A poche settimane dal deposito della sentenza n. 142 del 31 luglio 2025, si è tenuta una tavola rotonda in conclusione del corso della SSM sulla cittadinanza cui hanno partecipato costituzionalisti, esponenti degli uffici legislativi del Governo, giudici civili e amministrativi, avvocati. Questo breve intervento ha natura di prima riflessione provvisoria, contributo ad un dibattito su una questione di grandissimo interesse che nei prossimi mesi tornerà davanti alla Consulta.
Sommario: 1. Una finzione giuridica – 2. La sentenza 142/2025: due condizionamenti – 3. La nozione costituzionale di cittadinanza – 4. Cosa ci dice la Consulta.
1. Una finzione giuridica
Sin dalle prime riflessioni sul quadro normativo in materia di cittadinanza, di cui la generalità delle sezioni specializzate è stata investita solo dal 22 giugno 2022[1], sono emersi dubbi sulla compatibilità con la Costituzione del principio dello ius sanguinis assoluto previsto dall’art. 1 L. 91/1992, privo di limiti e bilanciamenti. Non è questa la sede per ripercorrere gli argomenti esposti nelle ordinanze che hanno sollevato d’ufficio le questioni di illegittimità costituzionale[2]. Valga solo osservare come ciò che più colpisce sia una sorta di tributo al vincolo di sangue che, nella sua assolutezza, appare anacronistico: anche nel diritto di famiglia trova sempre più spazio una concezione fondata sui legami affettivi e sociali, che a certe condizioni possono valere giuridicamente più di meri vincoli genetici. Per la trasmissione della cittadinanza secondo la disciplina originaria dell’art. 1 della legge sulla cittadinanza basta invece una sola “goccia di sangue”, per quanto remota. Nei casi portati all’attenzione della Corte costituzionale vi erano giovani ricorrenti brasiliani che avevano un solo ascendente italiano, partito nella seconda metà del diciannovesimo secolo: risalendo di cinque o sei generazioni, gli altri 31 o 63 ascendenti erano tutti brasiliani, che verosimilmente non avevano mai avuto idea d’avere avuto un parente, un ascendente, italiano, non avevano mai avuto idea di poter essere cittadini italiani, forse non avrebbero neppure voluto essere italiani.
È stato sottolineato come una cittadinanza originaria fondata su un così tenue legame, sia in verità, «una pura finzione»[3]. In effetti, siamo di fronte ad un evidente scollamento fra regola giuridica e realtà sociale. Il dato giuridico che consente di riconoscere la persona come “italiana” non ha alcun effettivo riscontro nell’esperienza concreta della persona, né dei suoi diretti ascendenti. Vi è una divaricazione fra la regola formale, che consente di dichiarare la persona “italiana”, e la realtà di un cittadino straniero privo di qualsiasi legame, connessione, interesse rispetto al nostro paese. Il distacco dalla realtà raggiunge il parossismo con l’accertamento postumo di uno status strettamente personale di uomini e donne defunte che mai nella loro vita avevano immaginato, o voluto, essere italiane. Il diritto è personalissimo, ma l’accertamento prescinde completamente dalla volontà. Si tratta di un diritto sopito, che resta latente per secoli, salvo “resuscitare” in un lontano discendente. È un dato obiettivo che a fronte di un numero imponente di cittadini stranieri che hanno ottenuto il riconoscimento della cittadinanza italiana in forza di tale regola estrema, solo un numero esiguo, del tutto irrisorio, vive nel nostro paese. Chi sostiene che i discendenti da un lontano antenato, dopo generazioni nutrirebbero un vero interesse per il nostro paese, sostenendo che almeno una parte nutra un sincero desiderio d’essere parte della comunità nazionale, non dovrebbe temere, allora, che il riconoscimento della cittadinanza sia condizionato a ulteriori verifiche in ordine all’effettività di tale legame col nostro paese, ad esempio richiedendo un soggiorno di uno o due anni prima di accedere al riconoscimento della cittadinanza.
La prof. Chiara Saraceno, nella bellissima relazione introduttiva a questo corso ha ricordato le indagini di questi ultimi anni che attestano come i bambini e gli adolescenti nati in Italia da genitori entrambi stranieri, manifestano, seppure non siano cittadini, un profondo sentimento che la professoressa ha definito di “italianità”. A prescindere dal comprensibile e legittimo legame affettivo con la patria dei propri genitori, chi è nato e ha vissuto sempre in Italia, si sente italiano. È questo sentimento di “italianità” che manca del tutto nelle vicende di cui ci stiamo occupando. La distorsione del sistema si palesa nella ricerca strumentale della cittadinanza italiana, non per stringere una relazione più intensa con il nostro Paese, ma per stabilirsi in altri paesi europei o per andare in vacanza negli Stati Uniti senza dover chiedere un visto.
Quando si registra uno scollamento così vistoso fra la realtà sociale e il dato giuridico, tanto che l’appartenenza formale alla comunità nazionale appare come una vera e propria finzione, occorre interrogarsi sulla tenuta della regola giuridica rispetto al principio di ragionevolezza. I diritti fondamentali sono una cosa seria perché ad essi sottendono interessi profondamente incisi nella nostra umanità. Se la cittadinanza si rivela priva di qualsiasi effettività, la regola giuridica non protegge alcun interesse fondamentale della persona, rischia di divenire un simulacro, una scatola vuota.
2. La sentenza 142/2025: due condizionamenti
Quando il tribunale di Bologna ha sollevato la questione, era condivisa la previsione che l’esito più probabile fosse una decisione di inammissibilità con un monito rivolto al Legislatore. È una tecnica decisoria che si limita ad accertare ma non a dichiarare l’incostituzionalità di una disposizione, cui la Consulta ci ha abituati nelle varie forme concepite negli anni, dalle tantissime sentenze monito alla novità introdotta con il caso Cappato del 2018, con il rinvio a udienza fissa. Inducevano a tale previsione non solo le difficoltà tecniche di individuazione di una soluzione a rime obbligate, divenute «adeguate» dal 2016, ma soprattutto la condivisibile prudenza manifestata dalla Corte costituzionale riguardo ai confini fra potere legislativo e controllo di costituzionalità. Dunque, una inammissibilità seguita da un monito[4].
La Corte, tuttavia, è giunta alla sentenza n. 142 del 31 luglio 2025 dopo alcuni inattesi sviluppi che, in vario modo, ne hanno condizionato l’esito. Come noto, il 28 marzo 2025 il legislatore è intervenuto con una disciplina che ha modificato profondamente la materia (D.L. 36/25, entrato in vigore il 29 marzo 2025 e convertito con modifiche il 23 maggio 2025 con L. 74/25)[5]. La Corte di Giustizia ha depositato il 29 aprile 2025 l’attesissima decisione sul caso Commissione v. Malta, ribaltando peraltro la soluzione suggerita nelle conclusioni dell’Avvocato generale[6]. Infine, il 25 giugno 2025, appena un giorno prima dell’udienza pubblica davanti alla Corte costituzionale, il Tribunale di Torino ha sollevato una nuova eccezione di illegittimità costituzionale, questa volta sulla nuova disciplina[7]. Si tratta di tre eventi del tutto imprevisti e imprevedibili al momento della proposizione delle quattro questioni di legittimità costituzionale, intervenuti nelle more della decisione della Consulta e che hanno contribuito a mutare radicalmente il quadro[8].
In particolare, due di queste novità hanno condizionato in modo oggettivo la decisione della Corte.
Come si è detto, il legislatore, che innanzi a tanti moniti, anche accorati, della Consulta, è apparso sovente refrattario, ostile o semplicemente distratto e inerte, questa volta, potremmo dire, ha avvertito il monito già prima della decisione della Corte. I tempi erano evidentemente maturi: nel paese si era acceso un intenso dibattito, non solo giuridico ma anche sulla stampa e nei mezzi di comunicazione, che ha messo in evidenza questo scollamento fra realtà e diritto e i conseguenti pericoli per la tenuta dello stesso sistema democratico, data la platea sterminata delle persone che possono rinvenire un cittadino italiano fra i loro tanti antenati. Il dibattito non ha ripercorso la tradizionale divisione fra conservatori e progressisti, fra destra e sinistra: ci è stato ricordato, anche in diversi interventi in questo corso[9], un clima di diffusa se non unanime consapevolezza della insostenibilità dello ius sanguinis assoluto e dell’urgenza di una riforma diretta ad assicurare un legame effettivo. L’attenzione della stampa e delle forze politiche, di governo e di opposizione si è centrata sullo scandalo dell’effetto distorsivo di un’antica regola giuridica, catturato nell’emblematica immagine delle pubblicità brasiliane che offrono la cittadinanza italiana a prezzi scontati per il black friday. È stata condivisa la preoccupazione per lo svuotamento della cittadinanza, il suo stravolgimento, il paradosso di una disposizione che non regolamenta la realtà ma è essa stessa artefice di una finzione. Dato l’intervento del Legislatore che ha reso impossibile l’applicazione della norma alle domande presentate dopo il 27 marzo 2025, la decisione della Consulta non poteva dunque che prendere le mosse dalla constatazione che l’oggetto dell’eccezione di incostituzionalità, e dunque del proprio giudizio, si era profondamente modificato, sino a snaturarsi: non si trattava più di verificare se fosse legittima una disposizione che consentiva a sessanta-ottanta milioni di stranieri di essere riconosciuti come cittadini italiani, ma se fosse illegittima una disposizione divenuta ormai applicabile a solo qualche centinaio di migliaia di persone.
Seconda particolarità della sentenza 142/2025 è che la nuova disciplina, intervenuta nel contempo, è stata già presa di mira da una nuova eccezione di illegittimità costituzionale presentata come si è detto dal Tribunale di Torino. Ne consegue che la Corte costituzionale, avendo verificato che ai giudizi a quibus si applica la disciplina precedente[10] e avendo escluso la possibilità di rimettere davanti a sé stessa la questione[11], si è mossa avvertendo la necessità di chiudere la questione di costituzionalità sul pregresso senza anticipare al contempo la valutazione che la stessa Corte dovrà operare presto sulle nuove norme.
Questi due elementi - non necessità di un monito; inopportunità d’anticipare valutazioni che potessero riverberare sul giudizio sulla nuova normativa - spiegano una certa laconicità della sentenza, che balza agli occhi già ad una prima lettura “a caldo”. Ciò nonostante, la decisione della Consulta contiene alcune indicazioni che appaiono di grande rilievo e suggeriscono alcuni punti fermi per ogni futura valutazione.
3. La nozione costituzionale di cittadinanza
Senza tentare qui un commento approfondito della sentenza 142/2025, alcuni passaggi della decisione appaiono notevoli e vanno sottolineati.
La Corte rileva al par. 11.2 dei Considerato in diritto, che, come si rileva in modo particolare dal richiamo ai «cittadini» in diverse disposizioni del Titolo IV, la cittadinanza è correlata, innanzitutto, alla partecipazione politica («la Costituzione associa la cittadinanza primariamente alla partecipazione politica e ai diritti politici»). A seguire, ancora al par. 11.2 dei Cons. in dir., la Corte enumera ulteriori elementi che appaiono indici di una partecipazione che non è limitata alla vita politica, ma più in generale alla vita sociale e civile del paese, evidenziando che la Costituzione «riferisce, poi, ai cittadini la titolarità di diritti e di doveri (fra i quali il dovere di difesa della Patria; quello di concorrere alle spese pubbliche e il dovere di fedeltà)»[12].
Nel medesimo par. 11.2 la Corte, pur rilevando che la Costituzione «non dà una definizione di popolo e si limita a delineare tratti della cittadinanza, immersi nella complessità del testo costituzionale», osserva che «la Costituzione richiama l’idea di cittadinanza quale appartenenza a una comunità che ha comuni radici culturali e linguistiche, ma, al contempo, disegna una comunità aperta al pluralismo e che tutela le minoranze».
Nello stesso par. 11.2, la Corte afferma che «le norme costituzionali evocano una correlazione fra cittadinanza e territorio dello Stato, in quanto luogo che riflette un comune humus culturale e la condivisione dei principi costituzionali».
Da ultimo, ancora al par. 11.2, la Corte osserva che «compete a questa Corte accertare – al metro della non manifesta irragionevolezza e sproporzione – che le norme che regolano l’acquisizione dello status civitatis non facciano ricorso a criteri del tutto estranei ai principi costituzionali e a quei molteplici tratti, che – come sopra evidenziato – connotano la cittadinanza».
Pur con la prudenza imposta dalla necessità di non interferire con il futuro giudizio sulle nuove norme, che si prospetta già nei prossimi mesi, la Corte costituzionale si è spinta ad esprimere giudizi netti, specie alla luce del dibattito in corso. La cittadinanza definita e protetta dalla Costituzione presenta invero «molteplici tratti» che vanno così ricordati: è «partecipazione» e «appartenenza» ad una comunità che si fonda su «comuni radici culturali», su «comuni radici … linguistiche», un «comune humus culturale» e la «condivisione dei principi costituzionali», ed è, infine, correlata al «territorio dello Stato». La Corte enuncia, in buona sostanza, i tratti distintivi del necessario legame effettivo. Se il testo costituzionale non contiene una definizione di cittadinanza, dalla sua trama deve trarsi un legame effettivo fra cittadino e nazione, fondato su comuni radici linguistiche e culturali, sulla condivisione di un comune humus culturale, sulla condivisione dei principi costituzionali e su una connessione col territorio, i quali fondano quel nesso inscindibile fra cittadinanza e appartenenza e fra cittadinanza e partecipazione.
Non è un caso che subito dopo, al § 11.3 la Corte affermi che «quanto sopra rilevato trova corrispondenza nell’approccio che la Corte di giustizia ha adottato con riguardo ai vincoli imposti in materia di cittadinanza dal diritto dell’Unione europea», richiamando la decisione della CGUE del 29 aprile 2025, a ragione ritenuta storica in quanto sino ad allora la Corte di giustizia non era mai intervenuta ad affermare l’incompatibilità con i Trattati di una norma nazionale che riconosce lo status civitatis[13]. Si trattava, com’è noto, della legge che prevedeva la concessione della cittadinanza maltese, e dunque della cittadinanza europea, in cambio di pagamenti o investimenti effettuati nell’isola. La CGUE ha accertato la violazione dei Trattati rilevando che la normativa maltese è «assimilabile ad una commercializzazione della concessione della cittadinanza di uno Stato membro», fondando la propria decisione sulla violazione dei principi di solidarietà, reciproca fiducia e leale cooperazione ma evidentemente presupponendo il principio di effettività, posto che si può parlare di “commercializzazione” soltanto se vi è nell’acquirente una manifesta carenza di legami effettivi. Difatti, la richiesta di danaro in cambio della cittadinanza per chi ha un legame effettivo violerebbe verosimilmente i diritti del richiedente, ma non l’interesse pubblico europeo evocato dalla Corte di Giustizia in relazione ai vincoli imposti dal diritto dell’Unione in materia di cittadinanza.
Dato atto dei tratti propri della cittadinanza secondo la Costituzione, sarebbe senz’altro costituzionalmente illegittima una disciplina legislativa tesa a comprimere e sottrarre il diritto di cittadinanza a persone che appartengano alla comunità nazionale in ragione di legami effettivi fondati su radici linguistiche e culturali, su una connessione col territorio, che vogliano partecipare alla vita della comunità. La Costituzione garantisce tale cittadinanza quale diritto fondamentale della persona.
Per altro verso, la Corte ricorda al § 11.1 dei Cons. in dir. che «il legislatore god[e] di ampia discrezionalità nella disciplina dell’attribuzione della cittadinanza (sentenza n. 25 del 2025)» e rammenta al § 11.2 che «dinanzi al senso articolato e complesso dei riferimenti costituzionali alla cittadinanza, spetta, dunque, al legislatore, che vanta un margine di discrezionalità particolarmente ampio, individuare i presupposti per l’acquisizione dello status». Nondimeno, le norme dettate in materia, non diversamente da altri settori connotati da elevata discrezionalità, «non si sottraggono per questo al giudizio di costituzionalità» (§ 11.), sicché «compete a questa Corte accertare – al metro della non manifesta irragionevolezza e sproporzione – che le norme che regolano l’acquisizione dello status civitatis non facciano ricorso a criteri del tutto estranei ai principi costituzionali e a quei molteplici tratti, che – come sopra evidenziato – connotano la cittadinanza» (11.2).
In buona sostanza: la Costituzione non disciplina i modi di acquisto, perdita e riacquisto della cittadinanza, sicché è demandato al Legislatore individuare le regole che consentano di assicurare la cittadinanza a chi presenti un legame effettivo fra cittadino e nazione, fondato su radici linguistiche e culturali e su una connessione col territorio, che costituiscono quel nesso inscindibile fra cittadinanza e appartenenza, fra cittadinanza e partecipazione. Il Legislatore è tenuto a delineare, con legge costituzionalmente necessaria, i contorni della cittadinanza prevista in Costituzione, indicandone in dettaglio i presupposti, ossia gli indici concreti che consentono di assumere che sussista quel legame effettivo che fonda le nozioni di appartenenza e partecipazione. Vi è, a tale riguardo, un margine di discrezionalità, posto che vi è una pluralità di scelte possibili, com’è attestato dalla grande varietà di sistemi rinvenibili da un esame di diritto comparato, che in vario modo mescolano i principi dello ius sanguinis, dello ius soli, per iure comunicatio, della naturalizzazione, ecc... I costituenti, molto opportunamente, hanno escluso che i modi di acquisto e perdita, che tracciano il perimetro della cittadinanza, dovessero essere stabiliti una volta per tutte in Costituzione, e ciò al fine di assicurare la necessaria flessibilità e l’indispensabile adeguamento al mutevole contesto storico e sociale. La trasformazione del nostro paese da paese di emigrazione a meta di migranti attesta l’opportunità di tale scelta, che consente oggi di adeguare il sistema della cittadinanza alle esigenze del nuovo contesto sociale. Sull’esercizio di tale potere normativo, che, come si è detto, è costituzionalmente necessario, vigila dunque la Consulta al fine di garantire che non sia comunque intaccato il nucleo essenziale della cittadinanza costituzionale, così chiaramente indicato dalla Consulta nei suoi tratti fondamentali. Oltre al necessario rispetto del nucleo costituzionale della cittadinanza esistono peraltro anche ulteriori principi costituzionali, come il principio di non discriminazione, che il legislatore ordinario è tenuto comunque a rispettare e in relazione ai quali la Corte ricorda d’essere già intervenuta in più occasioni[14].
Ciò detto, va pure osservato come non sia escluso che fuori da tale perimetro della cittadinanza indefettibilmente protetta dalla Costituzione, residui un ulteriore margine di discrezionalità legislativa. Il legislatore, oltre a delineare i contorni della cittadinanza prevista in Costituzione, verosimilmente può estenderne i limiti oltre i confini della cittadinanza costituzionalmente garantita, purché tale ampliamento non si ponga in contrasto con altri principi e vincoli costituzionali. Com’è ovvio, non tutto quello che non è protetto dalla Costituzione è, per ciò solo, vietato. Il legislatore può riconoscere diritti soggettivi non discendenti dalla Costituzione, purché tale riconoscimento non si ponga in contrasto con i limiti e i principi derivanti dalla stessa. Non è dunque escluso che la legge ordinaria ammetta la cittadinanza per persone che non presentano un vincolo effettivo, purché tale riconoscimento sia compatibile, non metta in crisi, ulteriori principi e vincoli costituzionali.
Vi è, dunque, un nucleo essenziale della cittadinanza riconosciuto e protetto dalla Costituzione, fondato sul legame effettivo in conformità ai principi della appartenenza e della partecipazione alla comunità nazionale. Fuori da questo nucleo essenziale della “cittadinanza costituzionale” resta il margine di discrezionalità del legislatore, nel rispetto della Costituzione.
4. Cosa ci dice la Consulta
Elemento imprescindibile per intendere la decisione della Corte è, ovviamente, comprenderne e precisarne l’oggetto.
Come si è detto, è pacifico che la Corte non fosse chiamata a valutare la legittimità costituzionale delle norme applicabili alle domande presentate dopo il 28 marzo 2025. La Consulta aveva dunque sul tavolo quattro eccezioni di incostituzionalità che riguardavano una disposizione che è applicabile soltanto alle domande presentate prima di tale data. Per conseguenza, la Corte non era (più) chiamata a valutare se fosse compatibile con la Costituzione l’attribuzione della cittadinanza a 60-80 milioni di cittadini stranieri, atteso che la disposizione oggetto di dubbio di illegittimità regolava ormai soltanto le fattispecie oggetto delle circa settantamila domande già pendenti al 27 marzo 2025 avanti ai tribunali italiani, cui si aggiungono quelle presentate alle autorità amministrative, all’estero e in Italia. Non dispongo di dati certi, ma pur tenendo conto che molte cause hanno ad oggetto più richiedenti, non si arriva certamente a un milione di persone, verosimilmente molte meno.
Si tratta, dunque, di un numero relativamente circoscritto di persone. Soprattutto, si tratta di un numero determinato di persone.
Non va allora sottovalutato che nelle diverse eccezioni di incostituzionalità presentate dai tribunali italiani molte delle ragioni della ravvisata incostituzionalità erano fondate sul numero spropositato e in prospettiva senza limiti di cittadini esteri legittimati a richiedere l'accertamento della cittadinanza italiana in carenza di effettività di legami. Un ruolo di primo piano giocavano il numero esorbitante e l’indeterminatezza quantitativa della platea, che nelle parole della Corte costituzionale «andrebbero presumibilmente a superare il numero dei cittadini che risiedono in Italia»[15].
È pacifico che il complesso di persone che avevano già proposto una domanda prima del 27 marzo 2025 non rientri in quella nozione di appartenenza a una comunità che ha comuni radici culturali e linguistiche e che è collegata al territorio. La Corte ha evidenziato nella descrizione del fatto (§ 2 e 3 dei Ritenuto in fatto) che in tutti i procedimenti la presenza di un lontanissimo antenato, risalente al IXX secolo, configurava «l’unico presupposto» per l’accertamento dello status. Al § 12 del Cons in Dir. la Corte ha ricordato che «ciò di cui dubitano i giudici è che … in assenza di elementi di collegamento con l’ordinamento giuridico italiano in aggiunta allo ius sanguinis, il vincolo di filiazione possa risultare sufficiente alla funzione che è chiamato a svolgere quale fondamento della cittadinanza» (corsivo aggiunto). Non è dubitabile che la decisione prenda le mosse dalla considerazione che oggetto della decisione sia una disciplina applicabile a un numero, circoscritto e determinato, di persone che hanno allegato d’essere prive di collegamenti col nostro Paese, salvo il legame di sangue con un antenato.
La Corte osserva come tale questione possa essere definita secondo «un ventaglio quanto mai ampio di opzioni», rimesse alla discrezionalità del legislatore. La Corte afferma, in buona sostanza, che rientra nella discrezionalità del legislatore prevedere una cittadinanza -priva di qualsiasi legame con la comunità e con il territorio, com’è quella al suo vaglio-, conferita a un numero determinato e certo di persone, verosimilmente assai inferiore a un milione. Non ha affermato che a tali persone la cittadinanza è garantita dalla Costituzione. Ha detto il contrario: che siamo nel pieno della discrezionalità del legislatore.
Nel suo intervento, il Ministro Soliman -che quale vero artefice della riforma del marzo 2025 ha potuto raccontare vari aspetti di questa vicenda, comprese le motivazioni del governo e del legislatore, le scelte suggerite dagli uffici legislativi ed il clima durante i lavori parlamentari- ha ricordato che nel pensare ad una nuova disciplina della cittadinanza, a prescindere dalle diverse scelte riguardo al suo merito, il Governo ha vagliato, riguardo alle questioni di diritto intertemporale, tre opzioni. Sarebbe stato possibile applicare la nuova disciplina solo per le persone nate dopo il 28 marzo 2025; assegnare un termine di uno o due anni al fine di consentire nel contempo di presentare la domanda secondo la vecchia disciplina; applicare la nuova disciplina a tutte le domande presentate dopo la sua entrata in vigore. Il Ministro ha spiegato le ragioni, su cui qui non ritorno, che hanno indotto ad adottare la terza opzione, con decretazione d’urgenza. Può forse aggiungersi che la scelta, insolita, di intervenire subito, a fine marzo, senza attendere l’imminente decisione della Consulta, quando era già fissata l’udienza di fine giugno, è stata determinata verosimilmente dal pericolo di un diluvio di domande fra la sentenza, che forse avrebbe contenuto un monito, e la futura riforma legislativa.
Alla luce della decisione della Consulta, possiamo dire che il legislatore a rigore aveva, e ha tuttora, una quarta opzione: applicare una nuova disciplina anche alle domande già pendenti, in sede giurisdizionale e amministrativa. Dalla decisione della Corte possiamo trarre difatti la conclusione che nella regolamentazione delle vicende che sono state sottoposte al suo vaglio vi è un ampio margine di discrezionalità. La discrezionalità evidenziata dalla Consulta riguarda la regolamentazione dell’accertamento della cittadinanza per chi abbia già presentato la domanda prima del 27 marzo 2025. La Consulta si è interessata delle domande presentate precedentemente al 27 marzo 2025 e rispetto a queste ha affermato che vi è «un ventaglio quanto mai ampio di opzioni», rimesse alla discrezionalità del legislatore.
Abbiamo visto, inoltre, che chi non ha alcun legame effettivo con il nostro paese, che sia fondato su radici linguistiche e culturali e su una connessione col territorio, non è titolare di un diritto costituzionalmente garantito. Questo significa verosimilmente che, quantomeno sotto tale profilo, non è e non sarebbe stato illegittimo anche un intervento diretto ad escludere del tutto tale cittadinanza priva di legame genuino. Fatta salva ogni valutazione di tale disciplina sotto diversi profili di compatibilità con la carta costituzionale, la negazione della cittadinanza a persone prive di legame effettivo secondo i tratti delineati dalla Corte costituzionale rientra nella discrezionalità del legislatore, poiché non viola il nucleo costituzionale della cittadinanza. Se così è, allora forse possiamo trarre la conclusione che la decisione del Legislatore di creare uno spartiacque è, almeno sotto questo profilo, del tutto legittima, perché non incide su un diritto fondamentale privando, sottraendo, revocando un diritto costituzionale. Il Legislatore ha inciso su un simulacro di cittadinanza che, in quanto privo dei requisiti indicati dalla Corte Costituzionale (comunità, territorio, lingua, cultura, appartenenza, partecipazione, comuni radici…) non costituisce un diritto soggettivo protetto dalla Costituzione.
Le questioni aperte, a mio avviso, attengono invece ad altri, diversi, profili.
V’è da chiedersi, innanzitutto, se e in che misura sia consentito incidere su posizioni soggettive che, seppure non previste e protette dalla Costituzione, hanno costituito una aspettativa, sicché secondo un indirizzo è necessaria un’effettiva causa giustificatrice[16].
Vi è, inoltre, da chiedersi se il quomodo, le specifiche regole contenute nella nuova normativa, rispettino i parametri di ragionevolezza e di non discriminazione e se incidano, in qualche modo, su alcune posizioni soggettive che rientrano a pieno titolo nel nucleo della “cittadinanza costituzionale”. Non è invero escluso che la normativa volta a chiudere la porta ad una disciplina estranea alla nozione di cittadinanza delineata dalla Costituzione, abbia inciso anche su alcune specifiche posizioni che rientrano a pieno titolo nel diritto costituzionale alla cittadinanza[17]. Su questi indesiderati “effetti collaterali” della scelta del marzo 2025, è oggi indispensabile un’attenta riflessione, anche della giurisprudenza, la quale è tenuta ora a vagliare la tenuta del nuovo quadro legislativo.
Intervento alla tavola rotonda conclusiva del corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura a Napoli il 22-24 settembre 2025 dal titolo La cittadinanza e le cittadinanze. Spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo.
[1] Sino alla legge del 26 novembre 2021, n. 206, la competenza territoriale per le cause in materia di cittadinanza con resistente il Ministero degli Affari Esteri si radicava presso il Tribunale di Roma.
[2] Trib. Bologna, ord. 29 novembre 2024, su cui: G. Gallo, G. Spadaro, Sulla legittimità costituzionale dell’acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis, in IUS Famiglie, 13 gennaio 2025; F. Corvaja, Quando i nodi vengono al pettine. Il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis senza limiti, tra vincoli di diritto internazionale, condizionamenti europei e ordinamento costituzionale italiano, in Eurojus, 2025/01; C. Delli Carri, La cittadinanza dell’Unione europea come parametro interposto nella valutazione della legittimità costituzionale della legge n. 91/1992. Riflessioni a margine dell’ordinanza del Tribunale di Bologna n. 3080/2024 del 26 novembre 2024 e del recente d.l. n. 36/2025, in Eurojus, 2025/01. A questa hanno fatto seguito: Trib. Milano 3 marzo 2025, Trib. Firenze 7 marzo 2025 e Trib. Roma, 21 marzo 2025. Sulla decisione della Corte costituzionale n. 142 del 31 luglio 2025 ad oggi l’unico commento edito è U. Scotti, La Corte Costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della Sentenza 142 del 2025, in Giustizia Insieme, 9 settembre 2025. In generale di recente un’approfondita analisi in B. Nascimbene, Cittadinanza: riflessioni sui problemi attuali di diritto internazionale e europeo, in Rivista di diritto internazionale privato e internazionale, 1/2025, p. 5
[3] Corvaja, cit. p. 398.
[4] Le sentenze monito rappresentano un’efficace e irrinunciabile modalità di intervento della Consulta. A volte la Corte esclude di poter pervenire all’adozione di una pronuncia di natura additiva in ragione dei molteplici rimedi ai vulnera accertati, sicché la dichiarazione di inammissibilità è preceduta da una implicita, spesso assai approfondita, valutazione di merito. Dunque, la valutazione di merito sembra precedere il giudizio di inammissibilità. La Corte, peraltro, ha superato in più occasioni quel giudizio di inammissibilità dopo qualche anno di inerzia del legislatore, procedendo senz’altro a decidere il merito; a volte la contraddizione si manifesta nella stessa prima decisione ove, dichiarata l’inammissibilità, la Corte costituzionale invita il legislatore a procedere preannunciando già che in caso contrario provvederà essa stessa a valutare il merito.
[5] Per una serrata critica al nuovo quadro normativo: M. Infusino, Cittadinanza italiana iure sanguinis: errori e criticità della nuova frontiera, in Rivista AIC, 3/2025, 2 giugno 2025; G. Bonato, Il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025: la “Grande Perdita” della cittadinanza italiana, in Judicium, 15 aprile 2025.
[6] CGUE, sent. 29 aprile 2025, C-181/23, Commissione C. Malta, su cui A.L. Valvo, La cittadinanza europea in una recente pronuncia della Corte di giustizia, in Questione Giustizia, 27 maggio 2025; M.C. Oristano, La cittadinanza europea alla luce del recente caso Commissione c. Malta: tra tutela dei principi sovranazionali e salvaguardia della sovranità statale, in ConsultaOnLine, 2025/I, 3 agosto 2025, p. 1218; C. Sanna, La cittadinanza Ue non è in vendita: la Corte UE dichiara incompatibili con il diritto UE i programmi di naturalizzazione per investimenti della Repubblica di Malta. Le implicazioni della
sentenza sul criterio dello ius sanguinis previsto dalla legislazione italiana, in Eurojus, 2025. V. anche M. Ferri, Il sindacato della corte di giustizia in materia di cittadinanza nazionale, in Rivista di Diritto Internazionale, 2024/011, p. 179.
[7] Trib. Torino, ord. 25 giugno 2025, R.G. 6648/2025 sollevata in un giudizio iscritto a ruolo il giorno prima dell’entrata in vigore del D.L. (posto che vi si legge che il ricorso è stato «depositato in data 28.3.2025», mentre il D.L. è stato pubblicato in GU il 29 marzo 2025), ma cui è applicabile la nuova normativa (posto che il nuovo art. 1 Legge cittadinanza prevede che le vecchie regole sono applicabili solo alle domande presentate «entro le 23:59, ora di Roma, della data del 27 marzo 2025»).
[8] Tale imprevedibilità è attestata dal deposito nel mese di marzo di ulteriori articolate e meditate eccezioni da parte di tre grandi tribunali, evidentemente del tutto ignari che di lì a pochissimi giorni il Governo avrebbe stravolto il quadro normativo.
[9] Così, la relazione introduttiva di U. Scotti, che anche nell’articolo pubblicato su Giustizia Insieme, rileva «un impatto fortemente divisivo, seppur in modo trasversale rispetto alle tradizionali contrapposizioni ideologico-politiche»; nello stesso senso l’intervento di Soliman.
[10] § 7. Cons. in Dir.: «Stante tale quadro normativo di riferimento, la nuova disciplina, al di là delle assonanze rispetto a quanto prospettato nelle ordinanze di rimessione, non si riverbera sulla rilevanza delle questioni sollevate dalle stesse. Tutte le controversie oggetto dei giudizi principali sono state, infatti, introdotte sulla base di domande giudiziali presentate prima del 27 marzo 2025, sicché – ai sensi dell’art. 3-bis, comma 1, lettera b), della legge n. 91 del 1992, introdotto con l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito – resta applicabile ai giudizi a quibus la pregressa disciplina, cui si riferiscono le odierne censure».
[11] La Corte costituzionale osserva che (§ 7.) «non sussistono, dunque, i presupposti per restituire gli atti ai rimettenti» e (§ 8.) «parimenti, non ricorrono le condizioni in presenza delle quali questa Corte può rimettere dinanzi a sé stessa questioni di legittimità costituzionale», osservando che «La nuova disciplina non deve essere applicata nel giudizio costituzionale (ordinanza n. 73 del 1965 e, da ultimo, ordinanza n. 35 del 2024), né sussiste un «rapporto di presupposizione» fra la stessa e quella dedotta dal giudice a quo, tale per cui l’intervento solo su quest’ultima non consentirebbe comunque di rimuovere il vulnus (ordinanze n. 94 del 2022 e n. 18 del 2021). Parimenti, non si rinvengono i presupposti della particolare urgenza (ordinanza n. 73 del 1965) o l’esigenza di evitare che “la Corte – che è il solo organo competente a decidere delle questioni di costituzionalità delle leggi – sia tenuta ad applicare leggi incostituzionali” (ordinanza n. 22 del 1960 e, da ultimo, ordinanza n. 35 del 2024)».
[12] La Corte costituzionale opportunamente non dimentica peraltro neppure in questa occasione di rammentare che i diritti fondamentali e i doveri fondamentali di solidarietà sono riferiti alla persona anche a prescindere dalla sua cittadinanza: «tale attribuzione di diritti e di doveri si colloca, nondimeno, nel contesto di una fonte – la Costituzione –, i cui principi fondamentali garantiscono a ciascuna persona i diritti inviolabili e lo stesso principio di eguaglianza (già sentenza n. 120 del 1967 e, negli stessi termini, da ultimo sentenza n. 53 del 2024) e le cui norme riferiscono taluni doveri di solidarietà anche a non cittadini (si consideri il dovere di concorrere alle spese pubbliche, che già il testo costituzionale, all’art. 53 Cost., ascrive a “tutti”, o la facoltà di prestare il servizio civile nazionale, che questa Corte ha esteso agli stranieri, qualificando la prestazione del richiamato servizio «come adempimento di un dovere di solidarietà [e] come un’opportunità di integrazione e di formazione alla cittadinanza», in tal senso, sentenza n. 119 del 2015)».
[13] CGUE, sent. 29 aprile 2025, C-181/23, Commissione C. Malta, cit.; prima della decisione Delli Carri, cit. p. 385 e 387, rilevava che «di certo, una pronuncia della Corte di giustizia concordante con le posizioni assunte dalla Commissione avrebbe un effetto rivoluzionario sull’attuale assetto dell’Unione europea», osservando che «l’attesa pronuncia della Corte di giustizia nel caso Commissione v. Malta potrebbe incidere in maniera significativa sul tema oggi in esame di fronte alla Corte costituzionale, avallando l’azione del Governo italiano nel caso in cui il giudice di Lussemburgo ritenesse di poter valutare la conformità tra il diritto dell’Unione europea e le leggi nazionali in materia di cittadinanza alla luce del criterio del genuine link»,.
[14] § 11.1 dei Cons. in dir.: «la giurisprudenza costituzionale ha escluso che un criterio fondativo della cittadinanza possa essere connotato in termini discriminatori (così la già citata sentenza n. 30 del 1983, che ha ravvisato una violazione dell’art. 3 Cost., nella disciplina che prevedeva «l’acquisto originario soltanto della cittadinanza del padre», senza contemplare il medesimo acquisto a titolo originario anche in caso di cittadinanza italiana della madre). Di seguito, questa Corte ha ritenuto manifestamente irragionevoli e sproporzionate, nel loro applicarsi a persone affette da infermità o da menomazione di natura fisica o psichica, norme attributive della cittadinanza che richiedevano la dimostrazione di conoscenze o il compimento di atti nei loro confronti non esigibili (sentenze n. 25 del 2025 e n. 258 del 2017). E ancora, ha dichiarato costituzionalmente illegittima una norma che irragionevolmente includeva, nel novero delle cause ostative al riconoscimento della cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento (sentenza n. 195 del 2022).
[15] §. 4.1.1. dei Ritenuto in fatto: «il Tribunale di Bologna e quello di Firenze illustrano diffusamente la peculiarità della situazione italiana caratterizzata, specie nel secolo trascorso, da un massiccio fenomeno migratorio in uscita. Evocando varie fonti, rilevano come fra il 1870 e il 1970 circa 27 milioni di cittadini italiani avrebbero lasciato il Paese e di questi circa la metà non vi avrebbe più fatto ritorno. I loro discendenti andrebbero presumibilmente a superare il numero dei cittadini che risiedono in Italia»; § 4.1.2.: «A dispetto di simile contesto, l’ordinamento italiano sarebbe fra i pochi a non aver posto limiti al riconoscimento della cittadinanza per discendenza o iure sanguinis».
[16] Il tema, vastissimo e con specifiche curvature nella materia de qua, esula dal limitato oggetto di questo intervento; valga rammentare Corte costituzionale, sent. n. 155/1990 per cui «l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento (art. 11 preleggi) e, se pur non elevato, fuori della materia penale, a dignità costituzionale (art. 25, secondo comma, Cost.), rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema a cui, salva un’effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini»; per un recentissimo quadro aggiornato: S. Mabellini, Il Giudice costituzionale “assolve” il legislatore retrospettivo che cancella le “iniquità” del passato…e assesta un nuovo colpo al legittimo affidamento, in ConsultaOnLine, 25 maggio 2025, p 235.
[17] C. Balzan, Il caso. Figli di italiani ma cittadini stranieri: c'è un problema con lo ius sanguinis, su Avvenire,13 giugno 2025, osserva che «il decreto di maggio ha creato situazioni anomale: come quella degli emigrati con due nazionalità o quella degli stranieri che hanno bambini che non hanno due i anni continuativi di residenza». Un’analisi approfondita è stata offerta da G. Perin nel suo intervento a questo corso dal titolo Fuori dall’aula di udienza. I minori nati all’estero e la nuova legge sulla cittadinanza, le cui slides sono reperibili sul sito della SSM, dove ha efficacemente illustrato le ricadute sulle «vittime indirette» della riforma.
A questo link si può consultare la sentenza in oggetto.
Su questa rivista, si veda anche La Corte Costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della Sentenza 142 del 2025 di Umberto Scotti.
