di Gianni Caria edito da Bibliotheka
“Un romanzo sulla gloria pubblica e sulla miseria privata, sulla passione politica che rende tutto immobile se non si alimenta. Per la prima volta nella storia d’Italia a ricoprire la più alta carica dello Stato è una donna, Anita Bertoli. Colpita da un grave malessere viene ricoverata in ospedale. Da quel momento il Paese si paralizza: senza la sua approvazione, il Governo non può operare, e le cariche dello Stato, per tornaconto o ignavia, non fanno niente per risolvere lo stallo creatosi. Alla sua vita (il difficile rapporto con il padre, partigiano e politico influente; la madre Kate, l’Americana; l’intenso rapporto con Aldo, vecchio collaboratore di Bertoli) si intreccia quella di un corazziere incaricato di vegliarla durante la degenza. Un romanzo politico che interseca pubblico e privato, memorie personali e storia collettiva, che riesce a parlare dell’apatica stasi di un Paese, senza retorica e sensazionalismi ma quasi con rassegnato e mesto pudore. Gianni Caria dipinge con efficaci pennellate un’Italia meschina ed egoista, dove ogni mossa nello scacchiere politico è condotta sul filo di una sconcertante ambiguità.”
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Cap. 29 da p. 150 a p. 152
Il vecchio tavolo rettangolare della sala riunioni accoglie i resti del partito. Intorno volti rancorosi si contraggono a ogni insulto che proviene dall’esterno, attraverso l’imposta chiusa del balcone. Non c’è modo di ignorarli, non c’è modo di insonorizzarsi e aumentare la distanza fra la folla e i capi. Il segretario fa ruotare uno sguardo sospettoso. Sa che fuori vogliono la loro testa e pensa che possano accontentarsi della sua. Aspetta che qualcuno proponga di tagliarla.
Il presidente propone di inviare un comunicato stampa dove si spiega l’estraneità del partito alle iniziative illecite di un iscritto e si sottolinea comunque la strana coincidenza della vicinanza dell’incriminazione con le prossime elezioni politiche.
Aldo poggia la schiena ampia contro il muro freddo, è un armadio a muro, un armadio a scomparsa per la precisione, come aveva detto qualcuno una volta. È accanto a un vero armadio con le vetrine di legno antico; all’interno, immagini e reperti di altri tempi gloriosi. Aldo guarda Bertoli che si guarda le mani. Prima il dorso bruno, appena segnato da vene e tendini, poi i palmi, tenuti bene aperti. Sembra quasi che li studi, che cerchi risposte nei reticoli casuali delle linee. Aldo immagina ciò che Bertoli pensa: secondo tradizione c’è tutto in quelle linee, amore, vita, salute. Ma non c’è la linea della coerenza, non si intreccia con la linea della passione, non si interpreta con la linea della dignità. La risposta è assente alla domanda muta: gli intrecci della mia vita sono sufficienti a dimostrare la mia coerenza, a giustificare la mia passione, a rafforzare la mia dignità?
Il presidente parla ancora cercando conforto nei visi contratti degli altri. Solo Bertoli sembra non ascoltare, il volto sereno e concentrato, perso nella sua ricerca. Rigira le mani e tocca come una carezza i vecchi solchi nel legno del tavolo, macchie di inchiostro, segni di bicchiere, bruciature di sigarette. Segue ogni rilievo, ogni asperità, come se leggesse in braille la storia e le storie che in quel luogo e attorno a quel tavolo si sono dipanate.
Nessuno gli rivolge direttamente la parola, ogni tanto qualcuno gli butta di sbieco uno sguardo per capire che cosa passa nella testa di quell’uomo che pare rimpicciolirsi dentro ai suoi pensieri.
Poi Bertoli solleva la testa, e la sua è una voce ferma quando dice: “Dunque è così”. Non è una domanda, Aldo lo capisce subito, è una constatazione. Dunque è così che è andata, il fratello del ministro arrestato per tangenti, il ministro non ancora perché ha l’immunità parlamentare. Il ministro che è sempre stato il braccio operativo, in tutti i sensi, del segretario.
Dunque è così, volete far finta di scaricare su una sola persona ogni responsabilità per salvare sedia e didietro. Il viso di Bertoli vira in un’espressione di dolore trattenuto: che ho fatto, pensa, che ho fatto io per impedire tutto questo, qui sopra i ladri e là sotto l’indignazione. Dov’ero quando è successo tutto, eppure ero sempre qui, mi avevano anche detto che al prossimo giro sarei stato il candidato naturale per il Quirinale. La facciata pulita del palazzo cadente, la statua del santo portata in processione al momento buono, un segno della croce, un padrenostro e poi tutti di nuovo a fare i propri affari.
Bertoli tira indietro la sedia e si alza, ed è come se il suo corpo minuto si riespandesse, come se il suo sguardo che ora diventa lucido venisse scoccato da un’altezza superiore a quella sua naturale. In pochi passi va verso la finestra e la apre, poi apre la persiana. Il vociare della folla fa ingresso con prepotenza, seguito dalla luce livida del giorno. Si avvicina al balcone, lo stesso dei festeggiamenti dopo le elezioni, della vittoria al referendum per la Repubblica. Il balcone della gloria e dell’ideale, al secondo piano della sede del partito. Fuori la gente lo vede e a poco a poco arresta il suo vociare. Bertoli guarda giù e poi davanti a sé, dove hanno issato uno striscione con la scritta “Ladri”.
Aldo alle sue spalle lo osserva, leggermente curvo dentro la giacca grigia. Avrebbe l’istinto di avvicinarsi, di sostenere con la sua mole la violenza che Bertoli sta per farsi, ma sta fermo perché capisce che lui non vorrebbe. Bertoli inizia a parlare, senza microfono. Il silenzio è ora assoluto, tutti ascoltano, anche se sembra quasi che stia parlando solo a se stesso.