegata al secondo elemento distintivo individuato dal Tar tra le due misure: è, infatti, la natura non patrimoniale dell’interesse leso a spiegare (e a giustificare) la semplificazione prevista dal legislatore con riferimento all’indennizzo, «strumento più agevole e di pronta liquidazione»[16].
Ma in cosa consiste questa semplificazione?
Stando alla motivazione della sentenza – in conformità alla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, la cui tesi ha di recente ricevuto un nuovo avallo dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[17] – la conformazione della responsabilità da ritardo di cui all’art. 2 bis, c. 1, corrisponde in toto allo schema aquiliano: chi pretenda di essere risarcito dovrà dunque dare prova «sia del pregiudizio che del suo ammontare, della sua riferibilità al ritardo e della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione nel non aver provveduto nei termini dovuti».
Per ottenere l’indennizzo, invece «il danneggiato dovrà solo allegare il ritardo e la sussistenza dell’interesse leso»[18].
In realtà, tale astratta e suggestiva contrapposizione tra gli oneri imposti per l’accesso all’una o all’altra tutela risulta molto mitigata se si guarda al quadro complessivo della motivazione, che indica ulteriori profili di concreta sovrapposizione tra la disciplina del risarcimento e quella dell’indennizzo.
Innanzitutto, quanto all’allegazione e alla prova del danno, abbiamo già visto che, a opinione del Tar, esse sono imprescindibili tanto ai sensi del comma 1, quanto per il comma 1 bis dell’art. 2 bis cit..
Né, pare, avrebbe senso sostenere che, mentre ai sensi del primo comma il danneggiato è onerato della quantificazione del pregiudizio subito, ai sensi del comma successivo l’ammontare del danno non debba essere specificamente provato: proprio adottando la prospettiva sposata dalla sentenza, infatti, lungi dall’essere una conseguenza della «semplificazione» apprestata dal legislatore, la cennata differenza deriverebbe piuttosto dal fatto che solo il danno risarcibile è «patrimonialmente valutabile», mentre quello indennizzabile, di natura non patrimoniale, non potrà che essere quantificato per mezzo di una valutazione equitativa[19].
Quanto alla prova del nesso di causalità, sebbene non espressamente richiesta dal c. 1 bis cit., non sembra che, onerato dell’allegazione e della prova del danno, il ricorrente possa prescindere da una dimostrazione (nei limiti fisiologici alla natura non patrimoniale del danno) della riferibilità di quest’ultimo all’inerzia provvedimentale della P.A.: a meno che non si ritenga che qualsiasi stato di afflizione morale, di disagio psicologico e comportamentale patito dall’istante nel periodo di tempo che intercorre tra la scadenza del termine procedimentale e l’effettiva emanazione del provvedimento debba presumersi essere conseguenza dell’inerzia dell’amministrazione, onerando quest’ultima di fornire l’eventuale prova contraria.
Qualche notazione in più richiede, infine, il profilo di distinzione tra risarcimento e indennizzo formalmente ancorato al fatto che solo per il primo è richiesta la prova dell’elemento soggettivo, quando invece, chi domandi una tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, non è tenuto a dimostrare la natura dolosa o colposa del ritardo della P.A..
Analizzando il materiale atteggiarsi di questa astratta distinzione, come tratteggiato dalla motivazione, ci si imbatte infatti nel secondo pilastro su cui si fonda la decisione, pilastro idoneo a sorreggerne le conclusioni «anche a ritenere in re ipsa»[20] il danno in ogni ipotesi di violazione dei termini procedimentali, «anche laddove» (la pronuncia lo ribadisce più d’una volta) «si ritenga che nel ritardo sia insita una lesione intrinseca dell’interesse dei ricorrenti e dunque il provvedimento tardivo non sia stato completamente satisfattivo»[21].
Dalla premessa secondo cui, per ottenere l’indennizzo da ritardo, non è richiesta la prova del dolo o della colpa, a detta del Tar, non può trarsi infatti la conclusione che l’elemento soggettivo della responsabilità dell’amministrazione sia comunque irrilevante.
Al contrario, qualora il ritardo sia passibile di una «ragionevole “giustificabilità”», esso non può «ricondursi ad una ordinaria forma di cattiva amministrazione o inerzia»: la «giustificabilità» è, pertanto, sufficiente «ad escludere una responsabilità [tanto] risarcitoria [quanto] indennitaria»[22].
Anche sotto questo profilo, di conseguenza, il discrimine tra risarcimento e indennizzo fissato dal Tar è più sfumato di quanto possa sembrare a un primo esame: l’enfatizzata inversione dell’onere della prova, infatti, si rivela in concreto ben poca cosa.
Se è vero che l’assunzione di dolo e colpa a presupposti dell’azione risarcitoria si traduce, nei fatti, nel mero onere del danneggiato di far menzione di circostanze la cui esistenza è attestata dagli stessi atti del procedimento (indici del lassismo o – all’opposto – dell’iperattività endoprocedimentale della P.A.) e se, per escludere il rilievo giuridico di tali circostanze, l’amministrazione deve invocare, anche nell’ambito della responsabilità risarcitoria, la «giustificabilità» del proprio comportamento[23], non è facile comprendere, anche sotto questo aspetto, quale sia la «semplificazione» che la legge appresta, secondo il Tar, per l’accesso alla tutela indennitaria.
3. Considerazioni sull’impianto motivo della decisione
La motivazione della sentenza in commento presenta diversi profili di contraddittorietà, sia interna, sia esterna.
Sotto quest’ultimo aspetto, è evidente la distonia della pronuncia con gli argomenti che lo stesso giudice aveva posto a fondamento della prima decisione, con cui era stato accolto il ricorso avverso il silenzio.
In quest’ultima si afferma a chiare lettere che gli interessi di cui il Comune aveva inteso farsi portatore (e la cui complessa valutazione aveva costituito la ragione materiale del ritardo procedimentale) non potessero assumere alcun giuridico rilievo ai fini dell’adozione del provvedimento (né, quindi, giustificare l’inerzia provvedimentale): l’accoglimento dell’istanza di traslazione della salma, oggetto di causa, dipendeva infatti «esclusivamente dalla sussistenza delle condizioni previste […] dal Regolamento di Polizia Mortuaria e non anche da valutazioni di opportunità e di merito amministrativo legate alla tutela degli interessi locali, che dunque non possono essere presi in considerazione dall’Amministrazione ai fini del diniego della istanza o per ritardarne l’esito»[24].
In altri termini, quanto all’accertamento dei presupposti, il potere autorizzatorio del Comune doveva ritenersi vincolato e, in ogni caso, pur ammessone un qualche margine di discrezionalità, nessuno spazio avrebbe potuto assumere al suo interno la considerazione dell’interesse della collettività cittadina a mantenere presso il proprio cimitero la sepoltura del noto artista.
La sentenza qui annotata, al contrario, qualifica la valutazione di tale interesse, da parte della P.A., indice della «giustificabilità» del ritardo: la «particolare forma di “pietas” collettiva» che il Comune di Ardea aveva inteso tutelare quale ente esponenziale della collettività locale, non può considerarsi «prevalente sul diritto dei congiunti, ma di certo neppure priva di un proprio rilievo»[25].
Per non rilevare una stridente contraddizione tra i due pronunciamenti, insomma, il «rilievo» della «pietas» della collettività locale, privo di giuridica consistenza, dovrebbe ritenersi di carattere morale, di mero fatto, comunque pre-giuridico: può un tale rilievo giustificare il sacrificio del diritto (al risarcimento e all’indennizzo) dei ricorrenti? Così non pare: sembra anzi che, a fronte di una così palese deviazione dell’agire amministrativo dal suo paradigma normativo (un agire che il Tar qualifica clementemente «solo sviato nei presupposti di fatto»[26]) sarebbe difficile non ritenere pienamente dimostrata la colpa grave della P.A., in un grado tanto elevato da non ammettere «giustificazione» alcuna.
Quanto ai profili di incoerenza interna, deve evidenziarsi, innanzitutto, l’irregolare tracciato della linea di confine posta dalla decisione tra l’indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 69 del 2013, da un lato, e i rimedi contemplati dai due commi dell’art. 2 bis l. proc., dall’altro.
Il Tar sostiene infatti che, con riferimento alla prima tutela (limitata all’ambito di applicazione transitoriamente definito dallo stesso art. 28, c. 10, cit.), la previsione di un onere procedimentale che condiziona l’accesso all’indennizzo (l’attivazione della procedura sostitutiva ex art. 2, c. 9 ter, l. proc.) abbia la funzione di bilanciare l’automaticità di tale rimedio[27]. Tuttavia, poche righe dopo, nella stessa decisione si afferma che, anche per l’accesso alla tutela risarcitoria o indennitaria di cui all’art. 2 bis cit., si impone all’istante insoddisfatto l’esperimento di «una procedura sostitutiva (laddove quest’ultima sia esperibile), o comunque un diverso rimedio sollecitatorio (ma non in applicazione diretta del comma 2 dell’art. 28 del DL 69/2013, che, come indicato, riguarda altra fattispecie, bensì del più generale principio di cui all’art. 1227 cod.civ.)»[28].
Quanto alla mancata prova in giudizio del danno oggetto dell’indennizzo, poi, è la stessa qualificazione «non patrimoniale» a far dubitare della consequenzialità delle conclusioni raggiunte rispetto agli argomenti impiegati in motivazione dal Tar.
Al riguardo, non è peregrino scorgere un parallelo tra il criterio distintivo individuato in sentenza (sia tra le tutele fruibili ex art. 2 bis l. n. 241/1990, sia tra quella contemplata dal comma 1bis di tale norma e l’indennizzo ex art. 28, c. 1 cit.) e il discrimine che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha posto tra i rimedi offerti alle parti di un processo di cui venga accertata l’irragionevole durata, per ottenere l’equa riparazione ai sensi della legge n. 89/2001: anche in questa materia, infatti, la natura del danno (patrimoniale o non patrimoniale) determina l’applicazione di un differente riparto dell’onere di allegazione e prova. E tuttavia, proprio in materia di equa riparazione, nella giurisprudenza della Suprema Corte è ormai consolidato l’orientamento secondo il quale «il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata provata detta violazione […] viene normalmente liquidato […] senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via soltanto presuntiva. E ciò a differenza del danno patrimoniale, per cui si richiede invece la prova della sua esistenza»[29]. La natura non patrimoniale del danno, insomma, dovrebbe condurre a conclusioni diametralmente opposte a quelle raggiunte dal Tar Lazio, che al contrario sottolinea una inversa distinzione tra l’indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 96/2013 (automatico e avente funzione di riparazione patrimoniale) e l’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, della legge sul procedimento (volto alla compensazione di danni non patrimoniali, la cui sussistenza sarebbe onere del ricorrente provare).
Sotto altro profilo – e prescindendo dall’analogia suggerita dagli argomenti della sentenza in commento con le tutele ex legge Pinto – l’idea che la violazione di un precipuo obbligo di legge (a fronte della quale la legge stessa prevede espressamente un diritto alla riparazione) non possa dar luogo a una presunzione in ordine all’esistenza del danno sembra anch’essa, in radice, smentita dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che, ove tali presupposti ricorrano, ben può il giudice procedere a una liquidazione equitativa, pur in difetto di un’allegazione di parte in ordine all’entità del pregiudizio patito. Contrariamente a quanto ritenuto dal Tar, non osta a questa conclusione – e, anzi, ne corrobora la correttezza – il rilievo secondo cui, in questo modo, la norma che dalla violazione dell’obbligo fa derivare una specifica (e diretta) tutela configurerebbe una «misura di natura sanzionatoria»[30].
«Sanzionatoria» è del resto, secondo la ricostruzione di certa dottrina, la funzione di una classe di rimedi che la decisione qui annotata non menziona tra gli esempi di «indennizzo» messi a raffronto con quello previsto dall’art. 2 bis, c. 1 bis, cit., e che tuttavia sembrano assai simili a quest’ultimo sul piano strutturale e su quello teleologico: ci si riferisce agli indennizzi automatici forfettari che, a far data dal 1994, è imposto di prevedere agli erogatori di servizi pubblici per le ipotesi di violazione degli obblighi assunti, nei confronti dell’utenza, mediante le carte del servizio[31]. La novella alla legge sul procedimento è stata, peraltro, apportata da uno dei (sempre più numerosi) provvedimenti normativi orientati a qualificare l’attività amministrativa alla stregua di un servizio al pubblico, passibile di valutazione secondo standard di qualità che non descrivono il grado di soddisfazione dell’utenza sul piano dell’oggetto della prestazione, ma sul metro delle modalità impiegate per l’adempimento di quest’ultima: ciò sembra suggerire che, almeno nelle intenzioni, il legislatore abbia modellato l’indennizzo da ritardata conclusione del procedimento sul topos dell’indennizzo da disservizio[32].
Proprio dando per buona la prima distinzione assunta a fondamento della motivazione (quella tra indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 68/2013 e indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc), insomma, le conclusioni della decisione non sarebbero condivisibili.
I ricorrenti avevano infatti provato, nei limiti del materialmente possibile, sia la patente illegittimità del ritardo (peraltro già accertata dalla precedente sentenza), sia gli indici della colpa ravvisabile nel comportamento del Comune; la fattispecie escludeva inoltre, ipso facto, la possibilità di attivare un intervento sostitutivo o altri rimedi stragiudiziali avverso l’inerzia, poiché il rilascio dell’autorizzazione richiesta all’amministrazione rientrava fra le competenze del suo organo di vertice; che, infine, il tempo di definizione del procedimento avesse assunto, per i ricorrenti, un valore autonomo e distinto dall’interesse all’adozione del provvedimento non sarebbe stato di certo «arbitrario» presumere, sulla scorta delle stesse risultanze istruttorie: il giudice – proprio sulla base del (non condivisibile) inquadramento giuridico offerto alla res litigiosa – avrebbe dunque dovuto riconoscere il diritto all’indennizzo, liquidandone equitativamente l’ammontare.
4. Osservazioni conclusive
Se però, come appena rilevato, il rigetto della domanda di indennizzo appare errato alla luce delle premesse descritte in motivazione, la stessa statuizione sembra, al contrario, corretta ove tali premesse siano sottoposte a critica.
Al riguardo, sembra doversi rilevare come gli argomenti a cui fa ricorso il Collegio, prima ancora che non condivisibili, siano decisamente superflui ai fini del rigetto di una domanda di indennizzo che, in forza della legge vigente, non avrebbe potuto avere altra sorte.
Il Tar, infatti, avrebbe potuto raggiungere la stessa conclusione attraverso un percorso assai più breve e lineare, se solo avesse dato una diversa impostazione al problema relativo al rapporto tra il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013. È dall’erronea interpretazione di tale rapporto che derivano per necessità, a cascata, le altre criticità argomentative supra segnalate.
È evidente, al riguardo, quanto la pessima formulazione della norma del 2013 abbia giocato un ruolo determinante nell’errore in cui è incorso il Tar; ma non v’è dubbio, d’altro canto, che l’esegesi accolta da quest’ultimo finisca col complicare la definizione della portata precettiva dell’art. 28 cit. più di quanto possa fare una interpretazione letterale del suo (scadente) dato testuale.
Prendiamo le mosse da un rilievo elementare, a cui si è già accennato.
L’art. 28, c. 10, del d.l. n. 69/2013 dispone una limitazione transitoria dell’ambito di applicazione per (id est: per tutte) le «disposizioni del presente articolo».
In difetto di un indice letterale o sistematico che impedisca l’inclusione in tale limitazione della novella alla legge sul procedimento introdotta dallo stesso art. 28 (comma 9), anche quest’ultima norma dovrebbe pertanto trovare applicazione, in costanza del periodo «sperimentale», esclusivamente con riferimento ai «procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell’attività di impresa iniziati successivamente alla medesima data di entrata in vigore».
Di siffatti indici, ostativi all’accoglimento di un’interpretazione letterale, la sentenza in commento non fa menzione: si limita a negare – in ciò allineandosi all’opposto indirizzo che considera «fungibili» le due previsioni riferite all’indennizzo da ritardo procedimentale – che l’art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. sia interessato dalla predetta limitazione «sperimentale» e afferma che, di conseguenza, esso debba trovare applicazione generale e immediata, «anche in assenza del regolamento di cui al comma 12»[33].
Tuttavia, pur ammessa (per assurdo) la validità di questa (immotivata) interpretazione del citato comma 10, non potrebbe ignorarsi che la necessità di definire per legge o con un regolamento di delegificazione le «condizioni» e le «modalità» di esercizio del diritto all’indennizzo da ritardo ex l. n. 241/1990 non deriva tanto dal comma 12 dell’art. 28 cit., quanto, piuttosto, direttamente dallo stesso comma 9: anche se l’indennizzo contemplato da tale norma fosse altra cosa rispetto a quello previsto dal comma 1, dunque, la pretesa alla sua corresponsione non sarebbe comunque azionabile, perché mancherebbe a monte una legge che fissi «condizioni» e «modalità» per l’accesso alla tutela[34].
Il Tar Lazio, che non si confronta con questa condizione posta dall’art. 2 bis, c. 1 bis, ritiene necessario valorizzare la suggestiva circostanza che il comma 9 dell’art. 28 cit. abbia innestato la previsione dell’indennizzo in un testo «ben differente». Se, insomma, tra i tanti ‘rattoppi’ del «decreto del fare», una norma esprime la vocazione a integrare stabilmente lo statuto generale dell’amministrato, novellando la legge sul procedimento, allora, per il Tar, occorre dare un senso a tale specialità: «diversamente, l’art. 2 bis della l. 241/90 in nulla si differenzierebbe dalla previsione dell’art. 28, comma 1, del DL n. 69/2013»[35].
In realtà, è solo considerando unitaria la tutela indennitaria introdotta dall’art. 28 cit. che si perviene a una interpretazione della disciplina priva di sovrapposizioni e più aderente al dato letterale.
Il cuore dell’art. 28 cit., in questa diversa prospettiva, deve identificarsi nel disposto del comma 9 e nella modifica che esso apporta alla legge sul procedimento: alle tutele (di adempimento e risarcitoria) già contemplate in precedenza, la norma del 2013 ha aggiunto una tutela indennitaria. Il concreto funzionamento di questa tutela («modalità» e «condizioni») deve essere tuttavia definito, almeno in prima battuta, «dalla legge»: e l’unica legge che ha assolto (e a tutt’oggi assolve) a tale funzione non può che essere lo stesso d.l. n. 69/2013, che mediante le altre disposizioni contenute all’art. 28 non fa che delineare, appunto, «condizioni» e «modalità» (l’ammontare dell’indennizzo, gli oneri procedimentali che devono assolversi per farne richiesta, le modalità di proposizione e trattazione della domanda giudiziale, l’ambito di applicazione etc.).
In altri termini, allorché il Tar, nel sostenere che il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 siano fonti di due differenti diritti, afferma che «non avrebbe alcun senso ripetere una norma identica nella disciplina generale del procedimento amministrativo»[36], trascura una differenza di rilievo tra le due disposizioni: una differenza che l’interpretazione letterale non consente, invece, di ignorare e che impedisce di considerare l’una previsione «identica» all’altra. Senza, tuttavia, alcuna necessità di ritenere i citati commi 1 e 9 quali fonti di due differenti diritti all’indennizzo.
Infatti, mentre il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013 ha quale referente il cittadino («[…] l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo […]), la formulazione del comma 1 è strutturalmente differente, poiché essa è rivolta alle amministrazioni («[…] corrispondono all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo […]): definendo i contenuti dell’obbligazione indennitaria, tale ultima previsione ha, appunto, lo scopo di dettare (alcune tra le) «condizioni» e «modalità» che permettono la soddisfazione del diritto sancito dall’art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990.
Se le «condizioni» e le «modalità» stabilite dalla «legge» (a cui rinvia l’art. 2 bis, c. 1 bis, cit.) non fossero quelle fissate dall’art. 28, c. 1 ss., d.l. n. 68/2013, del resto, sarebbe impossibile comprendere perché mai il comma 1bis cit. prefiguri, per la sua applicazione, l’adozione di un regolamento di delegificazione ex art. 27, c. 2, l. n. 400/1988 (analogamente al comma 12 dell’art. 28 cit.), anziché di un regolamento di esecuzione, di attuazione o integrazione, ovvero indipendente (art. 27, c. 1, lett. a, b, e c l. n. 400/1988).
Gli indennizzi a cui si riferiscono, da prospettive differenti, il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 96/2013 sono, insomma, nient’altro che lo stesso istituto. Mentre il comma 9 sancisce il diritto alla tutela, gli altri commi ne definiscono, in conformità a ciò che il comma 9 esige, le «condizioni» e le «modalità» di soddisfazione[37].
Tra queste «condizioni» e «modalità» rientra, si ripete, anche quella individuata dal comma 10: di modo che, a tutt’oggi, l’accesso all’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. deve ritenersi limitato esclusivamente «ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa».
La fonte «ben differente» rappresentata, per il Tar, dalla legge sul procedimento non funge, insomma, che da manifesto per la proclamazione di un diritto dei cittadini che, ormai da otto anni è, in realtà, solo un diritto delle imprese[38].
Può certo dubitarsi della ragionevolezza di questa discriminazione operata dal legislatore: non sembra così scontato, come invece pare ritenere il Tar, che il «bene tempo» costituisca oggetto di un interesse autonomo per un’impresa più di quanto non lo sia per un lavoratore subordinato costretto a richiedere un permesso non retribuito per recarsi presso un ufficio comunale (o per un cittadino privo di impiego, che quel tempo potrebbe destinare alla ricerca di un’occupazione). Né convince l’idea che il «bene tempo» sia per il cittadino comune un valore «fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario»[39], o almeno che sia più «soggettivo» di quanto possa esserlo per una pizzeria o un’industria petrolchimica. Se questa irragionevolezza abbia rilievo in punto di legittimità costituzionale dell’art. 28, c. 10, d.l. n. 69 del 2013 è però un problema differente, che esula dall’oggetto di queste brevi notazioni.
Piuttosto, è opportuno evidenziare che la conclusione qui raggiunta (secondo la quale, semplicemente, non esiste a tutt’oggi una tutela indennitaria fruibile dal quisve de populo a fronte del ritardo provvedimentale) non deve portare a un eccessivo sconforto, a ritenere insomma preferibile, malgrado la sua dubbia coerenza, la tesi sostenuta in sentenza: le modalità di accesso all’indennizzo descritte da quest’ultima, infatti, non sembrano più onerose – né sul piano sostanziale (allegazione e prova del danno), né sul piano processuale (soggezione della domanda al rito ordinario) – rispetto a quelle richieste dalla legge vigente per il risarcimento del danno ex art. 2 bis, c. 1, l. proc.. E non è azzardato ritenere che, correttamente ricostruitane la disciplina, la pronuncia in commento avrebbe potuto accordare ai ricorrenti l’altra tutela richiesta. Almeno stando alla descrizione dei fatti di causa contenuta in motivazione, infatti, sembrerebbero ricorrere nella fattispecie tutti gli elementi della responsabilità della P.A.: elementi a fronte dei quali il giudice avrebbe potuto ben procedere a una liquidazione equitativa (non dell’indennizzo, ma) del danno risarcibile.
[1] È doveroso segnalare che il dispositivo della pronuncia in commento «manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare i ricorrenti ed i loro genitori». Nella copia consultabile della decisione risultano tuttavia oscurati anche il nome del Comune resistente e quelli degli altri enti e luoghi a vario titolo coinvolti nella vicenda che ha dato origine al giudizio. Tale modalità di oscuramento renderebbe, in alcuni passi, pressoché incomprensibile la motivazione. Basti dire che i nomi dei tre Comuni sono, come di consueto accade, tutti sostituiti dallo stesso « -OMISSIS-»: di modo che, dove in motivazione si fa riferimento a uno dei tre enti, talora non si riesce a comprendere quale tra essi sia il Comune richiamato (quello di sepoltura, quello in cui provvedere alla cremazione o quello destinato a custodire in futuro le ceneri?). Non è stata – fortunatamente – oscurata l’indicazione del numero e dell’anno della precedente sentenza pronunciata inter partes (infra, nota 2), per la cui pubblicazione la Segreteria, pur avendo ricevuto dal Tar identico mandato, ha quantomeno sottratto all’oscuramento i dati relativi alle amministrazioni coinvolte: con l’ausilio di tale decisione, quella qui annotata diviene (non chiara ma almeno) comprensibile. Il paradosso è che se taluno, per mera curiosità, volesse indagare sull’identità del personaggio celebre (alle cui vicende post mortem si riferiscono i fatti narrati dalla motivazione della pronuncia in commento) o su quella dei suoi eredi, potrebbe agevolmente risalirvi, senza essere dotato di particolari abilità di detection, limitandosi (anche senza l’ausilio della pronuncia richiamata) a digitare su un motore di ricerca qualche lemma identificativo del caso («cremazione», «estumulazione», «artista celebre») e soffermandosi sui risultati relativi a notizie della stampa locale (di cui la competenza per territorio del Tar dà un’indicazione univoca). È un paradosso perché la tecnica dell’oscuramento per ragioni di privacy, così applicata, mentre non impedisce l’accesso al fatto che ‘appartiene solo alle parti’ (il dato, appunto, personale), è spesso in grado di celare quella parte del fatto che ‘appartiene a tutti’ e che è la ragione che giustifica la qualità pubblica di ogni pronuncia giurisdizionale (per una chiara distinzione tra «aspetto individuale» e «aspetto collettivo» del «fatto» nel processo, v. F. Mazzarella, Analisi del giudizio civile di cassazione, Padova, 2003, 83 ss.). Sull’«improvvido “oscuramento”, operato arbitrariamente e privo di qualsivoglia fondamento normativo nella vigente disciplina della protezione dei dati personali» (dal quale troppo spesso le sentenze restano intaccate), v. in questa Rivista le osservazioni di F. Francario, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo (nota a CGARS 1 10 2020 n. 866),
[2] Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 30 luglio 2020, n. 8895.
[3] V. il par. II) della decisione.
[4] Così la motivazione, al punto III).
[5] In giurisprudenza, per la qualificazione della responsabilità ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. come responsabilità da attività lecita v. Tar Sicilia, Catania, sez. III, 16 aprile 2021, n. 1201.
[6] Così la sentenza annotata al par. III). Le fattispecie di indennizzo richiamate in motivazione sono quella di cui all’art. 2045 c.c., relativa al danno causato in stato di necessità, la revoca del provvedimento ex art. 21 quinquies l. proc., l’equo indennizzo per invalidità o decesso derivanti da causa di servizio, l’indennità da espropriazione per pubblica utilità e la promessa del fatto del terzo (art. 1381 c.c.).
[7] Ibidem, par. III.3).
[8] Difficile ritenere compatibile un siffatto approccio con l’idea (pure, in astratto, spesso condivisa dal giudice amministrativo) che con la previsione del risarcimento del danno per il ritardo o il mancato esercizio del potere, «e poi di un indennizzo forfettario per il “mero ritardo”, il tempo procedimentale è stato qualificato alla stregua di un bene della vita, costituendo il ritardo un costo sia “economico”, poiché si traduce in un rischio amministrativo in caso di “investimenti”; sia in termini di violazione dell’affidamento degli interessati, che costituisce il versante soggettivo, psicologico, del valore oggettivo del principio di certezza del diritto (Cons. St. sez. V, n. 675/2015)»: per questa formulazione v. CGARS, sez. giur., 10 settembre 2018, n. 490.
[9] Decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98.
[10] Ai sensi dell’art. 28, c. 12, d.l. n. 69 del 2013 cit., «Decorsi diciotto mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e sulla base del monitoraggio relativo alla sua applicazione, con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, sono stabiliti la conferma, la rimodulazione, anche con riguardo ai procedimenti amministrativi esclusi, o la cessazione delle disposizioni del presente articolo, nonché eventualmente il termine a decorrere dal quale le disposizioni ivi contenute sono applicate, anche gradualmente, ai procedimenti amministrativi diversi da quelli individuati al comma 10 del presente articolo».
[11] Così la motivazione al par. III.6).
[12] La sentenza, al par. III.4.), riconosce a chiare lettere che, fuori dall’ipotesi del danno ulteriore di cui sia offerta prova, il provvedimento «tardivo», sia «pienamente satisfattivo».
[13] Ibid: «laddove si affermasse, come prospettano i ricorrenti, il diritto all’indennizzo anche all’esito del provvedimento (tardivo ma) pienamente satisfattivo (ovvero il diritto ad un indennizzo in assenza di un interesse leso ulteriore e distinto rispetto a quello strumentale alla tempestiva conclusione del procedimento), la fattispecie di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 avrebbe natura sostanzialmente sanzionatoria, ma come tale sarebbe di dubbia compatibilità costituzionale perché la sanzione risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice (non essendo configurabile la sua commisurazione “secondo equità”, dato che la liquidazione ex art. 1226 del cod.civ. ha ad oggetto solo l’entità del pregiudizio risarcibile in funzione risarcitoria o compensativa)».
[14] R. Scognamiglio, Indennità, in Novissimo Digesto Italiano, VIII, 1962, ad vocem, 595 ss.
[15] Cfr. il par. III.7) della motivazione.
[16] Ibid.
[17] Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7. Sull’originale (e discutibile) tesi proposta dall’ordinanza di rimessione (CGARS, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), disattesa dall’Adunanza plenaria, v. in questa Rivista M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria.
[18] Così la motivazione, al par. III.7, dal quale è tratta anche la precedente citazione nel testo.
[19] Ibid., par. III.6).
[20] Ibid., par. VI).
[21] Ibid., par. IV).
[22] Ibid. par. V).
[23] V. ad es. Consiglio di Stato, sez. II, 24 luglio 2019, n. 5219: « La sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell'amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integra la colpa dell'Amministrazione, dovendo anche accertarsi se l'adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo sia conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali deve essere costantemente ispirato l'esercizio della funzione, e si sia verificata in un contesto di fatto ed in un quadro di riferimento normativo tale da palesare la negligenza e l'imperizia degli uffici o degli organi dell'amministrazione, ovvero se per converso la predetta violazione sia ascrivibile all'ipotesi dell’errore scusabile, per la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali, per l'incertezza del quadro normativo o per la complessità della situazione di fatto. In sostanza, quella configurata dall'art. 2-bis, comma 1, l. n. 241/1990 viene ricondotta ad una responsabilità per un comportamento scorretto dell'Amministrazione e contrastante con i canoni del buon andamento e dell'imparzialità dell'azione amministrativa». Per l’esclusione del danno risarcibile a fronte della complessità oggettiva del procedimento cfr., fra tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4712.
[24] Così Tar Lazio, Roma, n. 8895/2020 cit.
[25] Cfr. la sentenza in commento al par. V).
[26] Ibid.
[27] Ibid., par. III.6).
[28] Ibid., par. IV). Il concorso colposo del creditore nella causazione del danno sembrerebbe dunque assumere a mente del Tar, anche nell’ambito della tutela indennitaria, l’ampio ruolo a esso consuetamente riconosciuto in giurisprudenza con riferimento alla tutela risarcitoria: in questo senso cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16 dicembre 2016, n. 5339 (par. 4.1., lett. b), con particolare riferimento alla mancata cooperazione dell’istante in sede istruttoria. Lascia intendere la necessità dell’attivazione dei poteri sostitutivi ex art. 2, c. 9 ter l. proc. anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo Consiglio di Stato, sez. V, 2 aprile 2020, n. 2210 (par. 3.3.1).
[29] Questo l’indirizzo costante, intrapreso a partire da Cassazione civile, sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339 e n. 1340.
[30] Cfr. ad esempio Cassazione civile, sez. lav., 4 maggio 2015, n. 8882.
[31] Al di là della dottrina che ne ha assimilato la natura a quella di una sanzione amministrativa sui generis (G. Tulumello, Privatizzazione dei servizi pubblici e problemi di tutela giurisdizionale, in Contratto e impresa. Europa, 1999, 386 ss.), è generalmente accolta l’opinione che gli indennizzi automatici forfettari (alla stregua degli obblighi dalla cui violazione sorge il diritto alla loro corresponsione) si pongano su un piano del rapporto di utenza distinto e parallelo al principale sinallagma contrattuale. Sugli indennizzi automatici forfettari (e, più in generale, sulle carte dei servizi, competenti alla loro definizione, v. G. Napolitano, Gli indennizzi automatici agli utenti di servizi pubblici, in Danno e resp., 1996, 15 ss.; G. Sbisà, Natura e funzione delle «carte dei servizi». La carta del servizio elettrico, in Rass. giur. en. el., 2/1997, 346 ss.; P. Schlesinger, La pluralità delle fonti nella somministrazione di energia elettrica, ibid., 307 ss.; M. Ramajoli, La tutela degli utenti nei servizi pubblici a carattere imprenditoriale, in Dir. amm., 3-4/2000, 383 ss.. Per una illustrazione dei profili di inefficienza di tali strumenti v. più di recente M. Calabrò, Carta dei servizi, rapporto di utenza e qualità della vita, Ibid., 1-2/2014, 373 ss.
[32] La previsione di «forme di indennizzo automatico e forfettario» a fronte «di mancato rispetto del termine del procedimento, di mancata o ritardata adozione del provvedimento, di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da parte della pubblica amministrazione» era stata prefigurata dall’art. 17, c. 1, lett. f) della legge Bassanini (l. 15 marzo 1997, n. 59), mediante una delega, però, mai attuata dal Governo. La circostanza è ricordata da Consiglio di Stato, sez. IV, 5 aprile 2018, n. 2108, per dare supporto, con un argomento a contrario, alla tesi secondo cui l’accesso alla tutela risarcitoria presuppone un giudizio prognostico sulla fausta conclusione del procedimento (posizione assunta dal Consiglio di Stato – Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7 – già anteriormente all’introduzione dell’art. 2 bis l. proc ad opera dell’articolo 7, c. 1, lettera c), l. 18 giugno 2009, n. 69; da ultimo cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1448, ove però, ribadita la necessità di un giudizio sulla fondatezza dell’istanza con riguardo al risarcimento del danno da ritardo, la si esclude con riferimento all’indennizzo). Sulla rilevanza della fondatezza dell’istanza anche si fini della liquidazione dell’indennizzo ex art. 2 bis l. proc. v. Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 22 marzo 2021, n. 277.
[33] Così la motivazione, al par. III.5). Nel senso della non necessità di una disciplina attuativa anche le pronunce ivi richiamate (Tar Lazio, Roma, 3 ottobre 2019, n. 11517 e Tar Campania, Napoli, sez. V, 12 aprile 2021, n. 2346) che tuttavia non ritengono i commi 1 e 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013 come fonti di due autonomi diritti all’indennizzo. In entrambe le pronunce il diritto all’indennizzo è escluso non risultando prova del previo esperimento della procedura sostitutiva ai sensi del comma 2 dell’art. 28 cit., a cui anche la tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. è ritenuta subordinata.
[34] In questo senso Consiglio di Stato, sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5541. V. anche Tar Puglia, Bari, sez. II, 24 marzo 2021, n. 499.
[35] Così la sentenza in commento, par. III.5).
[36] Ibid., loc. cit.
[37] Questa, del resto, è l’interpretazione offerta dalla Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 gennaio 2014, n. 73817 – Linee guida per l’applicazione «dell’indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte» (in Gazz. Uff. 12 marzo 2014, n. 59).
[38] Non è dunque, forse, un mero lapsus calami quello contenuto nella motivazione di CGARS 24 marzo 2021, n. 243, che in un obiter dictum afferma che il legislatore avrebbe proceduto alla «abrogazione» dell’art. 2 bis, c. 1 bis l. proc., avendone ritenuto «impraticabile» l’applicazione.
[39] Così la sentenza al già citato par. III.6).