Sommario: 1. La fornitura di materiali d’armamento tra guerra in Ucraina e occupazione armata di Israele - 2. L’offesa alla libertà di altri popoli come condotta materiale, estromessa dalla Costituzione - 3. Un’omissione e due contraddizioni nella giurisprudenza italiana sul difetto assoluto di giurisdizione - 4. La tesi giurisprudenziale dell’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento e i suoi effetti “creativi” di un potere costituzionalmente escluso - 5. L’unicità costituzionale che sfugge alla giurisprudenza sull’atto politico - 6. L’espunzione, dal panorama cognitivo del giudice italiano, dell’art 15 CEDU - 7. Dall’atto amministrativo sindacabile alle nullità dei contratti - 8. L’incostituzionalità del Memorandum d’intesa e dell’Accordo di sicurezza fra Italia e Israele.
1. La fornitura di materiali d’armamento tra guerra in Ucraina e occupazione armata di Israele
La guerra in Ucraina, prima, e l’occupazione armata, incessantemente ingaggiata da Israele a Gaza e non solo, in particolare dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre del 2023, hanno riportato ad attualità un tema, persistentemente in ombra nei dibattiti sull’art. 11 della Costituzione[1]: quello del rapporto fra ripudio della guerra e giustiziabilità del potere, pubblico o privato, di fornitura di materiali d’armamento a Stati aggrediti o aggressori.
La riemersione ha investito una serie di interrogativi, originariamente incentrati sugli accadimenti ucraini[2].
Nello specifico, ci si è chiesti se l’invio di materiale d’armamento allo Stato europeo fosse costituzionalmente legittimo al cospetto degli articoli 10, primo comma, 11, 52, primo comma, e 78 della Costituzione italiana.
La risposta prevalente si è rivelata affermativa per sei ordini di considerazioni[3]:
i. l’invio è stato deliberato con appositi atti normativi, a partire dal d.l. n. 14/2022, convertito in l. n. 28/2022 e reiteratamente prorogato, in deroga alla disciplina generale, la l. n. 185/1990, che invece lo vieta in scenari di guerra o di conflitto armato;
ii. tale deroga sarebbe costituzionalmente ammissibile, grazie al combinato disposto fra art. 10, primo comma, Cost. e art. 11 Cost., che colloca il ripudio della guerra nella cornice del diritto internazionale generale e dello Statuto ONU, reso esecutivo in Italia dalla l. n. 848/1957;
iii. l’art. 11 Cost. non contiene un’esplicita dichiarazione di neutralità, a differenza di altri Stati, come Svizzera, Austria, Malta e Repubblica d’Irlanda;
iv. perciò esso non osta a che l’Italia invii propri mezzi in appoggio di uno Stato, vittima di aggressione in violazione del diritto internazionale generale e dell’art. 2, n. 4, dello Statuto ONU;
v. anche perché la fornitura di materiali d’armamento non viola neppure l’art. 52, primo comma, Cost., con costituendo intervento diretto di autodifesa collettiva, ai sensi dell’art. 51 dello Statuto ONU, attraverso l’impiego di forze armate italiane in guerre altrui;
vi. né comporta, per l’Italia, l’assunzione del ruolo di parte nel conflitto, difettando pure la deliberazione parlamentare di stato di guerra, richiesta dall’art. 78 Cost.
Questo itinerario di verifica non risulta mai percorso né proposto in tutta la storia delle forniture di materiali d’armamento a favore di Israele, Stato notoriamente in disaccordo con il diritto internazionale, sia generale che umanitario, neppure dopo che il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024, prima, e la risoluzione dell’Assemblea Generale del 19 settembre 2024, dopo, hanno rubricato le condotte materiali israeliane come illeciti permanenti di aggressione territoriale a Gerusalemme est, Cisgiordania e nella stessa striscia di Gaza, e come violazione dei diritti individuali e collettivi dei palestinesi, invitando gli Stati terzi dell’ONU a interrompere qualsiasi relazione di scambio con lo Stato occupante[4].
Se, in passato, le forniture ci sono sempre state, avallate dal Memorandum d’intesa fra Italia e Israele del 2003, reso esecutivo con la l. n. 94/2005, e dall’Accordo di Sicurezza del 1987, richiamato dall’art. 5 del Memorandum, oggi continuano ad esserci[5] sia perché i due accordi italo-israeliani non sono stati denunciati[6] sia perché i provvedimenti abilitativi dei poteri di fornitura non sono stati mai né sospesi né revocati, nonostante l’apposita previsione degli artt. 10 e 15 della citata l. n. 185/1990[7].
Mantenendo questa continuità, l’Italia ha agito e sta agendo in modalità totalmente contraria al caso ucraino: invece di approvare una normativa in deroga pur di giustificare le forniture di materiali d’armamento, essa mantiene in vigore la legislazione, disapplicandola sul fronte delle sospensioni e revoche in scenari di guerra o di conflitto armato per di più nell’accertato contrasto con il diritto internazionale e lo Statuto dell’ONU; invece di soddisfare le sei condizioni di costituzionalità, elencate come necessarie per supportare uno Stato aggredito, ne prescinde a vantaggio di uno Stato aggressore.
In gioco, ancora una volta, è la conformità con l’art. 11 Cost.
2. L’offesa alla libertà di altri popoli come condotta materiale, estromessa dalla Costituzione
Il significato della disposizione è stato ampiamente scandagliato dalla dottrina italiana[8]; molto meno dalla giurisprudenza.
L’enfasi è costantemente ricaduta, come conferma la discussione sull’Ucraina, sul “ripudio” della guerra, in quanto imperativo categorico di decisione[9].
Da tale angolo di visuale, come si accennerà, l’imperativo è stato qualificato “sostanziale” rispetto a quello, definito “procedurale”, desumibile dall’art. 78 Cost.: ossia dell’accettazione della guerra quale “stato” di fatto prodotto sempre e solo da altri, mai dall’Italia, e, per l’Italia, riconoscibile esclusivamente da parte del Parlamento con apposita deliberazione[10].
Gli enunciati dell’art. 11 Cost., nondimeno, non si esauriscono a questo. Accanto all’imperativo della decisione di “ripudio”, la disposizione produce anche una norma performativa delle condotte materiali, riguardanti i rapporti con la libertà.
Detto altrimenti, e come osservato da una risalente attenta dottrina[11], mentre è «sacro dovere del cittadino» la “difesa” della propria patria (art. 52, primo comma, Cost.)[12], l’ “offesa” dell’altrui libertà è condotta materiale, inequivocabilmente estromessa dal panorama costituzionale sia nelle relazioni interindividuali interne allo Stato, per contrasto con il principio solidaristico dell’art. 2 Cost., sia in quelle esterne allo Stato e coinvolgenti altri popoli, per divieto dell’art. 11 Cost.
Non a caso, la Corte costituzionale ha erto l’estromissione della condotta offensiva della libertà altrui a valore costitutivo dello Stato di diritto italiano, riassunto dal neminem laedere (Corte cost. sent. n. 16/1992).
Così proiettato, l’art. 11 Cost. si coniuga con l’art. 2 Cost. e con l’art. 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, in forza del quale «ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati», delineando una situazione soggettiva universale, ossia propria di qualsiasi essere umano, che consiste nell’obbligo di “non offendere” le libertà altrui, sia di individui che di popoli, e nel riflesso diritto a “non essere offeso” come individuo o “altro” popolo[13].
Ora, le situazioni soggettive universali sono pacificamente giustiziabili. Se, per l’Ucraina, esse non emergono compromesse dai materiali d’armamento, visto che il loro invio mira a difenderle contro l’aggressione altrui, lo stesso non può certo dirsi per gli individui e il popolo aggrediti da Israele, Stato destinatario di quegli invii italiani malgrado la violazione del diritto internazionale e dello Statuto ONU.
Di qui, l’insorgenza delle esigenze di giustiziabilità.
Le risposte giurisprudenziali, ad oggi pervenute, appaiono insoddisfacenti e sbrigative. Piuttosto che entrare nella scansione dettagliata dai complessi accadimenti e delle loro ricadute costituzionali sull’art. 11 Cost., esse si sono arroccate nel proclamare l’insindacabilità del potere di fornitura di materiali d’armamento per difetto assoluto di giurisdizione, senza distinzioni di contesto e replicando pedissequamente una costante omissione e due ricorrenti contraddizioni, presenti in precedenti giurisprudenziali totalmente estranei al fenomeno in discussione.
La sintesi di siffatto ordito si rintraccia nella requisitoria della Procura Generale della Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, per il Ricorso RG n. 1683/2025[14], dove addirittura Ucraina e Israele, Stato aggredito e Stato aggressore, vengono parificati e, con essi, annacquate l’osservanza o meno del diritto internazionale e dello Statuto dell’ONU, escludendo responsabilità dei poteri e tutela delle situazioni giuridiche tutelabili in nome di una “materia”, le relazioni internazionali, ignota al testo dell’art. 11 Cost., dove, al contrario, l’unica “materia” trattata è quella della «risoluzione delle controversie internazionali», tutt’altro che “libera nei fini” poiché finalizzata esclusivamente alla pace.
Si deve, allora, verificare perché l’omissione e le contraddizioni giurisprudenziali sul difetto assoluto di giurisdizione abbiano potuto portare a questo.
3. Un’omissione e due contraddizioni nella giurisprudenza italiana sul difetto assoluto di giurisdizione
Partiamo dalla costante omissione.
Essa investe l’assunto, tratto dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, secondo cui il difetto assoluto di giurisdizione insorgerebbe ogniqualvolta manchi, nell’ordinamento giuridico italiano, una disposizione normativa anche solo astrattamente idonea a delineare una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela[15]. Siffatto argomentare si riconosce nel postulato della plausibilità, nel sistema costituzionale italiano, di “lacune strutturali” nella difesa della persona umana, che impedirebbero l’accesso al giudice. In tale prospettiva, per esempio, diritti umani su beni universali di sopravvivenza (come la pace o la stabilità del sistema climatico) sarebbero del tutto inconcepibili e non giustiziabili[16].
Si tratta, per l’appunto, di un postulato: come tale, non raccordato alla realtà effettuale[17] e, di riflesso, molto debole in termini di sistema delle fonti, solo a pensare al criterio ermeneutico dell’analogia[18], e debolissimo, poi, dal punto di vista costituzionale, tanto da non trovare appoggio né nella dottrina costituzionalistica maggioritaria né nella giurisprudenza della Corte costituzionale sull’art. 2 Cost. (dopo le aperture inaugurate con la sent. n. 215/1997[19]), e neppure in quella della Corte europea dei diritti umani, favorevole all’elasticità evolutiva degli enunciati CEDU[20].
Il postulato, inoltre, pretermette sempre – e in questo consiste l’omissione costante – il richiamo all’art. 15 CEDU, il quale offre, invece, l’unitaria chiave di lettura della normalità costituzionale, condivisa da tutti gli ordinamenti giuridici afferenti al Consiglio d’Europa, Italia inclusa. Secondo tale disposizione, infatti, si può derogare all’accesso al giudice solo in una situazione di “stato d’urgenza” e alle condizioni poste dalla CEDU stessa. Fuori di questo scenario, la norma astrattamente idonea per l’accesso al giudice esiste sempre, perché rintracciabile comunque nelle elastiche maglie della CEDU stessa (come incidentalmente ammesso, proprio con riguardo alle forniture di armamenti, nel caso “Tugar c. Italia”, di cui si farà cenno a breve), come anche delle Costituzioni e degli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. Tant’è che i tentativi statali di sottrarsi alla suddetta normalità condivisa, persino attraverso disposizioni costituzionali, sono stati dichiarati in contrasto con la CEDU[21].
Per quanto riguarda le due ricorrenti contraddizioni, queste si riferiscono alla dogmatica del c.d. atto politico, categoria, com’è noto, galleggiante nell’ordinamento italiano, malgrado la sua matrice prerepubblicana e pre-costituzionale[22]. L’atto politico sarebbe insindacabile dal giudice, in forza, anche in questo caso, di tre postulati: la deferenza giudiziale verso la separazione dei poteri; la carenza assoluta, in capo al giudice, del potere di creare disposizioni normative, dovendo applicare solo quelle già prodotte; la “libertà dei fini” del potere da sottoporre a sindacato[23]. La prassi applicativa dei tre postulati ha generato contraddizioni su due fronti logici della decisione giudiziale: da un lato, lì dove la decisione, nel sostenere di non detenere poteri creativi di norme, ha creato comunque, con la declaratoria d’insorgenza dell’atto politico, fattispecie normative non esplicitate da disposizioni costituzionali o legislative; dall’altro, allorquando, nel denominare un potere “libero nel fine”, la decisione lo ha abilitato giudizialmente come implicito rispetto ai poteri e fini esplicitati dai testi normativi[24].
Queste singolarità sono diventate ancor più evidenti proprio nella giurisprudenza sul potere di fornitura di materiali d’armamento, generando non poche confusioni semantiche e concettuali.
Ci si riferisce, in particolare, a due decisioni:
- la pronuncia del T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 dicembre 2022, n. 17159, con cui si è statuita l’insindacabilità degli atti statali di fornitura di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina, aggredita dalla Russia;
- l’ordinanza cautelare del Tribunale civile di Roma (N.RG. 13556/2024), non sconfessata in sede di reclamo, che lo stesso difetto assoluto di giurisdizione ha dichiarato, con riguardo, però, alla fornitura di materiali d’armamento a Israele, Stato occupante (e aggressore) a Gaza e nei territori palestinesi occupati.
Nella prima, il giudice, in un ricorso per l’annullamento dei decreti interministeriali di attuazione della legislazione di invio di armamenti in Ucraina, sostiene di attenersi alla separazione dei poteri per tre ragioni:
- perché il potere di fornitura di materiali d’armamento apparterebbe alla “materia” delle relazioni internazionali, di cui i giudici nazionali non si occupano,
- perché per tale “materia” non sarebbe configurabile alcuna «situazione di interesse protetto»,
- perché è da escludere «che gli atti politici costituiscano un numero chiuso e predeterminato dal diritto positivo», sicché spetta solo alla giurisprudenza il compito di procedere alla loro individuazione «fatto salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali».
Nella seconda, dove un avvocato palestinese ricorreva ex art. 700 Cod. proc. civ. nei confronti dello Stato italiano, per chiedere, tra le altre, l’imposizione del divieto di fornitura di armamenti a Israele, il medesimo principio della separazione dei poteri verrebbe salvaguardato dal fatto che «l’art. 11 della Costituzione si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», sicché la “materia” delle relazioni internazionali non sarebbe giustiziabile persino allorquando uno Stato, occupante e aggressore come Israele a Gaza, offende libertà altrui.
Non è difficile rintracciare gli elementi sintomatici della costante omissione e delle due ricorrenti contraddizioni, poc’anzi osservate.
Davvero l’art. 11 Cost., rivolgendosi allo Stato, esclude, solo per questo, l’accesso alla giustizia? E allora come si concilia, tale postulato, con l’art. 15 CEDU, per il quale, al contrario, l’accesso alla giustizia è sempre ammesso, a meno che non ci si trovi «in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» e non certo nella “materia” delle relazioni internazionali e l’Italia non sia coinvolta in alcuna guerra o altro pericolo dichiarato? E con gli artt. 2 Cost e 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo?
Se veramente è da escludere «che gli atti politici costituiscano un numero chiuso e predeterminato dal diritto positivo», allora sono i giudici i detentori del potere creativo (rectius, moltiplicativo) di tali atti?
Da dove si deduce che il potere di fornitura di materiali d’armamento appartenga alla “materia” delle relazioni internazionali tra Stati, quando la Costituzione individua una specifica “materia” – quella della «risoluzione delle controversie internazionali» ex art. 11 Cost. – limitata nei fini e nei mezzi, mentre una legge, come si vedrà la già citata n. 185/1990, declina la fornitura di armamenti come autonomia contrattuale[25]? Si tratta, forse, di un ulteriore (l’ennesimo) potere “implicito” d’invenzione giurisprudenziale? Ma come conciliarlo con il limite del far «salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali», che evidentemente lo escluderebbe?
Non poca confusione emerge dagli interrogativi insorti; confusione semiotica, verrebbe da dire nella prospettiva della semiotica giuridica, ossia manifesta sovrapposizione di segni[26] fra quelli dell’esperienza (esistenza di Stati aggrediti e di Stati aggressori; di fatti illeciti subiti da uno Stato e fatti illeciti prodotti da uno Stato; di contratti internazionali di compravendita accanto a trattati e convenzioni internazionali, della “materia” delle controversie internazionali distinta dalla “materia” delle relazioni internazionali ecc…) e quelli degli enunciati performativi riferiti a tali esperienze (regole giuridiche differenti per chi subisce un’aggressione o un fatto illecito da quelle per chi li provoca; regole giuridiche apposite per i contratti internazionali di compravendita non assimilabili a quelle sui trattati e le convenzioni fra Stati; differenza tra fornitura di materiali d’armamento e spedizione di contingenti di militari ecc…).
4. La tesi giurisprudenziale dell’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento e i suoi effetti “creativi” di un potere costituzionalmente escluso
La confusione non viene meno neppure se ci si appiglia all’art. 7, comma 1, del Codice del processo amministrativo, lì dove si prevede che siano sottratti alla giurisdizione gli «atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico»[27].
Invero questa disposizione, che è e resta sub-costituzionale (in quanto banalmente legislativa), viene erta, dai giudici promotori dell’ atto politico nella “materia” delle relazioni internazionali, a fonte “super-costituzionale”, in quanto abilitativa di poteri “liberi nei fini” al di là persino degli stessi fini costituzionali della solidarietà verso qualsiasi persona umana (art. 2 Cost.) e del ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11 Cost).
Ancorché la stigmatizzazione costituzionale dello «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» impedisca di legittimare condotte di aggressione, la giurisprudenza sul potere “libero nel fine” nella “materia” delle relazioni internazionali, indipendentemente se con Stati aggrediti o aggressori, legittima – giacché insindacabili – condotte di aggressione.
Nonostante il ripudio costituzionale della guerra, «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», impedisca forniture di materiali d’armamento per alimentare soluzioni belliche delle controversie, indipendentemente dal coinvolgimento o meno dell’Italia, la giurisprudenza sull’art. 11 Cost., quale fonte che «si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», le consente.
In definitiva, per la giurisprudenza sull’atto politico nella fornitura di materiali d’armamento, la “libertà dei fini” consisterebbe in una totale “indifferenza” italiana dei “fini”: tanto di difesa quanto di offesa, tanto di pace quanto di guerra.
Eppure, sono state proprio le Sezioni Unite della Corte di cassazione ad aver avvertito che «non può essere esclusa in casi estremi [come la commissione di gravi crimini] la garanzia della giustiziabilità e dell’intervento del giudice comune [...] per sanzionare le conseguenze di un fatto illecito, perché offensivo di quel comune sentimento di giustizia rappresentato dal tessuto di principi attraverso i quali si esprimono, secondo la Costituzione, le condizioni della convivenza» (ordinanza n. 15601/2023).
Non diversamente si è espressa anche la Corte europea dei diritti umani, tra l’altro nei riguardi dell’Italia, in occasione della decisione sul caso “Nasr e Ghali c. Italia” (Quarta Sez., 23 maggio 2016, ricorso n. 44883/09), anche in tale circostanza per la presenza di fatti illeciti offensivi del comune sentimento di giustizia e della libertà.
In una parola, non c’è atto politico o “libertà nei fini” che possa tradursi in ostacolo all’accesso al giudice nazionale, allorquando si verta in tali situazioni di fatto “offensive” della libertà e della giustizia.
Appare, dunque, singolare che questa conclusione venga negata nell’applicazione giudiziale dell’art. 11 Cost., che proprio sul rifiuto dell’offesa alla libertà degli altri popoli fonda la ratio sull’abilitazione dei poteri di pace e non di guerra.
Su questo fronte, la giurisprudenza legittimante l’insindacabilità della fornitura di materiali d’armamento consuma una manifesta incostituzionalità: apparentemente essa si ritrae dalla giurisdizione; in concreto, con le riscontrate confusioni semiotiche fra aggrediti e aggressori, relazioni internazionali e contratti di compravendita, fornitura di materiali d’armamento e spedizioni militari essa estende gli effetti dei propri pronunciamenti oltre i confini della stessa Costituzione, inventando, per via giudiziale, il potere “libero nel fine” di “offendere” la libertà degli altri popoli anche non direttamente – ossia con i propri armamenti, con buona pace del far «salvo il solo rispetto delle norme e dei principi costituzionali» (come retoricamente evocato dal citata decisione del T.A.R. Lazio).
Nella teoria costituzionale comparata, un esito così assurdo, di creazione giurisprudenziale di un potere espressamente escluso dalla Costituzione, verrebbe rubricato come “mutamento costituzionale tacito”[28]. L’art. 11 Cost., in quanto principio costituzionale, è sottratto al potere politico di revisione costituzionale (come inequivocabilmente noto, dopo le sentenze della Corte costituzionale nn. 1146/1988 e 238/2014). Detto altrimenti, il suo contenuto non può essere modificato da nessuno. Ciononostante, la giurisprudenza sull’insindacabilità del potere di fornitura di materiali d’armamento sentenzia ben altro: ciò che non è ammesso per revisione costituzionale, lo sarebbe per atto politico “inventato” dal giudice.
Gli stessi “poteri necessari” del Governo sullo stato di guerra, che l’art. 78 Cost. subordina alla previa deliberazione parlamentare proprio per derogare all’esclusione delle condotte di offesa, imposta dall’art. 11 Cost.[29], diventerebbero a questo punto “superflui”, grazie alla creazione giurisprudenziale dell’insindacabile atto politico sulla fornitura di materiali d’armamento anche per offendere libertà di altri popoli.
Eppure quell’art. 78 è stato elaborato proprio per scongiurare queste degenerazioni ermeneutiche e di prassi. La disposizione, infatti, espungendo dal lessico costituzionale la formula “pieni poteri” – tipica del regime statutario prerepubblicano degli atti “liberi nei fini”, illimitati e insindacabili da parte non solo del giudice ma addirittura dello stesso Parlamento[30] – ha voluto collegare possibili condotte di offesa alla libertà di altri popoli a espliciti presupposti fattuali e formali di loro limitazione[31]:
- la pre-esistenza della situazione di guerra, dato che la disposizione non contempla la “dichiarazione” di guerra, bensì lo “stato” di guerra ovvero una situazione di fatto da altri prodotta, rispetto all’Italia che la guerra “ripudia”;
- la conseguente funzione accertativa della deliberazione parlamentare;
- l’ulteriore conseguente natura temporanea dei “poteri necessari” del Governo, dipendenti appunto dallo “stato” di fatto accertato ma non voluto dall’Italia.
Nulla a che vedere, in sostanza, con quanto predicato dai giudici sull’atto politico: in base all’art. 78 Cost., l’unico atto politico ammissibile per legittimare condotte di offesa è la deliberazione parlamentare a seguito di uno “stato” di guerra altrui. Nient’altro.
D’altro canto, ulteriore conferma, ove ce ne fosse ancora bisogno, si deduce pure dalla vicenda della l. n. 25/1997, originariamente finalizzata a disciplinare i poteri del Ministero della Difesa, in funzione di qualsiasi deliberazione del Governo previamente approvata dal Parlamento, senza alcuna distinzione fra condotte di difesa od offesa conseguenti a tali atti parlamentari. La legge è stata successivamente abrogata dal d.lgs. n. 66/2010, presupponendo quella distinzione, non solo perché i poteri ministeriali non si raccordano più con l’art. 78 Cost., restando così nella normalità dello “stato di pace” e dei fini non offensivi ammessi in Costituzione, ma soprattutto perché quei poteri vengono separati dalle funzioni riguardanti la fornitura di materiali d’armamento, come si evince dall’art. 11 del nuovo testo normativo, che devono concretizzare solo condotte materiali di pace.
5. L’unicità costituzionale che sfugge alla giurisprudenza sull’atto politico
In ultima analisi, quello che sfugge clamorosamente alle pronunce richiamate è l’inquadramento del sistema delle fonti in tema di fornitura di materiali d’armamento.
Un sistema complesso, nel quale si intrecciano Costituzione e leggi, poteri amministrativi e autonomia contrattuale, diritto internazionale pubblico e privato, diritti umani e libertà dei popoli.
Tutt’altro che una “lacuna strutturale” di interessi e diritti, giustificativa del difetto assoluto di giurisdizione.
Un sistema di fonti unico nel panorama comparato, orientato esclusivamente al perseguimento della pace e al rifiuto dell’aggressione armata e dell’offesa alla libertà dei popoli.
Ben altro, in buona sostanza, rispetto al potere “libero nei fini”, fondativo dell’atto politico.
L’unicità, infatti, si radica nei seguenti pilastri costituzionali, fra loro integrati.
i. La Costituzione italiana è l’unica al mondo a includere, tra i suoi principi fondamentali inemendabili in quanto controlimiti a qualsiasi altra fonte, il ripudio della guerra (art. 11 Cost.), inteso come imperativo assiologico e teleologico, rivolto a tutti i poteri pubblici e privati senza ulteriori riserve di normazione, a differenza, per esempio, dell’art. 26, n. 2, della Legge fondamentale tedesca, dove invece si ammette la possibilità di fornire «armi destinate alla condotta di una guerra»[32].
- In ragione della pace e del rifiuto dell’offesa alla libertà di altri popoli, la sovranità dello Stato è limitata e, con essa, la stessa libertà dei suoi “fini” (cfr. Corte cost., sent. n. 183/1973).
- L’art. 78 Cost., nel subordinare i “poteri necessari” del Governo alla previa deliberazione parlamentare sullo stato di guerra, presuppone che, in mancanza di tale atto dichiarativo esplicito, l’Italia permanga strutturalmente in uno “stato di pace”, che ogni potere, a partire proprio da quello di governo, deve rispettare e garantire.
- L’art. 52, primo comma, Cost. nello stabilire che «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», rinuncia all’offesa come oggetto di un qualsivoglia dovere o potere, pubblico o privato che sia (cfr. Corte cost., sentt. n. 53/1967).
- Questa opzione pacifista e di non offesa viene confermata dalla l. n. 848/1957, la quale, dando esecuzione allo Statuto ONU, impone allo Stato italiano di agire sempre e solo con mezzi pacifici nelle controversie internazionali (art. 2 n. 3) e di astenersi da operazioni che si traducano in minaccia e uso della forza (art. 2 n. 4), tant’è da essere stata rubricata dalla Corte costituzionale applicativa dell’art. 11 Cost. (sent. n. 238/2014).
L’integrazione di questi pilastri, poi, è dettagliata dalla l. n. 185/1990, proprio per la disciplina del potere di fornitura di materiali d’armamento.
Prima di questa legge, non esisteva una normativa di riferimento e di raccordo con l’art. 11 Cost. e la tutela dei diritti, tant’è che, su questa lacuna, si impiantò un giudizio davanti alla Commissione europea dei diritti umani (caso “Tugar c. Italia”, ricorso n. 22896/93), dichiarato inammissibile ma dopo aver precisato che il potere di fornitura di materiali d’armamento (in quel caso, si trattava di mine) deve comunque rispettare i diritti CEDU[33].
Adesso, la nuova fonte regolamenta in modo organico e vincolante le operazioni di esportazione, importazione e transito di qualsiasi componente d’armamento, sottraendole alle relazioni internazionali, per rubricarle invece come contratti soggiacenti, al pari di qualsiasi altro contratto italiano, pubblico o privato, alla Costituzione, ai suoi fini di ripudio della guerra e dell’offesa della libertà altrui: in pratica, l’esatto contrario del costrutto “creato” dalla giurisprudenza sull’atto politico.
Nello specifico, la legge, già a partire dall’art. 1:
- si dichiara espressamente attuativa del ripudio della guerra sancito dall’art. 11 Cost.;
- impone obblighi di mezzi e risultati a tutti gli attori pubblici e privati coinvolti nelle operazioni negoziali, dalla fase precontrattuale alla destinazione finale del materiale d’armamento;
- scandisce limiti e divieti, direttamente fondati sulla Costituzione e sugli obblighi internazionali dell’Italia;
- introduce un principio di trasparenza e controllo democratico, anche mediante relazioni periodiche al Parlamento;
- prevede la riconversione industriale a fini civili delle industrie belliche;
- introduce meccanismi anti-elusione delle finalità costituzionali, come l’obbligo di identificazione del contraente estero e la tracciabilità della destinazione finale dei materiali d’armamento;
- dispone divieti tassativi all’autonomia privata, proibendo qualsiasi operazione negoziale che contrasti con il fine costituzionale della pace, persino quando la stessa autonomia risulti delocalizzata all’estero;
- impone l’obbligo di verifica e rendicontazione costane sulla destinazione finale delle forniture;
- adotta un approccio precauzionale del potere, in caso di mero rischio di offesa alle libertà altrui;
- ammette, sempre per precauzione, la sospensione o revoca dell’esercizio del potere di fornitura di materiali d’armamento, pur di garantire il primato non negoziabile dell’art. 11 Cost.
Sostanzialmente, il sistema delle fonti italiane orbita in un campo diametralmente opposto alle false rappresentazioni della realtà, offerte dalle citate pronunce giurisprudenziali, arroccate sull’insindacabilità del potere “libero nel fine”.
La fornitura di materiale d’armamento non appartiene alla “materia” delle relazioni internazionali[34]. Costituisce oggetto di relazioni contrattuali dentro fini e mezzi pacifisti nella «risoluzione delle controversie internazionali».
I titolari di queste relazioni non vengono riconosciuti dall’ordinamento come autorità “politiche”, bensì semplicemente come “contraenti” (inclusi gli Stati).
I loro atti non sono mai individuati come “politici”, perché sempre amministrativi (autorizzazione, vigilanza, sospensione, revoca) o privati (trattative, contratti, obbligazioni, adempimenti), tutti costantemente limitati dalla Costituzione.
Uso e destinazione degli armamenti non sono affatto “liberi”, in quanto sottoposti a divieti, vincoli e limiti di fondamento legale, e neppure insindacabili nei loro “fini”, perché comunque proiettati sul fine del “ripudio” della guerra e dell’offesa alla libertà degli altri popoli.
In questa cornice di diritto positivo, la tesi, di “creazione” giurisprudenziale, che «l’art. 11 della Costituzione si rivolge allo Stato (l’Italia) dovendosene quindi escludere la diretta azionabilità», si palesa totalmente arbitraria. Avrebbe mantenuto qualche margine di plausibilità, ove effettivamente la fornitura di materiali d’armamento fosse stata assegnata, da una qualche fonte del diritto italiano, alla “materia” delle relazioni internazionali.
Però, così non è stato. La l. n. 185/1990 riconduce le operazioni di fornitura alle obbligazioni contrattuali internazionali di attuazione di fini costituzionali. A seguito di questa opzione contrattuale, l’art. 11 Cost., da “oggetto” nella disponibilità della politica “libera nei fini” (come vorrebbero le pronunce citate), assurge a “parametro” dei poteri pubblici e privati di contrattazione, al pari della «norma di applicazione necessaria» sui contratti internazionali comuni, ammessa dal diritto internazionale privato con l’art. 17 della l. n. 218/1995 («È fatta salva la prevalenza … delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera»)[35].
6. L’espunzione, dal panorama cognitivo del giudice italiano, dell’art 15 CEDU
Del resto, che l’art. 11 Cost. risulti pacificamente giustiziabile, per sindacare i poteri di fornitura di materiale d’armamento affinché non siano di offesa alla libertà di altri popoli, è deducibile anche dal citato art. 15 CEDU, totalmente espunto dalla cognizione giudiziale sull’atto politico.
Come l’art. 78 Cost., per legittimare la deroga all’art. 11 Cost., richiede un’esplicita deliberazione parlamentare di accertamento dello stato di guerra, così l’art. 15 CEDU, per legittimare la deroga ai diritti e alla giustiziabilità, presuppone accertamenti di “stato”.
Detto in altri termini, in base a questa disposizione interposta alle leggi italiane, in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., solo la guerra e la minaccia alla vita della nazione possono indurre a derogare al sindacato giudiziale sui poteri, esercitati al suo interno. La “materia” delle relazioni internazionali è totalmente estromessa. Non solo: se c’è un principio affermato con chiarezza dalla giurisprudenza CEDU sull’art. 15, è quello secondo cui la deroga non può estendersi al di fuori del territorio interessato[36]: l’opposto del costrutto dei giudici italiani. Per questi ultimi, la “materia” delle relazioni internazionali consentirebbe qualsiasi condotta materiale di offesa della libertà dei popoli al di fuori dei confini nazionali. Per la Corte di Strasburgo, una siffatta spropositata estensione risulta inconcepibile persino nel previo ricorso all’art. 15 CEDU.
Del resto, la stessa deroga, invece di abilitare atti liberi nel fine e non giustiziabili, impone comunque che le «misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale».
Il che implica che anche i poteri in deroga rimangono pur sempre limitati. Lo stesso atto politico del derogare, lasciato al margine di apprezzamento di ciascuno Stato, soggiace a vincoli procedurali di informazione e al sindacato giurisdizionale di proporzionalità e di “necessarietà”, ossia di valutazione del “fine” perseguito, evidentemente tutt’altro che “libero” ancorché “politico”[37]: fine che resta comunque di “protezione” dei diritti nella convivenza pacifica, non certo, invece, di giustificata “violazione” nell’offesa coperta dalla deroga (cfr. casi “Kavala c. Turchia”, ricorso n. 28749/18, e “Mehmet Hasan Altan c. Turchia”, ricorso n. 13237/17).
7. Dall’atto amministrativo sindacabile alle nullità dei contratti
Concludendo, la rappresentazione del potere di fornitura di materiali d’armamento, come derivato delle relazioni internazionali “libere nel fine”, non rintraccia alcun fondamento costituzionale. All’opposto, quel potere proprio in Costituzione individua tre vincoli ineludibili: il primo di tipo assiologico (il ripudio della guerra), il secondo di contenuto materiale (non assumere condotte di offesa della libertà di altri popoli), il terzo di natura procedimentale (soggiacere ai procedimenti amministrativi della l. n. 185/1990 e non debordare nei poteri, se non alle condizioni poste dall’ artt. 78 Cost. e, per il tramite dell’art. 117, primo comma Cost., dall’art. 15 CEDU).
Il potere pubblico di fornitura di materiali d’armamento consiste nell’autorizzazione, vigilanza, sospensione e revoca sulle condotte materiali conseguenti, mai offensive della libertà altrui. Si tratta, pertanto, di un normalissimo potere amministrativo, definito nei dettagli dalla legge ed espressamente sottratto alla “libertà dei fini” del potere politico e ancor meno devoluto alla “materia” delle relazioni internazionali.
Il potere privato di fornitura di materiali d’armamento si manifesta in un’autonomia contrattuale internazionale condizionata dal potere pubblico, vincolata nel procedimento e limitata nei contenuti di disponibilità negoziale.
Ne deriva che, se l’atto del potere pubblico risulta pacificamente sindacabile dal giudice, in base ai vizi tracciabili secondo la l n. 241/1990, il contratto privato internazionale è denunciabile persino per nullità, ai sensi degli artt. 1418 e 1421 Cod. civ., ove in diretto contrasto con la Costituzione e con l’esclusione di qualsiasi condotta materiale di offesa alla libertà di altri popoli, in quanto «norme di applicazione necessaria» ex art. 17 l. n. 218/1995.
Per l’uno e per l’altro, non si verserebbe mai in una “lacuna strutturale”, priva di interessi o diritti meritevoli di tutela (a partire dal diritto alla pace ovvero a non essere offesi nelle proprie libertà, individuali e di popolo).
In particolare, poi, l’ipotesi di nullità dei contratti di fornitura di materiali d’armamento non si radicherebbe sulla semplice constatazione che qualsiasi espressione dell’autonomia privata soggiace a Costituzione, in particolare in virtù dell’art. 41 Cost. Per quanto pacifica, giacché ampiamente avallata dalla stessa giurisprudenza costituzionale (cfr., ex plurimis, sentenze nn. 85/2020, 302/2016, 56/ 2015, 247 e 152/2010, 167/2009), tale premessa non identifica, di per sé, la norma di “applicazione necessaria” ai contratti in questione.
Per questi ultimi, i parametri di “applicazione necessaria” sono richiamati dall’art. 1 della l. n. 185/1990 e coincidono primariamente con l’art. 11 Cost. e contemporaneamente con l’intero testo costituzionale ossia con un’acquisizione di sistema della Costituzione, non soggetta alla disponibilità contrattuale delle parti.
La conclusione è importante in ordine specialmente all’elezione della “lex fori” del contratto, su cui la l. n. 185/1990 tace. Questo significa che, nelle forniture di materiali d’armamento, la scelta della legge applicabile al contratto viene rimessa all’insindacabile libertà dei contraenti?
L’interrogativo è determinante, dato che una “lex fori” non italiana annacquerebbe la forza imperativa degli enunciati dell’art. 11 Cost. ancorché rubricabili tra le norme ad “applicazione necessaria”[38].
Una prima risposta, in senso contrario alla libera scelta, potrebbe arrivare dall’art. 4 della l. n. 218/1995, lì dove, al secondo comma, si ammette la deroga solo allorquando «la causa verte su diritti disponibili», per poi escluderla, al terzo comma, se il giudice non può «conoscere la causa», sicché si potrebbe sostenere che un giudice straniero non può certo conoscere dell’art. 11 Cost. come fonte di validità dei contratti e delle loro condotte, sottratte alla piena disponibilità delle parti ai sensi della l. n. 185/1990.
Un appiglio più consistente, però, è dato dall’art. 25, primo comma, Cost., sul giudice naturale precostituito per legge: qual è il giudice naturale delle condotte materiali italiane di offesa o meno alla libertà di altri popoli?
La disposizione costituzionale, nel prevedere che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, sancisce un principio identificativo dello Stato di diritto italiano che sovrasta qualsiasi autonomia privata.
Il nucleo essenziale della garanzia accordata risiede, come affermato dalla giurisprudenza costituzionale da sempre (Corte cost., sentt. nn. 29/1958, 1/1965, 274/1974, 508/1989, 42/1996, 272/1998, da ultimo n. 38/2025), in cinque requisiti di “precostituzione generale e astratta” del giudice, ovvero che
- sia una legge generale e astratta, non una legge provvedimento né una fonte ad hoc, a precostituire un ordine preciso di competenze a giudicare, non risultando sufficiente la sola generica predeterminazione legislativa a definire la competenza del giudice (da ultimo, Corte cost. sent. n. 28/2025), come evidentemente sarebbe, per i contratti internazionali, l’art. 4 n. 2 della l. n. 218/1995 nell’ammettere genericamente la “deroga alla giurisdizione”,
- i criteri di deroga alla giurisdizione operino «non già in vista di singole controversie» (Corte cost. sentt. nn. 29/1958 e 1/1965),
- tali criteri «siano sottratti a ogni apprezzamento discrezionale» (Corte cost. sentt. nn. 1/1965, 274/1974, 217/1993 e ord. n. 508/1989),
- tali criteri siano comunque funzionali ad «assicurare il rispetto di altri principi costituzionali» (Corte cost. sent. n. 1/1965),
- tali criteri non ledano «il diritto a una previa non dubbia conoscenza del giudice competente a decidere» (Corte cost. sentt. nn. 88/1962 e, da ultimo, 38/2025).
In sintesi, con l’art. 25, primo comma, Cost., si è in presenza, da un lato, di una chiara riserva di legge generale e astratta, e, dall’altro, di una norma di carattere organizzativo, non dipendente dalla discrezionalità (né – a maggior ragione – dall’autonomia privata), riflessa sul diritto fondamentale della persona a non essere distolto dal proprio giudice naturale e di poterlo conoscere preventivamente.
Non è detto che, nei contratti di fornitura di materiali d’armamento, i cinque requisiti di generalità e astrattezza risultino sempre pienamente soddisfatti.
Basti pensare, per tutti, alla segretezza che quasi sempre accompagna questi negozi giuridici, ostacolando, prima di tutto, la conoscenza pubblica della “lex fori”.
Ma prioritariamente è da dubitare che la libera scelta della legge straniera sia funzionale ad «assicurare il rispetto di altri principi costituzionali».
Né, a superamento di siffatto ostacolo, varrebbe l’evocazione della natura “internazionale” del contratto, giacché tale natura – anche ad equipararla addirittura a un trattato internazionale (per il fatto di avere come parte contraente o lo Stato straniero o comunque imprese dallo Stato straniero autorizzate) – permarrebbe subordinata alla Costituzione (nello specifico al primato gerarchico dell’art. 25, primo comma, della Cost.), in ragione di quanto previsto dall’art. 117, prima comma, Cost.
Dunque, il giudice naturale delle condotte materiali italiane di offesa o meno alla libertà di altri popoli e, di conseguenza, della validità dei contratti internazionali di fornitura di materiali d’armamento, che quelle condotte concretizzano, è sempre e unicamente quello italiano: clausole private di libera disposizione della “lex fori” si rivelerebbero nulle, per violazione della Costituzione e, nello specifico, degli artt. 25, primo comma, in combinato disposto con gli artt. 11 e 24 Cost.
8. L’incostituzionalità del Memorandum d’intesa e dell’Accordo di sicurezza fra Italia e Israele
Di fronte a questo quadro, le stesse leggi di disciplina di specifiche relazioni internazionali, come quelle tra Italia e Israele, non ostano alla giustiziabilità.
Invero, sia il Memorandum d’intesa che l’Accordo di sicurezza, precedentemente richiamati, sembrano finalizzati a istituire una sorta di stato di sospensione permanente della Costituzione italiana nei riguardi di qualsiasi rapporto giuridico, pubblico o privato, con Israele.
In particolare, l’Accordo di sicurezza presenta una struttura nomologica volta a tradurre in “informazione classificata” qualsivoglia fattispecie giuridica riconducibile ai due Stati. Così recita l’art. 1: «Il termine “Informazioni Classificate” indica qualsiasi tipo di informazione, documento, attrezzatura o materiale di qualsiasi natura che, nell’interesse di una o entrambe le Parti, è soggetto a classificazione di sicurezza, a prescindere dal mezzo di trasmissione (orale, elettronico, scritto o materiale)». L’enunciato imprime una volontà di massima inclusività semantica, rimessa al potere stesso delle parti: una semantica sfacciatamente autoreferenziale.
Come se non bastasse, inoltre, l’art. 4, n.1, provvede a definire la categoria giuridica della “classificazione”, procedendo all’elencazione di suoi contenuti: segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato.
Infine, la “classificazione” è attivabile indipendentemente dalla convergenza di interessi dei due Stati, in modo da poter insorgere a favore di Israele.
In conclusione, nei rapporti pubblici e privati italo-israeliani, tutto – dalle fonti alle situazioni soggettive – diventa “classificabile” ovvero segreto o riservato: anche i contratti di fornitura di materiale d’armamento, come si evince, del resto, dagli artt. 2 e 7 dell’Accordo medesimo.
C’è allora da chiedersi come questo tipo di normazione, esclusiva ed escludente, possa plausibilmente assurgere a “materia” di relazioni internazionali insindacabili e come possa legittimare l’insindacabilità dei poteri di fornitura di materiali d’armamento, nell’effettivo «rispetto delle norme e dei principi costituzionali», come vorrebbe la creativa giurisprudenza sul difetto assoluto di giurisdizione.
In realtà, quei due accordi (il Memorandum e l’Accordo di sicurezza), prima ancora che in conflitto con i principi costituzionali, che i segreti a semantica autoreferenziale non ammettono (come scandito dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 86/1977[39]), contravvengono all’art. 80 Cost.
La disposizione costituzionale, infatti, impone categoricamente la legge di ratifica per qualsiasi accordo che comporti, tra gli altri effetti, modificazioni di leggi[40]. L’onnicomprensiva “classificazione”, abilitata dall’Accordo di sicurezza, di per sé legittima modifiche tacite (rectius, segrete) di applicazioni legislative. Addirittura potrebbe farlo in (apparente) conformità con l’art. 117, primo comma, Cost., trattandosi comunque di accordo internazionale interposto rispetto alla legge ordinaria. Si pensi, per tutte, alla “classificazione” applicabile ai contratti. Essa potrebbe derogare all’art. 4 della l. n. 218/1995 sull’ostensione pubblica della lex fori; potrebbe derogare persino ai metodi e ai contenuti, richiesti dalla l. n. 185/1990.
La “classificazione” si ergerebbe a una sorta di fonte extra Constitutionem, con tutta evidenza pro Israele, non certo pro Italia, grazie a un Accordo non ratificato con legge.
Il tutto, poi, nell’indifferenza giurisprudenziale, ostinatamente ferma all’inquadramento dei poteri di fornitura di materiali d’armamento come “materia” delle relazioni internazionali, sottratta al sindacato giudiziale e alla tutela dei diritti.
Un bel controsenso, che è auspicabile faccia riflettere.
Nella revisione comune del testo, i primi tre paragrafi e l’ultimo sono stati scritti da Michele Carducci, gli altri da Anna Silvia Bruno.
[1] I primi richiami al tema si trovano nella monografia di L. Chieffi, Il valore costituzionale della pace tra decisioni dell’apparato e partecipazione popolare, Napoli, Liguori, 1990, ma non hanno poi costituito oggetto di indagine specifica tra i costituzionalisti.
[2] Gli interrogativi costituzionali sulla fornitura di armamenti all’Ucraina sono stati oggetto di numerosi interventi dottrinali all’interno della testata www.sidiblog.org, nella sezione “Conflitto Russia e Ucraina”. Si v. anche G. Pistorio, La cessione di armamenti alle Forze armate ucraine, tra interpretazioni costituzionalmente e internazionalmente conformi e (ir)regolarità costituzionali, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, La lettera n. 4/2022, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, e A. Morelli, La guerra in Ucraina: le questioni costituzionali in campo, in Ordine internazionale e diritti umani, 2023, 917-929. Altrettanto utili A. Mazzola, Il ripudio alla guerra sospeso tra crisi della democrazia interna e mutamento delle regole internazionali, A. Carminati, M. Frau, L’emersione del principio costituzionale di autorizzazione parlamentare degli interventi armati nei sistemi parlamentari e la sua elusione nel contesto italiano, e A. Latino, L’invio di armi all’Ucraina fra Costituzione e diritto internazionale, tutti e tre in DPCE online, Sp.-1/2024, rispettivamente 197-212, 639-658, e 693-710.
[3] Cfr. G. de Vergottini, Ripudio della guerra e neutralità alla luce dell’articolo. 11 Cost., in www.federalismi.it, 13 marzo 2024, e, più in generale, P. Bonetti, Difesa dello Stato e potere, in Enciclopedia del diritto, I tematici, Potere e Costituzione, Milano, Giuffrè, 2023, 56.
[4] Per un’analisi del parere, si v. N. Pedrazzi, Il parere della Corte internazionale di giustizia del 19 luglio 2024 sulle conseguenze giuridiche delle politiche e pratiche di Israele nel Territorio palestinese occupato, inclusa Gerusalemme est, in NAD. Nuovi Autoritarismi e Democrazie, 1, 2025, 341-353.
[5] I riscontri provengono da diverse fonti: i dati ISTAT sulla categoria merceologica “armi e munizioni”, importate ed esportate, ai sensi della classificazione Ateco 2007; le informazioni del Governo italiano, (cfr. Ministero della Difesa, L’Aeronautica Militare protagonista all’esercitazione multinazionale “Iniochos 25” - Aeronautica Militare, 11 aprile 2025); le informazioni israeliane (Iron Waves: Israel’s Missile Boat Flotilla in Action, in https://www.israeldefense.co.il/; The Israel Defense Forces (IDF) Official Website | IDF); le diverse testate giornalistiche come D. Facchini, Export di armi da guerra italiane a Israele dopo il 7 ottobre. La conferma delle Dogane; E. Brunelli, Armi e munizioni italiane in mano ai coloni nei Territori occupati; E. Brunelli, L’Italia ha inviato a Israele materiali chiave per esplosivi e armi nucleari, in Altreconomia, 22.05.2024, 01.01.2025, 01.07.2025, e Guardian: European missiles sold to Israel linked to Gaza strikes that killed children, in https://www.eunews.it/en/2025/07/17/.
[6] La Camera dei Deputati, com’è noto, ha respinto le mozioni di denuncia dei due accordi, nella seduta n. 513 del 17 luglio 2025.
[7] Come si evince da diversi atti parlamentari, in particolare: la risposta del Viceministro degli Affari esteri, Edmondo Cirielli, all’interrogazione n. 4-02518, presso la Camera dei Deputati, XIX Legislatura, Allegato B ai Resoconti della seduta del 1° luglio 2024, e soprattutto la risposta del Governo a interrogazione parlamentare immediata (5-03933), resa il 7 maggio 2025 alla Camera dei Deputati – Commissione Affari esteri e comunitari (Atto 491, pag. 129), dove testualmente si legge che «dal 7 ottobre 2023, il Governo italiano ha sospeso nuove autorizzazioni all’esportazione» – dunque non quelle esistenti – e ha «bloccato le nuove autorizzazioni di materiale bellico e le vendite di armi», oltre che la Relazione annuale al Parlamento, in tema di fornitura di materiali d’armamento.
[8] Oltre alla già cit. di L. Chieffi, si v. almeno le monografie di G. de Vergottini, Guerra e Costituzione. Nuovi conflitti e sfide della democrazia, Bologna, il Mulino, 2002, C. De Fiores, «L’Italia ripudia la guerra»?, Roma, Ediesse, 2002, A. Vedaschi, À la guerre comme à la guerre? La disciplina della guerra nel diritto costituzionale comparato, Torino, Giappichelli, 2007, M. Fiorilli, Guerra e diritto, Roma-Bari, Laterza, 2009, M. Benvenuti, Il principio del ripudio della guerra nell’ordinamento costituzionale italiano, Napoli, Jovene, 2010.
[9] Ricorda A. Algostino (Il senso forte della pace e gli effetti collaterali della guerra sulla democrazia, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, La lettera n. 4/2022, in www.associazionedeicostituzionalisti.it) che «il termine “ripudia” fu scelto dai costituenti, rispetto a “condanna” e “rinunzia”, perché più “energico”».
[10] Cfr. D. Girotto, Art. 78, in S. Bartole, R. Bin (dir.), Commentario breve alla Costituzione, seconda ed., Padova, Cedam, 2008, 716-722.
[11] Sul profilo richiamato, si v. G. Ferrari, Guerra (stato di), in Enciclopedia del Diritto, vol. XIX, Milano, Giuffrè, 1970, spec. 831-832, il quale testualmente così puntualizzava: «mentre negli artt. 78 e 87 si parla esattamente (…) di ‘stato di guerra’, in questo art.11, viceversa, è adoperata, altrettanto esattamente, l’espressione ‘guerra’. Il riferimento alla guerra-fatto, che va ben oltre la guerra-diritto, ci dice che il ripudio, da parte del popolo italiano, della guerra non ha confini, perché è il ripudio, non già di una concezione, di uno schema, di un istituto, di una definizione, ma di una realtà, di un ‘fatto’, in tutte le sue manifestazioni, dirette e indirette, formali e informali, nominate e innominate, scoperte e coperte», con l’effetto di considerare l’art. 11 Cost. rivolto tanto allo Stato-apparato quanto allo Stato-comunità.
[12] Cfr. G. Bascherini, Il dovere di difesa nell’esperienza costituzionale italiana, Napoli, Jovene, 2017.
[13] Quello che Antonio Papisca, con lungimirante acume, denominò “diritto umano alla pace”: cfr. A. Papisca, La pace come diritto umano fondamentale, in Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, 1, 1987, 37-43.
[14] La requisitoria può essere letta sul sito https://www.procuracassazione.it/ nonché in https://www.dirittointernazionaleagaza.org/.
[15] A partire dalle SS.UU. Corte cass. civ. sent. n. 19700/2010 in poi.
[16] Sul dibattito intorno ai diritti umani coinvolgenti beni universali di sopravvivenza, si v. A. Lupo, Il diritto alla sostenibilità climatica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2025.
[17] Sulla ricorrenza dei postulati nei ragionamenti giudiziali, cfr. E. Fittipaldi, Conoscenza giuridica ed errore. Saggio sullo statuto epistemologico degli asserti prodotti dalla dogmatica giuridica, Roma, Aracne, 2013.
[18] Sul tema dell’analogia, si v., come sintesi, le indicazioni di SS.UU. Corte cass. civ. n. 38596/2021.
[19] Cfr. A. Pace, Dai diritti del cittadino ai diritti fondamentali dell’uomo, in Rivista AIC, 2 luglio 2010.
[20] Sulla categoria della “lacuna strutturale”, si veda, in sintesi, L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti. Un dialogo tra filosofi e giuristi, in Diritto e questioni pubbliche, 14, 2014, spec. 133. Sul tema delle lacune e della tutela dei diritti nella clausola aperta dell’art. 2 Cost., cfr. A. Ruggeri, Lacune costituzionali, in Rivista AIC, 2, 2016, e A. Morelli, I diritti senza legge, in Consulta online, 1, 2015.
[21] Ci si riferisce al caso “Walęsa c. Polonia.”, ricorso n. 50849/21, su cui cfr. L. Acconciamessa, Nessuna “eccezione costituzionalmente giustificata” alla CEDU, in SIDI Blog, 8 marzo 2024.
[22] Sugli interrogativi costituzionali intorno al dogma dell’atto politico, si v. le tre monografie di A. Lollo, Atto politico e Costituzione, Napoli, Jovene, 2020, V. Giomi, L’atto politico e il suo giudice. Tra qualificazioni sostanziali e prospettive di tutela, Milano, Franco Angeli, 2023, L. Diotallevi, Atto politico e sindacato giurisdizionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2024, nonché, in prospettiva comparata, F.E. Grisostolo, L. Restuccia, L’insindacabilità degli atti del potere politico: quando “separazione dei poteri” e “tutela dei diritti” entrano in tensione, in DPCE online, Sp.-1/2025, 853-881.
[23] Sul tema, cfr. M. Nisticò, L'interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2015.
[24] Sul fenomeno dei poteri impliciti rispetto alla Costituzione, si v. Q. Camerlengo, Costituzione e poteri impliciti. Spunti di riflessione, in Rivista AIC, 1, 2025.
[25] Sull’inquadramento del commercio internazionale di armi come campo fenomenico al confine tra diritto pubblico e privato, internazionale e contrattuale, ma nella chiara opzione italiana per la dimensione contrattuale, si v. L. Zuccari, Il commercio di armi convenzionali nel diritto internazionale, Napoli, ESI, 2024, nonché i tre lavori di L. Sammartino, Strategic Litigation on International Arms Transfer: Assessing the Role of Domestic Courts, in DPCE on line, 2, 2025, 483-505 (dove l’art. 11 Cost. è qualificato “norma di riconsocimento”), I contratti di vendita internazionale di armamenti: questioni di diritto applicabile, in Diritto del Commercio Internazionale, 1 2023, 109-148, e La ricerca di regole applicabili al “commercio” internazionale di armi convenzionali, Roma, Aracne, 2021. Cfr. anche R. Palladino, Il controllo sulle esportazioni di armi in zone di conflitto, in Ordine internazionale e diritti umani, 2015, 1170-1187.
[26] Su questa impostazione della semiotica giuridica, cfr. R. Kevelson, Comparative Legal Cultures and Semiotics: An Introduction, in American Journal of Semiotics, 1(4), 1982, 63-84.
[27] Per una ricognizione critica dell’enunciato dell’art. 7, si v. G. De Giorgi Cezzi, Aboliamo l’art. 7 comma 1 del Codice del processo amministrativo?, in www.federalismi.it, 11, 2018.
[28] Su questo fenomeno, si rinvia a M. Carducci (a cura di), I mutamenti costituzionali informali come oggetto di comparazione, in Rivista DPCE, 4, 2009, 1643-1921.
[29] Cfr. A. Patroni Griffi, Art. 78, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, 1531-1544.
[30] Sull’insindacabilità dei “pieni poteri” nel periodo statutario, si v. M. Carducci, Controllo parlamentare e teorie costituzionali, Padova, Cedam, 1996, spec. 122.
[31] Cfr. P. Pinna, Guerra (stato di), in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. VIII, Torino, Utet, 1993, spec. 55.
[32] Sulle differenze tra Costituzione italiana e tedesca con riferimento alla pace e alla guerra, cfr. M.G. Losano, Le tre Costituzioni pacifiste, Frankfurt a. M., Max Planck Institute for European Legal History, 2020.
[33] Cfr. E. Corcione, La tutela dei diritti umani nelle catene globali del valore, Torino, Giappichelli, 2024, 130.
[34] Sulle relazioni internazionali come “materia” non estensibile (e non confondibile con i contratti), oltre che separata dall’art. 11 Cost., cfr. il dibattito in V. Lippolis (a cura di), Costituzione e relazioni internazionali, in Quaderno 2022 de Il Filangieri, 2022.
[35] Sull’art. 11 Cost. come norma prescrittiva e imperativa, si v., in particolare, F. Sorrentino, Riflessioni su guerra e pace tra diritto internazionale e diritto interno, in Rivista di Diritto Costituzionale, 2004, 153-168, e M. Dogliani, M. Sicardi (cur.), Diritti umani e uso della forza. Profili di diritto costituzionale interno e internazionale, Torino, Giappichelli, 1999.
[36] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Guida sull’articolo 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Deroga in caso di stato d’urgenza, trad. it., Strasburgo, 2019.
[37] Cfr. la c.d. “causa greca”, affrontata dalla Commissione europea dei diritti umani con il suo Rapporto del 1969.
[38] Si pensi, tra l’altro, alla pronuncia delle SS.UU. Corte cass. civ. n. 3841/2007, ripresa successivamente (ord. n. 19490/2023), in base alla quale «in tema di diritto internazionale privato, l’eventuale presenza, in una determinata fattispecie, di norme di applicazione necessaria – ossia di norme della “lex fori” operanti come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto – non incide sul diverso problema dell’individuazione dei criteri dai quali dipende la competenza giurisdizionale, giacché la determinazione della giurisdizione precede sul piano logico quella della legge applicabile, non potendosi del resto presumere che la futura pronuncia del giudice straniero si porrà in concreto contrasto con la norma italiana di ordine pubblico».
[39] Nella sent. n. 86/1977, la Consulta ebbe modo di chiarire che gli interessi che giustificano il segreto «devono attenere allo Stato-comunità e, di conseguenza, rimangono nettamente distinti da quelli del Governo e dei partiti che lo sorreggono».
[40] In sintesi, cfr. F. Ghera, Art. 80, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Torino, Utet, 2006, 1559-1578.
Immagine: Dietmar Rabich / Wikimedia Commons / “Dülmen, Kirchspiel, ehem. Sondermunitionslager Visbeck, Beobachtungsturm der US Army -- 2022 -- 4452” / CC BY-SA 4.0.