Gli Uffici di sorveglianza ai tempi del virus
Cronaca di un’emergenza doppia
di Chiara Semenza
Alcuni interrogativi di una giovane magistrato di sorveglianza, alla prima funzione giurisdizionale, dinanzi alle novelle emergenziali, alla loro (in)tempestività e alle finalità perseguite esplicitamente, ma anche e inevitabilmente implicitamente.
Genova, 8 marzo 2020: attraverso ogni mezzo di comunicazione si parla più insistentemente del nuovo virus che dall’Oriente si è spinto in Occidente; chi lo paragona ad una influenza, chi prospetta il rapido contagio, sebbene con conseguenze non esiziali e chi invece inizia ad intravedere i profili di quella che proprio da quel giorno, anche dai nostri governanti, viene qualificata pandemia.
Interviene l’esecutivo che, con un decreto, intraprende misure straordinarie per prevenire il dilagare del contagio e per apprestare soluzioni ai diversi profili della vita comune, comune come è la realtà del carcere che, silente, costituisce parte significativa della nostra società.
Vengono previsti, quanto alla sorveglianza, differimenti delle udienze con soggetti non detenuti, modalità di collegamento a distanza in luogo delle ordinarie traduzioni, celebrazione necessaria di procedimenti con soggetti detenuti o internati e, con riguardo al trattamento intramurario, la sola (facoltativa ovvero rimessa al Magistrato di Sorveglianza) “sospensione” dei permessi premio e della semilibertà; null’altro.
Rimango delusa, nel decreto legge nessun dettagliato intervento riguardante l’esecuzione penale e così anche quel giorno, in dichiarata emergenza, nel silenzio, la quotidianità intramuraria deve andare avanti, peraltro con soluzioni efficaci da adottarsi in brevissimo tempo.
Iniziano le telefonate con i Direttori delle carceri, si avvia il confronto fra i colleghi ed i capi degli Uffici Giudiziari, si sfoglia l’ordinamento penitenziario e si inizia il vaglio delle posizioni dei singoli ristretti.
Le Direzioni penitenziarie, operose ed affannate, lamentano la criticità dei continui (inevitabili) accessi e uscite dagli Istituti: chi esce quotidianamente in regime di semilibertà per poi rientrare alla sera, chi si allontana un paio di ore in regime di lavoro all’esterno, chi ha ottenuto un permesso premio orario e chi invece giornaliero, dovendo talvolta spostarsi di città e magari attraverso affollati mezzi pubblici.
Il trattamento (per essere realmente tale e non esaurirsi in un semplice intermezzo) deve proseguire, anche nella criticità, ma come è possibile mantenerne l’operatività dinanzi ad un’emergenza sanitaria imprevista, dai contorni indefiniti, senza che neppure le Istituzioni abbiano ipotizzato rimedi per salvaguardarne il contenuto nel nuovo contesto emergenziale?
È così che all’esito di uno scambio continuo con le Direzioni, con il Corpo di Polizia penitenziaria, con gli educatori, con i Capi degli Uffici giudiziari, con i colleghi, e con il contributo insostituibile delle cancellerie, in poche ore vengono effettuate coraggiose, e in alcuni casi sperimentali, applicazioni delle norme penitenziarie: si cerca di rileggerne il significato, pur senza snaturarlo, con l’intento di applicare la legge, sempre, anche in piena pandemia.
I giorni proseguono affannosi e frenetici; attendo una normativa specifica -riguardante i detenuti, ma anche i soggetti in esecuzione penale sul territorio- che ritengo non possa ancora tardare ad arrivare. Solo il 17 marzo viene approvato un nuovo decreto legge che dedica due (!) articoli (123 e 124) a quelli che appaiono come rimedi al sovraffollamento carcerario nell’emergenza sanitaria: una nuova espiazione della pena al domicilio (con ampissime deroghe alle ordinarie restrizioni di legittimità e di merito) ed una dilatazione numerica dei giorni di licenza di cui godere in semilibertà, entrambi operativi sino al 30.6.2020.
Rileggo più volte le norme, sono una giovane magistrato ed è bene non mi fermi ad un primo vaglio della legge, ma cerchi di comprenderne il contenuto in modo dettagliato, confrontando i testi legislativi, individuando l’intento del legislatore, capendo il contesto in cui è stata approvata la novella e cercando di fornire un’interpretazione che non disattenda gli interessi (tutela della salute-certezza della pena) coinvolti.
Nonostante i diversi tentativi, l’impressione che univocamente ne derivo è che lo Stato, ed in questo caso l’Esecutivo, si sia ricordato dell’emergenza del sovraffollamento solo in questa circostanza, così che si potrebbe arrivare a dedurre che un sovrannumero di ristretti in Istituto è giustificabile in contesti ordinari, mentre solo in presenza di pandemia non lo è più.
Non solo, dinanzi alle ampissime esplicite deroghe alla fruibilità dell’esecuzione presso il domicilio, mi domando quale sia, oltre allo smaltimento delle carcerazioni, l’intento perseguito dal Legislatore. Perché se è vero che la tutela della salute rientra fra il novero dei diritti fondamentali (sempre che la soluzione paventata sia qualificabile come rimedio preventivo per la salute dei detenuti), è altrettanto vero che anche l’amministrazione Giustizia (in senso ampio) vi ricade, tanto che nella codificazione costituzionale la norma dedicata alla pena ed alla sua esecuzione precede (ancorché di poco) l’articolo dedicato alla salute del singolo e della collettività.
Mi interrogo; davvero il decreto legge non sarebbe potuto intervenire con un contenuto maggiormente rispettoso del percorso rieducativo e risocializzante dei detenuti? Realmente, in questa situazione di criticità (dalla durata allo stato indefinibile), le Istituzioni sono in grado di fronteggiare la pena (che deve essere certa ed indefettibile) quasi prendendone le distanze?
È leale delegare il compito di decidere le sorti delle esecuzioni penali, in questo scenario imprevedibile, alla magistratura di sorveglianza?
È di certo più agevole e meno pubblicamente criticabile di una depenalizzazione o dell’approvazione di un indulto.
Senza tralasciare l’omissione legislativa di qualsivoglia menzione ai soggetti in esecuzione penale sul territorio e alle conseguenze che questa emergenza apporterà al contenuto delle misure alternative che stanno conducendo.
Da giovane magistrato di sorveglianza, alla prima funzione giurisdizionale, so di avere ancora molto da imparare e sono conscia del fatto che occorreranno anni di servizio per rispondere agli interrogativi che mi sono posta. Nonostante la frenesia e l’incedere serrato di questi giorni, malgrado le difficoltà quotidiane (tangibili) dell’esecuzione penale, a discapito della carenza di personale e di risorse, la funzione giurisdizionale che ho scelto e che ogni giorno imparo a svolgere mi spinge a migliorare e per questo mi piace, in questo contesto più che mai, tantissimo.