Osservazioni essenziali sulla dichiarata inammissibilità della proposta referendaria in materia di responsabilità civile dei magistrati (Corte costituzionale n.49/2022)
di Mario Serio
Sommario: 1. Il tema generale e transnazionale della responsabilità giudiziale ed il propellente alla sua formulazione - 2. La via referendaria già battuta in materia di responsabilità giudiziale - 3. I termini del quesito referendario - 4. La diffusa risposta negativa sull’ammissibilità del quesito da parte della Corte Costituzionale - 5. Concise considerazioni conclusive e prospettiche: la lezione inglese.
1. Il tema generale e transnazionale della responsabilità giudiziale ed il propellente alla sua formulazione
Parlare di responsabilità per l'esercizio di funzioni giudiziarie è terreno per sua natura ricco di risposte possibilmente antitetiche, divise come possono essere tra la propensione al principio di sostanziale immunità proprio di ordinamenti molto evoluti come quello inglese[1] e la speculare, pervicace ricerca di ragioni e condizioni per l'affermazione della responsabilità stessa.
La comparazione con il diritto inglese[2], che solo sommariamente questa sede consente di svolgere, immette l'osservatore in un duplice circuito di pensiero che, in linea astratta, ben potrebbe essere applicata all'ordinamento italiano (ed in parte, come l'indagine successiva sulla giurisprudenza costituzionale renderà evidente, è stata recepita). Il primo lato, che ha determinato il definitivo affrancamento del common law inglese dalle suggestioni tendenti ad ipostatizzare l'erroneità della decisione giudiziale nella persona di chi l'ha pronunciata decretandone una colpa fonte di responsabilità, va individuato nella liberatoria distinzione tra rimedio risarcitorio anticamente esperibile nei confronti del giudice errante - nel tempo abbandonato in conformità alla nuova ed adesiva coscienza sociale - e rimedio impugnatorio, a buona ragione elevato al livello della piena satisfatttività per la parte che dell'errore aveva patito le conseguenze pregiudizievoli. L'altro aspetto riguarda la ariosa esposizione della base in senso continentale “costituzionale” dell'immunità giudiziale compiuta dalla House of Lords in una pronuncia del 1975[3]. Essa prende corpo in rapporto alla posizione ordinamentale del Giudice, qualificato come “il depositario di una posizione soggettiva di natura pubblicistica diretta ad assicurare che l'amministrazione della giustizia non venga impedita dagli attacchi collaterali delle parti deluse[4]”. E con questa posizione, ancora perfettamente resistente ad onta del tempo trascorso perché espressiva del senso democratico attribuito in quell'ordinamento all'opera di amministrazione della giustizia, si avvera in forma stentorea la felice scissione tra la persona del giudice ed i suoi atti, rendendo indipendenti il destino dell'uno da quello degli altri.
Se, in linea generale e con il conforto dell'esperienza del common law inglese quale si è andata dispiegando in forma liberale dopo l'oscuro periodo della Star Chamber[5], appare ragionevole e storicamente accettato - e di recente costituzionalmente elevato al rango dei principii costituzionali grazie al Constitutional Reform Act del 2005[6] - attribuire all'atteggiamento immunitario il benefico scopo di non compromettere con indebite pressioni psicologiche l'attività di giudizio esercitata “intra vires” (escludendo dall'area di protezione quella posta in essere all'esterno di qualsiasi potere attributivo della competenza decisoria), non omogenea ed univoca si rivela la ricognizione dei moventi a predicare l'opposto regime, come dimostrano vicende periodicamente imposte all'attenzione del mondo del diritto in Italia. Ed infatti, tali moventi solo occasionalmente si radicano in riflessioni dallo spiccato significato giuridico, tra le quali potrebbe in via di ipotesi annoverarsi la domanda sulla congruità del trattamento differenziale riservato a magistrati e ad altri funzionari dello stato o di enti pubblici a mente dell'art. 28 Cost. o sulla razionalità della richiesta, “de iure condito” (legge 117/1988 con le successive modificazioni apportate dalla legge 18/2015) di un elemento soggettivo restrittivamente qualificato per l'affermazione della responsabilità dei primi rispetto a quella degli altri. Si tratta, al contrario, di interrogativi ricalcati su un'analisi non affetta da pregiudizi estranei al dominio delle analisi di natura concettuale ma piegata all'obiettivo dell'appiattimento su un'unica, unitaria ed indifferenziata base giustificativa della responsabilità di tutte le persone operanti nell'ambito dell'impiego pubblico. Nel tempo questo desiderio di omogeneità di regime normativo nei confronti di condotte produttive di un danno ingiusto a terzi (è sempre il paradigma della responsabilità aquiliana nella cornice degli artt. 2043 ss. cod. civ. quello in cui si inscrivono i tentativi al riguardo) si è espanso nel senso di racchiudere nel proprio perimetro di osservazione anche i casi di responsabilità di esercenti attività libero-professionali (medici, avvocati, etc.) e ponendo tali attività come parametro di riferimento di una sostanzialmente ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla categoria giudiziale che sfuggirebbe alla regola riassunta nella plebea espressione “chi sbaglia paga”. A misura che talune di queste prese di posizione popolari e di non scarso successo hanno preso piede, addirittura soppiantando quelle, maggiormente competitive, espresse in punto di razionalità del sistema, è nei relativi propugnatori arieggiata come soluzione riconformatrice del sistema quella dell'abrogazione delle norme limitative della responsabilità giudiziale.
2. La via referendaria già battuta in materia di responsabilità giudiziale
La sentenza n. 49 del 2 marzo 2022 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile - per ragioni che si andranno qui man mano esponendo - la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione di alcune norme della legge 13 aprile 1988 n. 117 sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati offre un'utile rassegna delle questioni già sottoposte, in sede di esame della legittimità costituzionale del corpo normativo in questione o dell'ammissibilità di referendum abrogativi di parti di esso, alla cognizione della Corte stessa.
Il richiamo a tali precedenti ha costituito nell'occasione più recente il binario lungo il quale è scorso il convoglio che raccoglieva i principii fondamentali in materia di scopo della legge 117 del 1988 e di criteri cui necessariamente devono uniformarsi i quesiti referendari con propositi abrogativi.
Per quanto di utilità per il presente saggio si possono evocare i passaggi che seguono.
Il punto di diramazione dell'impostazione adottata dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza può con sufficiente certezza ravvisarsi nel motivato richiamo alla propria giurisprudenza, ed in particolare alla sentenza 38 del 2000 con la quale, nel dichiarare inammissibile altro quesito referendario sempre vertente su disposizioni della legge 117 del 1988 e tendente all'introduzione attraverso il voto popolare della responsabilità civile diretta dei magistrati, la Corte negò che “l'introduzione dell'azione diretta nei confronti del magistrato, accanto alla perdurante possibilità di proporre l'azione contro lo Stato, possa realizzarsi grazie a meccanismi di riespansione o autointegrazione dell'ordinamento attivati dall'eventuale abrogazione popolare”. Dell'importanza di questa statuizione, e della sua potenziale (poi effettivamente tradottasi in atto) decisività nella fattispecie si è resa conto la difesa dei proponenti il referendum odierno che, per sottrarsi alla precedente censura di difetto di chiarezza del precedente quesito, ha precisato che il successivo è ben in grado di esibire il proprio intento teleologico, consistente, appunto, nel raggiungimento del fine della previsione della responsabilità civile diretta degli appartenenti all'ordine giudiziario: si vedrà oltre che anche questa volta l'obiettivo è stato mancato.
Ulteriori fondamenti di un discorso di continuità vanno agevolmente colti nella citazione di quelle sentenze costituzionali (5 del 2015, 25 del 2011, 40 del 2000, 30 e 34 del 1997) le quali hanno concordemente sottolineato come la previsione normativa, attuata con la più volte menzionata legge 117 del 1988, di un'unica tipologia di azione diretta (quella verso lo Stato) preclude la possibilità che solo attraverso la via referendaria (e non quella legislativa) si introduca una seconda categoria di azioni risarcitorie, quelle dirette contro il magistrato. A questo ostacolo i proponenti hanno opposto -senza, tuttavia, cogliere nel segno, come apparirà chiaro più avanti - la tesi secondo cui “l'eliminazione dell'espressione “contro lo Stato” possa sprigionare un autonomo contenuto normativo, facendo riespandere la disciplina generale che prevede la coesistenza della disciplina dello stato e quella diretta del magistrato, discendente proprio dai citati art. 28 Cost. e D.P.R. n. 3 del 1957”: con ciò evidentemente riferendosi all'ipotesi di carattere eccezionale di responsabilità diretta del magistrato derivante dalla accertata commissione di un illecito penale ai sensi dell'art.13 della legge 117 del 1988.
La Corte si è mostrata particolarmente attenta, poi, in aderenza ai propri costanti orientamenti alle possibili, negative ricadute sull'ammissibilità dei quesiti referendari in generale della manipolazione della struttura linguistica dell'abroganda disposizione: esito da evitare in relazione al rischio che da essa possa prender vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo ed idoneo a stravolgere la funzione propria del referendum abrogativo (sentenze 10 del 2020, 46 del 2003, 50 e 38 del 2000, 26 del 1997).
In questa illustrazione preliminare al merito della sentenza di cui ci si occupa vanno ricordati i due seguenti, ulteriori dati, l'uno di carattere giurisprudenziale, l'altro di profilo normativo.
Partendo da quest'ultimo la Corte Costituzionale ha opportunamente ripercorso le tappe evolutive verso l'odierno regime in materia di responsabilità giudiziale, rammentando come il vigente assetto legislativo prenda le mosse dalle previsioni degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. le quali, bensì consentivano l'esercizio dell'azione diretta in ipotesi estreme nei confronti del magistrato, subordinandola, tuttavia, all'autorizzazione del Ministro della giustizia, per poi evolversi, a seguito della loro abrogazione con il referendum popolare del 1987, nella legge 117 del 1988 che preserva lo statuto costituzionale della magistratura attraverso l'introduzione di condizioni e limiti alla responsabilità civile dei magistrati e la previsione di un'azione di rivalsa dello Stato direttamente chiamato in causa e soccombente nei confronti del magistrato responsabile. Il sistema si è poi completato con la legge 18 del 2015 che ha ampliato le ipotesi di responsabilità civile del magistrato ed eliminato il filtro della previa dichiarazione di ammissibilità dell'azione ed ha configurato l'azione di rivalsa da parte dello Stato soccombente nel giudizio contro lo stesso direttamente proposto nei confronti del magistrato che abbia cagionato un danno ingiusto con dolo o negligenza inescusabile.
Venendo al riferimento effettuato nella sentenza 49 /2022 al proprio precedente più remoto tendente al coordinamento sistematico delle disposizioni, di rango costituzionale ed ordinario, aventi ad oggetto la responsabilità giudiziale la Corte Costituzionale si sofferma sulla propria, antecedente sentenza 2 del 1968 con cui, pur riconoscendo che la norma dell'art. 28 citato concerna anche i magistrati[7] si ammette che leggi ordinarie disciplinino variamente la responsabilità per categorie e situazioni, alla sola condizione che essa non sia sostanzialmente denegata, come avrebbe aggiunto la sentenza 385 del 1996.
3. I termini del quesito referendario
Tra gli altri quesiti referendari in materia di giustizia[8] quello che spiegabilmente suscitava maggior allarme per quanto di attinenza al mantenimento dell'impianto costituzionale che descrive e tutela la figura dell'appartenente (Giudice e Pubblico Ministero) all'ordine giudiziario, tratteggiandone lo statuto, era certamente la proposta di abrogazione[9] di varie disposizioni della legge 117 del 1988 che limitano allo Stato la legittimazione passiva nei giudizi promossi a seguito di atti o fatti riconducibili al magistrato ravvivati dal necessario sostrato soggettivo e produttivi di danno ingiusto. Il dichiarato fine perseguito dai proponenti era quello di dar vita ad un regime di responsabilità civile capace di concepire la possibilità che la persona lesa nella propria posizione soggettiva per effetto di atti compiuti nell'esercizio di funzioni giudiziarie agisca direttamente contro il magistrato autore degli stessi. La comune matrice del quesito referendario, formulato da alcune Regioni ad omogenea maggioranza politica (Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte) era data dalla tensione all'abolizione della norma speciale in virtù della quale l'azione di responsabilità giudiziale tipica va, salvo l'ipotesi eccezionale di fatti penalmente rilevanti di cui con sentenza definitiva il magistrato sia stato giudicato colpevole, promossa esclusivamente contro lo Stato, pur con la menzionata possibilità della rivalsa (punto 2.2. della sentenza). Nell'illustrare le ragioni a sostegno dell'ammissibilità del quesito i proponenti ne hanno sottolineato la chiarezza e coerenza, desumibile anche dal citato fine cui è diretto, positivamente apprezzabile anche alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale che, in tema di responsabilità civile dei magistrati, ha riconosciuto al legislatore la possibilità di “scelte plurime, anche se non illimitate” nonché “una valutazione discrezionale” (sentenze 26 del 1987 e 38 del 2000 ), nella logica del contemperamento delle contrapposte esigenze del soggetto ingiustamente danneggiato ad ottenere ristoro per i pregiudizio subìto e di quella della preservazione dell'indipendenza della magistratura (considerazioni che escluderebbero l'eventualità che in materia sia presente una disciplina costituzionalmente vincolata: punto 2.1 della sentenza).
4. La diffusa risposta negativa sull’ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale
Si è già fatto cenno nei paragrafi precedenti ad alcuni dei tratti fondativi della sentenza per quanto afferisce al contesto storico-normativo della vicenda dedotta con il quesito e ad alcuni basilari principii destinati ad ispirare il compito valutativo della Corte Costituzionale in frangenti simili.
Conviene adesso concentrarsi su quegli aspetti della pronuncia che, con rigoroso criterio logico, hanno assunto ad oggetto del giudizio il puntuale raffronto tra il modo di formulazione e l'obiettivo propostosi dal quesito e le regole proprie della fase di ammissibilità del referendum, tratte anche dalla necessaria previsione dello scenario normativo che si verrebbe a configurare nell'ipotesi di ammissione e celebrazione del referendum, con voto popolare di approvazione della proposta abrogativa.
La prima cura della sentenza è stata dedicata alla individuazione e successiva qualificazione, refluente sul giudizio di ammissibilità, della tecnica del “ritaglio” adottata nella prospettiva di abrogare alcune espressioni lessicali ricorrenti nelle numerose norme della legge 117 del 1988 oggetto del quesito al fine di consentire in definitiva che il magistrato possa essere citato direttamente nel giudizio civile risarcitorio da parte del danneggiato, così superando la vigente normativa che prevede forme di responsabilità del magistrato solo in sede di rivalsa da parte dello Stato, ove quest'ultimo sia stato condannato al risarcimento, mentre in caso di reato la responsabilità del magistrato non consegue ad un'azione intentata nei suoi confronti innanzi al giudice civile, se non per effetto di una previa condanna penale (punto 3 della sentenza).
In primo luogo, proprio alla stregua di quest'attività interpretativa, in ottica teleologico-effettuale, del quesito la Corte ne ha dichiarato l'inammissibilità, denunciandone un carattere manipolativo e creativo, e non meramente abrogativo. Per spiegare questo delicatissimo e dirimente punto di vista la Corte si immerge nella storia normativa[10], di cui si è prima fornita una sintesi, che ha attraversato[11] il tormentato istituto della responsabilità giudiziale che ha trovato il proprio (sarebbe azzardato qualsiasi pronostico di definitività) approdo nella legge 18 del 2015,di cui si sottolinea la (indiretta, in verità) genesi nella nota sentenza della grande sezione della CGUE 13 giugno 2006 in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa[12]. Al riguardo, la completezza espositiva suggerisce di ridimensionare in queste pagine la pretesa necessarietà della portata causale della giurisprudenza comunitaria rispetto all'emanazione della legge[13]: a questa conclusione si perviene pianamente considerando quanto affermato da Cass. 20 ottobre 2016 n. 21246 che ha risolutamente negato che la disciplina della legge 117/1988 fosse incompatibile con l'ordinamento comunitario qualora la condotta contestata al magistrato non implichi l'applicazione, diretta o indiretta, del diritto dell'Unione.
Tornando alla censura di manipolatività e creatività rivolta dalla Corte Costituzionale al quesito referendario va lodata la conseguenzialità logica del ragionamento svolto. Esso muove dalla prefigurazione dello scenario in senso ampio normativo (o forse sarebbe più esatto dire dal vuoto o dall'aporia) che si presenterebbe agli occhi dell'interprete nel caso di introduzione, a cagione dell'ammissione e dell'approvazione con voto popolare del quesito, dell'azione civile diretta nei confronti del magistrato “senza alcun filtro” e cioè come semplice effetto meccanico dell'impiego “della cosiddetta tecnica del ritaglio” (punto 6 della sentenza). E' immediata la percezione, come acutamente osserva la Corte, che la conseguenza pratica sarebbe quella di creare un nuovo regolamento normativo del tutto indipendente da una deliberazione parlamentare, peraltro privo dei necessari requisiti di determinatezza (tempi, modi, condizioni, limiti) relativi alla concreta conformazione dell'azione diretta. In sostanza, ben può dirsi che si sarebbe dato vita ad un'“invenzione” legislativa effettuata al di fuori del canale parlamentare ed attraverso un'indebita usurpazione, nell'improprio teatro del referendum abrogativo, del potere legislativo ad opera del corpo elettorale. Di pari evidenza sarebbe l'assoluta insufficienza a riempire di compiuto e consentito spazio il vuoto lasciato dall'eventuale esito referendario, a colmare il quale non potrebbe di certo giovare il residuo impianto della legge 117 del 1988, nata ed elaborata con il contrario presupposto della tipicità della sola azione diretta nei confronti dello Stato e con la solo residuale previsione dell'azione di rivalsa nei confronti del magistrato (assoggettabile all'azione diretta, come già ribadito, nel solo caso di commissione di un illecito penale accertato nella competente ed irretrattabile sede). In sostanza, è facile osservare che al “ritaglio” tentato attraverso il quesito conseguirebbe un'autentica eterogenesi dei fini della residua legislazione, distolta dal suo coerente alveo originario e distorta verso fini logicamente inconciliabili, se non antitetici, rispetto ad esso. Assolutamente opportuna si rivela, da questo punto di vista, l'affermazione racchiusa a metà del punto 8 allorché si legge che “la responsabilità civile del magistrato, in quanto necessariamente subordinata alla introduzione legislativa di condizioni e limiti del tutto peculiari, non si presta alla piana applicazione della normativa comune vigente in tema di responsabilità dei funzionari dello Stato; sottraendosi, in caso di abrogazione referendaria, alla potenziale riespansione dei principi ai quali tale ultima normativa si conforma (già la sentenza n.468 del 1990 aveva sottolineato la coessenzialità di tali condizioni e limiti alla eventuale introduzione di un'azione diretta)”.
Conviene soffermarsi su questa affermazione di principio prima di guardarne le conseguenze dalla Corte Costituzionale tratte in punto di ammissibilità del quesito referendario.
Tirando le somme dalla proposizione prima riportata si deduce la intatta solidità dell'architettura concepita sul tema da Corte Costituzionale n.2 del 1968 (Sandulli Presidente, Branca redattore), articolata in una coppia di considerazioni: la peculiarità, di origine costituzionale, dell'istituto della responsabilità giudiziale; l'ineludibile esigenza che attorno al tema si crei un'armoniosa rete di coordinate disposizioni legislative rivolte allo scopo di individuare condizioni e limiti alla previsione di un'azione di responsabilità diretta nei confronti del magistrato.
Su queste inoppugnabili basi, al tempo stesso obbedienti alla logica argomentativa e fedeli alla costruzione costituzionale della Magistratura (art. 101 ss.), la sentenza 49/2022 definisce il quadro degli effetti dell'eventuale abrogazione delle norme citate nel quesito referendario, dichiarando il fallimento del relativo scopo in quanto inadatto a concepire con sufficiente adeguatezza “una seconda e differente forma processuale di responsabilità del magistrato” da accostare a quella unica (dello Stato in via diretta) voluta dal legislatore del 1988.
Tutti gli ulteriori argomenti adibiti dalla Corte Costituzionale a suffragio della irrimediabile distanza del quesito dal corteo di inveterati principii alla cui stregua valutarne l'ammissibilità sviluppano il tema dell'inefficacia della proposta abrogativa rispetto al fine perseguito di introduzione di una forma diretta di responsabilità giudiziale, di cui mancherebbero sia gli elementi strutturali sia i mezzi di coordinamento letterale, logico e sistematico con la coesistente responsabilità dello Stato (si veda in particolare il punto 9.3): analoghe critiche erano state indirizzate ad altra, precedente proposta abrogativa attraverso referendum dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza 34 del 1997.
Proprio l'ineliminabile convivenza tra due forme di responsabilità (quella previgente dello Stato e quella di ipotetica nuova introduzione referendaria) gioca nel senso di appannare la possibilità di una scelta chiara e certa da parte dell'elettore che fosse chiamato ad esprimersi sul quesito (cui deve essere riconosciuta la facoltà di una scelta chiara nell'esercizio del suo potere sovrano di voto: Corte Costituzionale 39 del 1997) lasciandolo del tutto privo di razionali punti di riferimento circa il rapporto tra la responsabilità civile dello Stato e quella diretta del magistrato, in particolare rimanendo tutt'altro che sciolto il dubbio circa la natura solidale o sussidiaria della prima rispetto alla seconda, così incorrendo in un ulteriore profilo di oscurità già segnalato in occasione simile dalla sentenza costituzionale n. 26 del 1987 (punto 10.2).
Il serrato discorso condotto dalla sentenza ha condotto, pertanto, alla dichiarazione di inammissibilità sotto varii e concorrenti profili del quesito referendario: ma non è detto che questa pronuncia ne inibisca la futura riproposizione non sembrando cessati i profondi, reconditi moventi ispiratori ai quali si è alluso nella parte iniziale
5. Concise considerazioni conclusive e prospettiche. La lezione inglese
L'elevato indice di frequenza della proposizione di quesiti referendari in materia di responsabilità civile dei magistrati con riguardo all'esercizio delle proprie funzioni e la focosissima vivacità del dibattito politico, non di rado tracimante nella frontale e sfrontata sfiducia nei confronti dell'intero ordine giudiziario, rappresentano sintomi non trascurabili e da non trascurare nel più vasto ambito della riconsiderazione in chiave critico-propositiva dell'odierna concezione dell'attività giurisdizionale e dei concreti modi di inverarla da parte dei singoli magistrati.
Sarebbe completamente estraneo ad uno studio, come il presente, dedicato al ragionato esame di un'importante e simbolicamente preziosissima pronuncia della Corte Costituzionale indugiare sulle molteplici spigolature che la complessa questione implica: in misura maggiore sconsiglia una simile distrazione intellettuale la spesso provocatoriamente ricercata ed amplificata natura politica (non sempre pensata in senso nobile) della genesi e delle possibili soluzioni di essa.
Ma un auspicio si può formulare, incoraggiato anche dalle lucide ed emotivamente distaccate ragioni addotte dalla Corte Costituzionale per dichiarare inammissibile il referendum di cui qui si è scritto.
Esso suona nel senso che accostarsi al tema della responsabilità giudiziale postula che un fondamentale presupposto venga accettato e collocato al centro della riflessione, al pari di quanto la ricca esperienza giuridica inglese insegna: la necessaria separazione concettuale e pratica da operare in sede processuale tra la persona e l'atto del magistrato. Cumulare o rendere indifferenziati i due aspetti conduce all'ineluttabile risultato di velare ogni indagine, lasciando che essa presti il fianco al fondato timore alla tentazione - intollerabile quando si discute attorno a valori costituzionali - della faziosità intellettuale. Il prezzo sarebbe troppo alto da pagare e la collettività che non può che guardare con quotidiana speranza alle vicende che si svolgono nel campo dell'amministrazione della giustizia non meriterebbe di vederselo addebitato. Esporre il provvedimento giudiziale che si assume iniquo o errato ad un ulteriore grado di giudizio e non l'autore a conseguenze processuali dirette (dal discorso esula, ovviamente, il problema delle ricadute in termini di considerazione professionale del magistrato) ed eccedenti lo scopo e l'esito del nuovo giudizio è la lezione che continua ad impartirci il common law inglese.
Bene ed utilmente si possono assumere come guida illuminante le parole di Lord Hailsham (al secolo Quintin Mc Garel Hogg, 1907-2001), illuminato giurista, giudice della Appellate Division della House of Lords e Lord cancelliere in governi conservatori, di tale risoluto carattere da esser temuto – secondo i suoi biografi – perfino da Margaret Thatcher, pronunciate nel corso di una lezione tenuta il 17 ottobre 1977 alla New Brunswick Law School[14]. Egli affermò[15] che l'indipendenza giudiziale è un grande bastione contro una concezione assolutistica della democrazia e rappresenta uno dei principii fondativi della libertà e della democrazia inglesi. Egli, pur non escludendo la legittimità della sottoposizione a critiche dell'operato dei giudici (cui saggiamente suggeriva di non cedere mai alla tentazione di rispondervi), concludeva nell'esemplare senso che al risultato dell'efficacia dell'azione giudiziale dovesse, comunque, tendersi senza alcun sacrificio della essenziale libertà di giudizio, fino a raggiungere anche le vette della creatività, in modo da difendere i diritti individuali contro i soprusi della burocrazia e della politica[16].
È insopprimibile il desiderio che parole e concetti così nobili possano risuonare sempre in ogni aula (parlamentare, giudiziaria) nella quale si dibatta del senso e dei limiti dell'attività giudiziale.
[1] Può essere utile il rinvio a Serio, Responsabilità o immunità giudiziale: studio comparatistico su un'apparente alternativa, in Il giusto processo civile, 2017, pagg. 333 ss., nonché, al sempre mio, Riflessioni sulla responsabilità giudiziale in diritto comparato, in Europa e diritto privato, 1998, pag. 1149 ss.
[2] Per il raffronto con altri ordinamenti si può rinviare a Bairati, La responsabilità per fatto del giudice in Italia, Francia e Spagna, fra discipline nazionali e modello europeo, Napoli 2013.
[3] Avenson v Casson Beckman Rutley &Co. ( 1975 ) 3 WLR 823.
[4] “He is merely the repository of a public right which is designed to ensure that the administration of justice will be untrammelled by the collateral attacks of disappointed litigants”.
[5] Serio, Responsabilità o immunità, cit. pag. 337.
[6] Criscuoli-Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese, II edizione, Milano, 2021, pag. 381 ss.
[7] Si ritenne, infatti, che andasse esclusa sia la legittimità di una negazione totale della responsabilità giudiziale sia la ragionevolezza di una siffatta ipotetica negazione e in sé, con riguardo anche al principio di eguaglianza, ed in rapporto al criterio di imputabilità per gli atti ed i provvedimenti posti in essere dai pubblici dipendenti ai sensi del testo unico n. 3 del 1957: v. sul punto, Serio, Riflessioni, cit., pag. 367 ss.
[8] Su cui si è soffermato criticamente Giovanni Verde nel suo Referendum: quesiti di difficile comprensione. Davvero utili ?, in Guida al diritto n.8 del 5 marzo 2022.
[9] La cui denominazione è stata integrativamente rivisitata dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione nei seguenti termini: “Responsabilità civile diretta dei magistrati: abrogazione di norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio di funzioni giudiziarie”.
[10] Già in passato si è autorevolmente segnalata la doverosità di un soddisfacente e chiarificatore intervento legislativo: Bartole, Della responsabilità civile del giudice e di quella ( per inadempienza ) del legislatore ordinario, in Giur.it., 1976, I, 1135 ss.
[11] Anche per effetto dell'esame del tema generale da parte della restrittiva giurisprudenza di legittimità: da Cass.1722/1960 a Cass.1879/1982 secondo cui - in difformità da Cass.1916/1979 - nel precedente sistema descritto dalle norme processualcivilistiche “non sussiste coincidenza tra la responsabilità del funzionario e quella dello Stato per il quale egli agisce”: orientamento subito dopo seguito dal Tribunale di Roma con sentenza 29 settembre 1982 in Resp. civ. e prev. 1983, 222 con nota redazionale.
[12] È ben verificabile l'impatto inziale della riforma del 2015 in alcune pronunce della Cassazione nelle quali si sottolinea che la responsabilità del magistrato si configura come caratterizzata da un elemento soggettivo costituito da un'attività interpretativa abnorme, scorretta e tale da sconfinare nel libero arbitrio: Cass.7 aprile 2016 n. 6791 in Resp. civ. e prev., 2016, 1585 con nota di Giorgetti, Le fantasiosi interpretazioni dei giudici di merito vanno sanzionate.
[13] Sulla quale si vedano i primi commenti di Rosano, Rimaneggiamenti della legge sulla responsabilità civile dei magistrati: nuove questioni di legittimità costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 2016, 920 ss. e Cortese - Penasa, Brevi note introduttive alla riforma della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp .civ. e prev., 2015, 1026 ss.
[14] E pubblicate sotto il titolo Democracy and judicial independence, in U.N.B. Journal 1977, 7 ss.
[15] Si veda il mio Responsabilità o immunità giudiziale, citato, pag. 355.
[16] Op. ult. cit., pag. 17.