Il diritto pubblico tra ordine e caos. Intervista a Giancarlo Montedoro di Fabio Francario
Giancarlo Montedoro è Presidente di Sezione del Consiglio di Stato e docente di Diritto pubblico dell'economia presso la Luiss Guido Carli. Della sua ultima monografia ("Il diritto pubblico tra ordine e caos. I pubblici poteri nell'età della responsabilità") si è discusso nel convegno organizzato da UNIMOL lo scorso 24 maggio, in occasione del quale l'Autore è stato intervistato da Fabio Francario. Si pubblica di seguito il testo dell'intervista per i lettori di Giustiziainsieme.
1.- Diritto privato e diritto pubblico nel nuovo spazio giuridico globale.
Francario “Che idea del diritto hanno i giuristi? … … naturalmente ciò (l’interrogativo) vale sul presupposto che i giuristi sentano il bisogno di avere un pensiero per non diventare solo esperti legali, che è un’altra cosa (degna – direi indispensabile per guadagnarsi il pane – ma un’altra cosa)” (così M. a pag 212 del volume).
Se si vuole comprendere Montedoro, perché scrive e cosa scrive, bisogna muovere da questo interrogativo di fondo che anima le sue riflessioni di giurista.
La domanda consente di comprendere innanzi tutto perché lui stesso afferma di scrivere “un libro che non vuol finire”; un libro che per il momento è parte (non conclude) di una trilogia aperta nel 2010 con Mercato e potere amministrativo, proseguita nel 2015 con Il giudice e l’economia e arrivata adesso a Ordine e caos.
Lui stesso, nel presentare il suo lavoro, definisce il trittico “ideale”, ma siamo sicuri che l’aggettivazione “ideale” non allude al fatto che il trittico si sia con ciò perfezionato e concluso, ma al fatto che il trittico è solo quel che al momento appare di un libro senza fine sull’idea che del diritto può avere un giurista.
Quale idea può dunque avere, un giurista, del diritto?
La tensione ideale che anima il lavoro di Montedoro (provo ad azzardare subito una conclusione) si traduce nel convincimento che il diritto non può essere ridotto alla sola idea di protezione di interessi individuali che viene assicurata ne cives ad arma veniant; ma deve necessariamente comprendere anche la dimensione degli interessi superindividuali, insuscettibili cioè di appropriazione individuale e altrimenti detti pubblici. L’idea del diritto di Montedoro è che tale binomio sia indissolubile, che l’uno non possa esistere senza l’altro.
Oggi come oggi, l’affermazione è tutt’altro che banale e scontata, e Montedoro scrive questo suo libro senza fine convinto che compito del giurista “come intellettuale specifico del nostro tempo” è di “dare testimonianza della permanente validità del diritto pubblico” per evitare che l’interesse pubblico scompaia di fronte all’interesse privato.
Perché “nel nostro tempo” c’è bisogno di ribadire questa idea del diritto ?
La riflessione di M. è storicizzata, e si consuma in un momento in cui il diritto pubblico vive una fase di crisi, di transizione da un sistema che aveva un ben preciso ordine ad un sistema che deve ancora trovare il suo nuovo ordine e che pertanto attraversa adesso un momento di caos.
I processi di globalizzazione hanno investito anche lo spazio giuridico e messo in crisi il concetto di sovranità legato all’idea di uno Stato nazionale capace di creare un sistema coerente di regole, strutture e relazioni “governati da leggi magari semplici come quelle che spiegano il mondo fisico”.
La prima domanda che viene da porre è se, nel nuovo spazio giuridico globale, il diritto privato, inteso come insieme di regole calcolabili che garantisce gli scambi, potrebbe veramente essere sufficiente per tutelare gli interessi individuali senza che siano a tal fine necessarie istituzioni pubbliche e se la politica possa veramente lasciare il posto alla tecnocrazia.
Montedoro Vorrei fare una premessa in linea con quanto le ho sentito dire sulla funzione del diritto e del giurista e che mi trova completamente d’accordo.
Quello che vado scrivendo e progressivamente chiarendo nel mio pensiero riguarda la funzione del giurista e del giurista di diritto pubblico in particolare.
La scrittura è spesso un processo – igienico - di autochiarificazione, di rischiaramento sul senso del nostro operare come giuristi.
Per questo intendo la scrittura come una forma di comunicazione inevitabilmente soggettiva, situata ma non per questo solo autobiografica .
Ciò non significa rinunciare in alcun modo al rigore del metodo giuridico ma solo, a partire dalla propria esperienza, attraverso un’analisi metodologica obiettiva, senza cedimenti sociologici, atecnici, approdare, quando possibile, ad una comprensione più profonda e, se si vuole, personale, delle cose.
Ritengo questo - quando accade - motivo di grande appagamento.
Intendo il giurista – proprio come lo ha descritto - come un intellettuale specifico ossia un uomo che pensa il generale a partire da un sapere specifico, nell’epoca del tramonto della figura dell’intellettuale generalista alla Sartre ( figura di intellettuale impegnato ideologicamente che è difficile rimpiangere per chi coltiva il dubbio metodico e si riconosce nella democrazia liberale ).
Un intellettuale quindi e non solo un “problem solver” ed in particolare un uomo che, oltre l’adempimento dei suoi doveri istituzionali, è parte di una comunità e non è disposto al “tradimento” rispetto alla sua funzione di comprensione e denuncia dei fatti sociali.
Naturalmente ciò è ovvio per un accademico.
Per un giudice questo intento deve fare sempre i conti con la sua funzione istituzionale, non deve violare gli obblighi di servizio, deve essere una facoltà critica esercitata con la misura che l’ordinamento si attende da un giudice.
Questo anche quando il giudice – come mi è accaduto insegnando – ha il privilegio di essere in contatto con la comunità scientifica ( cosa che lo arricchisce ) .
Ciò non vorrà dire rinunciare a parlare, nemmeno quando il messaggio da comunicare vada nel senso di una sensazione di irreparabilità ( alla Cioran per intendersi, intellettuale che amo molto e che ha descritto la condizione umana nell’epoca del nichilismo ) e non sia in grado di indicare qualche via di uscita dalla crisi.
In quel caso magari si potrà ricorrere alla letteratura per esprimere il senso del mistero e dell’irreparabile che è parte dell’avventura dell’uomo nel mondo.
La letteratura può essere un modo di comunicare la crisi del diritto.
Sono molto critico , in definitiva, rispetto ad una cultura del politicamente corretto e del silenzio istituzionale che vedo crescere intorno a me, venata di neo-autoritarismo quando approdi ad un’idea di assoluta inopportunità di ogni forma di comunicazione relativa al proprio lavoro.
E’ naturalmente una questione di misura.
Non ci esprime ovviamente sugli affari che sono in trattazione o sono stati trattati.
Su quelli solo – ove necessario – nelle sedi istituzionali.
Per il resto però non dovrebbero imporsi “zone franche” alla libertà di espressione, forme di sospensione di tale libertà ma solo farsi questioni di misura nell’espressione.
Penso, ma qui formulo solo un giudizio personale, che i magistrati debbano preferire – per esprimersi - l’ambiente scientifico ed accademico evitando la stampa le quante volte ciò potrebbe condurre ad essere identificati come protagonisti di uno spazio politico-partitico ( in consonanza al divieto di essere iscritti ai partiti che non ha valenza solo formale ovviamente ).
Eguale misura deve essere utilizzata nell’accedere ai social ( tecniche che possono comportare rischi di espressioni non misurate e non consone all’immagine che un magistrato deve sempre custodire ).
Un buon punto di riferimento per ipotizzare quanto ardua e decisiva per il futuro dei giuristi liberali sia la discussione sui predetti limiti è la sentenza della Corte Strasburgo del 9 luglio 2013 ( affare Di Giovanni c. Italie ).
Per la Corte europea dei diritti dell’uomo i magistrati e i funzionari dell’ordine giudiziario devono usare il proprio diritto alla libertà di espressione – che deve quindi essere garantito – con cautela ogni qualvolta “l’autorevolezza e l’imparzialità del potere giudiziario siano suscettibili di essere messi in discussione”.
Naturalmente non si può non concordare in linea di massima.
Tuttavia occorre fare dei distinguo, da buoni pensatori “sospettosi”, inclini a vedere i rischi insiti in ogni scelta ( magari per confermarne la bontà ).
L’espressione usata è molto ampia.
Nel bilanciare i diversi diritti in gioco, la Corte fa - forse - pendere troppo l’ago della bilancia sulla necessità di garantire “il prestigio” del sistema giudiziario e gli imperativi superiori della giustizia.
Questo può condurre a conculcare, senza volerlo naturalmente, la vivacità del dibattito intellettuale fra giuristi, ivi compresi i magistrati, che si giova di un libero franco e corretto confronto fra le opinioni.
Occorre quindi non credere che per i magistrati valga la regola del riserbo.
Tale regola vale in rapporto alle pratiche loro assegnate, per il resto riespandendosi la libertà di manifestazione del pensiero, con l’obbligo di misura prima ricordato.
Sono altresì dell’idea - con la Corte di Strasburgo - che i rappresentati dell’autorità giudiziaria non debbano utilizzare la stampa o la televisione “neanche per rispondere a delle provocazioni” ( c’è il rischio in questi casi di derive che seminano discredito e non sempre il contesto comunicativo è avvertito della delicatezza e complessità dei temi trattati affrontati talvolta con eccessi di semplificazione o intenti scandalistici ).
Bastano, allo scopo, le c.d. “pratiche a tutela” all’occorrenza aperte dagli Organi di Autogoverno.
Necessaria, in ogni caso, una valutazione del tenore delle dichiarazioni e del contesto generale.
Ecco mi sembra che il bilanciamento operato dalla Corte – delicato – sia da tenere sempre a mente, in questi tempi difficili, consapevoli che possa comportare un rischio di scivolamento verso forme di autocensura e pur combattendo contro questa tendenza coltivando sempre nella comunicazione lo stile sobrio dei giuristi del passato .
Con queste avvertenze il magistrato può considerarsi un intellettuale, pur essendo un uomo delle istituzioni.
Fatta questa premessa sulla funzione del giurista e sui modi del suo comunicare quando fa il giudice, tento di rispondere alla sua domanda sul diritto privato nel mondo globale.
La risposta che posso abbozzare è a partire dall’angolo visuale di chi pratica la giustizia amministrativa; tale prospettiva evidenzia l’ascesa del diritto privato anche nell’ambito del diritto pubblico ( e si pensi alla responsabilità civile da violazione dell’interesse legittimo o al prevalere del diritto dei contratti sugli altri rami del diritto amministrativo ) come parte di quella che definirei “la privatizzazione del mondo” ( stato di cose presenti che suscita in me grande preoccupazione prima che indubbio disagio ) .
E’ parte del fenomeno della progressiva invadenza dell’economia di mercato sul diritto, del diritto privato sul diritto pubblico, della generalizzazione della responsabilità civile (del diritto dei torts ) come paradigma fondamentale attorno cui costruire una civiltà giuridica ( in coerenza con l’individualismo metodologico e con il culto del “terribile diritto” e dell’individualismo possessivo ), del prevalere di una società di monadi, di soggetti irrelati, gelosi della propria sfera di autonomia patrimoniale, anche socialmente distanziati ora, a seguito della pandemia .
Questo processo, portato anche della globalizzazione economica, si intreccia con la crisi dello Stato e della democrazia ( va notato che la democrazia si è sviluppata solo nell’alveo statale sinora ).
La crisi dello Stato oggi non è più quella di ieri ( non è dovuta al pluralismo sociale ) è crisi della sua dimensione a fronte di problemi che hanno una portata che non può risolversi solo nell’ambito territoriale statuale ( migrazioni, terrorismo, crisi finanziarie globali, crisi ambientale legata ai cambiamenti climatici, crisi pandemica e sanitaria globale ) .
Lo Stato tuttavia continua ad essere, per quanto inadeguato, l’unico ombrello che abbiamo di fronte alle emergenze.
Il diritto privato essendo il diritto dei mercati istituisce una lex mercatoria che, pur avendo portata globale, ultrastatuale quindi, tuttavia, per sua stessa natura, promossa da grandi soggetti privati multinazionali, non riesce ad assumere su di sé compiutamente funzioni pubbliche e compiti di servizio pubblico ( compiti che, anche per il diritto UE, fanno capo direttamente alla dimensione statale talvolta in affanno e gravata dai debiti prodottisi per anni di vista corta e, più di recente, negli interventi emergenziali di gestione delle crisi ).
Sono un esempio di questa situazione le c.d. FAANG ( Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google) i giganti del Big Tech che puntano sul ridisegno sociale indotto dall’intelligenza artificiale.
Qui si apre un mondo fuori dalla politica, ma non certo impolitico.
Una nuova dimensione della sovranità.
Ingegneri che attraverso la programmazione informatica formalizzano il diritto dando vita ad un tecno-diritto, ad una matematizzazione delle norme e delle decisioni, ad una giurimetria.
Il processo si apre alla decisione predittiva, il procedimento amministrativo usa l’algoritmo, il diritto privato si disintermedia mediante gli smart contracts.
Parallelamente i progressi della scienza medica, invece che avviarla verso un recupero della sua dimensione umanistica, ci pongono di fronte al post-umano, alle crescenti biopolitiche imposte dalla pandemia ( con i loro rischi per il quadro delle libertà costituzionali ).
L’uomo è uomo performante oltre che homo oeconomicus.
Un uomo timocratico, che vive in un ambiente post-umano, in una sorta di “parco umano”, ove le collettività sono oggetto di politiche sperimentali legate agli sviluppi tecnologici.
Il diritto pubblico – fondato sulle Carte costituzionali novecentesche - appare in questo quadro afflitto da una strutturale debolezza, un diritto “debole”.
Naturalmente la crisi dello Stato è la vera origine della crisi del costituzionalismo, rafforzata però dalla perenne ed irrisolta transizione costituzionale; dall’idea che la Costituzione sia invecchiata e sia fuori centro (anche per effetto delle profonde trasformazioni del mondo del lavoro e della crisi della forma partito nazionale – il gramsciano moderno Principe al quale i costituenti hanno affidato il compito della costruzione del “politico” – nel mondo post-ideologico per cui la Costituzione rimane senza Soggetto alla morte del sistema dei partiti ).
Il vecchio mondo sta morendo. Un nuovo mondo sta sorgendo ma non è ancora sorto come avvertiva Gramsci “in questo chiaroscuro nascono i mostri”.
Nel vuoto politico si vedono pericoli (non vi sono più i partiti tradizionali nazionali; tardano a venire i partiti transnazionali del futuro o i nuovi soggetti politici o post- politici del futuro).
Essendo l’organizzazione statuale il luogo per eccellenza del “politico”, mentre i luoghi sovranazionali sono “depoliticizzati”, come profeticamente notava Carl Schmitt cantore del Nomos della Terra rispetto al diritto “sconfinato, abbiamo bisogno di una dimensione politica sovranazionale che tuttavia difetta ed è difficile costruire per via di Trattati ed accordi internazionali.
Il globale peraltro si sta rivelando insostenibile e la “giuridicità” scricchiola fra i troppi livelli di governo e di giurisdizione ( per non parlare della “irtiana” crisi della fattispecie prodotta da una legislazione amministrativizzata ed occasionalistica ).
Quali prospettive allora nel rapporto fra diritto privato e pubblico nel mondo globale?
Il tema è legato al futuro del “politico”, è tutt’uno con esso.
Come ha detto il prof. Tremonti il globale è in crisi ma il mondo continua ad essere internazionale ( ed interconnesso ).
Il diritto pubblico quindi non è uno strumento sufficiente se rimane chiuso nella sua dimensione nazionale, mentre il diritto privato, diritto degli scambi del mercato globale, pur più contaminato da dimensioni non statualistiche come abbiamo detto, per sua natura non riesce a produrre comunità politiche e strutture amministrative.
Le prospettive dello sviluppo del diritto privato e del diritto pubblico – travolti dallo stesso destino ma dotati di differenti capacità di risposta - in astratto sono varie, esemplificando sommariamente : 1) la prima la delinea Teubner che ritiene possibile un costituzionalismo senza Stato prodotto dai soggetti “depoliticizzati” che si muovono nel mondo transnazionale ( Günther Teubner Nuovi conflitti costituzionali Milano Torino 2012 ); la rivoluzione digitale ed il mondo postpandemico potrebbero riservarci sorprese in questo senso, la visione è connotata da un certo irenismo di fondo che non vede la disuguaglianza dell’ordine neoliberista e ritiene il diritto privato il centro della futura esperienza giuridica ; 2) la seconda è la costruzione di un unico spazio politico sovranazionaleper effetto di processi di unificazione degli Stati in strutture federali o quasi federali ( in tal senso mi sembra vada il pensiero del cosmopolitismo giuridico politico di stampo kantiano di Danilo Zolo ), la prospettiva è razionale ma qui difettano le soggettività per attivare il processo, il mondo multipolare che viviamo è assai più caotico e schmittiano che kantiano ; 3) la terza prospettiva è quella di una realistica convivenza di modelli regolatori fra più dimensioni alcune nazionali altre globali ( in tal senso si muove il pensiero di S. Cassese che pure considera le esigenze di una democratizzazione della globalizzazione quando la sua analisi della condizione delle cose presenti arriva a definirle in termini di caos o situazione babelica cfr. il suo aureo libretto I Tribunali di Babele ), la speranza risiede nella razionalizzazione data dalla unificazione europea e dalla formazione di aree di influenza sovranazionali regionali ; la debolezza della prospettiva sta in una certa sopravvalutazione dei processi di costruzione delle istituzioni rispetto ai processi sociali (quella che è stata definita “Costituzione senza popolo” cfr. E. Scoditti 2001 il cui pensiero – molto profondo – a partire proprio dal diritto civile, con itinerari di ricerca coltivati con Luigi Palombella, approda ad una dimensione che accetta la sfida della complessità nella c.d. ricerca della interlegalità o legalità fra ordinamenti, con accenti che fanno pensare alla lezione di Santi Romano); 4) la quarta è data da una forte auspicata ripresa – all’indietro con un movimento paradossale che è in realtà un avanzamento - del costituzionalismo nazionale, alla riscoperta di una dimensione vichiana della storicità, che torna al passato per aprirsi al futuro ( Azzariti Diritto o barbarie, Bari Roma 2022 ma anche A. Schiavone Progresso Bologna 2020 ); si tratta di una visione che riscopre il tempo ciclico, alla ricerca dei punti di consunzione della modernità e della post-modernità ma che rischia di risolversi nel dramma di un’attesa senza sbocco come quella del Tenente Drogo nel Deserto dei Tartari ; 5) la quinta vede il rientro nell’ambito dello Stato Nazione, una sorta di ripiegamento apertamente pessimistico; visione questa, forse, più realistica che, comunque, fa i conti con gli insorgenti populismi di cui si comprendono le ragioni nella deriva del neoliberismo da correggere per riscoprire una fede civica nell’alveo statuale ( in questo senso il pensiero di Yascha Mounk e quello gemello di Jan Zielonka segnalano l’esigenza di leggere in senso fortemente critico le esperienze del neo-liberismo e ritengono doveroso, in questa temperie storica, porre le domande scomode , quelle che pochi hanno il coraggio di porre) .
V’è alla fine – comparando queste visioni - la sensazione di un cammino già avviato oltre l’Occidente ( intravisto, non senza procurarsi critiche, da F. Cassano Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento , Roma Bari 2014 ).
Nuovi luoghi della sovranità si andranno definendo, speriamo nel quadro di un’Europa non così rigidamente ordo-liberale ma capace di riscoprire la sua anima sociale: le politiche dei servizi pubblici ( studiate da E. Scotti ) e non solo della concorrenza.
Abbiamo bisogno di recuperare in questo ambito il senso della distinzione fra pubblico e privato come dimensioni costitutive dell’esperienza giuridica moderna , apportatrici di ordine.
In questo quadro europeo rinnovato occorre tener fede ad un’idea della giustizia come processo dialettico ( su cui si sofferma Lipari in Elogio della giustizia Bologna 2021) che recuperi un’idea complessa del diritto lo Ius che , ove ridotto a Lex, a puro comando, decade.
La Lex deve, a sua volta, essere restaurata nel suo contenuto precettivo ( è il messaggio di Irti Viaggio fra gli obbedienti Milano 2021 ) evitando le trappole della corruzione della lingua. Illusorio essendo pensare che il diritto flessibile o amministrativizzato possa assicurare alcuna tenuta.
La finanza dovrà – con la sua tendenza a “puntare” sul contratto di scommessa e sul circolo ermeneutico infinito – cedere nuovamente il passo all’economia reale, magari circolare, ambientalmente compatibile.
Dalla scommessa si dovrebbe gradualmente tornare a forme della negozialità meno problematiche come gli schemi assicurativi.
L’amministrazione – ed il suo giudice – devono mostrarsi pronti a fare la loro parte ( assegnare risorse scarse, promuovere valori adespoti, curare gli interessi, non semplicemente risarcire ).
Guardare al diritto privato dall’angolo visuale del diritto pubblico significa coglierne la residualità ( le relazioni di cura sono più importanti per il funzionamento dei meccanismi sociali della mera logica della spettanza che di per sé non assicura coesione sociale ).
Il diritto privato può – ma senza essere sufficiente allo scopo ( e si pensi al diritto antitrust che richiede un’Autorità amministrativa che lo applichi ) – al più occuparsi di interessi individuali, per quelli sovraindividuali o individuali che sono avvolti in fasci di rapporti interessati all’assegnazione di beni scarsi vale il diritto pubblico.
2.- Sulla risarcibilità dell'interesse legittimo
Francario Se non sostituita, la sfera pubblica è comunque sotto assedio della tecnocrazia, che tende per sua natura a mantenere aperti i processi decisionali perché venga costantemente assicurata la razionalità economica delle decisioni che rimangono esposte alla possibilità che per tale motivo vengano continuamente rimesse in discussione.
Chiarito ciò, M. sottolinea come nel nostro tempo il decisore pubblico sia messo sotto assedio anche dalla svolta storica consumata nel ns ordinamento nel 1999 sotto la pressione più generale del diritto comunitario degli appalti della risarcibilità degli interessi legittimi. Qui se possibile il profilo diventa ancor più delicato perché, dietro l’apparenza di una conquista di civiltà giuridica che sembrerebbe implicita nel riconoscimento della natura sostanziale della figura giuridica soggettiva dell’interesse legittimo, si cela il rischio di una vera e propria involuzione che la patrimonializzazione della figura può comportare se finisce con il disperdere quel “deposito di valori da sempre connesso al diritto pubblico”. Sotto questo profilo, personalmente sono in assoluta sintonia con M. come si può intuire sin dal titolo di uno dei miei ultimi lavori ospitato in un quaderno di QG (La giurisdizione plurale: giudici e potere amministrativo, maggio 2021) curato proprio da M. unitamente al consigliere Scoditti della Corte di cassazione: “Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria”.
L’affermazione della risarcibilità dell’interesse legittimo è un bene o un male per il diritto pubblico e amministrativo in particolare ?
Montedoro La questione del risarcimento danni da violazione di interesse legittimo è al centro del libro su Ordine e Caos.
La sentenza della Cassazione n. 500 del 1999 è stata uno spartiacque.
Da allora l’amministrazione che abbia violato un interesse legittimo può essere convenuta per i danni.
E’ incredibile che una scelta così importante per la costruzione dell’ordinamento sia avvenuta in via esclusivamente giurisprudenziale.
Anche questo è un segno di debolezza della politica.
Il legislatore è intervenuto su aspetti di contorno come la giurisdizione ( attribuita al giudice amministrativo ) o la previsione di un termine decadenziale ( e non prescrizionale ).
Su questo tema si è giuocata la partita di crisi della modernità che ha visto, nel Paese, contrapposto il diritto privato ed il diritto pubblico , fino alla prevalenza del primo.
Tutto il diritto pubblico può ora essere riletto nel prisma dell’art. 2043 cod. civ. e l’opera è in corso nelle Corti.
Cosa significa dare questa centralità all’art. 2043 cod.civ. ?
Significa proprio quello che ha sottolineato nello scritto prima richiamato mettere a rischio un deposito di valori , facendo prevalere i profili di patrimonializzazione.
La conversione del pregiudizio in moneta deve essere l’ultima ratio per questa ragione.
La centralità della tutela di annullamento è una questione di civiltà connessa al modo in cui consideriamo il nostro vivere in comune.
Mi piace però pensare che anche l’amministrazione debba essere giusta.
Anzi addirittura pensare che la vera giustizia possa essere fatta solo dall’amministrazione, nel riesercizio del potere, secondo le linee stabilite dalla sentenza.
Il punto è che la sentenza amministrativa spesso contiene statuizioni conformative dell’azione amministrativa che vengono a calarsi in una realtà del personale amministrativo che è lontana dalle raffinate analisi dei giuristi e che deve confrontarsi con il pulsare delle esigenze della vita e con i limiti organizzativi e finanziari talvolta anche culturali dell’amministrazione.
Sarebbe necessario un rapporto molto più stretto fra il giudice e l’amministrazione per rendere effettiva la giustizia amministrativa.
Un tema immenso che richiederebbe di ripensare l’ottemperanza in modo sistematico, andando oltre il c.d. commissario ad acta ed istituendo presso il giudice amministrativo un Ufficio incaricato dell’esecuzione che adotti gli atti amministrativi in sostituzione senza passare attraverso le attività di recalcitranti uffici amministrativi soccombenti nel giudizio di cognizione.
Occorrerebbe anche sancire una responsabilità penale ( salvo giustificati o eccezionali motivi) per la mancata esecuzione degli ordini giudiziari, prima delle necessarie attività sostitutive.
Questo sarebbe molto più importante di prospettive che coltivino rafforzamenti delle azioni risarcitorie.
Dell’art. 2043 cod. civ. e di una società che lo mette al centro della vita di tutti ( ormai si intraprendono azioni risarcitorie per i motivi più svariati, danni esistenziali, danni da contatto sociale, danni da perdita di chance, danni da violazione di interessi legittimi ) penso ciò che pensava Elias Canetti in Massa e potere , la società moderna è caratterizzata dalla “paura di essere toccati”.
La paura di essere toccati è consustanziale all’individualismo metodologico quale visione per la quale non esiste la società esistono solo gli individui.
La garanzia dell’intangibilità della propria sfera vitale e patrimoniale è diventata più importante di ogni condotta solidaristica o sociale.
E’ un aspetto della attuale lotta fra concorrenza ( intesa come fine e non come mezzo) e solidarietà , fra homo oeconomicus e homo civicus.
Fra economia e politica.
I giuspubblicisti non devono stancarsi di esplorare le potenzialità dei nuovi rimedi come le azioni risarcitorie, ma devono saperli collocare nell’alveo della tradizione giuridica che ci è stata consegnata, ciò significa non perdere mai di vista la loro residualità.
La stessa analisi economica del diritto con la sua nozione di costi transattivi non ignora che vi sono fallimenti del mercato, non tutti risolvibili sul piano della buona regolazione con leggi che eliminino detti costi ; a volte è necessario che non il contratto ma l’impresa allochi/organizzi i fattori produttivi ( e così si riconosce il potere organizzativo dell’imprenditore al di sopra dell’incontro della domanda e dell’offerta o si invita un imprenditore o una cordata di imprenditori ad un salvataggio di altra impresa in crisi ) altre volte deve intervenire lo Stato o la pubblica amministrazione perché le risorse da mobilitare per superare il market failure sono assai ingenti.
Contratto, impresa, pubblica amministrazione sono tre modi di allocare le risorse.
Seguono logiche diverse e si giustificano economicamente per affrontare problemi diversi.
Dell’amministrazione non potremo fare a meno per lungo tempo.
Le crisi bancarie prima e la pandemia poi ce lo hanno dimostrato.
Quindi ci tocca far funzionare questa amministrazione. Non semplicemente pensare a munire i privati di azioni risarcitorie come fosse questo il centro del problema socio-politico del diritto pubblico.
3.- La filosofia della conoscenza del processo amministrativo.
Francario Veniamo al Capitolo IV: La verità nel processo e fuori dal processo.
Qual è la filosofia della conoscenza che si consuma nel processo amministrativo?
Montedoro Mi piacerebbe poter individuare una filosofia della conoscenza nel processo amministrativo.
Ma sono molto incerto sull’individuazione della sua matrice.
Penso che possa dirsi che si tratti di una matrice liberale.
Una matrice che affonda le sue radici nel pensiero del liberalismo, nella sua diffidenza verso il potere.
Penso che il processo amministrativo sia un processo che risente di scelte pragmatiche fatte sull’onda di esigenze come quelle della verità di fronte al potere arbitrario, un potere amministrativo che lo Stato democratico vuole sia criticabile dialetticamente.
La questione della verità da Cartesio a Hume, da Bacone a Kant fino a Popper è centrale per la definizione del metodo scientifico.
Il giudice ( anche il giudice amministrativo ) è un ermeneuta ma è anche un epistemologo.
Usa vari saperi ( testa l’ appropriatezza e la ragionevolezza delle scelte amministrative fondate sulla scienza, vagliando tutti i saperi utilizzati dalla pa nel sindacato sulla discrezionalità tecnica ) e ne saggia lo statuto epistemologico e la tenuta delle soluzioni ; fa questo mediante ausiliari all’occorrenza e comunque alla luce della migliore scienza ed esperienza.
Il potere deve essere sempre criticabile anche quando è fondato sulla scienza ; anche quando assume l’aspetto delle soluzioni algoritmiche.
La questione della ricerca della verità è tutta qui per il processo amministrativo.
E’ inscritta nella questione del controllo del potere.
Ma la sua domanda è più maliziosa in fondo: essa si interroga sulla esistenza di una filosofia della conoscenza che sia insita nelle regole processuali; il processo ovviamente può averla.
Nel processo penale è evidente : il processo inquisitorio ha un’idea della conoscenza di stampo obiettivistico, ritiene quindi che sia necessario affidare l’indagine sui fatti reato ad un giudice istruttore perché egli è portatore di una maggiore terzietà rispetto all’accusa ed alla difesa.
Il processo accusatorio rifugge da tale impostazione, abbraccia un’idea relativistica e soggettivistica della conoscenza, affida la creazione del materiale probatorio al dibattimento , al contraddittorio, all’esame ed al controesame di imputati, testi e coimputati.
Il giudice non può essere integralmente scettico, né può essere assolutamente disperato ( alla Cioran ) sulla possibilità di attingere qualche certezza.
Deve essere consapevole che la realtà si conosce a partire dalla soggettività (acquisizione della fenomenologia e dell’ermeneutica ).
Deve sapere che sono possibili errori.
Deve accettare il metodo scientifico ossia la falsicabilità – popperiana - delle prove.
Deve agire come se qualcosa fosse conoscibile. Sul piano del buon senso, anche se la poesia ci dice che è conoscibile solo l’ ”ombra di un’ombra”.
Come dice Borges nell’elogio dell’ombra :
“Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e assomiglia all’eternità.”
Ma qualcosa è conoscibile sul piano del buon senso.
Al giudice conviene il realismo di Maurizio Ferraris e non lo scetticismo postmoderno di Gianni Vattimo ( anche se una volta scrissi a proposito dei codici settoriali che Gianni Vattimo era approdato al Consiglio di Stato intendendo che ci si poteva produrre solo ormai in una legislazione frammentaria e non più universalistica ).
Forse per carattere sarei uno scettico moderato.
La post-modernità poi ha introdotto con Nietzsche l’idea che non esistono i fatti ma solo le interpretazioni.
Tutto è messo in questione.
Tutto è questione di narrazione.
Il talk show è più importante del processo quindi.
Ma il processo non è puramente un giuoco come pure descritto dal grande Calamandrei.
Esso serve ad accertare fatti, è una sofisticata macchina di accertamento.
In particolare nel processo amministrativo vengono in rilievo i fatti posti a base del provvedimento amministrativo.
La verità narrata dal potere esecutivo.
Il giudice amministrativo nel nuovo processo amministrativo ha pieno accesso al fatto.
Può disporre consulenza tecnica o verificazione.
Può usare, ma con moderazione, del principio dell’onere della prova ( perché il legislatore sa che vi è uno squilibrio di forze fra parte pubblica e parte privata ed ha improntato il processo al principio dispositivo con metodo acquisitivo ossia con il correttivo di poteri officiosi del giudice che riequilibrino le posizioni all’occorrenza, è il giudice signore della prova, così definito dal pensiero intramontabile di Mario Nigro).
4. Il problema del metodo. Le tentazioni del dogmatismo e del relativismo.
Francario Problema del metodo. Nelle epoche di transizione, scienza del diritto e giurisprudenza corrono il rischio sia di chiudersi di fronte ai cambiamenti e alle novità arroccandosi nelle categorie tradizionali e mantenendo in vita concetti ormai consumati; che di rifiutare ogni tradizione e di “vedere in ogni dove nuovi paradigmi”. Tentazioni del dogmatismo e del relativismo: come vengono evitate in questo “libro senza fine” e in partciolare in “ordine e caos”?
Montedoro E’ un duplice rischio.
Occorre leggere il nuovo a volte con nuove categorie.
E’ quello che abbiamo tentato di fare leggendo le decisioni algoritmiche senza stare alle strettoie della legge n. 241 del 1990 ma usando i principi che già si rinvengono nelle Carte europee ed in disposizioni sparse che si sono occupate di intelligenza artificiale.
Ma anche la tradizione è importante.
Senza il passato non siamo nulla. Non c’è identità.
E lo scavo si addice al riconoscimento dell’importanza della tradizione.
Nel libro uso in modo parziale e forse “amputante” il pensiero di Derrida.
E’ un pensiero incentrato sul mistero del linguaggio inteso come un libro aperto all’attribuzione di infiniti significati.
Naturalmente l’Opera aperta di Eco non è compatibile con alcuna logica processuale.
Ma di Derrida ad un giudice interessa – e molto – il rapporto che si può istituire fra linguaggio e realtà , fra testo e contesto, fra universale e singolare.
Ed il metodo erratico – nelle opere di questo filosofo non filosofo che si è occupato degli argomenti più vari dall’ospitalità all’amicizia, dal discorso funebre alla natura della lingua parlata ( in cui ha rinvenuto un testo archetipico con ciò preannunciando il mondo del futuro informatico, forse un mondo integralmente scritturale ) – dello scavo nel concetto.
Scavare nel concetto, come talpe, per estrarre nuovi significati, vino nuovo dall’otre vecchio ( rovesciando il detto ).
Il linguaggio è un testo di ricchezza sterminata, la traduzione è sempre una ricreazione, la decostruzione è il modo della nominazione.
Nel tempo del caos multilivello, l’avventura del giurista è data da questo confronto, alla fine, fra universale e singolare in cui l’universale è stressato, è messo in questione.
Chissà se il linguaggio cattura la realtà e quanta ne cattura ma noi giuristi dobbiamo agire “come se” tanto fosse possibile come se alla fine un ancoraggio sia possibile per l’uomo.
5. Nel futuro c'è il divorzio fra democrazie e diritti umani?
Francario Nel finale torna a riflettere sulla misura del cambiamento in corso e sulla tendenza alla creazione di società senza Stato che sembrerebbe potere o voler fare a meno delle conquiste e dello stesso fondamento del costituzionalismo moderno in punto di tutela dei diritti costituzionali e di rispetto delle procedure democratiche. Per quanto si possa essere lontani da un tale momento, è comunque certo che si arriverà ad un nuovo ordine globale ed è importante giungere a questo appuntamento senza che i fondamenti del costituzionalismo moderno siano andati dispersi per poter essere rifondati nella nuova dimensione spaziale. Certamente suggestivo il paragone con gli antichi greci, che rievoca chiaramente quel compito del giurista “come intellettuale specifico del nostro tempo” di dare testimonianza della permanente validità del diritto pubblico, di cui si è già detto: “Compito degli europei, in questa fase storica, non è dissimile dal compito degli antichi greci, lasciare un testamento spirituale, impedire che il mondo di ieri … sia distrutto senza lasciare che i tratti di nobiltà di spirito che lo connotavano (democrazia come sistema di pesi e contrappesi, tutela dei diritti umani, spazi di autonomia per l’individuo) siano perduti per sempre nell’urto con le nuove forze produttive scaturenti dalla moderna tecnica”.
Il futuro ci riserva davvero il divorzio fra democrazie e diritti umani ?
Montedoro Vi è una retorica dell’autosufficienza dei diritti umani, l’ho sempre vista con sospetto.
I diritti umani fioriscono in un ambiente istituzionale che li protegga che ne abbia cura.
Non sono solo opera delle Corti e dei giudici.
Naturalmente l’esistenza di Corti Costituzionali ed anche di Corti sovranazionali ( Corte UE a Lussemburgo ; Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo ) ci fa vivere l’idea – che tende a divenire ideologia – dello sganciamento dei diritti umani dagli Stati e quindi dalle democrazie.
Il divorzio è in corso anche per il fatto che il capitalismo politico ha scelto – di recente – paesi totalitari per svilupparsi a tassi di rendimento ignoti in aree del mondo ove esistono le tutele del lavoro e dei diritti sociali.
Come si costruirà lo spazio giuridico oltre lo Stato ?
In modo del tutto indipendente dallo Stato o in modo che lo Stato ogni Stato – specie quello che si presenta come Stato di diritto – “consegni il testimone” di un equilibrio fra democrazia e diritti umani ( equilibrio che chiamiamo democrazia costituzionale ) all’ordinamento sovranazionale prossimo venturo ?
Il futuro del diritto pubblico è legato a questa vicenda.
Non basta il diritto privato ( l’abbiamo detto ), non basta la lex mercatoria, né il dialogo fra le Corti o la presenza di conflitti costituzionali che scardinino gli Stati, fino all’emersione di nuove forme della politicità conviene ricercare una mediazione “alta” fra Stato, mercato e diritti umani.
Un equilibrio possibile che in Europa abbiamo conosciuto nei primi anni del secondo dopoguerra prima che prevalesse l’individualismo metodologico, la sola tutela delle libertà di carattere economico ( con risultati di conformazione di tutti gli ordinamenti nazionali non tenuti più soltanto ad ottenere gli specifici risultati fissati dalle direttive), la politica delle privatizzazioni, il passaggio dal controllo delle imprese alla regolazione, la centralità della “Francovich”, l’assedio del pubblico, la diffusione della teoria di Buchanan della c.d. Public choice.
Si tratta di scelte che hanno mostrato i loro limiti.
Sono oggetto di revisione critica in epoca postpandemica.
Il liberalismo può risorgere dalle ceneri del liberismo sfrenato.
La ringrazio molto per le sue domande.