Il carcere nello specchio di un’emergenza
di Mauro Palma
sommario: 1. Guardare dentro oggi. - 2. Lo sguardo di sempre. - 3. Lo sguardo dell’urgenza.
Il rischio di contagio all’interno di un’istituzione chiusa e densa quale è il carcere e le manifestazioni anche violente che si sono sviluppate nei primi giorni di marzo costituiscono uno specchio per leggere la realtà attuale della detenzione e il recente abbandono di una effettiva progettualità nell’esecuzione delle pene. Questa premessa deve essere alla base di una implementazione significativa delle pur limitate misure di decongestione del carcere finora adottate.
Sommario: 1. Guardare dentro oggi. - 2. Lo sguardo di sempre. - 3. Lo sguardo dell’urgenza.
1. Guardare dentro oggi.
Difficile parlare del carcere in questi giorni. Tentare di descrivere la sensazione di ‘doppia detenzione’ che pervade corridoi e stanze e che aggiunge al senso di restrizione, proprio della situazione contingente dell’essere in quel luogo, quello del nemico invisibile e intangibile che il contagio rappresenta e che potrebbe entrare in quei corridoi e in quelle stanze.
Difficile, soprattutto perché la necessaria urgenza di approntare difese rispetto alla rapidità attuale del propagarsi della positività al Covid-19 deve coniugarsi con l’efficacia di ogni strumento che si intende predisporre: deve essere in grado di ridurre quella densità umana di cui il carcere è concreta rappresentazione. Una riduzione necessaria perché situazioni chiuse e dense, abitate da una popolazione che spesso – troppo spesso – è connotata dall’accentuata vulnerabilità sono luoghi di potenziale esplosione non solo del contagio, ma anche della rabbia e di una reazione che nella sua stessa violenza assume una connotazione autodistruttrice.
Questi giorni hanno visto proprio gli effetti di una rabbiosa risposta a un messaggio che è entrato in modo strisciante nei luoghi di detenzione: quello del prospettarsi di una improvvisa e stretta chiusura, con blocco delle persone che entravano e uscivano dal carcere per semilibertà o accesso al lavoro esterno e drastica interruzione dei colloqui visivi e degli apporti che associazioni e cooperative offrono alla realizzazione di programmi che diano concretezza alla finalità costituzionale della pena detentiva. Un blocco annunciato a cui si contrapponeva visibilmente l’assenza di misure volte a tutelare gli ‘interni’ dal possibile contagio prodotto dagli ‘esterni’ che continuavano a entrare negli istituti per funzioni di sicurezza o di amministrazione senza alcuna misura di controllo. Questa asimmetria prospettata – prima ancora che vissuta – ha dato la sensazione plastica di una lettura esterna del mondo detentivo non soltanto come non appartenente al complessivo quadro sociale, ma come un universo carico di una morbilità intrinseca che coinvolgeva le persone ristrette e anche quelle a loro legate.
A nessuno è sfuggito il fatto che talune proposte e qualche improvvida iniziativa locale siano andate in questa direzione prima ancora che il decreto dello scorso 8 marzo venisse emanato. Così come è stato evidente che in alcuni ambiti si sia ragionato in via analogica con la previsione del primo comma dell’articolo 41-bis, come se l’emergenza richiedesse la sospensione del trattamento. Non è sfuggito, per esempio, al Garante nazionale che un Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria già dal 24 febbraio avesse disposto la «sospensione fino al 1° marzo di ogni attività trattamentale, di natura culturale, ludico o sportiva per cui sia previsto l’accesso della comunità esterna» negli Istituti di competenza oltre che «la sospensione dei colloqui detenuti/familiari». Quasi che la comunità esterna, oltre che i congiunti delle persone detenute, fossero il solo veicolo di possibile contagio, a differenza degli operatori interni sui quali continuava a non essere eseguito alcun controllo.
Questo pre-allarme è stato uno dei fattori che ha determinato l’insorgere della violenta protesta non appena è stato firmato il decreto che sospendeva i colloqui fino al 22 marzo e che incoraggiava fortemente il ricorso all’utilizzo di strumenti di comunicazione a distanza, oltre che incentivare in durata e numero i colloqui telefonici: in fondo una misura ridotta rispetto ai rumors precedenti, ma la tensione era già alta e la notizia di un caso di contagio nell’Istituto di Modena ha avviato la più dura e cruenta protesta degli ultimi trent’anni. Ne sono stati coinvolti quarantanove Istituti e l’esito sono stati tredici morti tra le persone detenute e quasi sessanta agenti di Polizia penitenziaria feriti, in modo non grave, e un nutrito gruppo di evasi dall’Istituto di Foggia, al momento quasi tutti riportati in carcere. Ben undici delle persone decedute erano straniere: nomi e numeri a cui è difficile associare una storia e che un po’ frettolosamente sono state archiviate come decedute a seguito di loro comportamenti. Nessun elemento vi è per sostenere ipotesi diverse da quelle fin qui formulate dalle autorità che indagano, ma colpisce la rapida dimenticanza delle loro storie – a uno mancavano solo alcune settimane prima del termine dell’esecuzione penale – il loro non essere nemmeno menzionate nel riportare gli episodi al Parlamento, il loro essere solo un numero. Tredici, ben superiore anche a eventi drammatici del passato nel periodo di insorgenze carcerarie che si connettevano con una realtà esterna in sommovimento. Oggi, nella calma esterna accentuata dalle strade deserte e da quel tempo sospeso che il ritrovarsi all’interno di un contagio di cui noi stessi siamo portatori comporta, sembrano poca cosa. Forse sembra contare di più il capire se e come la criminalità organizzata si sia inserita nelle maglie di queste proteste, perché ciò attenua la nostra responsabilità rispetto a un sistema detentivo che anche senza epidemie ci interroga sulla sua compatibilità con quanto il Costituente volle definire in termini di utilità, funzionalità e, quindi, d’intrinseca legittimità dell’esecuzione penale.
2. Lo sguardo di sempre.
Quest’ultimo aspetto riporta alla descrizione del carcere precedente alla contingente emergenza. La si può analizzare seguendo tre direttrici: la prima, la più usuale, è quella dell’affollamento, oltre i parametri definiti sin dal 1975 e soprattutto in taluni Istituti oltre il tollerabile; la seconda è quella sensatezza del tempo che scorre nella privazione della libertà e la sua commensurabilità con il fluire del tempo esterno; la terza è quella del possibile recupero di una finalità rieducativa, seppure tendenziale, nel contesto attuale.
Sono tre direttrici che si intersecano tra loro e che vanno considerate come variabili di sfondo rispetto alle quali leggere la connessione con l’emergenza attuale. Per avere così una chiave di lettura anche del decreto legge che porta proprio la data di ieri, 17 marzo 2020. Perché queste tre direttrici, lette congiuntamente, aprono a una riflessione che investe il ruolo che un ordinamento democratico assegna alle pene, il loro necessario non restringersi alla detenzione, la loro continuità con lo scorrere della vita prima e dopo la commissione del reato e le modalità di espiazione della relativa sanzione. In sintesi una riflessione sulla sensatezza e sulla ‘produttività’ del sistema sanzionatorio.
L’aver posto gli apici al termine ‘produttività’ non è casuale, proprio per l’ambiguità che questo riferimento può determinare. Eppure le sanzioni penali devono corrispondere a una utilità sociale ed è giusto verificare se tale utilità si raggiunga o quantomeno si adombri nell’attuale sistema: se, quindi, l’attuale esecuzione delle pene raggiunga o meno tale obiettivo. Certamente, infatti, la risposta al reato non può restringersi alla mera simmetria – o quasi – di quanto commesso, né proporsi solo in termini di prevenzione rispetto alla reiterazione del reato o di monito per altri potenziali autori. In primo luogo, perché la tipologia prevalente dei reati commessi da chi attualmente è ristretto in carcere nel nostro paese – e analogamente in quello di altri paesi economicamente e socialmente simili – è quella della serialità: forte è la connessione con scelte soggettive, con stili di vita, spesso criminalizzati in quanto assunti come non coerenti con il modello di normalità pre-definito. È questo il caso dei reati relativi all’uso di sostanze stupefacenti, in termini sia direttamente di possesso e piccolo spaccio, sia di azioni commesse per procurarsele. Così come frequente è la presenza di autori di reati connessi alla marginalità sociale e a vite quotidianamente condotte ai limiti della legalità; situazioni numericamente accentuate negli ultimi anni col ridursi della presenza di strutture di appoggio e, di fatto, anche di orientamento verso la legalità. Tutte situazioni, queste, che determinano nell’attuale sistema detenzioni sostanzialmente brevi e frequentemente ripetute – situazioni che chiariscono il riferimento alla mancata ‘produttività’.
Qui, i numeri aiutano: alla data odierna 4567 persone scontano in carcere una pena – non un residuo di una pena maggiore – inferiore ai due anni, senza altre pendenze; di questi, 1545 scontano una pena inferiore a un anno. Questo dato per un verso ci interroga e per altro verso apre alla prospettiva che si vuole intraprendere in questo momento per venire incontro all’ineludibile esigenza di alleggerire la densità detentiva. Una densità ancora più accentuata oggi che, dopo le rivolte, più di mille posti sono divenuti indisponibili e si sono aggiunti ai quasi quattromila che già erano tali.
Il numero interroga su cosa rappresenti quel residuo interno di persone che avrebbero potuto godere di modalità alternative che l’ordinamento prevede. Rappresenta qualcosa che in primo luogo sintetizzo con il termine povertà. Povertà non solo materiale o di dimora, ma anche di strutture sociali che sostengano la difficoltà, la capacità di comprendere, la possibilità di accedere a strumenti che non rendano i diritti delle mere enunciazioni. La loro presenza in carcere è l’immagine, quindi, di altre assenze, esterne a esso. Ma, in secondo luogo, rappresenta anche la tendenza a cedere anche inconsapevolmente alle paure che negli ultimi anni sono state coltivate da più parti alla ricerca di consenso: le cautele verso le misure alternative – che se sotto il profilo normativo non si sono ampliate come si sperava, non sono neppure state ridotte – sono il rischio di un cedimento alla logica consensuale nella loro concessione. Altrimenti è difficile spiegare come mai nell’ultimo anno si sono ridotti gli ingressi in carcere dalla libertà di circa mille unità e al contempo è aumentato il numero delle presenze di milleduecento unità: si entra e non si esce.
Parallelamente, queste linee di riflessione intersecano la variabile tempo. Il legame tra tempo interno e tempo esterno va rapidamente perdendosi. Non solo perché il ritmo del secondo è fortemente accelerato, mentre quello del primo si ripete immutato, facendo sì che una unità di tempo sottratto alla libertà oggi contenga un quantitativo molto maggiore di esperienze perse di quanto non ne contenesse nel passato, quando il quantum di pena per un dato reato venne normativamente definito; determinando così una maggiore difficoltà di reinserimento effettivo ed attivo nel contesto sociale esterno. Ma anche perché il tempo nel carcere di oggi è sostanzialmente, salvo alcune lodevoli eccezioni, un contenitore di ‘intrattenimento’ più o meno adeguato, ma che sempre rimane proiettato all’oggi e al dentro senza interrogarsi sul domani e il fuori. Il carcere ha perso una ipotesi e rimane soltanto sottrazione: molti si sforzano di rendere accettabile, decorosa e rispettosa tale sottrazione, ma senza una ipotesi progettuale in grado in primo luogo di restringere la sua ampiezza ai soli casi di effettiva necessità e possibile utilità, resta una pena, appunto, meramente sottrattiva.
3. Lo sguardo dell’urgenza.
In questo panorama si inserisce lo sguardo dell’urgenza che la situazione attuale richiede. E che può paradossalmente essere un’occasione: per ridurre i numeri, per tornare a interrogarsi sul perché del carcere e sul suo limite.
C’è molto cammino da fare, andando a passo svelto perché così richiesto dall’impellenza del presente, ma anche con passo ben direzionato perché deve essere chiara la necessità di ridare sensatezza al cammino, di ricomprendere l’orientamento dei passi. In questa ipotesi il decreto di ieri è soltanto un primo piccolo passo in avanti che sarà ben direzionato se in sede applicativa saprà cogliere il senso del suo andare e non si restringerà nella timidezza.
Il decreto interviene su due istituti esistenti: il primo è la semilibertà, prevedendo la possibilità di licenza e, quindi, il non rientro in carcere di quelle 1060 persone detenute che già spendono l’intera giornata fuori di esso, così recuperando per un arco di tempo un discreto numero di posti potenzialmente utili in caso di diffondersi della necessità di spazi dove separare persone; il secondo è l’esecuzione della pena detentiva presso il domicilio in una forma accelerata, che affianca quella esistente per un periodo che si suppone copra la necessità di far fronte all’epidemia, con una procedura più snella e con dei ‘paletti’ più forti proprio a compensare tale maggiore fluidità di adozione del provvedimento. Lo scontro su questi ‘paletti’ non è stato di poco conto e taluni lasciano tuttora perplessi, soprattutto relativamente all’incidenza di aspetti disciplinari sulla complessiva decisione. Questi – vale la pena ricordarlo – sono anche il frutto di timori sorti dopo le recenti insorgenze in carcere e della conseguente volontà di non apparire cedevoli di fronte alle proteste: di nuovo uno sguardo miope di fronte a una necessità di saper guardare lontano.
Resta fermo l’elemento decisionale del magistrato. Che dovrà saper comprendere il senso della norma sia nella sua prospettiva immediata di prevenire una situazione che avrebbe riflessi gravi sulla popolazione ristretta e anche su quella al di qua del muro di cinta, sia nella prospettiva di lungo periodo per riaprire una condivisione di responsabilità con i territori affinché il carcere non sia il luogo dove si addensano le contraddizioni che in essi non trovano risposta. Certamente colpisce il vincolo della disponibilità del controllo elettronico – quasi a dare all’impresa appaltatrice il perno della decisione sulla libertà – ma tranquillizzano da tempo le Sezioni unite della Cassazione che più di tre anni fa hanno chiarito come l’indisponibilità del controllo tecnologico non possa essere motivo per evitare una circostanziata valutazione e l’adozione di una misura che ne faccia a meno.
Non credo che il fatto che un passo sia considerato ancora limitato, piccolo, possa non indurre a percorrerlo con apertura verso i successivi. L’essenziale è, come sempre, la chiarezza della direzione.