Testo rielaborato ed ampliato dell’intervento svolto nella tavola rotonda su “I diritti negati “ il 10 ottobre 2025, nell’ambito del Congresso di Area Democratica per la Giustizia che ha avuto luogo a Genova il 10-12 ottobre 2025.
1. La crisi in cui questo Congresso si svolge può forse definirsi come la più drammatica nella storia recente della magistratura italiana e di tutte le istituzioni democratiche.
La violenza di due guerre non lontane dai nostri confini ci ha consegnato fino a ieri immagini di morti, di bambini disperati, di persone affamate che tendevano una ciotola per avere un po' di cibo, di migrazioni di massa verso destinazioni sconosciute e impossibili, di potenti della terra occupati a spartirsi territori del mondo.
Nel circuito impazzito della democrazia che è sotto i nostri occhi una politica cattivista si fa promotrice di un cambiamento fatto di diritti negati, di porti chiusi, di riduzione delle persone a corpi, di infanzia violata, di rimozione di ogni seria politica di genere, di repressione di qualsiasi possibile dissenso, di creazione di nuovi reati privi di pericolosità, in un approccio panpenalista di chiara matrice populista.
Emergono nella realtà dei nostri giorni nuove diseguaglianze, accentuate dalla mancanza di servizi sociali, da moltiplicate povertà, dalla precarietà del lavoro, dal rifiuto del diverso e del migrante, dal riaffermarsi di atteggiamenti culturali di spiccata tendenza sessista, da una concezione patriarcale dei rapporti tra i generi, sulla quale alligna la cultura della violenza fisica e della sopraffazione morale delle donne.
Il tema della sicurezza è divenuto una sorta di brand pubblicitario, secondo la definizione di Armando Spataro, che serve a giustificare qualsiasi violazione dei diritti fondamentali; l’ altro tema della paura, in particolare la paura degli immigrati, è anch’ esso entrato prepotentemente al centro dell’agenda politica, mentre appaiono desolatamente assenti le questioni della sicurezza sociale, del sostegno alle famiglie e alle persone in difficoltà, della sicurezza del lavoro, della salute, del benessere ambientale, della qualità della vita, della casa, della scuola e dell’ educazione affettiva.
Il Parlamento ha perso da tempo le sue prerogative di decisore politico e prima ancora di luogo di confronto e di sintesi tra opzioni diverse per assumere un ruolo subalterno al Governo, di ratifica di decisioni prese altrove, anche quando si tratta di modificare la Costituzione. Viene così a verificarsi una progressiva erosione dei presidi democratici attuata in forme subdole e non sempre riconoscibili.
Viviamo una stagione segnata da una continua lesione dei diritti fondamentali della persona: siamo sospesi in una sorta di limbo fatto di diritti negati o resi ineffettivi, perché le generose aperture della Corte costituzionale, anche attraverso l’ elaborazione di strumenti decisori innovativi, non trovano riscontro e completamento nelle scelte del potere politico, che anzi vive ogni intervento giurisdizionale a tutela dei diritti come un inaccettabile attentato all’ autonomia degli altri poteri, mentre gli obblighi che derivano dai vincoli internazionali e sovranazionali sono vissuti con fastidio o del tutto ignorati.
2. Sono molti i diritti fondamentali che attendono da anni di essere riconosciuti e garantiti, in evidente spregio degli insistiti richiami della Consulta, diritti che è compito dei magistrati tutelare, senza il timore di liste di proscrizione. Procedo ad una loro rapida e non esaustiva elencazione.
A. C’è da completare la disciplina del cognome dei figli nati nel e fuori dal matrimonio, attraverso una legge che realizzi pienamente il principio costituzionale di parità tra i genitori ed elimini ogni traccia di quella storica, orribile discriminazione delle donne, forse la più arretrata in ambito europeo. Come è noto, la sentenza n. 286 del 2016 della Corte Costituzionale - una sentenza per certi aspetti dirompente, nonostante la sua portata limitata - nel dichiarare l’ incostituzionalità della norma non espressa, ma desumibile dal sistema, che non consentiva ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno, ritenne indifferibile un intervento legislativo che disciplinasse organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità tra i genitori, in tutti gli aspetti non coperti dalla pronuncia di incostituzionalità. Successivamente, la sentenza n. 131 del 27 aprile 2022 della stessa Corte delle leggi segnò una vera svolta rispetto al regime precedente dichiarando l’incostituzionalità dell’intero sistema di attribuzione del cognome. In motivazione la Corte definì impellente un intervento del legislatore che dettasse una disciplina coerente ed organica, evitando anche meccanismi moltiplicatori nel succedersi delle generazioni e tutelando l’interesse del figlio a non vedersi attribuire un cognome diverso rispetto a quello dei fratelli e delle sorelle.
Da allora sono passati inutilmente più di 3 anni senza che il Parlamento rispondesse ai pressanti inviti della Consulta a colmare le non poche lacune conseguenti ai suoi interventi.
Attualmente sono all’ esame delle Camere ben nove progetti e disegni di legge, ma l’iter parlamentare sembra ancora ben lontano dalla conclusione.
B. Va disciplinata la condizione dei bambini nati da maternità surrogata. Nonostante i reiterati inviti della Corte Costituzionale ad affrontare il tema, il Parlamento non è stato capace di far altro che configurare una sorta di reato universale, estendendo con la legge n. 169 del 2024 la punibilità della gestazione per altri al caso di surrogazione commessa all’ estero da cittadini italiani, peraltro bypassando disinvoltamente il principio della doppia incriminazione. Questa scelta, di chiara ispirazione propagandistica e di evidente matrice ideologica, adottata nel tripudio generale delle forze di governo, dimostra in modo plateale e con rara finezza l’incapacità della classe politica di distinguere il piano della illiceità penale della condotta degli adulti, che non è in discussione, dal rispetto della vita vera, la quale esige un principio ordinativo nei confronti dei bambini che per effetto di tale pratica sono comunque venuti al mondo e che reclamano uno status, quello stato giuridico di cui l’ art. 315 c.c. ha previsto inequivocabilmente l’ unicità.
C. Va altresì delineato in via legislativa il procedimento per la conoscenza delle proprie origini. Come è noto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 18 novembre 2013 aveva dichiarato l’ incostituzionalità dell’ art. 28, comma 7, della legge n. 184 del 1983 nella parte in cui non prevedeva, attraverso un procedimento stabilito dalla legge idoneo ad assicurare la massima riservatezza, la possibilità per il giudice di interpellare la madre che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e aveva demandato al legislatore il compito di introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’ anonimato. Con sentenza n. 1946 del 25 gennaio 2017 le Sezioni Unite, a distanza di oltre 3 anni dalla pronuncia della Consulta, hanno affermato che la norma dichiarata incostituzionale non poteva più trovare applicazione, onde non era più possibile negare a priori al figlio l’ accesso alle informazioni sulle sue origini in forza di un vincolo non più assoluto e immodificabile, ma che il mancato intervento del legislatore nella regolazione del procedimento di interpello non esonerava gli organi giurisdizionali dall’ applicazione diretta dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale ed imponeva di interpellare la madre ai fini di una eventuale revoca della precedente dichiarazione, reperendo sussidiariamente nel sistema le regole più idonee ed adottando modalità procedimentali capaci di assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna.
Sono trascorsi da allora quasi 9 anni ed il Parlamento non è stato in grado di offrire soluzioni normative idonee alla composizione degli interessi in gioco.
D. Ed ancora in materia di fine vita le importanti decisioni della Corte Costituzionale che entro determinati limiti hanno sancito la non punibilità del suicidio assistito attendono di essere integrate da scelte politiche di competenza del legislatore. Spetta invero ai nostri rappresentanti politici individuare - completando il disegno con il quale la Consulta, con l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019, e poi con le sentenze n. 135 del 2024 e n. 66 del 2025, ha fornito una solida, ma incompleta intelaiatura di una futura legge - un punto di equilibrio tra i vari interessi coinvolti e disciplinare in modo dettagliato l’ambito di liceità dell’aiuto al suicidio. È allora innanzi tutto necessario che in sede parlamentare si definisca la posizione giuridica del soggetto richiedente, ossia che si precisi se nelle situazioni date sia configurabile un diritto soggettivo ad essere aiutati a morire. Di un diritto siffatto nelle motivazioni del giudice delle leggi non vi è menzione, ed anzi pare doversi escludere l’esistenza, parlando esse solo di richiesta di aiuto e lasciando al medico la facoltà di esaudirla, così sembrando voler ridurre la possibilità di morire in modo conforme alle proprie scelte individuali tramite aiuto di terzi a mera libertà di esprimere una istanza non vincolante. È inoltre necessario che il Parlamento stabilisca se le quattro condizioni che nella pronuncia della Corte Costituzionale fissano il perimetro all’ interno del quale si legittima la richiesta di aiuto a morire siano tassative o se costituiscano solo un punto di partenza per ulteriori aperture; in detto ambito dovranno anche fornirsi elementi di chiarezza sul concetto di trattamenti di sostegno vitale. È necessario altresì, ferma la possibile individuazione di garanzie sostanzialmente equivalenti, che sia puntualmente articolata la procedura da seguire, soprattutto in relazione all’ intervento ed al potere di controllo di un organismo terzo e all’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario, sommariamente evocati dalla Corte. È ancora importante che sia dettata una disciplina per le fattispecie precedenti la pronuncia del giudice delle leggi, che non possono essere affidate alla discrezionalità dei singoli giudici, stante l’evidente inapplicabilità al pregresso dell’iter configurato dalla Consulta.
Il testo unificato di vari disegni di legge attualmente all’ esame delle Commissioni Giustizia e Sanità del Senato, relatori Zanettin e Zullo, sembra purtroppo del tutto disallineato rispetto alle indicazioni della Consulta.
Va ricordato che di recente sono state intraprese varie iniziative a livello regionale dirette a disciplinare la materia, anticipando i tempi lunghi del Parlamento, e che anzi la Regione Toscana, ed ora anche la Regione Sardegna, si sono date una propria legge. Pur apprezzando lo spirito che anima dette iniziative e pur riconoscendo il ruolo propulsivo che esse possono svolgere nei confronti del legislatore statale, non ritengo percorribile una strada siffatta. La materia di cui si tratta è riservata alla legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. l della Costituzione ), senza che vi sia spazio per alcuna legittimazione concorrente delle Regioni: spetta unicamente al legislatore nazionale dettare disposizioni su un tema che interseca diritti personalissimi dell’ individuo, applicabili a tutti i cittadini, mentre la legislazione regionale potrà successivamente apprestare una disciplina di dettaglio limitatamente alla fase organizzativa del servizio.
Resta altresì la necessità di una normativa diretta a disciplinare la situazione di chi, pur trovandosi nelle condizioni richieste dalla Corte Costituzionale per rendere non punibile l’aiuto al suicidio, non è in grado di togliersi la vita da solo, per essere privo anche di quel minimo di autonomia che gli consentirebbe - premendo quel pulsante o iniettandosi quel farmaco - di percorrere l’ultimo tratto del cammino verso la morte. L’ esigenza di un intervento del legislatore in tale direzione, da porre in essere con autentico spirito laico, lontano da steccati ideologici e da posizioni preconcette, appare ancor più pressante dopo la recente sentenza della Consulta n. 132 del 2025 che ha dichiarato inammissibili le proposte questioni di incostituzionalità dell’art. 579 c.p.
E. Ed ancora non può non ricordarsi che un’ importante apertura in tema di diritti della persona è stata operata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 26 gennaio 2024 sul diritto alla affettività intramuraria dei detenuti, una sentenza destinata a rimanere negli annali della giurisprudenza costituzionale, nella quale è stata evidenziata la necessità che gli istituti di pena diano da subito attuazione a tale diritto predisponendo locali adeguati, in attesa di una legge che disciplini luoghi, tempi e modalità dell’ esercizio di esso. Il tenace ostruzionismo frapposto dalle forze di governo al rispetto delle prescrizioni contenute in detta pronuncia - tanto che le relative linee guida sono state emesse dal DAP solo l’11 aprile 2025, dopo vari interventi dei magistrati di sorveglianza - conferma una volta di più quanto lungo sia il cammino per il riconoscimento e per l’ effettività dei diritti delle persone e quanto sia lontano dalla sensibilità di chi governa il senso del limite che i diritti umani inviolabili impongono alla signoria della pretesa punitiva.
F. Penso infine alla legge n. 40 del 2004 in tema di procreazione medicalmente assistita, una legge chiaramente segnata da una marcata ideologia, ormai ridotta ad un contenitore di pochi residui divieti grazie all’ opera demolitoria della Corte Costituzionale, che richiede una riscrittura che tenga conto dei grandi cambiamenti sul piano culturale che hanno investito negli ultimi anni la famiglia, i rapporti tra i suoi componenti ed il concetto di genitorialità. Mi limito in questa sede a richiamare la recente sentenza n. 68 del 22 maggio 2025 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’ illegittimità costituzionale dell’ art. 8 della legge n. 40 nella parte in cui non prevedeva che anche il nato in Italia da donna che abbia fatto ricorso all’ estero, in osservanza delle norme ivi vigenti, a tecniche di procreazione medicalmente assistita ha lo stato di figlio riconosciuto pure dalla donna che abbia espresso il preventivo consenso al ricorso a dette tecniche e alla correlata assunzione di responsabilità genitoriale. Si tratta di una decisione di grande rilievo, destinata a porre fine alle molte incertezze e a superare le diverse prassi degli ufficiali dello stato civile nella redazione di atti di nascita di minori figli, in tesi, di due donne. È importante sottolineare la centralità del passaggio argomentativo in cui la Consulta ha posto a fondamento del legame genitoriale la responsabilità assunta con il consenso al progetto procreativo, così superando la logica biologistica in favore di una concezione relazionale e volontaristica della genitorialità.
Segnalo altresì che con sentenza n. 15075 del 5 giugno 2025 , di pochi giorni successiva alla decisione della Consulta, la Cassazione, in applicazione dei principi in essa espressi e dissociandosi dai propri precedenti, ha riconosciuto la fondatezza della pretesa delle due madri.
Né appare possibile ravvisare una divergenza tra la richiamata pronuncia della Corte delle leggi e la sentenza della Corte EDU che proprio ieri 9 ottobre ha affermato che l’ Italia non ha violato la Convenzione quando ha annullato l’ iscrizione anagrafica della madre intenzionale nell’atto di nascita di un bambino nato in Italia nel 2018, atteso che detta decisione si riferisce ad eventi verificatisi quando la normativa italiana non consentiva la registrazione delle due madri.
Il Parlamento dovrà pertanto darsi carico di rendere effettivo il diritto alla doppia maternità affermato dalla Consulta dettando una normativa che dia piena tutela alle famiglie omogenitoriali.
3. A fronte di tante assenze del legislatore, del prevalere di politiche sociali discriminatorie anche all’ interno della famiglia e di ideologie lesive dei diritti dei più deboli, del prorompere di nuovi sovranismi e populismi, spetta alla giurisdizione svolgere un ruolo essenziale nella promozione e nella tutela dei diritti fondamentali, ponendosi come scudo per il cittadino, come cerniera attiva tra la vita e il diritto e come sentinella a difesa delle conquiste del passato, nella consapevolezza che i diritti calpestati, come ricordava Stefano Rodotà, sono lo specchio e la misura dell’ ingiustizia.
La politica alza barricate denunciando lo strapotere dei giudici e l’abuso del loro ruolo di supplenza, con il progressivo indebolimento per tale via della funzione legislativa. Ma la politica dimentica che il rapporto tra sentenza e norma non è di rottura, ma di sviluppo del senso e della funzione che la norma trova nella sentenza, e che lì dove la norma manca il giudice ha il dovere di desumerla dai principi costituzionali e dalle fonti sovranazionali. E questo non è fare politica, ma svolgere fino in fondo la funzione che la Costituzione assegna al giudice. Ed è proprio la latitanza della rappresentanza politica su tanti fronti che attengono ad aspetti cruciali della vita delle persone a determinare la crescente richiesta di tutela giurisdizionale e la conseguente doverosità della risposta di giustizia: per tale via la voce della giurisdizione si pone come strumento essenziale per riequilibrare il piano inclinato dei diritti ed arrestare il processo in atto di erosione delle regole della democrazia.
Il prezzo da pagare per questo impegno sarà molto alto: la sistematica delegittimazione, gli attacchi all’ indipendenza, le accuse di protagonismo, il ricorso ad incaute azioni disciplinari. Ma io credo che in difesa della Costituzione e della autonomia e indipendenza della magistratura non si possa arretrare di un passo, pena la perdita di ogni dignità professionale, così come credo che la salvaguardia dei valori universali sui quali si fonda la giurisdizione costituisca il miglior viatico per contrastare la deriva autoritaria populista che ci sovrasta.
*Testo rielaborato ed ampliato dell’intervento svolto nella tavola rotonda su “I diritti negati “ nell’ambito del Congresso di Area Democratica per la Giustizia che ha avuto luogo a Genova il 10-12 ottobre 2025