Il Regolamento Dublino III nella interpretazione della giurisprudenza europea e nazionale
Commento a Tribunale di Firenze, decr. n. 2988 del 23/05/2024
di Rita Russo
Sommario. 1. La “questione Dublino” e le sue interferenze con il diritto di asilo di cui all’art. 10 della Costituzione. 2. Il caso concreto e la sua soluzione. 3. Considerazioni conclusive.
1. La “questione Dublino” e le sue interferenze con il diritto di asilo di cui all’art. 10 della Costituzione.
Il Tribunale di Firenze si è pronunciato in un caso paradigmatico che riassume e ricapitola le principali questioni controverse sulla applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013 (regolamento Dublino III) in tema di competenza degli Stati membri ad esaminare la domanda di protezione internazionale.
Il regolamento Dublino III è uno dei pilastri portanti del comune sistema di asilo europeo (CEAS) disegnato in attuazione dell’art. 78 TFUE, secondo il quale l’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea (con quest’ultima intendendosi la protezione temporanea degli sfollati di massa). Il Dublino III costituisce, unitamente al regolamento Eurodac, il solo strumento normativo del CEAS per il quale l’Unione ha scelto la forma regolamentare, affidandosi per il resto alle direttive.
Il diritto europeo poggia sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda. Tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca (mutual trust) tra gli Stati membri nel riconoscimento di tali valori, e nel fatto che i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali sono in grado di fornire una tutela equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali. Il principio della reciproca fiducia impone a ogni Stato di presumere che, tranne in circostanze eccezionali, gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, in particolare, i diritti fondamentali sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Carta di Nizza). Questo principio è pienamente operante anche in ambito CEAS, perché trattandosi di un principio fondante non è necessario che venga richiamato in ogni specifica norma del TFUE o di strumenti ulteriori; si deve quindi presumere che in qualunque Stato della UE il richiedente asilo riceverà una protezione conforme agli standard definiti dal diritto dell’Unione.
Su questa presunzione si fondano i criteri regolamentari di determinazione della competenza a decidere la domanda di protezione internazionale e le procedure di presa e ripresa in carico del richiedente, vale a dire le procedure di trasferimento del richiedente asilo dallo Stato membro in cui ha presentato la domanda (per la prima volta o dopo averne già presentata una in altro Stato UE), allo Stato membro competente ad esaminare detta domanda, che di regola è lo Stato membro di primo ingresso, salvo taluni casi specificamente previsti dal regolamento stesso, in ordine gerarchico (ad es. minori, relazioni familiari, visto di ingresso o titolo di soggiorno già rilasciato, ipotesi previste dagli artt. 8-15 del regolamento).
Il regolamento Dublino III persegue infatti l’obiettivo di dare un solo giudice alla richiesta di protezione internazionale[1]e di non consentire il forum shopping, tramite la rigida e gerarchica determinazione di criteri di competenza, secondo quanto previsto nell’art.7.
Nondimeno, questo rigido sistema di determinazione dei criteri di competenza presenta due rilevanti eccezioni. La prima è legata alla possibilità che nello Stato in cui il soggetto debba essere trasferito in quanto Stato competente, esistano carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, (art.3 del Regolamento). Quando il giudice dispone di elementi, prodotti dall’interessato, per dimostrare l’esistenza di un tale rischio, è tenuto a valutare, sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati, e alla luce del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione, l’esistenza non solo di carenze sistemiche o generalizzate, ma anche di carenze che colpiscono determinati gruppi di persone[2]. La seconda è la facoltà riconosciuta a ciascuno Stato membro di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel regolamento (art.17, clausola discrezionale). L’Unità Dublino, autorità amministrativa istituita ex legepresso il Ministero dell’interno, che si occupa della determinazione del giudice competente e decide sui trasferimenti, può avvalersi o meno di questa clausola.
Il sistema di determinazione delle competenze è poi assistito da garanzie informative specifiche molto incisive, stabilite dagli artt. 4 e 5 del regolamento Dublino III, i quali impongono che l’autorità competente consegni al richiedente asilo un opuscolo informativo, redatto secondo un modello comune, sui criteri di determinazione della competenza, sulle informazioni rilevanti da fornire a tal fine, sulle modalità di impugnazione e sul trattamento dati personali; inoltre l’autorità competente deve provvedere ad un colloquio personale con il richiedente che permetta la corretta comprensione delle informazioni già fornite tramite la consegna dell’opuscolo.
L'applicazione del regolamento Dublino III presenta talune difficoltà interpretative sulle quali sia i giudici di merito italiani -e tra questi il Tribunale di Firenze- sia la Corte di Cassazione hanno richiesto l'intervento della Corte di giustizia europea (CGUE), cui sono state sottoposte essenzialmente due questioni problematiche.
La prima questione riguarda il diritto di informazione, di cui all’art. 4 del regolamento Dublino III e all’art. 29 del regolamento Eurodac, nonché lo svolgimento del colloquio personale, previsto dall’art. 5 del regolamento Dublino III. In particolare riguarda le conseguenze che si devono trarre, per la legittimità della decisione di trasferimento, dalla mancata consegna dell’opuscolo comune menzionato dall’art. 4, paragrafo 2, del regolamento Dublino III e dall’art. 29, paragrafo 3, del regolamento Eurodac, nonché dal mancato svolgimento del colloquio personale previsto dall’art. 5 del regolamento Dublino III.
La seconda questione riguarda la possibilità per il giudice incaricato dell’esame della legittimità della decisione di trasferimento, di valutare il rischio di refoulement indiretto dell’interessato e, di conseguenza, di violazione del principio di non-refoulement da parte dello Stato membro competente; vale a dire la possibilità che nelle procedure di ripresa in carico, quando esiste già una decisione (negativa) adottata dal giudice di un altro Stato membro, il trasferimento verso questo Stato membro esponga il richiedente al rischio, in esecuzione della decisione, di essere rinviato verso uno Stato ove possa subire un trattamento inumano e degradante.
La Corte di giustizia, come è noto, si è pronunciata con sentenza del 30 novembre 2023, nelle cause riunite C‑228/21, C‑254/21, C‑297/21, C‑315/21 e C‑328/21, a distanza di due anni dai rinvii pregiudiziali, con decisione che, se sembra aver fatto sufficiente chiarezza sugli obblighi informativi, ha però lasciato in qualche misura aperto il problema del respingimento indiretto o meglio delle domande che si agitavano al fondo di esso: quid iuris se il giudice italiano non condivide la decisione di diniego del suo collega europeo? O meglio, se il giudice italiano ritiene che nonostante la decisione negativa resa dal suo collega europeo il richiedente asilo non dovrebbe essere rimpatriato perché sarebbe esposto nel suo paese di origine a trattamento inumano e degradante ovvero ad altro rischio di lesione dei diritti fondamentali?
L’argomento presenta stretta attinenza con il tema che lo stesso Tribunale di Firenze aveva in precedenza sottoposto alla Corte di giustizia, basato sulla maggior estensione del diritto di asilo costituzionale nazionale riconosciuto dall’art.10, comma 3, della Costituzione italiana rispetto alla tutela accordata dal diritto dell’Unione, trattato nell’ordinanza anche con riferimento alla dottrina dei controlimiti, e con l’ulteriore tema dell’ammissibilità per il diritto dell’Unione delle tutele complementari attribuite da normative nazionali che accordino il diritto d’asilo in misura più ampia rispetto alle norme europee.
Non bisogna infatti dimenticare che la determinazione dello Stato competente ai sensi del regolamento Dublino III costituisce non un diverso e autonomo procedimento, bensì una fase, necessariamente preliminare, all'interno del procedimento di riconoscimento dello status di protezione internazionale e che la situazione giuridica soggettiva dello straniero che chiede protezione internazionale ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali [3].
Pertanto, pur nel rispetto del principio del mutual trust, il procedimento della determinazione della competenza rifugge da automatismi, e di ciò è ben consapevole la GCUE la quale ha ben messo in evidenza che non è a soluzione obbligata neppure la procedura di ripesa in carico, ragion per cui anche in questa fase bisogna assolvere gli obblighi informativi, perché la questione della determinazione dello Stato membro competente non è necessariamente definitivamente chiusa, e anche in questa fase possono opporsi, oltre che vizi procedurali, anche questioni che attengono al rispetto dei diritti fondamentali (par. 94 e ss.).
Il rapporto tra il principio della fiducia reciproca e la tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti, del resto, era già stato considerato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia la quale ha cautamente ampliato la portata della eccezione legata al rischio di trattamenti inumani e degradanti da carenze sistemiche stabilendo, con la sentenza 16 febbraio 2017 (CK e altri), che il trasferimento di un richiedente asilo nel contesto del regolamento Dublino III deve essere operato soltanto in condizioni che escludano che tale trasferimento comporti un rischio reale che l’interessato subisca trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 4 della Carta di Nizza, anche nell’ipotesi in cui il suddetto rischio non derivi dalla presenza di carenze sistemiche nello Stato membro competente, bensì dipenda esclusivamente da una condizione di particolare vulnerabilità del richiedente. Nel caso esaminato dalla Corte di giustizia con la citata sentenza CK, il rischio che il trasferimento dell’interessato l’esponesse a un trattamento inumano e degradante era legato al probabile deterioramento significativo e irrimediabile del suo stato di salute, poiché persona presentava già un disturbo mentale e fisico particolarmente grave.
Tuttavia la Corte di giustizia, pur confermando i propri precedenti, nella citata sentenza ha con fermezza ha ribadito che il principio del mutual trust è ostativo all’esercizio di qualsivoglia forma di revisione del giudizio già espresso in altro Stato membro, affermando che il giudice dello Stato membro adito da un ricorso avverso una decisione di trasferimento non può esaminare se sussista un rischio, nello Stato membro di destinazione, di una violazione del principio di non-refoulement al quale il richiedente protezione internazionale sarebbe esposto a seguito del suo trasferimento verso tale Stato membro o in conseguenza di questo. E, per essere ancora più chiara, la Corte europea ha aggiunto che divergenze di opinioni tra le autorità e i giudici dello Stato membro richiedente, da un lato, e le autorità e i giudici dello Stato membro richiesto, dall’altro, in relazione all’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale non dimostrano l’esistenza di carenze sistemiche.
Ne consegue il divieto per i giudici italiani, per i quali la decisione della Corte di giustizia è vincolante, di rivalutare direttamente o indirettamente le decisioni rese dal giudice di altro Stato membro dell'unione europea, nel senso di ritenere che esse non rispettino gli standard di tutela dei diritti fondamentali enunciati dalla Carta di Nizza e per tale motivo rifiutare il trasferimento allo Stato membro competente.
Tuttavia, per quanto si debba presumere, iuris tantum, che le tutele siano equivalenti, l’Unione europea riconosce la facoltà degli Stati membri di accordare, tramite legislazione nazionale, tutele maggiori e più ampie agli stranieri, purché non confliggano con la normazione europea. Nella stessa Direttiva qualifiche, ad esempio, l’art. 3 stabilisce che gli Stati membri hanno facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati o persone ammissibili alla protezione sussidiaria purché siano compatibili con le disposizioni della direttiva stessa. Sul punto la Corte di giustizia ha però dovuto fare chiarezza, specificando che non si può riconoscere lo status a cittadini di paesi terzi che si trovino in situazioni prive di qualsiasi nesso con la logica della protezione internazionale, e che i permessi di soggiorno legati a ragioni umanitarie (nel caso di specie una grave malattia) non sono qualificabili come protezione internazionale cui è applicabile la direttiva, bensì come forme di protezione nazionale[4].
Inoltre, occorre operare una distinzione tra le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale e le procedure di rimpatrio, dove maggiore discrezionalità è riservata a ciascuno Stato membro. Le procedure di rimpatrio riguardano infatti tutti gli stranieri il cui soggiorno è irregolare e quindi anche, ma non soltanto, gli stranieri cui è stata definitivamente negata la protezione internazionale. In questa materia la direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 (direttiva rimpatri) riconosce che vi sono ambiti di normazione – e di conseguente giurisdizione – riservati alle autorità nazionali. L’art. 6.4 della direttiva rimpatri, prevede infatti che «in qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare».
Motivi caritatevoli e motivi umanitari non sono sinonimi. La carità, nel significato laico del termine, è un atto di benevolenza che consiste nel donare ad altri qualcosa che ci appartiene, per libera scelta. Il termine umanitario invece richiama direttamente la salvaguardia del minimo comune denominatore solidaristico del rispetto dell’esistenza umana[5], cui si ispira l’art. 2 della Costituzione che «riconosce e garantisce» i diritti inviolabili dell’uomo; ciò significa che questi diritti appartengo all’uomo in quanto tale, e non al legislatore, e meno che mai al giudice, i quali non li attribuiscono né li «concedono», ma hanno il dovere riconoscerli e garantirli.
La differenza concettuale tra riconoscimento della protezione internazionale e rimpatrio va tenuta ferma, anche se talora le due questioni si intrecciano in un unico ricorso: chi chiede la protezione internazionale allega dei fatti che il giudice nazionale è tenuto a valutare nella loro interezza, non solo al fine di riconoscere o meno lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, anche al fine di verificare se quei fatti, pur non idonei a fondare la protezione internazionale, siano comunque ostativi al rimpatrio, nell’ottica di attuare pienamente il disposto dell’art. 10 Cost.[6]
La questione non è di poco momento dato che – come sopra si diceva – la determinazione dello Stato competente ai sensi del regolamento Dublino III è una fase preliminare, all'interno del procedimento promosso per il riconoscimento della protezione internazionale: se viene disposto il trasferimento, cessa la potestas iudicandi dello Stato che lo dispone, in caso contrario, deve procedersi all'esame della domanda.
È da chiedersi allora se il giudice nazionale può declinare la sua potestas iudicandi a fronte di una domanda di protezione internazionale sulla quale non è competente, ma che contenga in sé anche la richiesta di applicazione di normativa nazionale sulla quale è invece l’unico giudice che può pronunciarsi. Ed è da chiedersi se l’Unità Dublino non debba tenere in conto, già nella fase amministrativa della determinazione della competenza e della presa e ripresa in carico del richiedente, degli effettivi contenuti della domanda, nel caso in cui i fatti allegati abbiano attinenza al diritto di asilo inteso in senso ampio.
Secondo un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità, il sistema eurounitario della protezione internazionale, unitamente alle misure di protezione nazionale attua il diritto d'asilo costituzionale contenuto nell'art. 10, terzo comma, Cost. Ne consegue che, avendo le situazioni giuridiche soggettive che sostanziano il diritto alla protezione internazionale e nazionale natura di diritti autodeterminati [7], il giudice del merito che esamina la domanda è tenuto ad accertare -nei limiti del principio dispositivo, ovvero sulla base dei fatti allegati e di quelli acquisiti al processo mediante l'esercizio del dovere di cooperazione istruttoria – se sussistono le condizioni – per il rilascio di un permesso speciale fondato sul nostro sistema di protezione nazionale, che trae la sua fonte dall'art. 10, terzo comma, Cost. e dall'obbligo, tuttora previsto dalla normativa nazionale (art. 5 comma 6 del D.lgs 286/1998, TUI) nonostante i diversi interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo, volti a modellarne il contenuto, di rispettare il sistema dei diritti umani come delineato dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni internazionali.
Il caso esaminato dal Tribunale di Firenze è – come si diceva – paradigmatico delle principali questioni problematiche.
2. Il caso concreto e la sua soluzione
Il richiedente asilo ha impugnato il provvedimento di trasferimento emesso dalla Unità Dublino nell’ambito di una procedura di ripresa in carico, avendo egli già ricevuto un diniego della sua domanda in Francia. Con il ricorso, ha sottoposto al Tribunale di Firenze le seguenti questioni:
a) ha presentato richiesta di protezione internazionale in Italia il 21/02/2022 allorquando è stato compilato il modello C/3 presso la Questura senza traduzione in lingua urdu e senza la consegna di alcun opuscolo informativo;
b) prima dell’adozione della decisione di trasferimento in Francia il richiedente non è stato ascoltato in un colloquio personale in lingua da lui conosciuta;
c) sussistono fondati motivi per l’applicazione della clausola discrezionale ex art. 17 del regolamento Dublino III, sotto il profilo del c.d. refoulement indiretto perché la Francia ha già respinto la domanda di protezione internazionale con decisione risalente che può comportare il rimpatrio e la violazione dei diritti fondamentali della persona.
Il Tribunale di Firenze rimedia alle carenze procedurali della Unità Dublino in tema di obblighi informativi eseguendo l’audizione personale del ricorrente, in conformità alle indicazioni date dalla Corte europea.
Gli artt. 4 e 5 del regolamento Dublino III impongono infatti obblighi informativi specifici e modalità di adempimento di detti obblighi che non ammettono equipollenti. L'opuscolo da consegnare al richiedente deve essere redatto secondo il modello comune, e il colloquio informativo deve avere le caratteristiche previste dall'art. 5, in modo da permettere la corretta comprensione delle informazioni fornite al richiedente con la consegna dell’opuscolo. Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, queste garanzie informative sono finalizzate a garantire l'effettività ed uniformità dell'informazione, nonché del trattamento del procedimento di trasferimento, in tutto il territorio dell'Unione. Il mancato rispetto, da parte dell'autorità dello Stato membro, delle garanzie di cui agli artt. 4 e 5 del regolamento non può essere ovviato con una conoscenza acquisita aliunde dall'interessato, poiché in tal modo si frustrerebbe l'esigenza di uniforme trattamento dello straniero in tutto in territorio dell'Unione, né il modello C/3 può considerarsi equipollente all’opuscolo informativo redatto secondo il modello comune [8].
Sul punto la Corte di giustizia con la sentenza del 30 novembre 2023 è stata molto chiara, affermando che si tratta di incombenti necessari anche nella procedura di ripresa in carico, che l'opuscolo deve corrispondere al modello comune e che il colloquio personale, a differenza dell'opuscolo comune che è volto a informare l'interessato in merito all'applicazione del regolamento Dublino III, «costituisce il modo per verificare che tale interessato comprenda le informazioni contenute in tale opuscolo e rappresenta un'occasione privilegiata, se non la garanzia, per esso, di poter comunicare all'autorità competente elementi d'informazione che possono portare lo Stato membro interessato a non rivolgere a un altro Stato membro una richiesta di ripresa in carico e persino, se del caso, a impedire il trasferimento di detta persona» (par. 105).
La CGUE ha quindi rimarcato l’importanza centrale del colloquio, che è un momento di interazione tra il richiedente asilo e l’autorità, e rappresenta quindi lo strumento per superare le asimmetrie informative tramite un approccio individualizzato, come è regola generale nell'esame di domande di protezione internazionale; in mancanza del colloquio personale, la decisione di trasferimento deve essere annullata a meno che la normativa nazionale consenta all'interessato, nell'ambito del ricorso avverso la decisione di trasferimento di esporre di persona tutti i suoi argomenti avverso tale decisione nel corso di un'audizione che rispetti le condizioni e le garanzie enunciate nell’art. 5. In tal senso, anche la Corte di Cassazione ha di recente dato seguito al principio enunciato dalla CGUE[9].
Gli oneri probatori, in questo caso, sono a carico dell'amministrazione la quale, a fronte della contestazione di omesso colloquio, deve dimostrare che il colloquio è avvenuto: altrimenti la decisione sarà annullata a meno che non vi sia stata la possibilità di recuperare le garanzie del colloquio nel processo davanti al Tribunale. Diversamente invece, nel caso di mancata consegna dell'opuscolo, se il colloquio è regolarmente avvenuto; in tal caso il giudice può pronunciare l'annullamento di tale decisione solo se ritiene, tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto specifiche del caso di specie, che, nonostante lo svolgimento del colloquio personale, la mancata consegna dell'opuscolo comune abbia effettivamente privato tale persona della possibilità di far valere i propri argomenti in misura tale che il procedimento amministrativo nei suoi confronti avrebbe potuto condurre a un risultato diverso (par. 125-128). In questi casi, pertanto, il ricorrente ha l'onere di fornire la cosiddetta prova di resistenza e cioè che il risultato avrebbe potuto essere diverso se il colloquio si fosse svolto nella pienezza delle informazioni preventivamente acquisite.
La questione, nel caso concreto, viene superata dal Tribunale di Firenze, il quale ritiene che nonostante le carenze della fase amministrativa, l'audizione personale abbia consentito di recuperare tutte le garanzie informative imposte dal regolamento Dublino.
Il nodo maggiormente problematico non è tuttavia quello degli obblighi informativi, ma l’allegazione che il trasferimento in Francia e il prevedibile conseguente rimpatrio nel paese di origine comporterebbero grave lesione dei diritti fondamentali del richiedente, oltre per le condizioni di rischio cui egli sarebbe esposto data la situazione nel paese d'origine, anche perché le sue condizioni di salute verrebbero pregiudicate già dallo stesso trasferimento e comunque perché nelle more egli si è radicato sul territorio nazionale avendo avviato un percorso di integrazione linguistica e lavorativa.
Il Tribunale di Firenze focalizza l’attenzione sul diritto del ricorrente a vedere decisa dal giudice nazionale la domanda di protezione completare, poiché in definitiva, di questo si tratta, e non di rivalutare la decisione – negativa – del giudice francese sulle due protezioni maggiori.
Analoga questione, ed il Tribunale di Firenze ne tratta ampiamente nella motivazione della ordinanza, è stata posta alla attenzione delle sezioni unite dalle ordinanze interlocutorie della prima sezione della Corte di Cassazione nn. 10898 - 10903 del 23/04/2024.
In queste ordinanze si è rilevato che le risposte fornite dalla Corte di giustizia devono essere esaminate tenendo conto delle peculiarità del sistema giuridico italiano di protezione nazionale cui il richiedente protezione internazionale può accedere pur in mancanza delle condizioni di riconoscimento dei diritti riguardanti le protezioni maggiori, o perché sussistono condizioni ostative soggettive (artt. 9, 20,15 e 16 del D.lgs. n. 251 del 2007) o perché la vulnerabilità soggettiva accertata rientra nelle fattispecie astratte contenute nell'art. 19 del TUI ratione temporis applicabili o in quelle fondate sulla violazione dei diritti fondamentali della persona riconosciute dalla Convenzioni internazionali cui lo Stato italiano aderisce e i cui obblighi è tenuto a rispettare ex art. 5 comma 6 del TUI nella parte ancora vigente. Si è quindi osservato che è cruciale stabilire se, senza incrinare il sistema di fiducia reciproca, si possa consentire al cittadino straniero che abbia manifestato inequivocamente la volontà di richiedere la protezione internazionale, di non essere trasferito nello Stato membro richiesto per effetto dell'accettazione della ripresa in carico, dal momento che, all'interno della domanda più ampia, nel nostro ordinamento devono essere vagliate le condizioni di riconoscimento del diritto alla protezione nazionale, quando sulla base delle allegazioni di fatto acquisite, si debba procedere anche ex officio a questa specifica verifica, in attuazione di obblighi costituzionali ed internazionali in tema di protezione dalle violazioni dei diritti umani.
Sono stati quindi sottoposti alla attenzione delle sezioni unite due questioni problematiche e segnatamente: a) se la deroga ai principi generali di determinazione della competenza di uno Stato membro ai sensi del regolamento Dublino III, fermo restando il divieto di valutare il rischio di non refoulement indiretto, non comporti la necessità di valutare la legittimità dell'interferenza del nostro sistema di rango costituzionale di protezione nazionale con la decisione di trasferimento, sulla base di un'indagine caso per caso o per determinate categorie di persone, tenuto conto della riconducibilità della vulnerabilità giuridicamente qualificata, cui si esporrebbe il richiedente in caso di rimpatrio coattivo verso il paese terzo, all'interno delle ipotesi tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale; b) se il complesso sistema di protezione nazionale interno, fondato sulla necessità di portare a compimento l'attuazione del diritto d'asilo costituzionale, può essere qualificato come una modalità di esercizio della clausola discrezionale, così da ritenere che la decisione di trasferimento da parte dell'autorità statale che ha la facoltà di applicare la clausola di sovranità, evidenzi un rifiuto tacito di avvalersene e ne consenta la sindacabilità.
Il giudice fiorentino, nella consapevolezza di questo rinvio alle sezioni unite, offre una soluzione, osservando che non è consentito precludere al ricorrente il diritto a veder decisa la domanda di protezione complementare, per la sola ragione che il sistema normativo europeo – basato su un’armonizzazione solo parziale e che lascia alla discrezionalità degli Stati membri alcune opzioni – prevede regole che sottraggono all’autorità italiana la competenza in merito alla domanda di protezione internazionale. Se nella domanda di protezione internazionale si profila anche una questione di protezione complementare (nazionale) l’amministrazione deve valutare se esercitare la facoltà discrezionale di cui all’art. 17 del regolamento, assumendo la competenza ad esaminare tale domanda; e l’accertamento del corretto esercizio della clausola discrezionale e, per l’effetto, della competenza italiana, può essere sindacato dal giudice.
Si precisa infatti che il ricorso alla «clausola discrezionale» è di natura facoltativa, ed è attribuito all’amministrazione (e segnatamente all’Unità Dublino) in ragione della natura delle considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico che ne determinano l’esercizio, e non può essere direttamente compiuto dal giudice ordinario; ma al tempo stesso l’esercizio della facoltà in parola, per quanto discrezionale, non rimane, tuttavia, al di fuori di qualsiasi controllo[10] sicché il rifiuto dell’amministrazione di farne uso, risolvendosi necessariamente nell’adozione di una decisione di trasferimento, può essere contestato in sede di ricorso avverso quest’ultima, al fine di verificare se l’esercizio della discrezionalità amministrativa sia eventualmente avvenuto in violazione dei diritti soggettivi riconosciuti al richiedente asilo [11].
Il giudice fiorentino conclude nel senso che ha errato l’Unità Dublino a non esercitare la clausola discrezionale, perché nel caso di specie avrebbe dovuto essere esaminata la domanda di protezione completare che, peraltro, nel lasso tempo che ha impiegato la Corte di giustizia a decidere la questione pregiudiziale (due anni, durante i quali il processo italiano è rimasto sospeso) si è arricchita di ulteriori allegazioni, in particolare in ordine al radicamento nel territorio nazionale.
Pertanto, il Tribunale di Firenze in riforma della decisione amministrativa e in applicazione della clausola discrezionale di cui all’art. 17.1 del regolamento Dublino III, afferma la competenza dello Stato italiano a decidere la domanda di protezione internazionale e complementare del richiedente, dando anche una serie di indicazioni molto specifiche sull’oggetto dell’accertamento e ricapitolando tutti gli elementi che l’amministrazione sarà tenuta a considerare nella successiva fase di merito, e quale la normativa ratione temporis applicabile. Indicazioni a prima vista superflue, in un procedimento volto solo ad accertare la competenza, ma in verità del tutto coerenti con la impostazione data e la soluzione offerta. La coerenza si apprezza, in primo luogo, perché se la affermazione della competenza dipende dall’accertamento di un claim (protezione complementare) che non è stato e non potrà essere esaminato dal giudice dello Stato di trasferimento, è necessario che si verifichi, in cognizione sommaria, il fumus della pretesa. In altre parole, è necessario che si verifichi che la domanda di protezione complementare -ovvero l'allegazione di elementi che possono portare a qualificare la richiesta come domanda di protezione complementare piuttosto che di protezione internazionale – abbia una qualche consistenza e non si tratti una mera enunciazione strategicamente usata per contrastare la decisione di trasferimento. Sembra inoltre di potersi ravvisare anche una ragione di opportunità nella scelta di rendere noti gli elementi di cui la amministrazione, secondo il giudice che può rivedere la sua decisione, dovrà tenere conto; questi procedimenti, che avrebbero dovuto concludersi con la massima rapidità, sono rimasti sospesi a lungo in attesa della decisione della Corte di giustizia e adesso necessitano di una accelerazione, che però non ne comprometta la qualità, per giungere ad una decisione di merito adeguata e che possa stabilizzarsi in tempi rapidi.
3. Considerazioni conclusive
Il Tribunale di Firenze si muove sulla linea della autonomia processuale nazionale; il principio è richiamato anche dalla CGUE nella sentenza del 30 novembre 2023, la quale afferma che in mancanza di norme dell’Unione in materia, spetta, in virtù del principio di autonomia processuale, all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità processuali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la salvaguardia dei diritti dei singoli, a condizione tuttavia che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività).
La complicata «questione Dublino» può forse semplificarsi ove si consideri che il sistema normativo europeo di protezione internazionale è centrato su due misure tipiche (status di rifugiato e protezione sussidiaria) ma nella consapevolezza che occorrono strumenti di compensazione per lasciare agli Stati membri margini di discrezionalità al fine di attuare il loro sistema costituzionale e verificare, caso per caso, le condizioni del rimpatrio. Pertanto, sembra superfluo invocare la dottrina dei controlimiti, secondo la quale di fronte ad una possibile violazione di un principio fondamentale dato dalla Costituzione nazionale non possono invocarsi le esigenze primarie dell'applicazione uniforme del diritto eurounitario[12], dal momento che è lo stesso diritto dell’Unione ad aprire questi spazi di discrezionalità.
E, poiché alla norma di diritto sostanziale deve corrispondere uno strumento processuale, così come nella direttiva rimpatri è lasciata agli Stati membri la facoltà di prevedere permessi di soggiorno per motivi «caritatevoli e umanitari» e nella direttiva qualifiche si riconosce la facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in materia di protezione internazionale, nel regolamento Dublino III esiste la clausola discrezionale, cioè la facoltà per lo Stato membro di dichiararsi competente in deroga ai criteri fissati dall'art. 7; non si tratta di un ulteriore criterio per la determinazione di competenza, ma della facoltà di derogarvi.
In tal senso anche la più recente giurisprudenza della CGUE ha precisato che l’obiettivo dell’art. 17 del regolamento è «di salvaguardare le prerogative degli Stati membri nell’esercizio del diritto di concedere (recte: riconoscere) una protezione internazionale»[13] rimarcando che la disposizione ha natura facoltativa e che «detta facoltà è intesa a consentire a ciascuno Stato membro di decidere in piena autonomia, in base a considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico, di accettare di esaminare una domanda di protezione internazionale, anche se esso non è competente in base ai criteri stabiliti da detto regolamento» (par. 38)[14].
La dicitura clausola discrezionale non deve trarre in inganno e far ritenere che essa conferisca all'amministrazione nazionale libertà assoluta nella decisione se dichiararsi o meno competente; la clausola è discrezionale nel senso che essa consente a ciascuno Stato membro di decidere in piena autonomia, discostandosi dai criteri indicati dal regolamento Dublino III che, diversamente, sarebbero vincolanti, e nel senso che nessuna norma europea prevede un ricorso sull’esercizio di detta clausola[15]. La Corte di giustizia pone un limite, diretto a salvaguardare il principio del mutual trust affermando che la clausola non impone al giudice dello Stato membro richiedente di dichiarare tale Stato membro competente qualora non condivida la valutazione dello Stato membro richiesto quanto al rischio di refoulementdell’interessato. Per il resto, si tratta di questioni interne sulle «considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico»fatte da ciascuno Stato nell’ambito della propria autonomia e sulle procedure per farle valere. Ed infatti si legge nella più recente giurisprudenza europea che «tenuto conto della portata del potere discrezionale in tal modo accordato agli Stati membri, spetta allo Stato membro interessato determinare le circostanze in cui intende far uso della facoltà conferita dalla clausola discrezionale prevista dall’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III e accettare di esaminare esso stesso una domanda di protezione internazionale per la quale non è competente in base ai criteri definiti da detto regolamento» ed ancora che «la possibilità di contestare tale decisione in occasione di un ricorso avverso la decisione di trasferimento non può che trovare fondamento nel diritto nazionale»[16].
Ma, se la giurisdizione europea si astiene dal giudicare l’esercizio della clausola discrezionale (che diversamente non sarebbe tale) salvo quando si ponga in contrasto con il principio del mutual trust, non altrettanto il giudice nazionale poiché, nel nostro ordinamento, la discrezionalità della pubblica amministrazione non è totalmente insindacabile; il giudice ordinario non può sostituire la propria discrezionalità a quella della pubblica amministrazione e non può sindacare le considerazioni di tipo politico, ma può spettargli il sindacato sulle (omesse) considerazioni di tipo umanitario quando il rifiuto – esplicito o implicito – di avvalersi della clausola discrezionale e il conseguente provvedimento di trasferimento incida su diritti soggettivi annoverati tra i diritti umani fondamentali.
Qui può individuarsi un collegamento tra l'esercizio della clausola discrezionale e la protezione complementare.
Come sopra si è detto, il termine «umanitario» non ha lo stesso significato del termine «caritatevole»; ed infatti nella vigenza dell’art. 5 comma 6 del TUI nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 4 ottobre 2018 (decreto sicurezza), convertito in legge 132/2018, la protezione umanitaria non è stata ricostruita dalla giurisprudenza nazionale come una misura caritevole, ma di tutela di diritti fondamentali. L’esigenza qualificabile come umanitaria, secondo la giurisprudenza, è quella concernente un diritto umano fondamentale che «non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l'accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione»[17]. Si è quindi affermato che questa misura è una tutela a carattere residuale, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale, riferibile a un «catalogo aperto» legato a ragioni di tipo umanitario non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica, quanto su una condizione di vulnerabilità da accertare su base individuale; le situazioni di vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano possono avere l’eziologia più varia, senza dover necessariamente discendere come un minus dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria [18].
Oggi il termine protezione umanitaria è in disuso: la protezione complementare, o speciale che dir si voglia, è il nomen iuris che deve darsi a quella forma di protezione (nazionale), residuale rispetto alla protezione internazionale, che risulta dal combinato disposto degli art. 5 comma 6 e 19 del TUI.
L’esperienza di questi ultimi anni, in convulso susseguirsi di riforme degli artt. 5 e 19 del TUI, ha insegnato che non è possibile, in Italia, configurare un sistema dell’asilo sfornito di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, perché non sarebbe interamente attuativo dei principi costituzionali. E, che siano menzionati o meno dalla norma di diritto positivo, gli obblighi costituzionali e internazionali sussistono comunque, come ha dovuto ricordare il Presidente della Repubblica nella sua lettera di accompagnamento all’emanazione del decreto sicurezza del 2018. Per questa ragione si è mantenuto, pur nel tempo modificandolo, un quadro normativo nazionale, affiancato al CEAS, che regola la condizione dello straniero non avente diritto alla protezione internazionale, ma comunque non rimpatriabile.
Quale che sia il nomen iuris dato alla misura residuale, se muoviamo dall’assunto che si tratta pur sempre proteggere diritti umani fondamentali sebbene con misure rimesse alla discrezionalità del legislatore nazionale, dovremmo sgombrare il campo dall’equivoco che il legislatore possa esercitare detta discrezionalità sopprimendo alcuni diritti o creandone di nuovi; i diritti umani sono diritti storici che, al momento attuale, sono fondati sul consensum omnium gentium, vale a dire sul loro riconoscimento e ricognizione nelle Carte dei valori fondamentali. Pertanto, per rispettare gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, si devono proteggere, in ogni caso, i diritti umani riconosciuti dalla Costituzione e dalle altre Convenzioni internazionali, restando al legislatore solo la discrezionalità su come proteggerli e attraverso quali meccanismi processuali accertarli; e ciò fermo restando che nel nostro ordinamento non vi è spazio per i «dritti tiranni» che sfuggano cioè a qualsivoglia bilanciamento con altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette[19].
Se le superiori considerazioni sono condivisibili, potrebbe allora condividersi l’affermazione che la protezione speciale (o complementare) nazionale corrisponde alla ipotesi di più ampia tutela dei diritti che l’Unione europea lascia alla discrezione dello Stato membro; a questo spazio di autonomia legislativa – in concreto esercitato dallo Stato italiano – corrisponde uno spazio di autonomia procedimentale, che comprende la facoltà di derogare ai criteri di competenza stabiliti dal regolamento Dubino III, potere discrezionale sindacabile non già dagli organi giurisdizionali della UE, ma dal giudice nazionale, qualora incida su diritti fondamentali, comprimendoli senza operare un adeguato giudizio di bilanciamento.
[1]In ambito CEAS, per protezione internazionale si intendono lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria come precisato dall’art. 2, lettera a), della Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13/12/2011 (Direttiva qualifiche).
[2] Corte di Giustizia UE 19/03/2019, Jawo, C‑163/17; Corte EDU 05/12/ 2013, S. v. Austria; Corte EDU, Grande Camera 21/01/2011 M.S.S. v. Belgio e Grecia; Corte EDU 02/10/2014, S. v. Italia e Grecia.
[3] Cass. sez. un. n. 8044 del 30/03/2018.
[4] Corte di Giustizia UE, Grande sezione 18/12/2014 nella causa C‑542/1 (M’Bodj).
[5] Acierno M., La protezione umanitaria nel sistema dei diritti umani, in Questione Giustizia 2/2018.
[6] Cass. civ. n. 19176 del 15/09/2020; Cass. civ. n. 20218 del 15/07/2021.
[7] Cass. civ. n. 10686 del 26/06/2012; Cass. civ. n. 25459 del 29/08/2022; Cass. civ. n. 30365 del 31/10/2023.
[8] Cass. civ. n. 37044 del 17/02/2021; Cass. civ. n. 16828 del 17/06/2024; Cass. civ. n. 12170 del 06/05/2024.
[9] Cass. civ. 12170/2024 cit.
[10] Corte di Giustizia UE C-661/17 M.A., S.A., A.Z/ Ireland, par. 77, 78 e 79.
[11] Cass. civ. n. 23724 del 28/10/2020.
[12] Corte Cost. 21/04/1989 n. 232; nella giurisprudenza costituzionale tedesca analoga teoria è nota come “principio Solange” in virtù del quale su ammette la prevalenza del diritto dell’UE anche sul diritto costituzionale nazionale a condizione che l’Unione europea e la giurisprudenza della CGUE garantiscano una protezione efficace dei diritti fondamentali che sia paragonabile, nel suo contenuto essenziale, a quella prevista dall’ordine costituzionale nazionale.
[13] Corte di Giustizia UE 18/04/2024 nella causa C‑359/22 (HAY / Min. Giust. Irlanda) par. 37.
[14] Corte di Giustizia UE, HAY cit.; negli stessi termini la sentenza del 30/11/2023.
[15] Corte di Giustizia UE 18/04/2024 HAY, cit. par 46/47; così anche nella sentenza del 30/11/2023 ove si richiama la sentenza del 23/01/2019, M.A. e a., C‑661/17, par 58.
[16] Corte di Giustizia UE 18/04/2024 HAY, cit. par. 39-46.
[17] Cass., sez. un., n. 19393 del 09/09/2009.
[18] Cass. civ. n. 23604 del 09/10/2017; Cass. civ. n. 28990 del 12/11/2018; Cass. civ. n. 1104 del 20/01/2020.
[19] Corte Cost. n. 85 del 09/05/2013.