Diritto dell’Unione europea e tradizioni costituzionali nel dialogo tra le Corti
di Franco De Stefano- parte prima*
Sommario: 1. Premessa metodologica. - 2. Le tradizioni costituzionali, comuni e nazionali, degli Stati membri dell’U.E. - 3. Il primato del diritto eurounitario negli ultimi interventi della Corte di Giustizia - 4. Il conflitto tra norma eurounitaria e principio fondamentale nazionale: le tradizioni costituzionali come momento di pluralismo dialettico. - 5. Il caso Taricco-bis: la richiesta italiana. - 6. Il caso Taricco-bis: la risposta di Lussemburgo e l’epilogo. - 7. Le tradizioni costituzionali del singolo Stato membro ed il diritto dell’Unione.
1 Premessa metodologica.
Per uno sguardo d’insieme, necessariamente sommario, dal punto di vista del giudice comune, quand’anche di legittimità, pare necessario soffermarcisi su due tematiche: il conflitto tra norma europea e principio fondamentale interno e la c.d. doppia pregiudizialità (eurounitaria e costituzionale interna).
Per gli intrinseci limiti del presente intervento, dovrà qui bastare una mera impostazione del problema che quelle tematiche pongono e ad entrambe va premessa una duplice considerazioni.
Non è questa la sede per la compiuta disamina della ricca problematica della reciproca interazione tra le Carte (la Costituzione nazionale, la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione[1]).
Basti qui osservare – ma occorre averlo per postulato – che il rinvio della Carta (di cui al terzo comma dell’art. 53) al significato ed alla portata dei diritti fondamentali corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – impregiudicata una protezione ancora più estesa – comporta l’immediata applicazione dei principi sul punto elaborati dall’unica interprete di quella Convenzione e cioè della Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Il campo di applicazione, anche con riferimento al campo di concreta o pratica applicazione dell’istituto delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, è stato finora soprattutto quello del giusto processo e, v’è da dire, principalmente di quello penale.
Ma nella giurisprudenza di Strasburgo è evidente ormai la crescente attenzione anche ai diritti civili e non solo tra privati e Stato, ma pure direttamente tra privati[2], come pure al giusto processo civile[3]: e la Corte di cassazione si sta di recente focalizzando anche sul giusto processo civile di legittimità.
Insomma, i diritti fondamentali, nella loro declinazione più ampia e idonea ad interferire positivamente con la vita quotidiana di ogni cittadino dell’Unione, conquistano di giorno in giorno, in un sistema multilivello nel quale è importante che i singoli agenti cooperino per ampliare o garantire quella protezione anziché litigare col risultato di indebolirla o vanificarla, uno spazio sempre più importante: e si auspica che tanto possa contribuire a rinsaldare nella coscienza di ogni cittadino dell’Unione la sensibilità verso un’Istituzione che non si preoccupa più soltanto di aspetti burocratici e tecnici, ma della diretta gestione degli effettivi diritti fondamentali di ciascuno.
È un’occasione importante, soprattutto nell’attuale contesto: ed è doveroso coglierla.
2 Le tradizioni costituzionali, comuni e nazionali, degli Stati membri.
Le «tradizioni costituzionali» - non menzionate, se non presupposte nel preambolo[4], nella Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 04/11/1950 - degli Stati membri vengono in considerazione come sostrato materiale del diritto fondamentale dell’Unione europea da un duplice punto di vista:
- quando sono condivise dagli Stati membri, esse assurgono a fonte del contenuto di quelli che sono qualificati principi generali del diritto dell’Unione, cioè i diritti fondamentali garantiti da questo e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali;
- quando sono peculiari e proprie di uno Stato membro, esse sono erette a limite individualizzante per l’elaborazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione, poiché questo non può prescinderne, ma è chiamato a riconoscerle per quanto possibile.
Quanto al primo profilo, la nozione di «tradizioni costituzionali» assume l’attributo di «comuni» ed è generalmente ricondotta ad una clausola generale, di creazione pretoria – come si vedrà – ma infine oggetto di codificazione. Al riguardo, le fonti normative sono, ad oggi, almeno:
a) l’art. 6 del TUE, a norma del terzo comma del quale:
«I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali»;
b) l’art. 52, co. 4, della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e dopo una espressa menzione nel suo preambolo, a mente del quarto comma del quale: «Laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni».
Quanto al secondo profilo, ai fini che qui interessano meritano menzione altri testi normativi di rango eguale ai precedenti:
a) l’art. 4 del TUE, per il secondo comma del quale «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali»;
b) l’art. 67 del TFUE (ex articolo 61 del TCE ed ex articolo 29 del TUE), il cui primo comma recita «L’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri»;
c) lo stesso art. 52 della CDFUE (dopo l’esordio nel suo Preambolo), ove proclama (al co. 6) che «si tiene pienamente conto delle legislazioni e prassi nazionali, come specificato nella presente Carta».
È evidente come le due accezioni siano in reciproca tensione dialettica. Pur potendosi riferire a quella che, in prima approssimazione, può definirsi la «costituzione materiale» degli Stati membri (secondo quanto si evince dallo stesso art. 4, co. 2, TUE, che si riferisce alla loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali), esse rilevano diversamente a seconda che siano comuni o peculiari e proprie di un singolo Stato: nel primo caso rappresentano un elemento di convergenza idoneo a contribuire a fondare il diritto eurounitario e quindi lo stesso sistema ordinamentale sovranazionale; nel secondo fungono invece da elemento di preservazione, anche contro tale sistema, delle peculiarità dei singoli Stati membri e quindi in funzione antitetica alla tendenziale pervasiva supremazia del primo.
3 Il primato del diritto eurounitario negli ultimi interventi della Corte di Giustizia.
Si tratta di principi fondamentali del diritto eurounitario, consolidati fin dalla storica sentenza Simmenthal[5], ai quali deve bastare qui un richiamo, solo segnalandosi come anche di recente la Corte di giustizia sia intervenuta a puntualizzarli e ribadirli.
In una recente importante pronuncia[6], in particolare, premesso l’insopprimibile diritto dei singoli ad ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto dell’Unione imputabile a uno Stato membro[7], si è ricordato che, al fine di garantire l’effettività dell’insieme delle disposizioni del diritto dell’Unione, il principio del primato impone, in particolare, ai giudici nazionali di interpretare, per quanto possibile, il loro diritto interno in modo conforme al diritto dell’Unione; sicché quelli, ove non possano procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, hanno comunque l’obbligo di garantire la piena efficacia delle disposizioni di quest’ultimo, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, ogni disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale[8].
Pure rimarcando, quale connotato essenziale del diritto dell’Unione, che solo ad una sua parte può riconoscersi un effetto diretto, sicché non vige un regime unico di applicazione di tutte le disposizioni del diritto dell’Unione da parte dei giudici nazionali, la Corte ha sottolineato che l’obbligo di disapplicazione di tutte le disposizioni nazionali opera per quelle contrarie a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito; al contrario, una disposizione del diritto dell’Unione che sia priva di effetto diretto non può essere fatta valere, in quanto tale, nell’ambito di una controversia rientrante nel diritto dell’Unione, al fine di escludere l’applicazione di una disposizione di diritto nazionale ad essa contraria ed il giudice nazionale non è quindi tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del diritto nazionale incompatibile con una disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che sia priva di effetto diretto.
Pertanto, le disposizioni prive di effetto diretto, quali quelle di una direttiva - che di norma non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti dinanzi a un giudice nazionale[9] - la quale non sia sufficientemente chiara, precisa e incondizionata, non legittimano di per sé sole la disapplicazione di una disposizione nazionale ad opera di un giudice di uno Stato membro.
Tuttavia le disposizioni prive di effetto diretto, pur prive, come le decisioni quadro, di carattere vincolante se non per lo Stato membro, implicano in capo alle autorità nazionali un obbligo di interpretazione conforme del loro diritto interno a partire dalla data di scadenza del termine di recepimento, alla luce della lettera e dello scopo di quelle.
L’intero contesto è però caratterizzato da alcuni limiti: i principi generali del diritto, in particolare i principi di certezza del diritto e di irretroattività, ostano segnatamente a che detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che hanno commesso un reato; il principio di interpretazione conforme non può porsi a fondamento di un’interpretazione contra legem del diritto nazionale; in altri termini, l’obbligo di interpretazione conforme cessa quando il diritto nazionale non può ricevere un’applicazione tale da sfociare in un risultato compatibile con quello perseguito dalla normativa priva di effetto diretto di cui trattasi.
Al contrario, il principio d’interpretazione conforme esige che venga preso in considerazione il diritto interno e che vengano applicati i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della decisione quadro di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima; sicché quell’obbligo di interpretazione conforme impone ai giudici nazionali di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto interno incompatibile con gli scopi di una normativa eurounitaria priva di effetto diretto, e di disapplicare, di propria iniziativa, qualsiasi interpretazione accolta da un organo giurisdizionale superiore alla quale essi siano vincolati, ai sensi di tale disposizione nazionale, se detta interpretazione non è compatibile con detta normativa eurounitaria di cui trattasi[10].
In estrema sintesi[11]:
- il principio del primato del diritto dell’Unione sancisce la preminenza del diritto dell’Unione sul diritto degli Stati membri ed impone a tutte le istituzioni degli Stati membri di dare pieno effetto alle norme dell’Unione;
- il principio di interpretazione conforme del diritto interno, secondo il quale il giudice nazionale è tenuto a dare al diritto interno, per quanto possibile, un’interpretazione conforme ai requisiti del diritto dell’Unione, è inerente al sistema dei Trattati, in quanto consente al giudice nazionale di assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolve la controversia ad esso sottoposta;
- sempre in base al principio del primato, ove gli sia impossibile procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle medesime, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale;
- a tal riguardo, ogni giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi nell’ambito delle proprie competenze, ha, in quanto organo di uno Stato membro, più precisamente l’obbligo di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito;
- con riferimento all’articolo 47 della Carta, tale disposizione è sufficiente di per sé e non deve essere precisata mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale[12].
Ed ancora[13], in forza del principio del primato del diritto dell’Unioneil fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato[14].
Pertanto, il recepimento di una direttiva da parte degli Stati membri rientra ad ogni modo nella situazione, prevista dall’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui gli Stati membri attuano il diritto dell’Unione, in sede di recepimento deve essere raggiunto il livello di protezione dei diritti fondamentali previsto dalla Carta, indipendentemente dal margine di discrezionalità di cui gli Stati membri dispongono in occasione del recepimento.
Solamente qualora, in una situazione in cui l’operato degli Stati membri non è del tutto determinato dal diritto dell’Unione, una disposizione o un provvedimento nazionale attui tale diritto ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione.
Ed è allora conforme al diritto dell’Unione che i giudici e le autorità nazionali facciano dipendere tale applicazione dalla circostanza, evidenziata dal giudice del rinvio, che le disposizioni di una direttiva «lascino margini discrezionali per il loro recepimento nel diritto nazionale», a patto che detta circostanza sia intesa nel senso che essa riguarda il grado di armonizzazione operato da tali disposizioni, dato che una simile applicazione è ipotizzabile solo laddove le disposizioni in parola non operino un’armonizzazione completa.
In particolare[15], l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima, così come il loro dovere, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, si impongono a tutte le autorità degli Stati membri, comprese, nell’ambito della loro competenza, quelle giurisdizionali.
Pertanto, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo, per quanto più possibile, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima e conformarsi pertanto all’articolo 288, terzo comma, TFUE; e l’esigenza di un’interpretazione conforme include l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva.
4 Il conflitto tra norma eurounitaria e principi fondamentali nazionali: le tradizioni costituzionali come momento di pluralismo dialettico.
Una delle due accezioni di tradizione costituzionale, rilevante per il diritto eurounitario, è quella della tradizione non più comune, ma peculiare alla costituzione di un singolo Paese.
Soprattutto negli ultimi anni si è visto che non solo Paesi di più recente adesione, ma anche due tra i Paesi fondatori della Comunità economica hanno rimesso in dubbio i confini tra il diritto eurounitario e quello nazionale, rivendicando orgogliosamente gli spazi di quest’ultimo.
Nel caso Gauweiler[16], l’Avvocato generale ha potuto richiamare l’istituto delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, per esaltarne il ruolo, così esprimendosi: … la Corte opera già da molto tempo con la categoria delle «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri quando si tratta di trovare ispirazioni nella costruzione del sistema di valori sui quali è fondata l’Unione. In particolare, su tali tradizioni costituzionali comuni la Corte ha cercato, in via del tutto preferenziale, di fondare una propria cultura dei diritti, quella dei diritti dell’Unione. L’Unione ha acquisito in tal modo il carattere non solo di una comunità di diritto, ma anche di una «comunità di cultura costituzionale». Tale cultura costituzionale comune fa parte dell’identità comune dell’Unione, con l’importante conseguenza … che l’identità costituzionale di ciascuno Stato membro, certo dotata di caratteri specifici nella misura che occorra, non può - per dirla in termini prudenti - sentirsi a una distanza astronomica da detta cultura costituzionale comune. Al contrario, un bene inteso atteggiamento di apertura al diritto dell’Unione dovrebbe dare luogo, nel medio e lungo periodo, a una convergenza sostanziale, in linea di principio, tra l’identità costituzionale dell’Unione e quella di ciascuno degli Stati membri».
In linea di massima, un terreno di grande frizione tra l’ordinamento nazionale e quello eurounitario si è rivelato quello del principio del ne bis in idem in materia non soltanto penale, ma anche lato sensu sanzionatoria e soprattutto per il concorso di misure tradizionalmente penali ed altre, di pari carattere afflittivo, ma normalmente ammesse, quanto meno nel nostro ordinamento, in parallelo alle prime: sul punto non è possibile uno specifico ulteriore approfondimento, dovendo qui accontentarcisi di un rinvio generico alle numerose pronunce[17].
Il caso, però, in cui la tradizione nazionale di uno dei Paesi membri è stato prospettato come in inconciliabile conflitto col diritto eurounitario è senz’altro quello della nota vicenda Taricco (CGUE, Grande Camera, 08/09/2015 in causa C-105/14, Taricco) e relativo alla durata della prescrizione dei reati in danno delle risorse finanziarie dell’Unione, qualificata come eccessivamente contenuta da Lussemburgo e in tale accezione dichiarata però incompatibile con la tradizione costituzionale italiana, ma pure con quella comune ai Paesi di civil law dalla celeberrima Corte cost. n. 24 del 2017.
La «vicenda Taricco»[18] prende nome dalla sentenza della Corte di giustizia 8 settembre 2015, in c. Taricco, emanata in via pregiudiziale sulla interpretazione dell’art. 325, § 1-2, TFUE, relativamente alla prescrizione dei reati in materia di IVA. Il contenuto della sentenza europea ha indotto la Corte di cassazione e la Corte di appello di Milano a sollevare incidenti di costituzionalità.
La Corte costituzionale ha posto tre questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia, con ordinanza 23 novembre 2016-26 gennaio 2017, n.24. La Corte europea ha risposto con la sentenza 5 dicembre 2017, in causa M.A.S. e M.B. (indicata anche «Taricco 2» o «Taricco-bis»), a cui ha fatto seguito la sentenza della Corte cost. 10 aprile-31 maggio 2018, n. 115.
In estrema sintesi e dando atto della sterminata letteratura già maturata al riguardo, si può così ricostruire la vicenda (comunque riassunta già dalla richiamata ordinanza della nostra Consulta):
- nella propria sentenza del 2015 la CGUE, adita con rinvio pregiudiziale dal GUP di Cuneo, ha ritenuto che la normativa italiana in tema di prescrizione, impedendo, nei casi di frode grave in materia IVA, l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni agli autori del reato, a causa di un termine complessivo di prescrizione troppo breve, lede gli interessi finanziari dell’Unione tutelati dall’art. 325 TFUE, norma considerata dalla Corte di effetto diretto;
- pertanto, i giudici nazionali si sono trovati nella difficile situazione di dover scegliere se disapplicare la normativa italiana in tema di prescrizione, ove questa finisse per ledere gli interessi finanziari dell’Unione in casi di frode grave in materia di IVA, oppure continuare ad applicarla, considerandola una garanzia irrinunciabile, ma in questo modo opponendo un c.d. controlimite al primato del diritto dell’Unione europea;
- i giudici nazionali, secondo le regole stabilite dalla giurisprudenza costituzionale per il caso di contrasto della norma europea non immediatamente precettiva con la Costituzione[19], si sono rivolti alla Corte costituzionale per sciogliere questa alternativa[20]: in particolare, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, l. 2 agosto 2008, n. 130 (che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona), nella parte in cui impone di applicare l’art. 325, § 1 e 2, TFUE, disposizione da cui - nell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia nella pronuncia Taricco - discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, co. 3, e 161, co. 2, cod. pen., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA: anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per contrasto di tale norma con gli artt. 3, 11, 25, co. 2, 27, co. 3, 101, co. 2, Cost.;
- la nostra Corte costituzionale, anziché risolvere il dubbio circa il rispetto del primato del diritto dell’Unione o la prevalenza dei diritti fondamentali dell’imputato (e dunque l’applicazione dei controlimiti), ha preferito continuare il dialogo con la Corte di giustizia, chiedendo (in buona sostanza) conferma dell’interpretazione della pronuncia Taricco e prospettando alla Corte come possibile conseguenza l’applicazione dei controlimiti, ma senza decidere autonomamente per tale opzione interpretativa.
L’ordinanza è estremamente complessa, ma è evidente che ha preferito, sia pure assortendolo con la minaccia dell’azionamento dei controlimiti, il riconoscimento alla Corte di giustizia del compito istituzionale « d’effectuer la constatation et la synthèse des valeurs et des principes communs, car elle seule se trouve dans la condition institutionnelle et fonctionnelle pour définir leur portée et pour évaluer donc leur degré de compatibilité et d’adaptabilité avec les valeurs et les principes constitutionnels qui sont éventuellement en jeu »[21].
In sostanza, secondo questa prospettazione, solo dopo che la Corte di Lussemburgo avrà valutato la coerenza tra i valori dell’Unione e l’identità nazionale e costituzionale degli Stati membri, verificandone l’inconciliabilità, le giurisdizioni nazionali potranno invocare detti controlimiti.
5 Il caso Taricco-bis: la richiesta italiana.
La Corte costituzionale italiana ha, in sostanza, posto alla Corte di giustizia l’interrogativo se la regola eurounitaria debba trovare applicazione anche quando confligga in modo inconciliabile con un principio cardine dell’ordinamento nazionale.
Per la peculiarità dell’istituto della prescrizione, che, almeno al momento dei fatti, non era disciplinato direttamente dalla normativa eurounitaria nemmeno quanto ai reati contro le risorse finanziarie dell’Unione ed era prevalentemente inteso come attinente al diritto processuale penale e non a quello sostanziale, così da non rientrare nella protezione giuridica normalmente concessa dal principio di legalità delle pene e dall’irretroattività della norma penale sfavorevole al reo, la nostra Consulta ha rilevato che la norma eurounitaria, come interpretata dalla Corte di Lussemburgo con la sentenza Taricco e col conseguente obbligo per il giudice italiano di disapplicare sic et simpliciter la norma sulla prescrizione per i reati in questione, avrebbe violato il principio di legalità.
Infatti, il regime legale della prescrizione è, nel nostro ordinamento giuridico, soggetto al principio di legalità in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.: con una scelta che, sebbene non propria di tutti gli Stati membri, è condivisa almeno da altro ordinamento, cioè quello spagnolo; e, soprattutto, in una materia in cui non vi è alcuna esigenza di uniformità dei differenti ordinamenti degli Stati membri per imperative esigenze eurounitarie; del resto, non avendo la sentenza Taricco imposto ad uno Stato membro la rinuncia alle proprie «disposizioni e tradizioni costituzionali», ove risultassero di maggior favore per l’imputato.
L’attrazione dell’istituto sostanziale della prescrizione nell’ambito del principio di legalità impone poi, nel nostro ordinamento, la determinatezza della sua disciplina, da formularsi in termini «chiari, precisi e stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale, sia allo scopo di impedire l’arbitrio applicativo del giudice»; ed il principio di determinatezza, così inteso, è stato ricondotto dalla stessa Corte di Lussemburgo alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto.
Dopo un’attenta analisi della fattispecie e delle sue implicazioni sia dal lato della prevedibilità – e quindi della base legale – del regime di punibilità al momento del fatto che da quello della negazione, al giudice negli ordinamenti di civil law e quale corollario del principio cardinale della riserva di legge in materia, del potere di integrare discrezionalmente la disciplina penale dinanzi ad una norma che, come interpretata dal Lussemburgo, si risolverebbe nella fissazione di un obiettivo generico, cioè un regime adeguatamente dissuasivo della repressione penale delle frodi al fisco UE, per superare la sistematica impunità che il regime legale italiano della prescrizione comporterebbe per le frodi fiscali.
In questo contesto, il contrasto o conflitto tra la norma eurounitaria ed un principio fondante dell’ordinamento nazionale, uno dei «principi supremi dell’ordine costituzionale», sarebbe insanabile e la nostra Corte costituzionale sarebbe costretta a dichiarare costituzionalmente illegittima la norma che autorizza l’adesione al Trattato UE nella parte in cui imponesse di violare uno di quei principi irrinunciabili (ciò che va comunemente e descrittivamente ricondotto alla c.d. teoria dei controlimiti, per una compiuta esposizione della quale basti un richiamo alla celebre pronuncia della nostra Consulta del 2014[22]): il principio di legalità e quello di divisione tra i poteri (quest’ultimo nell’accezione propria dei Paesi di civil law o di tradizione continentale, definito «principio cardine oggetto di largo consenso diffuso tra gli Stati membri»).
Di qui lo snodo cruciale della decisione: «i rapporti tra Unione e Stati membri sono definiti in forza del principio di leale cooperazione, che implica reciproco rispetto e assistenza. Ciò comporta che le parti siano unite nella diversità. Non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. E non vi sarebbe neppure se la difesa della diversità eccedesse quel nucleo giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato su valori comuni, di cui parla il preambolo della Carta di Nizza».
Pertanto, riconosciuta la competenza esclusiva della Corte di giustizia nell’interpretazione del diritto dell’Unione, la Consulta esprime l’auspicio che, nei casi in cui la valutazione del suo impatto sulla «identità costituzionale di ciascun[o] Stato membro» sia di non immediata evidenza, il giudice europeo provveda a stabilire il significato della normativa dell’Unione, rimettendo alle autorità nazionali la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale, competendo poi a ciascuno di questi ordinamenti – e, in quello italiano, alla Corte costituzionale – stabilire a chi spetti tale verifica.
Impregiudicata la (evidentemente, inevitabile) responsabilità della Repubblica italiana per omissione di un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, per avere in particolare limitato l’operatività della prescrizione, la Consulta precisa che la soluzione auspicata non contrasterebbe col diritto dell’Unione e con l’esclusiva competenza della Corte di giustizia nella sua interpretazione, perché l’impedimento al giudice nazionale ad applicare direttamente la regola enunciata da quest’ultima deriverebbe da un elemento qualificante esterno, cioè dalla normativa nazionale sulla prescrizione e dall’imperativa necessità di rispettare l’«identità costituzionale» italiana, nella specie integrata dal principio di legalità da applicare pure al regime della prescrizione: quale livello di protezione più alto e quindi tutelato dall’art. 53 della CDFUE, ma anche perché, altrimenti, il processo di integrazione europea avrebbe l’effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani di cui all’art. 2 del TUE[23].
6 Il caso Taricco-bis: la risposta di Lussemburgo e l’epilogo
La Corte di giustizia, accolta la richiesta di procedimento accelerato, ha reso la sentenza della Grande Camera del 5 dicembre 2017 (M.A.S. e M.B., causa C-42/17), con cui, in estrema sintesi:
- ha ricordato come incombano ai singoli Stati membri, cui è lasciata la libertà di scelta e pure di combinazione tra le sanzioni penali o amministrative, la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione ed il recupero delle somme sottratte al bilancio di questa a causa di frodi: sicché spetta a ciascuno di quelli, a pena di inadempimento dell’obbligo derivante dal primo comma dell’art. 1 TFUE, l’adozione di misure dotate di carattere effettivo e dissuasivo, per di più non diverse da quelle previste contro la frode degli interessi nazionali domestici o nazionali;
- tanto integra però un obbligo di risultato, che grava in prima battuta sul legislatore nazionale, ma in un quadro – quello relativo alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione – di competenza concorrente tra l’Unione e gli Stati membri;
- pertanto, da un lato incombe ai giudici nazionali di disapplicare norme sulla prescrizione che deprivino la sanzione di quel carattere o la regolino in maniera differente rispetto ai reati di frode agli interessi finanziari nazionali;
- spetta, dall’altro lato, ai giudici nazionali competenti garantire il rispetto dei diritti degli imputati derivanti dal principio di legalità dei reati e delle pene, la cui importanza è riconosciuta non solo nell’ordinamento dell’Unione, ma anche in quello dei singoli Stati membri, tanto da potersi dire appartenere alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri[24], sancito da vari trattati internazionali e segnatamente all’art. 7, § 1, della CEDU[25];
- il principio di legalità va interpretato anche alla stregua della definizione che vi ha attribuito via via la Corte europea dei diritti dell’Uomo, in virtù dell’equiparazione del suo significato a quello ricostruito da quest’ultima, disposta dall’art. 52, § 3, CDFUE: e tanto in relazione ai requisiti indefettibili di prevedibilità, determinatezza ed irretroattività della legge penale applicabile;
- pertanto e nei confronti dei giudici italiani: da un lato, il diritto dell’Unione, sub specie di tutela degli interessi finanziari di questa, osta all’applicazione della legge penale italiana sulla prescrizione dei delitti di frode ai danni dell’Unione; dall’altro, lo stesso diritto dell’Unione, sub specie di principio fondamentale di legalità come sopra ricostruito, osta a tale disapplicazione, pure se quest’ultima consentisse di rimediare ad una situazione nazionale incompatibile col diritto dell’Unione: spettando allora al legislatore adottare le misure necessarie[26].
È infine sopraggiunta[27] la sentenza della Corte cost. 10 aprile-31 maggio 2018, n. 115, che ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità, ma con una imprevista accentuazione del ruolo centrale della valutazione, rimessa alla stessa Consulta, della preminenza della tradizione costituzionale nazionale.
In sostanza, si è decisamente riaffermata la centralità, se non anzi la esclusività, del ruolo di interprete e garante dei principi fondamentali e, per ciò pure, per logica necessità, del modo con cui vengono a formazione le tradizioni comuni. Se, infatti, si fosse continuato a fare diretto ed esclusivo riferimento a queste ultime, sarebbe stato inevitabile il coinvolgimento della Corte dell’Unione in ordine al loro apprezzamento ed alla loro salvaguardia. Insomma, una pronunzia che s’immette nel solco già tracciato dalla 269 del 2017, prolungando e rimarcando la linea in essa tracciata per ciò che attiene all’individuazione della sede istituzionale (la Consulta, appunto) nella quale sono definite le questioni assiologicamente pregnanti, siccome coinvolgenti i valori fondamentali dell’ordine costituzionale, pure – qui è il punto – nelle loro proiezioni al piano dei rapporti interordinamentali[28].
La conclusione è anomala: due sentenze della Grande Chambre della Corte di giustizia (sulla interpretazione di due disposizioni del TFUE) sono state giudicate dal giudice costituzionale prive di effetto rispetto alla nostra giustizia penale perché le norme che il giudice europeo ha tratto in via interpretativa da queste disposizioni (la c.d. regola Taricco) violano il principio di legalità penale, ed in particolare il principio di determinatezza della norma penale.
La motivazione della sentenza della Corte costituzionale si conclude con una chiara e recisa affermazione: la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della «regola Taricco» nel nostro ordinamento. La Corte costituzionale riferisce il giudizio di indeterminatezza alla interpretazione non solo del § 1, ma anche del § 2 dell’art. 325 TFUE, perché nella «regola Taricco» vengono unificate le norme che la Corte europea aveva desunto da ambedue i detti paragrafi.
L’irrilevanza, rispetto alla vigente normativa della giustizia penale (specificamente, della prescrizione del reato), delle due pronunzie della Corte europea, a dispetto della particolare autorevolezza dell’organo che le ha emanate, è ormai sancita[29].
7 Le tradizioni costituzionali del singolo Stato membro ed il diritto dell’Unione.
La vicenda ha suscitato ampi commenti ed ha avuto un’eco obiettivamente eccezionale, per le ricadute sia sul diritto interno, sia su quello dell’Unione, a cominciare dal profilo dei rapporti tra l’uno e l’altro in un momento obiettivamente delicato per il procedimento di integrazione europea; e competono ai costituzionalisti ed agli accademici gli approfondimenti necessari, che possano sorreggere nel modo più adeguato e conforme allo spirito dei Trattati il cammino verso l’epilogo.
Può qui osservarsi che l’arma finale dei cc.dd. controlimiti è stata disinnescata dalla Corte di Lussemburgo mediante un’accorta riconduzione del contenuto dei principi fondamentali o di «identità costituzionale», rivendicati come propri dell’ordinamento italiano e tali da giustificare perfino una disapplicazione della norma che autorizza l’adesione alla UE, ad un’accezione di quei principi sussunta entro le «tradizioni costituzionali comuni» ai singoli Stati: il principio di legalità, come rivendicato in Italia, rientra anch’esso fra queste ultime e giustifica un’interpretazione del diritto dell’Unione che ne tenga conto, nella specie consentendo la … «non disapplicazione» della normativa interna perfino nel senso codificato dalla stessa Corte di giustizia.
È un accorto meccanismo di bilanciamento degli interessi di ordinamenti a pluralità di livello: fermo il primato del diritto dell’Unione (dogma che anche nell’ord. 24 del 2017 la nostra Consulta proclama di rispettare, sia pure adeguatamente finalizzandolo agli obiettivi del Trattato e, quindi, per così dire contestualizzandolo ed esigendo che quello stesso diritto rispetti le identità giuridiche nazionali[30]), il giudice nazionale, primo e diretto operatore del diritto dell’Unione, deve applicarlo anche disapplicando la normativa nazionale che con quello contrasti; ma, ove tale disapplicazione contrasti a sua volta con principi fondanti – tali cioè da definire la stessa «identità costituzionale» e, quindi, le «tradizioni costituzionali» – dello Stato cui appartiene, egli potrebbe avere la facoltà di non disapplicare la normativa nazionale e di prestare ossequio prevalente alla tradizione costituzionale del proprio Stato.
Insomma, le tradizioni costituzionali comuni e le singole identità nazionali, quali ricavate dalle tradizioni costituzionali peculiari di ciascuno Stato, non sono contrapposte, ma reciprocamente interagiscono; e, anche se non è mai stata affrontata la questione di cosa sia davvero comune tra le tradizioni nazionali e la legge europea, tanto da trascendere le une e l’altra fino ad entrare in conflitto con entrambe, il ruolo formale delle prime assorbe – quasi distilla o deriva – i suoi contenuti dalle seconde.
Pur non potendo configurarsi un obbligo giuridico formale dell’Unione di rispettare le identità nazionali (che sarebbe la negazione del fondamento stesso dell’Unione, che mira ad armonizzarle in un quid novi che dalla mera sommatoria di quelle si differenzi), la circostanza che queste, mediante le tradizioni costituzionali comuni e la loro concreta interpretazione, concorrano inevitabilmente alla formazione del diritto dell’Unione come principi ispiratori influenza – come una sorta di fonte della fonte, che dovrebbe essere a sua volta una fonte o almeno a questa sovraordinata, quale principio generale del diritto dell’Unione riconosciuto dall’art. 52, co. 3, della CDFUE – necessariamente il medesimo diritto eurounitario.
La prospettiva è quindi tracciata: grazie anche a questo proficuo dialogo preventivo, le due Corti – quella costituzionale a Roma e quella di giustizia a Lussemburgo – hanno fornito un utile precedente, suscettibile di replica nei casi, che si auspica restino eccezionali, di conflitto insanabile fra il diritto dell’Unione ed i principi che fondino la stessa «identità costituzionale», potendosi essi ricondursi, quali elementi costitutivi, a quelle «tradizioni costituzionali comuni».
L’identità nazionale dei singoli Stati membri convive e coesiste, in evidente tensione dialettica, con la sintesi di ognuna che si esprime nel concetto di «tradizioni costituzionali comuni»: ed è chiaro che la sintesi risenta delle peculiarità di ogni sua componente, ma, come per ogni sintesi, è agli elementi comuni che occorre fare riferimento, in modo tale che essi siano in grado di esprimere un minimo comune denominatore appunto condiviso, non compromesso dalle pure inevitabili particolarità di ogni sua componente.
Non va dimenticato che, del resto, le «tradizioni costituzionali», siano esse comuni o – al contrario – proprie e particolari di ciascun ordinamento nazionale, rilevano per il diritto dell’Unione solo quanto alla delimitazione del significato dei diritti fondamentali: ed essendo intuitivo come la incoercibile diversità delle singole realtà nazionali europee ancora sia di ostacolo ad una condivisione di ogni altro aspetto della realtà economica, sociale, politica e, infine, giuridica.
Una proficua interazione tra le tradizioni costituzionali ed il diritto dell’Unione sembra idonea a consentire, quando le prime siano comuni agli Stati membri e comunque pur sempre ristretto il campo della loro operatività alla protezione dei diritti fondamentali, di individuare tratti comuni agli ordinamenti di più Stati, ancora però non formalizzati in norme scritte: insomma, un utile strumento di quella che potrebbe chiamarsi interpretazione evolutiva.
L’ulteriore operatività del meccanismo sopra delineato, peraltro, esige una duplice riflessione da un punto di vista applicativo.
In un delicato ed importante passaggio dell’ordinanza n. 24 del 2017[31] la Corte costituzionale ha avallato la correttezza della scelta procedurale del giudice ordinario di rimetterle la verifica della compatibilità della normativa dell’Unione, come sovranamente interpretata dalla Corte di giustizia, con i principi supremi dell’ordinamento nazionale: e, per il contesto in cui è pronunciata, la regola vale certamente quando il conflitto riguardi un diritto fondamentale, il cui significato sia definito dalle «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo; soprattutto quando il contrasto impedisca l’applicazione della protezione eventualmente maggiore accordata dal singolo Stato membro ad un diritto fondamentale in base alla propria «tradizione costituzionale», prospettata come di portata evidentemente più ampia rispetto a quella comune agli altri Stati.
Nella vicenda Taricco e Taricco-bis, l’interpretazione del diritto europeo era già stata fornita in modo vincolante dalla Corte di giustizia, sicché la via obbligata era appunto quella di sottoporre la questione alla Consulta: la quale però offre un altro prezioso spunto di impostazione procedurale, quando preannuncia che, ove dalla Corte di giustizia fosse condivisa la sua interpretazione (della rimessione alle autorità nazionali della valutazione della compatibilità del diritto dell’Unione con la «identità nazionale» del singolo Stato membro e della facoltà di non disapplicare la normativa nazionale in favore di quella eurounitaria quando questa non sia compatibile con la «identità costituzionale» dello Stato membro), la questione di legittimità costituzionale – della norma che, dando esecuzione al Trattato di Lisbona, autorizza l’adesione dell’Italia all’UE, limitatamente al conseguente obbligo di conformarsi all’interpretazione del diritto di quest’ultima nel caso di specie – «non sarebbe accolta».
Si può allora affermare che, ove la singola disposizione del diritto eurounitario debba ancora essere interpretata dalla Corte di Lussemburgo, sia necessario – per le Corti di ultima istanza – od almeno opportuno – per tutti gli altri giudici – sottoporre dapprima a quest’ultima la questione dell’esatta interpretazione di quel diritto ai sensi dell’art. 267 TFUE, onde valutare solo in un secondo momento gli effetti di tale interpretazione nell’ordinamento italiano e, in particolare, se sia sufficiente la facoltà di non applicare la norma eurounitaria nel caso concreto o se sia necessario sollecitare un intervento demolitore erga omnes della Consulta in un senso o nell’altro: tale soluzione avrebbe il pregio di rispettare i dogmi della gestione diffusa dell’applicazione del diritto eurounitario e del principio del suo primato, che risponde a sua volta al riparto dei rispettivi ambiti come delineato almeno fino alla fine del 2017.
* Prima parte della relazione tenuta sul tema “Rapporti tra diritto dell’Unione europea e principi fondamentali dell’ordinamento italiano nel dialogo tra le Corti” nell'ambito dell'incontro di studi organizzato dalla Struttura per la Formazione decentrata della Scuola Superiore della Magistratura in Firenze il 29/01/2020 avente ad oggetto “Il ruolo del giudice nazionale nell’attuazione del diritto dell’Unione europea”.
L’autore è consigliere della Corte suprema di cassazione, assegnato dal 2010 alla terza sezione civile e dal 2016 alle sezioni unite civili – componente, dalla sua istituzione a gennaio 2016, del gruppo dei referenti per i protocolli di intesa tra la Corte suprema di cassazione e la Corte europea dei diritti dell’Uomo e, poi, la Corte di Giustizia dell’Unione europea.
[1] Sia consentito un mero richiamo a: A. Di Stasi (a cura di) Tutela dei diritti fondamentali e spazio europeo di giustizia – l’applicazione giurisprudenziale del titolo VI della Carta, Napoli 2019; F. Biondi, Quale dialogo tra le Corti?, in www.federalismi.it; R. Caponi, Dialogo tra Corti nazionali e internazionali, in http://www.treccani.it/enciclopedia/dialogo-tra-corti-nazionali-e-corti-internazionali_%28Il-Libro-dell%27anno-del-Diritto%29/
[2] Tra le ultime: Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 20 dicembre 2016, Ljaskaj c. Croazia, definitiva il 20/03/2017; Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 18 luglio 2019, ricorso n. 16812/17, Rustavi 2 Broadcasting Company ltd c/ Georgia, par. 310 [«310. The Court notes that private-law disputes do not themselves engage the responsibility of the State under Article 1 of Protocol No. 1 to the Convention (see, mutatis mutandis, Ruiz Mateos v. the United Kingdom, no. 13021/87, Commission decision of 8 September 1988, Decisions and Reports (DR) 57, pp. 268 and 275; Tormala v. Finland (dec.), no. 41258/98, 16 March 2004; Eskelinen v. Finland (dec.), no. 7274/02, 3 February 2004; Kranz v. Poland (dec.), no. 6214/02, 10 September 2002; and Skowronski v. Poland (dec.), no. 52595/99, 28 June 2001). In particular, the mere fact that the State, through its judicial system, provided a forum for the determination of such a private-law dispute does not give rise to an interference by the State with property rights under Article 1 of Protocol No. 1 (see, for example, Kuchař and Štis v. the Czech Republic (dec.), no. 37527/97, 21 October 1998).The State may be held responsible for losses caused by such determinations if court decisions are not given in accordance with domestic law or if they are flawed by arbitrariness or manifest unreasonableness contrary to Article 1 of Protocol No. 1 (see, for example, Vulakh and Others v. Russia, no. 33468/03, § 44, 10 January 2012). However, it should be borne in mind that the Court’s jurisdiction to verify that domestic law has been correctly interpreted and applied is limited, and it is not its function to take the place of the national courts. Rather, the Court’s role is to ensure that the decisions of those courts are not arbitrary or otherwise manifestly unreasonable (see, for example, Anheuser-Busch Inc. v. Portugal [GC], no. 73049/01, § 83, ECHR 2007‑I).»]
[3] Sia consentito un richiamo a F. De Stefano, Le principali decisioni della Corte in materia civile verso l’Italia, in F. Buffa, M.G. Civinini (a cura di) La Corte di Strasburgo, speciale Questione Giustizia on line, dall’aprile 2019, specialmente § 2. In materia esecutiva, si veda, se si vuole, F. De Stefano, Le tecniche decisionali e l’interpretazione del titolo esecutivo giudiziale civile nella giurisprudenza della CEDU e della Corte di Cassazione, in B. Capponi, A. Storto (a cura di), Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della P.A., Napoli 2018, pp. 335 ss.
[4] Il riferimento è allo spirito con cui si sono accinti alla firma gli Stati contraenti, «animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto».
[5] Corte di giustizia, sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77. In base ad essa, tra l’altro, l’effetto diretto e il primato delle norme comunitarie impongono che sia data loro applicazione immediata; pertanto, non solo le norme interne successive incompatibili non si formano validamente, ma l’efficacia del sistema di controllo giurisdizionale sul rispetto del diritto comunitario, fondato sulla cooperazione tra giudice comunitario e giudice nazionale, verrebbe indebitamente ridotta se quest’ultimo non avesse il diritto di fare immediata applicazione delle norme comunitarie.
[6] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, causa C-573/17, punti 53 ss.
[7] Corte di giustizia, sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a., cause C-6/90 e C-9/90, punto 33.
[8] Corte di giustizia, sentenza del 4 dicembre 2018, Minister for Justice and Equality e Commissioner of An Garda Síochána, causa C-378/17, punto 35 e giurisprudenza ivi citata.
[9] Corte di giustizia, Grande Sezione, Popławski, cit., punto 65.
[10] Corte di giustizia, Grande Sezione, Popławski, cit., punto 78, ove ulteriori richiami giurisprudenziali. In particolare, si è negato al giudice nazionale il potere di validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in un senso che è incompatibile con tale diritto o è applicata in un modo siffatto dalle autorità nazionali competenti
[11] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 19 novembre 2019, A.K., cause riunite C-585/18, C-624/18 e C-625/18, punti 157 ss..
[12] La conclusione, dirompente, di Corte di giustizia, Grande Sezione, A.K., cit., è che l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che controversie relative all’applicazione del diritto dell’Unione possano ricadere nella competenza esclusiva di un organo che non costituisce un giudice indipendente e imparziale, ai sensi della prima di tali disposizioni. Ciò si verifica quando le condizioni oggettive nelle quali è stato creato l’organo di cui trattasi e le caratteristiche del medesimo nonché il modo in cui i suoi membri sono stati nominati siano idonei a generare dubbi legittimi, nei singoli, quanto all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni, in particolare rispetto a influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti e, pertanto, possano portare a una mancanza di apparenza di indipendenza o di imparzialità di detto organo, tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare a detti singoli in una società democratica. Spetta al giudice del rinvio determinare, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti di cui dispone, se ciò accada con riferimento a un organo come la Sezione disciplinare del Sąd Najwyższy (Corte suprema). In una tale ipotesi, il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice del rinvio di disapplicare la disposizione di diritto nazionale che riservi a detto organo la competenza a conoscere delle controversie di cui ai procedimenti principali, di modo che esse possano essere esaminate da un giudice che soddisfi i summenzionati requisiti di indipendenza e di imparzialità e che sarebbe competente nella materia interessata se la suddetta disposizione non vi ostasse.
[13] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 29 luglio 2019, Spiegel Online GmbH, punti 19 ss.
[14] Corte di giustizia, sentenza del 26 febbraio 2013, Melloni, causa C-399/11, punto 59.
[15] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 14 maggio 2019, Federación de Servicios de Comisiones Obreras (CCOO), causa C-55/18, punti 68 ss.
[16] Corte di Giustizia, Grande Sezione, conclusioni del 15 giugno 2015, causa C-62/14, di puntuale rivendicazione della primazia del diritto eurounitario, nonostante il monito contrario del Tribunale costituzionale federale tedesco e la prospettazione, anche da parte di questo, dell’evenienza di un’applicazione dei cc.dd. controlimiti.
[17] Tra cui si segnala, per l’ampiezza del recepimento della pronuncia di Lussemburgo sul rinvio pregiudiziale disposto nel corso dello stesso giudizio di legittimità, Corte di Cassazione, sentenza del 30 ottobre 2018, n. 27564, a mente della quale «il principio del ne bis in idem di cui all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non impedisce che a un soggetto, già penalmente condannato con sentenza irrevocabile per il reato di cui all’art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998, sia successivamente irrogata la sanzione di natura penale, benché formalmente amministrativa, di cui all’art. 187 ter del citato d.lgs., purché siano garantiti: 1) il rispetto del principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, par. 3, della richiamata Carta, secondo cui le sanzioni complessivamente inflitte devono corrispondere alla gravità del reato commesso; 2) la prevedibilità di tale doppia risposta sanzionatoria in forza di regole normative chiare e precise; 3) il coordinamento tra i procedimenti sanzionatori in modo che l’onere, per il soggetto interessato da tale cumulo, sia limitato allo stretto necessario».
[18] La ricostruzione è quella di E. Lupo, La «vicenda Taricco» impone di riconsiderare gli effetti del decorso del tempo nella giustizia penale sostanziale?, in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2019/02/Lupo-Vicenda-pdf.pdf. La dottrina può dirsi sterminata sul punto; per un’indicazione bibliografica v. già F. Donati, La tutela dei diritti tra ordinamento interno ed ordinamento dell’Unione europea, in DUE 2019, fasc. 2, pp. 261 ss.
[19] Corte costituzionale, sentenza del dì 8 giugno 1984, n. 170, c.d. Granital.
[20] V. le ordinanze di rinvio della Corte d’appello di Milano del 18 settembre 2015 e della Corte di cassazione del dì 8 luglio 2016, rispettivamente iscritte al n. 339 del registro ordinanze 2015 e al n. 212 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2016.
[21] A. Tizzano, Notes sur le rôle de la Cour de justice de l’Union européenne, in M. D’Alessio, V. Kronenberger, V. Placco (dirs.), De Rome à Lisbonne: les juridictions de l’Union européenne à la croisée des chemins. Mélanges en l’honneur de Paolo Mengozzi, Bruxelles, 2013, pp. 223 ss.
[22] Corte costituzionale, sentenza del 22 ottobre 2014, n. 238, relativa ad una controversia civile per risarcimento di danni arrecati da uno Stato estero per atti qualificabili delicta imperii, in Foro it., 2015, I, 1152; la letteratura sul punto è sterminata. Alla sentenza 238/14 della Consulta si richiamano espressamente non poche pronunce di legittimità, l’ultima delle quali consta essere quella di Corte di Cassazione, sentenza del 3 settembre 2019, n. 21995.
[23] La conclusione è stata, com’è noto, la formulazione del triplice quesito:
- se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata;
- se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità;
- se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.
[24] Per quanto riguarda il principio di irretroattività della legge penale: Corte di giustizia, sentenza del 13 novembre 1990, Fedesa e a., causa C-331/88, punto 42.
[25] In tal senso, Corte di giustizia, sentenza del 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld, causa C-303/05, punto 49.
[26] Di qui la risposta ai primi due quesiti, con assorbimento del terzo: «l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato».
[27] Dal canto suo, la Corte di cassazione comunque precisava che, in materia di reati tributari, l’applicazione dei principi affermati dalla sentenza 8 settembre 2015 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Camera, Taricco e aa., C-105/14 - sull’obbligo di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli artt. 160 e 161 cod. pen., se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea - non si applicano ai fatti commessi prima della sua pronuncia: Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 20 marzo 2018 e depositata il 18 aprile 2018, n. 17401, imp. Pennacchini; nello stesso senso: Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 27 febbraio 2019 e depositata il 12 giugno 2019, n. 25831, imputato Scanu. In precedenza (Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 7 febbraio 2018 e depositata il 2 marzo 2018, n. 9494, imputato Schiavo e aa.), la Corte aveva concluso che la soluzione di non applicabilità della c.d. regola Taricco era stata già ammessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, richiamandone la sentenza del 5 dicembre 2017, in causa C- 42/17.
[28] Questa la severa lettura di A. Ruggeri, Dopo Taricco: identità costituzionale e primato della Costituzione o della Corte costituzionale? in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2018, disponibile all’URL: http://www.osservatoriosullefonti.it
[29] Ne prende atto la Corte di cassazione; ad es., v. Corte di Cassazione penale, sentenza resa all’udienza del 27 febbraio 2018, depositata il 19 febbraio 2019, n. 7384, imputati Di Carlo e aa.
[30] Icastica è la puntualizzazione: «il principio del primato del diritto dell’Unione … riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri».
[31] Ultimo periodo del paragrafo 6.