Informazione e potere
di Bruno Montanari
Metto subito le carte in tavola. La tesi che intendo prospettare è la seguente. Le tecnologie digitali dell’informazione, la cosiddetta “Infosfera” (Luciano Floridi), hanno prodotto una vera e propria “mutazione antropologica”, nel senso che, intervenendo sulla identità stessa del “sé”, come è attestato da studi ormai noti, hanno modificato di conseguenza il senso delle relazioni interpersonali e dello “stare insieme”. Il che significa che è cambiato il concetto stesso di “società”, così come ci è pervenuto nel tempo storico. Tale mutazione riguarda evidentemente ognuno: cittadini comuni e classi dirigenti. Poiché i sistemi democratico-rappresentativi sono nati e cresciuti in relazione ad una idea di società, di politica e di diritto, precedente la mutazione antropologica verificatasi con il successo dell’Infosfera, la questione che si pone è se ci sia ormai coerenza tra il sistema politico ereditato dal ‘900 (soprattutto dalla sua seconda metà) e l’attuale conformazione dell’ambiente umano di riferimento.
Comincio con il sottolineare un qualcosa che è talmente scontato, che finisce per sfuggire fino al punto da non essere curato dai mezzi di informazione; e, cioè, che l’Italia è una repubblica parlamentare fondata su di un sistema elettorale a suffragio universale.
Al di là della formula, che può interessare gli addetti ai lavori sotto diversi profili, cosa significa in concreto per il cittadino comune? Significa che ciascuno, che è in età di voto, ha diritto di partecipare alla formazione di un Parlamento dal quale poi, attraverso le procedure costituzionali, prende forma il governo dello Stato. In definitiva, quindi, il governo dello Stato, per le cose interne ed internazionali, è affidato alla scelta elettorale compiuta da ciascun cittadino. Scelta elettorale, di fronte alla quale “uno vale uno”, come ormai si usa dire a mo’ di slogan; il che vuol dire che ognuno vota in base a ciò che “gli dice la testa”. Ciò avviene indipendentemente dal grado di congrua conoscenza sia dell’effettiva architettura costituzionale ed istituzionale dello Stato, sia delle questioni sul tappeto, che possono essere più o meno complicate e più o meno vicine alla sensibilità immediata del cittadino.
Questa considerazione, che è sicuramente banale, ma decisiva per un sistema elettorale a suffragio universale, apre l’interrogativo circa il ruolo che svolgono i media della informazione, sia dal punto di vista del dare o non dare le notizie, sia soprattutto nel come darle: con quale ordine, con quale linguaggio, con quale costruzione e sottolineatura degli argomenti; soprattutto, con quale riferimento alle Istituzioni interessate ed al ruolo ed alla funzione delle persone che le incarnano e le rappresentano. In altre parole, quale relazione esiste tra i nomi delle persone fisiche e il loro ruolo politico-partitico ed istituzionale, in modo che il cittadino comune capisca il grado di coinvolgimento istituzionale e la conseguente responsabilità degli attori.
Se questa, che ho succintamente descritto, è la funzione dell’informazione nelle sue diverse modalità operative, si comprende agilmente in quale misura essa incida sul come si formino nella “testa” del cittadino elettore le sue scelte e sul loro relativo grado di consapevolezza.
Metto ora in relazione questo processo informativo, con finalità “psico-decisionali”, con alcuni altri fattori. Innanzitutto occorre aver presente quei dati che sono in possesso della “Polizia postale e delle comunicazioni”; in particolare, quelli relativi all’uso dello smartphone, che, negli ultimi quindici anni, è passato da poco più del 15% a circa il 90%. Uso distribuito in misura diversa tra fasce di età, fino a raggiungere il massimo in quelle dei giovani nati nel Millennium, ma anche in quelle dei meno giovani, di coloro cioè che si sono formati al pragmatismo degli anni ‘90. Il secondo fattore, strettamente collegato al primo, è il Web ed i “colossi” che ne sono i dominatori, i quali gestiscono miliardi di “dati” di varia natura, cui sono collegati profitti altrettanto colossali. “Colossi” che, come è noto, non dipendono da alcuna autorità politica statuale o sovranazionale e che sono privi di una qualsiasi legittimazione (poiché per la loro natura non è necessaria!) per lo svolgimento del ruolo comunicativo che svolgono. Essi, quindi, al di là della loro costituzione giuridica aziendale, operano sul piano del puro fatto. Il che potrebbe ricadere nel campo più generale della libertà di informazione, se non fosse che l’attività mediatica di questi “colossi” risulta estremamente performante sul piano del condizionamento della mentalità della “gente”. Attraverso il Web, infatti, circolano le notizie più varie, tra le quali quelle cosiddette “delicate” e, cioè, quelle che possono condizionare il modo di pensare (la “testa”), la sensibilità, l’impressionabilità ecc. del cittadino comune, orientandone le scelte, sia quelle della vita quotidiana, individuali e relazionali, sia quelle lato sensu politiche.
Se, allora, si incrociano i tre elementi: condizionamento del Web, formazione delle scelte individuali, suffragio universale, l’interrogativo che si pone è: quale rapporto esiste oggi tra conformazione umana dell’ambiente sociale e sistemi democratico-rappresentativi? Meglio, su quale livello di consapevolezza e responsabilità del cittadino si fondano i processi elettorali che legittimano le linee di governo interne ed internazionali? E, ancora, quale è la meccanica di ragionamento di coloro che fanno parte delle attuali classi dirigenti? Questi interrogativi ne sottintendono uno che sta sul fondo: quali sono gli interessi, di varia natura, economici, finanziari, socio-politico-gestionali e di conformazione dell’ambiente umano, che muovono le finalità dell’informazione-comunicazione dei “colossi” del Web?
Queste considerazioni valgono in generale, ma assumono una particolare delicatezza in quei momenti della storia nei quali le grandi vicende del mondo, che possono anche non toccare immediatamente la vita del cittadino comune, divengono, invece, esperienza quotidiana di ciascuno di noi. E questo vale ancora di più quando si tratta di vicende che invadono la vita interna di una società e di uno Stato. Mi riferisco ora alle modalità informative di trattare l’insieme di fatti avvenuti durante l’“emergenza” coronavirus, con alcuni esempi specifici.
Innanzitutto l’“emergenza-virus”. Lo stile comunicativo. Una premessa. Fin dall’inizio è stato diffuso un annuncio dal contenuto inedito, con il fine esplicito di mettere in guardia dalle fake news: quello di dare credito solo a notizie provenienti da determinate fonti informative che si sono auto-accreditate. E’ la prima volta che un processo di legittimazione avviene da parte dello stesso attore che si impone sulla scena; o meglio, questo è un meccanismo proprio di quelle vicende storiche nelle quali il vincitore, proprio in quanto tale, accredita e stabilizza la sua vittoria attraverso un processo di auto-legittimazione, che determina il sistema di obbedienza dei seguaci e dei vinti. Questo ispirava la filosofia politica di Hobbes e di Machiavelli ed ha alimentato l’estetismo dissacratore e già post-moderno di Nietzsche, ma non è un paradigma consono ad una democrazia liberale e rappresentativa.
Alla premessa segue l’interrogativo. Da tempo circolano diverse ricostruzioni dell’epidemia, soprattutto sulla sua qualità virale, sulla sua diagnosi e sulla sua curabilità, che sono espressioni di ipotesi scientifiche diverse. Questo si registra sia tra i cosiddetti “esperti” designati ufficialmente dal Governo, sia da altri non ufficiali, sia nei siti web. La prima mossa, derivante dall’autolegittimazione delle fonti informative sopra segnalata, è quella di censurare, come fake, inaffidabili e complottiste, quelle ipotesi non provenienti dalle fonti ufficiali, con la conseguenza di mescolare in un unico contenitore le falsità effettive con ipotesi scientifiche possibili. Una scienza degna del nome che porta dovrebbe essere gelosa del metodo proprio della ricerca e della relativa epistemologia e dovrebbe pretendere dai media dell’informazione-comunicazione l’organizzazione di una discussione pubblica di confronto diretto circa le ipotesi scientifiche in campo, in modo che il cittadino possa avere, “di prima mano”, un quadro generale della situazione e soprattutto della “serietà” scientifica dei ragionamenti e delle relative argomentazioni. Mi si dirà: “una trasmissione mediatica di questo tipo sarebbe troppo pesante e ‘noiosa’ ed il cittadino o non la seguirebbe o non la capirebbe”. Obiezione per un verso sbagliata e per un altro pericolosa. Sbagliata, perché si farebbe dipendere il servizio pubblico di informazione, su di un tema così pervasivo della salute sociale, dal profilo commerciale dell’audience e della relativa pubblicità commerciale che questa attira. Pericolosa, perché sarebbe una ammissione esplicita della inesistente considerazione che il potere mediatico ha per il livello di “attenzione” intellettuale dei cittadini. Pericolosa, in più, questa seconda obiezione, per un altro aspetto immediatamente seguente, ma che riporta all’inizio di questo mio intervento: se la considerazione circa il reale livello culturale ed intellettuale del cittadino comune è pressoché nulla, allora perché se ne invoca a ogni pie’ sospinto la partecipazione elettorale? Sarebbe come mettere nelle mani di cittadini, ritenuti intellettualmente inaffidabili, il potere di governo proprio delle istituzioni.
Aggiungo un’altra osservazione che è una semplice “curiosità”: in “epoca di coronavirus”, è cambiato anche lo stile espressivo, per contenuti, linguaggio e timbro vocale, suasivamente mellifluo, della pubblicità commerciale!
E’ difficile sottrarsi alla sensazione che esista una dimensione del potere (mi limito a quello che sostiene le testate giornalistiche e i media in generale) che ritiene che i destinatari dell’informazione siano persone cui non vale la pena dare spiegazioni, con l’assunzione di responsabilità sociale che, ovviamente, queste dovrebbero comportare. E’ “gente” a cui si deve dare solo la notizia, come quella di un bollettino meteorologico: “sapete che c’è di nuovo? domani cambia tempo”.
Faccio due primi esempi. Nei giorni scorsi è stato dato l’annuncio di una sostituzione, e anche trasmigrazione, di direttori di importanti testate giornalistiche. Che la proprietà dei giornali condizioni la linea di un giornale, e quindi la relativa direzione, è cosa arcinota, nonostante la consuetudine retorica che i singoli giornalisti rivendichino la loro libertà di parola. Nel caso attuale, però, la cosa apre interrogativi diretti ed indiretti. Il primo riguarda il significato editoriale del cambio di direzione: perché l’informazione si limita all’annuncio scheletrico della notizia, e ad essa non si è fatta seguire alcuna spiegazione, commento, riflessione? Eppure si tratta di una notizia non trascurabile per la cosiddetta democraticità dell’informazione. Inoltre, in un momento nel quale, in nome della cosiddetta pandemia, si sventola a più riprese la bandiera dell’unità nazionale e del superamento di ogni divisione, perché non sempre si condanna esplicitamente, da parte dei media, lo stile arrogante e fortemente ineducato di alcuni personaggi politici, proprio mediaticamente assai esposti? Ed anzi se ne coltiva l’esposizione mediatica.
Il secondo: Analogo silenzio, d’altra parte, si è registrato per la nomina dei managers delle aziende pubbliche: un fenomeno di una sconcertante intercambiabilità, che definirei “reticolare” (metafora della quale mi sono occupato in altro tempo ed in altra sede: cfr., Dalla Piramide alla rete, in RIFD, 2 - 2014).
A questi due esempi ne faccio seguire altri due che riguardano il modo nel quale l’informazione gestisce la comunicazione di vicende che toccano le Istituzioni dello Stato. Dico subito che l’impressione che se ne ricava è che il profilo istituzionale resti sullo sfondo, quasi non sia ciò che “fa notizia”; ma che più importanti, perché più mediaticamente attraenti, siano i nomi dei personaggi e i rispettivi ruoli pubblici, ma non l’intreccio istituzionale cui quei ruoli appartengono.
Il caso: Di Matteo - Buonafede. Innanzitutto l’origine: una trasmissione televisiva nella quale sono intervenuti telefonicamente e mediaticamente personaggi che ricoprono ruoli e funzioni istituzionali estremamente delicati. Un tale sistema informativo non fa emergere la specificità del contesto istituzionale nel quale una controversia di tale natura si è sviluppata: il CSM per un verso, un ministro della Repubblica per un altro. La questione correttamente divulgata avrebbe dovuto mettere in luce sia che essa avrebbe dovuto formare oggetto di inchiesta nelle sedi proprie (CSM e Governo), sia che i soggetti implicati avrebbero potuto rivendicare una tutela in sede giudiziaria della loro credibilità di persone. Di tutto questo intreccio nulla è emerso attraverso l’informazione pubblica, che sola avrebbe “educato” l’utente alla consapevolezza dell’esistenza di Istituzioni e del loro rispetto. Tutto si è risolto, invece, nel dar conto del solito chiacchiericcio partitico, condito dalla risonanza dei nomi, unito alla polemica incrociata tra chi “fa quadrato”, chi “media” e chi “attacca” per chiedere le dimissioni. Ma che cosa sia veramente in gioco sul piano istituzionale nessun media lo ha veramente chiarito al cittadino destinatario. Resta sempre la domanda: perché non sarebbe stato in grado di capire?
Poi il caso Silvia Romano. La copertura mediatica di una operazione dei servizi segreti, dovrebbe rispettare la specialità dell’organismo che la compie. Anche perché dovrebbe essere ovvio riflettere che se esistono i “servizi segreti” (con le relative garanzie costituzionali) le loro operazioni non possono che essere e rimanere “segrete”. Ne segue che la divulgazione di notizie non può che essere esclusivamente quella funzionale al mantenimento dell’effettivo livello di segretezza. Dunque, una divulgazione, che non rispetti la “attenzione” che si deve alla particolare natura costituzionale dell’organismo che agisce, risulta fuorviante per il destinatario, con l’aggravante di generare quella violenza mediatica a tutti nota. E poi i media piangono sul latte versato, con le massime e sdegnate, ma usuali, parole di condanna.
Questo stile comunicativo offende ad un tempo l’idea dell’informare e l’intelligenza dei destinatari. Di queste cose se ne è spesso parlato secondo uno stile “accademico”, ma la critica, anche dura, rimaneva “teorica”, poiché riguardava una situazione che nei fatti non incideva direttamente sulla qualità quotidiana della vita comune. Ora non è più così: questa modalità comunicativa, prevalentemente impressionistica, incide, e direttamente, infatti, proprio sulla qualità della vita quotidiana.
Vengo così ad un ultimo esempio. La funzione, primaria e fondamentale della informazione, è stata quella di rendere, tramite la paura del virus, le persone passive di fronte alla conduzione politica della vita sociale. La quale, a fronte della evidenza della inefficienza ed impreparazione dell’apparato gestionale pubblico, ha giocato le sole due carte, capaci di produrre effettività di governo. La prima. Una linea comunicativa che appare essere la seguente: qualche perplessità non si può tacere, ma il grosso della comunicazione, martellante e possibilmente terrificante ed incerta quanto a persistenza della pandemia, deve avere ad oggetto esclusivo il virus e le sue acrobazie. La seconda e conseguenziale: generare nella abitudine mentale del cittadino il nesso: paura – controllo di polizia – sanzioni. Trasformando, nella applicazione, norme a scopo precauzionale in “arresti domiciliari”. Con ciò che segue sul piano del rispetto della intelligenza dei cittadini e della loro attenzione per il funzionamento di quelle istituzioni che sono chiamati a legittimare con il loro voto.
Vengo all’oggi. Certo, con la “Fase 2” le cose cambiano, ma sempre con la riserva comunicativa che il virus resta in agguato e dunque occorre mantenere alto il livello di “paura”, se non altro per il domani. Come dire, a parole si invoca la “responsabilità personale”, ma nei fatti “ti tengo sulla graticola”. Il che produce due fenomeni: ribellismo e sconsideratezza (oltre al proliferare del malaffare), oppure somatizzazione della paura (depressione). E i media giocano ora sull’uno, ora sull’altro registro, ora per condannare ora per rinvigorire. Il che certo non agevola il formarsi di quello “stato d’animo” diffuso di spontanea consapevolezza e responsabilità, che solo consente la ripresa di quelle piccole attività economiche che sono il tessuto della vita quotidiana di ciascuno di noi.