In ricordo di Gianfranco Ciani di Gabriella Luccioli
*Nella foto di copertina: al centro Gabriella Luccioli e Gianfranco Ciani, a sinistra Ernesto Lupo, a destra Ugo Vitrone. Montepulciano 1966.
1. Gianfranco Ciani è stato per l’ordine giudiziario un grande magistrato, per me anche un amico fraterno. Per questa ragione le mie parole non potranno prescindere da alcuni riferimenti personali.
Conobbi Gianfranco al primo anno di università alla Sapienza, uno studente modello, attento, studioso, gentile nel tratto.
Percorremmo in parallelo i quattro anni del corso universitario e ci laureammo entrambi a novembre del quarto anno, entrambi con una tesi in diritto penale, entrambi seguiti dal professor Vassalli.
Poi, subito dopo la laurea, ricordo Gianfranco proiettato con grande determinazione verso la preparazione del concorso in magistratura secondo un progetto da tempo coltivato. In questo impegno non potei seguirlo subito, non essendo consentito a me donna, all’ epoca, di accedere alle funzioni giurisdizionali. Ma poco dopo la legge del febbraio 1963 eliminò quell’orribile discriminazione, così che potei raggiungere Gianfranco nella preparazione del concorso, frequentando insieme a lui una piccola scuola di via della Mercede e seguendo le belle lezioni del consigliere di Stato Santoni Rugiu.
Superammo entrambi le prove di esame, svolgemmo insieme il tirocinio e poi avemmo le prime funzioni, lui alla pretura di Foligno, io al tribunale di Montepulciano.
E dopo qualche tempo di nuovo a Roma, ancora insieme alla pretura di Roma, ad occuparci di esecuzioni mobiliari.
In seguito i nostri percorsi professionali si divaricarono, perché Gianfranco andò alla Procura generale della Cassazione con funzioni di magistrato applicato e poi di sostituto procuratore generale; nel 2008, con voto unanime del CSM, fu nominato avvocato generale; nel 2011, sempre con voto unanime, procuratore generale aggiunto; infine nell’aprile 2012, ancora una volta con voto unanime, procuratore generale.
Continuammo a coltivare insieme la passione per lo studio del diritto in un piccolo gruppo di magistrati che sotto la guida del presidente Brancaccio si incontravano una volta la settimana per dibattere insieme di temi giuridici. Il presidente Brancaccio ci accompagnò per tutto il corso della sua prestigiosa carriera in un lungo cammino di studio e di maturazione professionale.
2. La storia di Gianfranco Ciani, tutta all’interno della giurisdizione, è quella di un magistrato di elevatissima professionalità, che ha testimoniato in ogni occasione la sua concezione della giustizia come servizio per il cittadino ed ha dimostrato come le funzioni di pubblico ministero, esercitate per gran parte della sua vita professionale, possono nutrirsi della cultura della giurisdizione.
Nell’intervento svolto il 25 gennaio 2013 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 affermò che per un pubblico ministero essere parte integrante della giurisdizione significa “imparare a misurare il valore dell’azione penale (e, prima ancora, della stessa attività di indagine) sul suo esito giurisdizionale” e precisava che “il sintagma cultura della giurisdizione significa proprio una progressiva attrazione delle ragioni dell’indagine nella futura prospettiva della sentenza: in uno scenario, cioè, che non si fermi al facile clamore mediatico delle cautele personali, ma che riesca a intravedere, prospetticamente, i presupposti dell’affermazione di responsabilità. La validità di un’inchiesta non è in un provvedimento custodiale ottenuto, ma solo nella definitiva condanna di un colpevole”.
Nello svolgimento dell’incarico di segretario generale della Procura generale, affidatogli nel 2003 e conservato sino alla nomina ad avvocato generale, procedette ad una radicale ristrutturazione dell’Ufficio tesa ad una sua maggiore efficienza ed avviò e portò a termine l’informatizzazione dei registri della segreteria penale.
Nella qualità di avvocato generale addetto al disciplinare dette corso ad una importante riorganizzazione del servizio nel segno della uniformità e della trasparenza, così da garantire la diffusione interna delle problematiche affrontate e l’omogeneità formale dei capi di incolpazione.
Nel corso della sua lunga esperienza di pubblico ministero si occupò di processi delicatissimi, che sfiorarono i palazzi del potere, svolgendo il ruolo dell’accusa con equilibrio e saggezza. Da segnalare il processo a carico dell’on. Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, in cui chiese ed ottenne l’assoluzione dell’uomo politico definendo mere congetture le accuse; quello a carico dell’avvocato inglese Mills, concluso con l’accoglimento da parte della Cassazione della sua richiesta di dichiarare la prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari, ma non di prosciogliere nel merito; quelli contro importanti esponenti della criminalità terroristica, interna ed internazionale, tra i quali va ricordato il giudizio di cassazione originato da un provvedimento di cattura nei confronti del presidente dell’OLP Arafat, che poneva delicati problemi di diritto internazionale.
E poi processi che hanno segnato la storia del nostro Paese, come quelli a carico di Annamaria Franzoni e di Angelo Izzo, o quello relativo all’attentato dell’Addaura.
Dopo la nomina a Procuratore generale continuò a partecipare alle udienze dinanzi alle Sezioni unite penali, così rompendo una tradizione risalente negli anni di disimpegno del capo dell’Ufficio dall’esercizio dell’attività giurisdizionale in senso stretto.
Nelle funzioni di titolare dell’azione disciplinare esercitò il relativo potere con forte senso dell’istituzione ed equità, non disgiunta dal necessario rigore lì dove si trattava di censurare comportamenti di particolare gravità. A tale riguardo osservò nel richiamato intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 che “il controllo sul versante della responsabilità disciplinare è requisito coessenziale all’indipendenza della magistratura, nella ricerca del punto di equilibrio tra autonomia della funzione e garanzia della qualità del servizio reso, senza derive né verso la tutela corporativa, né verso un conformismo burocratico”.
Ancora si impegnò attivamente, sia a livello nazionale che internazionale, per la istituzione del pubblico ministero europeo al quale affidare la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Intensa la sua partecipazione a convegni ed incontri internazionali in Paesi europei ed extraeuropei, nonché a conferenze mondiali dei procuratori generali.
Fece parte di numerose commissioni ministeriali per la riforma del codice di procedura penale, nonché della commissione di studio per la riforma del CSM, dei consigli giudiziari e del consiglio direttivo della Cassazione istituita con d.m. 12 agosto 2015.
Fu collaboratore de Il Foro Italiano e componente del comitato di direzione di Cassazione penale. Curò vari commenti ai codici penale e di procedura penale.
La misura dei toni, il tratto gentile e la straordinaria umanità hanno segnato la figura di un magistrato che non ha mai fatto sfoggio della sua cultura e della sua preparazione, ma ha assunto sobrietà e compostezza come suo habitus professionale e mentale. Ogni suo ragionamento era frutto di riflessione e di ponderazione.
I reiterati richiami, nel ruolo di Procuratore generale, al dovere di riserbo, gli inviti a sottrarsi alle lusinghe dell’immagine e della notorietà, a non coltivare rapporti privilegiati con la stampa, a non ricorrere in modo disinvolto a provvedimenti di custodia cautelare, il costante riferimento alla necessità di una adeguata organizzazione degli uffici del pubblico ministero, in rapporto alle complesse funzioni loro demandate, con la sollecitazione a costituire in ogni Procura gruppi di lavoro specializzati ed a fissare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, non solo consentono di delineare l’immagine di un magistrato a tutto tondo, portatore dei valori dell’indipendenza e dell’autonomia e attento alla qualità del servizio, ma esprimono una visione estremamente attuale dei problemi sul tappeto e delle possibili soluzioni.
Altrettanto lucide ed attuali appaiono le sue considerazioni sulla necessità di interventi legislativi volti ad un’efficace opera di depenalizzazione, che limiti la sanzione penale alla tutela di beni costituzionalmente garantiti, e ad una seria modifica della disciplina della prescrizione, secondo una visione che poneva le due linee di intervento normativo come sfide immediate per la garanzia dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Nell’intervento svolto il 23 gennaio 2015 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, l’ultimo prima del suo pensionamento, denunciò l’errore diffuso nella società di individuare nel giudice penale il metronomo assoluto dei comportamenti esigibili sul piano etico dai consociati, così consegnando esclusivamente a detto giudice la percezione della antisocialità di talune condotte e affidando alla giurisdizione il peso di distorte incombenze culturali ed ideologiche.
La consapevolezza dei pericoli insiti in tale fenomeno, diretto a caricare la giurisdizione di enormi aspettative etiche e sociali destinate a rimanere deluse, non gli impedì di lanciare, in detta occasione, un segnale di ottimismo con parole che in questo momento così difficile è bello richiamare: “è venuto il momento di reagire al pessimismo dilagante, divenuto una sorta di alibi dell’immobilismo e dell’improvvisazione, e di creare le condizioni per contrastare una situazione che è certamente grave, ma può essere superata se prevalgono l’ottimismo della volontà e l’impegno della magistratura e delle istituzioni interessate, in spirito di coesione, per adeguare l’amministrazione della giustizia al livello dei Paesi più avanzati”.
3. Gli anni dopo il pensionamento non sono stati facili per Gianfranco: lo tormentavano seri problemi alla vista, con le inevitabili limitazioni alla lettura e alla vita di relazione. Ed era proprio questo che più lo angosciava: l’impossibilità di continuare a leggere, a studiare, ad occuparsi dei temi che avevano interessato tutta la sua vita professionale e di impiegare pienamente il suo tempo. Da ultimo la malattia che lo ha stroncato e che rendeva la sua voce al telefono sempre più debole, ma sempre carica di amicizia, una voce in cui pur nella sofferenza era possibile percepire una nota di sollievo per il piacere di risentirci.
Ai due splendidi figli Stefania e Giancarlo che hanno seguito la sua strada professionale resta il conforto di aver vissuto accanto ad una persona eccezionale e la prospettiva di seguirne l’esempio.
A noi resta la testimonianza autorevole di un modo alto di essere magistrato.