ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Limiti all’accesso agli atti di gara e al potere acquisitivo del giudice in presenza di segreti tecnici o commerciali e tutela brevettuale (nota a Cons. Stato, Sez. III, 26 10 2021 n.7173)
di Martina Sforna
Sommario: 1. Premessa – 2. La vicenda – 3. Il potere acquisitivo del giudice in presenza di qualificate ragioni di riservatezza aziendale – 4. I requisiti di specificità e adeguatezza della motivazione relativa alla sussistenza della segretezza tecnica e commerciale – 5. Considerazioni conclusive sul contenuto della tutela brevettuale.
1. Premessa
Nell’ordinanza che si annota vengono in rilievo differenti profili connessi alla tematica del diritto di accesso agli atti di gara in presenza di segreti tecnici o commerciali e di brevetto, in merito ai quali, però, la Terza Sezione del Consiglio di Stato lascia dei dubbi interpretativi da sciogliere.
In particolare, la medesima, pronunciandosi in merito ai limiti del potere del giudice di procedere all’acquisizione integrale dell’offerta tecnica dell’aggiudicataria al fine di garantire la completezza istruttoria del giudizio di merito, evita di affrontare direttamente la questione del rapporto di bilanciamento tra interesse del richiedente l’accesso ed esigenza di riservatezza del concorrente, enunciando, comunque, dei principi anche ad essa estensibili. Invero, il Collegio individua le caratteristiche che deve presentare la motivazione corredata all’opposizione all’accesso, evidenziando come non debba essere meramente apparente e sottolineando, altresì, come il momento e la sede in cui la concorrente si oppone all’ostensione degli atti, rappresentino un criterio di valutazione della fondatezza dell’opposizione stessa.
Ciò posto, a margine dell’ordinanza, si imporranno delle riflessioni in materia di segreti commerciali, con particolare riferimento al rafforzamento della loro tutela, sia a livello normativo che giurisprudenziale. Da ultimo, si ritiene opportuno interrogarsi sul reale contenuto della tutela brevettuale, al fine di comprendere se essa possa essere realmente considerata un limite alla divulgazione delle informazioni tutelate.
2. La vicenda
L’ordinanza n. 7173 del 2021 è stata pronunciata con riferimento ad un giudizio incidentale avente ad oggetto un’istanza ostensiva, formulata dalla parte appellante del ricorso principale e finalizzata ad ottenere l’esibizione dell’offerta tecnica della società aggiudicataria di una procedura di appalto espletata ai sensi dell’art. 54, co. 4, lett. c) D.lgs. n. 50/2016, essendosi la ricorrente classificata in seconda posizione. Invero, il giudizio di appello a cui inerisce il giudizio incidentale di cui si tratta, era stato promosso dalla medesima ricorrente, al fine di ottenere l’annullamento della deliberazione adottata dall’Amministrazione, con la quale si disponeva l’aggiudicazione della procedura di Appalto Specifico, concernente il servizio di lavanolo, alla società controinteressata.
L’istanza ostensiva era già stata formulata in occasione del primo grado di giudizio, ma era stata in quella sede respinta dal giudice a causa della mancata proposizione di rituali censure (motivi aggiunti, anziché semplice memoria) in relazione alla dedotta difformità dell’offerta tecnica dell’aggiudicataria rispetto alle prescrizioni di gara.
Sul punto, però, la ricorrente aveva evidenziato, in sede di appello, come l’omessa formulazione di motivi aggiunti fosse dovuta proprio alla incompletezza istruttoria derivata dalla mancata acquisizione dell’offerta tecnica della controinteressata nonostante le formulate istanze istruttorie. La ricorrente, in particolare, aveva sottolineato come, non avendo l’Amministrazione provveduto al deposito dell’offerta ai sensi dell’art. 46, co. 2, c.p.a., la stessa avrebbe dovuto essere acquisita dal TAR ex art. 65, co. 3, c.p.a.
Ciò posto, la Terza Sezione, richiamando un orientamento della Corte di Giustizia[[1]], aveva accolto l’istanza istruttoria, rilevando come l’offerta tecnica dell’aggiudicataria costituisse documento essenziale, rappresentante il presupposto del provvedimento di aggiudicazione impugnato, e come, dunque, la stessa dovesse essere depositata agli atti di causa, affidando alla Segreteria il compito di oscurare le parti che, secondo comprovate ragioni della aggiudicataria, costituissero segreto tecnico o commerciale. In seguito al deposito dell’offerta con dichiarazione di integrale segretazione da parte della controinteressata, e alla conseguente opposizione della ricorrente, la Terza Sezione, accogliendo l’opposizione, ha assegnato all’aggiudicataria trenta giorni per provvedere al deposito dell’offerta tecnica con puntuale e motivata individuazione delle parti da oscurare. La controinteressata ha, quindi, provveduto al deposito della documentazione richiesta, indicando le parti contenenti, ad avviso della medesima, delle informazioni non divulgabili in quanto inerenti a segreti tecnici e commerciali, le quali sono state, di conseguenza, oscurate.
In seguito a ciò, la ricorrente ha presentato dei motivi aggiunti con i quali ha contestato le argomentazioni apposte a giustificazione della parziale secretazione dell’offerta, evidenziando, oltre al fatto che la brevettazione relativa alle invenzioni industriali “finisce con renderle di pubblico dominio”, che la presenza di segreti tecnici e industriali sia stata invocata in modo del tutto generico dall’aggiudicataria. Inoltre, la stessa ha sottolineato come l’obbligo di produzione delle schede tecniche dell’offerta si imponesse ai sensi dell’art. 51, co. 2, codice della proprietà industriale (d’ora in poi c.p.i.), atteso che “l’invenzione deve essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla […]”. Ha, infine, sostenuto come, ai sensi dell’art. 76, co. 1, lett. b) c.p.i., il brevetto sia nullo nel caso di mancata descrizione in modo sufficientemente chiaro e completo dell’invenzione, chiedendo alla Sezione di procedere alla relativa verifica.
3. Il potere acquisitivo del giudice in presenza di ragioni di riservatezza aziendale “qualificata”
Muovendo dall’esame delle censure proposte, nonché dal tenore delle precedenti ordinanze, il Collegio si premura inizialmente di delineare l’oggetto del giudizio, evidenziando come lo stesso non comprenda la questione del rapporto di bilanciamento tra esigenza di riservatezza del concorrente ed interesse del richiedente l’accesso, “in quanto il potere del giudice […], esercitabile anche officiosamente ex art 65, co. 3, c.p.a., è principalmente orientato a garantire la completezza istruttoria del giudizio di merito […] e non a soddisfare l’interesse ostensivo di una delle parti del giudizio, in funzione della difesa in giudizio degli interessi di cui essa è oggettivamente portatrice”. Ciò che acquista, dunque, rilevanza nell’opinione del Collegio è la funzionalità degli atti richiesti alla completezza del giudizio, piuttosto che l’interesse del ricorrente all’accesso, con specifico riguardo alla sua eventuale inflessione difensiva ex art. 53, co. 6, D. lgs. n. 50/2016.
Sul punto, peraltro, si ritiene che per quanto strutturalmente distinti, in tal caso, il potere istruttorio del giudice e l’interesse all’accesso del ricorrente siano in realtà orientati verso il medesimo scopo. Infatti, obiettivo dell’appellante era proprio quello di avere accesso alla documentazione richiesta al fine di formulare delle censure, le quali avrebbero consentito al giudice di pronunciarsi sul punto. Del resto, lo stesso ricorrente aveva lamentato di non aver potuto presentare dei motivi aggiunti proprio a causa della mancata ostensione della documentazione richiesta.
Nell’ottica dell’ordinanza, dunque, la tutela delle ragioni di riservatezza aziendale viene in rilievo, non tanto quale ostacolo al diritto di accesso del concorrente con il quale, secondo il Collegio, avrebbe dovuto essere contemperato già in prima battuta dall’Amministrazione, ma “quale limite oggettivo alla divulgazione della documentazione meritevole di segretazione”.
Infatti, la peculiare disciplina dettata dall’art. 53, co. 5, lett. a) D.lgs. n. 50/2016[[2]] in materia di accesso agli atti di gara e riservatezza, deve ritenersi applicabile altresì in relazione alla documentazione da acquisire in giudizio, in quanto si riferisce espressamente non solo al diritto di accesso, ma anche a ogni altra “forma di divulgazione”.
Di conseguenza, anche in tale occasione, il Consiglio di Stato si pronuncia sul tema del delicato rapporto tra divulgazione del contenuto delle offerte tecniche presentate in occasione delle procedure di gara e diritto alla segretezza aziendale[[3]]. Invero, pur sembrando la questione risolta dal legislatore, proprio con la citata disciplina di cui all’art. 53 D.lgs. n. 50/2016, è al giudice che si rimette, in concreto, il compito di conciliare i due interessi contrapposti.
4. I requisiti di specificità e adeguatezza della motivazione relativa alla sussistenza della segretezza tecnica e commerciale
Nel giudizio di cui si tratta, la Terza Sezione, nel cercare di conciliare le due esigenze contrapposte, di divulgazione e segretezza, si esprime sulla conformità della dichiarazione relativa alla sussistenza di segreti tecnici e commerciali resa dall’aggiudicataria ai requisiti di specificità e adeguatezza della motivazione richiesti nell’ambito delle precedenti ordinanze.
Sul punto essa si pone pienamente in linea con la giurisprudenza in materia, la quale, volendo contemperare il crescente rafforzamento della tutela della segretezza industriale[[4]] con la trasparenza garantita dall’esercizio del diritto di accesso, è sempre più attenta alla serietà della motivazione addotta sia a sostegno del segreto che a sostegno dell’accesso.
In questo senso, le corti di merito hanno precisato, da un lato, come del diritto di accesso non si possa fare un uso emulativo[5] e, dall’altro, come la dichiarazione con cui la concorrente intende opporsi alla ostensione dei documenti di gara, non può consistere in una “formula generica e stereotipata”[6]. Al contrario, infatti, la motivazione relativa alla sussistenza del segreto industriale e commerciale assume un ruolo centrale, considerato che la valutazione dell’effettiva inerenza delle informazioni in rilievo al complesso del know-how aziendale non può essere valutata ex officio dal giudice[[7]], richiedendosi, invece una “motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente”[[8]]. Nondimeno, la giurisprudenza ha avuto occasione di evidenziare come il diniego all’accesso non può fondarsi nemmeno su valutazioni proprie della stazione appaltante[[9]].
Quanto al sindacato del giudice sulla motivazione addotta dall’offerente, nella presente ordinanza il Collegio sottolinea come il giudice possa alimentarsi di tutti gli “elementi utili al suo giudizio”, sia estrinseci che intrinseci alle informazioni di cui si discute. In particolare, tra gli elementi estrinseci da valutare, l’ordinanza contempla il momento e la sede in cui l’offerente si oppone all’ostensione della documentazione, in quanto contenente segreti tecnici e commerciali. Ciò significa che l’opposizione della concorrente all’accesso, che venga manifestata già nel contesto dell’offerta, pur non rappresentando una pre-condizione della fondatezza dell’opposizione, risulterà più meritevole rispetto a quella formulata successivamente. Sul punto, dunque, la Terza Sezione si pone in contrasto con quella giurisprudenza[[10]] che, invece, riconosce l’esclusione dell’accesso solo in caso di dichiarazione preventiva del concorrente circa la presenza di segreti tecnici e commerciali.
Quanto, invece, agli elementi intrinseci da valutare ai fini del riconoscimento della sussistenza del segreto, pur condividendo con la Sezione la necessità di porre un “margine di affidamento” nelle dichiarazioni dell’offerente, ci si chiede, in maniera critica, se il giudice sia effettivamente dotato degli strumenti tecnici necessari per stabilire quali informazioni debbano essere sottoposte a segretezza e quali no. Ecco, dunque, che ci si dovrebbe forse interrogare sull’opportunità dell’intervento di un consulente tecnico, anche se ciò probabilmente mal si concilierebbe con le tempistiche del rito appalti.
In merito ai limiti del potere acquisitivo del giudice, la Terza Sezione osserva, infine, come questi debba ritenersi “affrancato dagli stringenti vincoli immanenti al principio dispositivo, con la conseguente possibilità di attingere ad argomenti ed elementi non dedotti dalle parti”.
Ciò posto sul piano teorico, il Collegio, con riferimento alla secretazione di alcune parti dell’offerta in virtù della sussistenza di segreti industriali e/o commerciali, applicando le coordinate interpretative delineate, conclude nel senso che non sussistono motivi ragionevoli per sostenere che le informazioni de quibus non ineriscano al know-how industriale dell’aggiudicataria, osservando, infatti, sia come l’opposizione del segreto fosse avvenuta già in sede di offerta, sia come il contenuto della dichiarazione di secretazione non possa essere tacciato di eccessiva genericità. Ciò nonostante, la Terza Sezione accoglie la richiesta ostensiva della concorrente, in quanto la società aggiudicataria aveva già adottato delle misure atte a salvaguardare i contenuti intrinseci degli invocati segreti, poiché nell’ambito dell’offerta la stessa aveva specificato che, essendo le fasi di lavorazione coperte da brevetto industriale, le medesime non sarebbero state illustrate nel dettaglio.
Con riferimento poi, ad un ulteriore allegato all’offerta, di cui l’appellante richiedeva l’ostensione, il Collegio decide nuovamente in senso ad essa favorevole, motivando nel senso che, contenendo, questo, informazioni su processi di produzione operati da soggetto imprenditoriale diverso dall’aggiudicataria, lo stesso non può ritenersi esclusiva di quest’ultima. Tuttavia, sul punto, si ritiene di osservare come, non essendo noti i rapporti tra la società aggiudicataria e il soggetto imprenditoriale terzo, una decisione in tal senso, potrebbe obiettivamente pregiudicare le informazioni riservate di quest’ultimo.
5. Considerazioni conclusive sul contenuto della tutela brevettuale
Oltre alle informazioni riferibili al know-how aziendale di cui il Collegio dispone, come visto, l’ostensione, l’appellante aveva formulato altresì richieste di acquisizione dei dati e della documentazione relativa al brevetto invocato dalla aggiudicataria. In relazione a tale elemento, però, la Terza Sezione ritiene di non poter accogliere le richieste in quanto, da un lato, lo stesso non rientra tra gli atti e documenti in base ai quali l’atto è stato emanato (atti a cui si riferivano le precedenti ordinanze del giudizio), e, dall’altro, risulta estraneo all’ambito di applicazione istruttorio dal quale è scaturito il provvedimento di aggiudicazione impugnato.
Ciò nonostante, pur non riguardando la pronuncia direttamente il tema del brevetto, si impongono delle riflessioni sul reale contenuto dello stesso. Invero, in più passaggi dell’ordinanza, sia con riferimento al contenuto dei motivi aggiunti presentati dall’appellante, che con riferimento alla dichiarazione di secretazione dell’aggiudicataria, si individuano dei richiami alla riservatezza connessa alla tutela brevettuale. In particolare, la ricorrente ha evidenziato come le ragioni del segreto siano state fondate dalla parte opponente proprio sulla copertura brevettuale delle informazioni richieste, motivo che sembra essere condiviso anche dal Collegio nel punto in cui afferma che “il contenuto della dichiarazione di secretazione [non può] essere tacciato di eccessiva genericità […] anche perché la dichiarazione di cui si tratta è specificata […] in relazione alla copertura brevettuale delle informazioni secretate”.
Ecco, dunque, che si impongono delle considerazioni sull’effettivo contenuto della tutela brevettuale. Nello specifico, ci si chiede se dal riconoscimento del diritto di brevetto derivi automaticamente l’esclusione della conoscibilità dell’opera dell’ingegno, come sembra essere presunto in alcuni passaggi della pronuncia, o se, diversamente, esso si limiti a garantire il solo diritto di sfruttamento economico. Sul punto, come evidenziato in premessa, il Consiglio di Stato non si esprime espressamente, lasciando dei dubbi interpretativi da sciogliere.
La questione non è di immediata risoluzione. Invero, se, per un verso, la sussistenza di un brevetto potrebbe suggerire la necessità del concorrente di mantenere delle informazioni riservate, per altro verso si è affermato in dottrina come la “presenza di un brevetto si giustifica proprio alla luce di una logica di rivelazione e trasparenza dell’invenzione, in quanto la sua immissione nel mercato può essere in grado di svelarne il contenuto”[[11]]. La stessa nozione di diritto di brevetto[[12]] non opera, peraltro, alcun riferimento espresso alla facoltà di escludere la conoscibilità dell’opera protetta. Inoltre, secondo la dottrina oggi prevalente, alla base del riconoscimento del diritto di brevetto vi sarebbe proprio una sorta di “contratto sociale” tra colui che ha inventato l’opera e il resto della collettività, in virtù del quale, il primo conseguirebbe il diritto all’esclusivo sfruttamento economico dell’invenzione e, la seconda, la possibilità di apprenderne l’insegnamento e utilizzarlo per futuri sviluppi[[13]]. In quest’ottica, peraltro, si è sostenuto che “il brevetto favorisca molto di più l’interesse pubblico al progresso tecnologico di quanto non faccia il regime di segreto perché comporta la messa a disposizione dei dati tecnologici che caratterizzano l’invenzione brevettata fin dall’inizio”[[14]], con ciò escludendosi la segretezza di quanto brevettato.
Non può poi non considerarsi come nell’ambito delle procedure di gara, oltre agli interessi del titolare del diritto di brevetto, venga in rilievo il fondamentale principio di trasparenza dell’attività amministrativa[[15]], il quale è volto proprio a promuovere la partecipazione dei cittadini alla stessa.
Ciò considerato, si ritiene, dunque, di dover ragionevolmente concludere nel senso che la sussistenza di un brevetto non può essere considerata di per sé idonea ad escludere automaticamente la conoscibilità dell’opera, essendo ciò addirittura contrario alla ratio stessa della brevettazione. Di conseguenza, al fine di mantenere delle informazioni secretate, a prescindere dalla sussistenza del brevetto, si ritiene necessaria una dichiarazione motivata del tutto analoga a quella richiesta, come nel caso dell’ordinanza in oggetto, in relazione ai segreti industriali e commerciali. Solo in tal modo, infatti, sarà possibile procedere ad un bilanciamento con le esigenze di accesso del caso concreto.
[[1]] Corte di Giustizia, 14.02.2008 in causa C-450/06, nella quale si afferma che “l’organismo competente a conoscere dei ricorsi deve necessariamente poter disporre di tutte le informazioni necessarie per essere in grado di decidere con piena cognizione di causa, ivi comprese le informazioni riservate e i segreti commerciali”.
[[2]] L’articolo riproduce, in sostanza, il contenuto dell’art. 13, D.lgs. n. 123/2006. La lett. a) del quinto comma, in particolare, stabilisce che sono esclusi il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione in relazione “alle informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”.
[[3]] Sul punto si veda V. Mirra, Accesso agli atti di gara e segretezza industriale: una conciliazione impossibile?, in Urb. e appalti, 2020, 171 ss.
[[4]] La maggiore attenzione riservata alla tutela della segretezza industriale e commerciale è confermata dall’emanazione della direttiva (UE) 2016/943 sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l'acquisizione, l'utilizzo e la divulgazione illeciti, la quale, nell’ambito del secondo considerando, sottolinea come “i segreti commerciali consentono al creatore e all'innovatore di trarre profitto dalle proprie creazioni o innovazioni e quindi sono particolarmente importanti per la competitività delle imprese nonché per la ricerca, lo sviluppo e la capacità innovativa”. Sulla base di tale direttiva, peraltro, il Legislatore nazionale, con il D.lgs. n. 63/2018, ha provveduto a modificare l’art. 98 c.p.i. con l’intento di riservare tutela espressa ai segreti commerciali.
[5] In particolare, Cons. Stato, Sez. V, 7 gennaio 2020, n. 64 afferma che “la ratio legis è di far sì che, proprio con riguardo ad una gara pubblica, che non deroga ma assicura la corretta competizione tra imprese, del diritto di accesso – per quanto garantito dal principio di pubblicità e trasparenza della condotta delle pubbliche amministrazioni o dei soggetti funzionalmente equiparati (cfr. art. 1 l. 241/1990) – non si possa fare un uso emulativo, ad esempio da parte di contendenti che potrebbero formalizzare l’istanza allo scopo precipuo di giovarsi di specifiche conoscenze industriali o commerciali acquisite o detenute da altri”.
[[6]] In questo senso T.A.R. Lazio, Roma, I, 19 maggio 2018, n. 5583.
[[7]] D. Dell’oro, L’accesso ai documenti di gara: il know how aziendale il principio regolativo del conflitto di trasparenza e riservatezza, in ItaliAppalti, 2017.
[[8]] Così, Cons. Stato, Sez. III, 11 ottobre 2017, n. 4724. In particolare, in tale pronuncia il Consiglio di Stato asserisce che “il limite alla ostensibilità è subordinato all’allegazione di ‘motivata e comprovata dichiarazione’, mediante la quale si dimostri l’effettiva sussistenza di un segreto industriale o commerciale meritevole di salvaguardia” (in senso conforme Cons. Stato, Sez. III, 15.07.2014, n. 3688).
[[9]] Si veda al riguardo Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 2016, n. 3431.
[[10]] Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 2016, n. 3431 sottolinea come “la tutela del segreto tecnico o commerciale non può essere a sua volta opposta, per la prima volta, in sede di opposizione all’istanza di accesso, dovendo essere tale indicazione oggetto di esplicita dichiarazione resa in sede di offerta”.
[[11]] V. Mirra, Op. cit., p. 176.
[[12]] L’art. 66, co. 1, c.p.i. stabilisce che “I diritti di brevetto per invenzione industriale consistono nella facoltà esclusiva di attuare l'invenzione e di trarne profitto nel territorio dello Stato, entro i limiti ed alle condizioni previste dal presente codice”. Per maggiori approfondimenti sul diritto di brevetto si veda P. Auteri e altri, Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, VI ed., 2020.
[[13]] G. Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2015.
[[14]] P. Auteri e altri, Op. cit., p. 222.
[[15]] L’art. 1, co. 1., D.lgs. 33/2013 stabilisce che “La trasparenza è intesa come accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”. La trasparenza è, inoltre, contemplata tra i principi generali dell’attività amministrativa dall’art. 1, co. 1, l. 241/1990. In tema di trasparenza si vedano, tra gli altri, R. Villata, La trasparenza dell'azione amministrativa, in La disciplina generale del procedimento amministrativo. Atti del XXXII Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna-Villa Monastero, 18-20 settembre 1986, Milano, 1989; F. Merloni, G. Arena, La trasparenza amministrativa, Milano, 2008.
Per celebrare la giornata della memoria e non dimenticare una delle più gravi tragedie della umanità la Rivista ospita una riflessione dell'Avvocato David Cerri su linguaggio e nazismo.
La lingua del nazismo
di David Cerri
...aperte le finestre del cielo
E lasciato libero lo spirito della notte
Assalitore del cielo, che ha la nostra terra
Sedotto, con molte lingue, impoetabili, e
Rotolato la maceria
Fino a quest'ora
Holderlin[i]
Interessarsi della lingua nazista non dovrebbe essere soltanto un esercizio letterario-linguistico, e neppure uno dei tanti modi per ricordare la Shoah: entrambe possibilità, peraltro, più che legittime. C’è anche un altro modo di atteggiarsi di fronte alla lingua dei totalitarismi (non solo quello tedesco novecentesco), vale a dire valutare cosa è andato definitivamente in archivio e cosa è rimasto pur nelle nuove condizioni sociali e politiche, o cosa, magari, è emerso nuovamente nel nostro vivere quotidiano.
Con questo approccio un riferimento inevitabile è l’opera di Viktor Klemperer, mite docente ebreo di Dresda che, sopravvissuto fortunosamente al nazismo, annotò l’evoluzione della lingua tedesca nel celeberrimo LTI - Taccuino di un filologo[i], cui attingerò frequentemente, anche perché alcune sue osservazioni mi sembrano attuali, ed in modo preoccupante (le citazioni sono da quel testo ove non diversamente indicato).
Suggerisco due angolazioni sotto le quali esaminare il fenomeno: quella più generale (e che forse meglio si presta a confronti col presente) dello stile, e quella della intenzionale spersonalizzazione dell’essere umano.
Lo stile, allora. Se una caratteristica basilare della Nazisprache è quella di essere una lingua povera, monotona, dalla sintassi semplice, una nota particolare va messa su come abbia cercato di annullare la distinzione tra lingua scritta e lingua parlata: “Anzi, tutto in lei era discorso, doveva essere la locuzione, appello e incitamento. Tra i discorsi e gli articoli del ministro della propaganda non c'era alcuna differenza di stile, ecco perché i suoi articoli potevano venire declamati così agevolmente. Declamarli (deklamieren) significa letteralmente leggerli a voce alta e sonora, ancora più letteralmente: urlarli. Lo stile obbligatorio per tutti era dunque quello dell’imbonitore”, e questa ultima nota rimanda in modo anche troppo preciso alla comunicazione contemporanea.
Come non riconoscere nel linguaggio delle televisioni commerciali, e poi della Rete, divenuto il linguaggio della politica, qualcosa di simile? Noi, però, dovremmo avere sufficienti anticorpi, così da evitare la lenta e spesso inconsapevole assimilazione segnalata da Klemperer:“il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente. (...) Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”.
O mi sbaglio ?
Utile l’esempio di un termine il cui significato viene trasformato dall’incessante uso da parte dello Stato e del Partito, e quindi di tutti i mezzi di comunicazione pubblica, così che, estinti l’uno e l’altro, esso riprende quello originario: Fanatismus, fanatisch.
“Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice “fanatico”, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo. I termini fanatico e fanatismo non sono un’invenzione del Terzo Reich, che ne ha solo modificato il valore e li ha usati in un solo giorno con più frequenza di quanto abbiano fatto altre epoche nel corso degli anni”. Ma crolla il regime, termina la guerra, ed allora “se ne può dedurre con certezza che per tutto il periodo hitleriano nella coscienza o nel subcosciente del popolo è rimasta ben viva la consapevolezza che una condizione mentale molto prossima alla malattia e al crimine è stata considerata per 12 anni come massima virtù”.
Non altrettanto è accaduto a mio parere per quella che sempre Klemperer definisce efficacemente la “maledizione del superlativo”, che si ritrova nel suo uso ricorrente, come quello di aggettivi come “einzig“, “gigantisch“, “historisch“, del suffisso superlativo Welt- e delle parole superlative Raum (“c’è un che di indefinito che è suggestivo”) e welthistorisch (con riferimento ai discorsi ed ai decreti di Hitler). Nel contesto dei «superlativi numerici» si pensi poi all’uso degli aggettivi total, einmalig ed ewig. Totale, unico, eterno rimandano davvero alla comunicazione commerciale che conosciamo anche noi, con una importante differenza; quando Klemperer osserva che l’uso del superlativo sia “senz'altro comprensibile perché il superlativo è lo strumento propagandistico più ovvio per un oratore o un oratore politico, è la forma propagandistica per eccellenza” conclude “Perciò il partito nazista provvide in via amministrativa a riservarlo unicamente a sé, escludendo totalmente la concorrenza”, facendo riferimento alle circolari emanate per vietarne l’uso negli annunci commerciali. Questo certo non accade in regime di liber(issim)o mercato, dove l’uso è consentito (o imposto ?) a tutti ed in ogni ambito (e verrebbe da chiedersi – ma è ovviamente una battuta – se sia un reale progresso…).
Un’ultima noterella sulle “virgolette ironiche”, che servono a porre “dubbi sulla sua [della citazione] veridicità, di per sé fanno apparire menzogna l'affermazione riportata”; non a caso un tipico esempio è quello della parola “umanità”.
La lingua dello Stato nazista ha puntato decisamente sulla spersonalizzazione dell’essere umano, sotto almeno due profili: quello dell’individuo rispetto alla comunità patriottica, al Volk: “Du bist nichts, dein Volk ist alles!”, sul quale non mi dilungo, e quella di speciali categorie, ritenute inferiori: una espressione tipica quella di Untermensch, “subumano”, a proposito della quale merita ricordare come nulla abbia a che fare con il Superuomo nicciano (mai il filosofo tedesco la utilizzò), e che anzi pare abbia tra le prime testimonianze scritte di un uso consapevole quella di uno scrittore come Theodor Fontane, giusto in contrapposizione con l’Übermensch.
Meno note quelle di Menschenmaterial, “materiale umano”, e di Stück, “pezzo”, per i deportati, nella tipica definizione amministrativo-aziendale per i passeggeri dei treni speciali verso i lager. Fa riflettere che un simile processo sia avvenuto nell’America schiavista, dove veniva usata la parola Item, o il termine chattel, con le medesime intenzioni ed il medesimo significato, corrispondente alla attuale definizione di schiavitu’: “…lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluni di essi, e lo “schiavo” è l’individuo che ha tale stato o condizione”[ii].
Un altro modo per giungere allo stesso risultato fu quello dell’uso di espressioni denigratorie: così il medico ebreo o che cura gli ebrei non è Arzt ma Krankenbehandler, e l’avvocato diventa Rechtskonsulenten (consulente giuridico):“in ambedue casi non c'è solo l'intento di isolarli, ma anche di ridicolizzarli. Nel caso del consulente questo intento è più manifesto perché un tempo si distinguevano i Winkelkonsulenten (legulei, azzeccagarbugli) dagli avvocati e laureati riconosciuti dallo stato; quanto a Krankenbehandler, l'intento derisorio consiste nel sottolineare la mancanza di quel titolo professionale ufficiale di cui sono stati privati.”
Tipico della LTI, allo stesso fine, anche l’uso di espressioni eufemistiche, come Aussiedlung (evizione), per la distruzione ed il furto di proprietà; Entlassen (dimettere, licenziare), per l’assassinare; Erholung (ricreazione, recupero) per prigione, come in Erholungslager (una delle qualifiche, ad esempio, di Bergen-Belsen); Bauernhäuser (fattorie – oggi è il termine per gli agriturismi…) per le camere a gas, quando ancora venivano usati manufatti precari prima della costruzione delle strutture in cemento; Liquidieren, dal linguaggio commerciale: “se si liquidano delle persone queste vengono eliminate tolte di mezzo come oggetti perché viene loro attribuire il valore di oggetti”; Seuchensperrgebiet (un distretto dove c’è un’epidemia) per il luogo dove gli ebrei venivano riuniti e tagliati fuori dal resto della società. Tre parole, però sopra tutte: meno nota forse Gleichschaltung (coordinamento), per la forzata omologazione della società in genere, fenomeno che gradualmente “conformò” interi corpi sociali (uno per tutti: la magistratura); e poi invece notissimi quelli di Sonderbehandlung (trattamento speciale) per l’assassinio, poi sostituito nel 1943 su ordini di Himmler con l'innocuo participio durchgeschleust, che significa “passato attraverso” (cioè ucciso in un campo di sterminio), e di Endlosung der Judenfrage (la soluzione finale del problema ebraico) che non ha bisogno di spiegazioni.
Nella lingua del lager – che merita uno studio a sé – si va dall’uso macabramente ironico di Himmel (cielo), come in Himmelsfahrtblock (la baracca dei moribondi, di coloro che stanno per “salire in cielo”), e Himmelskommando (il reparto di Ordnungspolizei o SS che eseguiva le Azioni di sterminio), a quello di Fressen (l’atto del mangiare degli animali) di contro all’Essen (il mangiare degli uomini).
L’uso di queste nuove espressioni servì all’ufficializzazione di quelle pratiche disumane che, così designate in modo più o meno scientifico, non avrebbero potuto esser ritenute “criminali”. Ho già ricordato su queste pagine cosa fosse scritto sui vagoni dei treni speciali per la deportazione: R.U. (Rückker unerwünscht, cioè ritorno non desiderato!).
C’è un documento (un Vermerk, “rapporto”) del 1943 oggetto di una brillante tesi di laurea[iii], che fornisce un concreto esempio di reificazione; ad es. i verbi abgeben, abnehmen, mitgeben, liefern, transportieren e überweisen che hanno il significato di trasferire Waren, cioè “merci”, e quindi un riferimento ad oggetti, nel documento sono adoperati prevalentemente con riferimento a pazienti e personale medico; I sostantivi Verlegung, Abtransport sono connessi al campo semantico del “trasferire”; ma se Verlegung può essere riferito alle cose ed ai pazienti, Abtransport era generalmente usato per indicare il trasporto di Baumaterial, “materiale edile”, e non potrebbe esser riferito a persone, come invece in quel memorandum; similmente per espressioni quali die zuliefernden Kranken “gli ammalati da consegnare”, e die zurückbleibenden Kranken “gli ammalati da non trasferire”.
Se però c’è una categoria di “nemici” del Volk sulla quale il nazismo si accanisce con particolare ferocia è quella dei malati mentali: Erbkrank (malato per tare ereditarie) è anche il titolo di un famoso film di propaganda del 1936 destinato, con altre produzioni del Dipartimento per la politica razziale del NSDAP, a “preparare il terreno” per le tragiche iniziative dell’Aktion T4, precorritrici e vere incubatrici di tecniche e soprattutto di personale umano poi destinato ai lager. Anche a questo proposito abbondano gli eufemismi, da Ballastexistenzen, vite pesi morti, a Euthanasie, sinonimo del neologismo Gnadentod, “morte pietosa”, ed il tecnicismo Medizinische Vernichtung, “uccisione medica“. La propaganda del regime si serviva anche di orribili illustrazioni tese a rimarcare il costo, per il Volk, delle cure da somministrate a tali inutili soggetti.
Così anche i termini di minorati mentali (behinderte Menschen), malati psichici (Geisteskranke), assumevano una diversa lettura rispetto a quella scientifica, per confluire in quella più generale di “vite indegne di essere vissute” (lebensunwerte Leben), cui Marco Paolini ha dedicato un suo noto lavoro teatrale, Ausmerzen, espressione del mondo della pastorizia indicante la pratica di sopprimere gli animali più deboli del gregge, che non riuscirebbero a compiere la transumanza. L’espressione era stata usata per la prima volta nel titolo di un libro del 1920 di due eminenti studiosi e scienziati, il giurista Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche, Die Freigabe der Vernichtung Lebensunwerten Lebens ("Ciò che consente la distruzione di una vita indegna di vita"), a proposito di soggetti non più “in grado di produrre” (arbeitsfähig).
Al termine di un percorso non solo linguistico si tramuteranno negli Stücke già ricordati e quindi in Krematoriumsfleisch, “carne da crematorio”, destinata infine agli Schornsteine, i camini, di Nelly Sachs:
O i camini
Sulle dimore della morte così ingegnosamente ideate
Quando il corpo di Israele salì come fumo
Attraverso l’aria [iv]
[i] Trad. di G.VIGOLO in F.HOLDERLIN, Poesie, Einaudi, Torino, 1958
...offen die Fenster des Himmels
Und freigelassen der Nachtgeist,
Der himmelstürmende, der hat unser Land
Beschwätzet, mit Sprachen viel, undichtrischen, und
Den Schutt gewälzet
Bis diese Stunde
[ii] LTI sta per Lingua Tertii Imperii, il sottotitolo essendo appunto La lingua del Terzo Reich nell’edizione italiana, Giuntina, Firenze, 1999. Klemperer tenne anche un prezioso diario Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, Mondadori, Milano, 2000.
[iii] Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi, e sulle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù (1956), Legge di ratifica 20 dicembre 1957, n. 1304 , art.7.
[iv] M. CINIGLIO, Il lessico disumano del nazismo: l’oggettivazione linguistica dei malati psichici, Analisi di un documento del 20.8.1943 (tesi di laurea), 2010, https://www.academia.edu/6586949/Il_lessico_disumano_del_nazismo, consultato 1.1.2022.
[v] Ns. trad. di N.SACHS, In den Wohnungen des Todes (1947):
O die Schornsteine
Auf den sinnreich erdachten Wohnungen des Todes,
Als Israels Leib zog aufgelöst in Rauch Durch die Luft.
Recensione a G.Terranova, Il ragionamento giuridico, Giuffrè Lefebvre, 2021, pp. 191
di Michele Perrino
Una tavola rotonda svoltasi il 10 dicembre 2021 presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo ha riunito un gruppo di studiosi (Mauro Barberis dell’Università di Trieste, Salvatore Mazzamuto Emerito dell’Università di RomaTre, Luca Nivarra dell’Università di Palermo, Aldo Schiavello dell’Università di Palermo e Francesco Viola emerito Università di Palermo) intorno al libro recente di Giuseppe Terranova, Il ragionamento giuridico, Giuffrè Lefebvre, 2021, presente l’Autore.
Gli interventi dei relatori saranno a breve pubblicati, il libro è da mesi in circolazione, perciò queste righe vogliono solo restituire traccia di alcune parole introduttive, con cui chi scrive ha aperto, quale moderatore dell’incontro, il dibattito sull’opera.
Con la presentazione del suo ultimo lavoro Giuseppe Terranova, professore emerito di Diritto commerciale nell’Università di Roma “La Sapienza”, fa ritorno nell’Università di Palermo, dove ha lungamente e largamente insegnato, soprattutto diritto commerciale ma anche diritto privato, fallimentare (o, come si chiama oggi, della crisi di impresa), industriale e bancario. E vi è tornato ora con il suo magistero al livello più alto, quello sul senso stesso del mestiere di giurista e del suo modo di ragionare.
È un percorso che l’Autore ha intrapreso già con un primo ampio studio del 2015, dal titolo “Elogio dell’approssimazione. Il diritto come esperienza comunicativa”; proseguendolo con il libro di non minore respiro del 2020, su “Il diritto e il suo linguaggio”; e che approda ora, con “Il ragionamento giuridico” del 2021, ad una messa a fuoco particolarmente nitida ed efficace circa il modo in cui si è nel tempo strutturato il pensiero di Terranova sul senso, i modi e, in special modo, l’esperienza dell’interpretazione.
Colpisce il riferimento a p. 3 alla famosa frase paolina (Paolo, II ai Corinzi): “la lettera uccide, lo spirito vivifica”.
Qui la lettera è il testo, l’enunciato da interpretare e applicare. Lo spirito è il processo interpretativo. L’uno, il testo, l’enunciato, è sempre in qualche modo “poroso”, perché così è di tutte le espressioni linguistiche, che assumono un senso definito solo con riferimento a un certo contesto. L’altro, il processo interpretativo, è appunto un processo, non un risultato, è ἐνέργεια, non έργον; è una complessa esperienza comunicativa, con l’obbiettivo di adeguare la norma ai fatti, di “garantire che il contenuto precettivo di una norma, o di una manifestazione di volontà negoziale, venga adattato al contesto di riferimento in vista degli obbiettivi da perseguire” (p. 72, corsivo ns.). Senza però che l’interpretazione sia qualcosa che si aggiunge al precetto o alcunché di esterno all’enunciato; è piuttosto un’attività che con questo si integra e che lo modella, formando insieme parte integrante del processo comunicativo.
E si tratta, nella visione dell’A., di un processo collettivo e corale, il quale si nutre del contributo di fasce diverse di giuristi, e non solo dei giuristi; e che dal testo procede a ricostruire e conoscere il co-testo (il testo che sta intorno) e soprattutto il con-testo, qui visto più propriamente come lo scenario: che non è il mondo, o un pezzo di mondo, nella sua insondabile realtà, ma una visione inevitabilmente parziale e approssimativa della realtà, quale è ci dato ricostruire sulla base degli elementi disponibili.
Una ricostruzione da compiersi attraverso una selezione il più possibile ampia dei fatti, selezione che, a sua volta, non può che avvalersi però, di fronte alla ingovernabile complessità, anche di strumenti di semplificazione e standardizzazione dei materiali, come la teoria dei tipi o la tipologia della realtà, o come avviene con la disciplina del processo – e la portata inevitabilmente selettiva del rito rispetto ai fatti tenuti in conto nel decidere – innanzi alle corti.
Ed è appunto collocando le norme in questo scenario così ricomposto, che è possibile per T. passare dalla legge al diritto: in un processo, di nuovo, che avanza per gradi, dalla ricerca delle interpretazioni canoniche, dei grumi stabilizzati dell’interpretazione fino alla lettura attualizzata dei fattori e interessi sullo sfondo. In uno sforzo di adeguare la norma ai fatti, che è anche e anzitutto impegno di adeguamento dell’intelletto dell’interprete alla “cosa” (secondo la formula di ascendenza aristotelico-scolastica della adaequatio rei et intellectus richiamata dall’A.), grazie ad un adeguato sforzo di acquisizione di informazioni sulla realtà.
Si tratta per T. di un processo che si alimenta dei valori in gioco, senza però ipostatizzarli, ma cogliendone la storica relatività e la necessità di rilettura costante; che aspira alla razionalità ma è consapevole di quanto questa resti inattingibile, e coltiva allora la “ragionevolezza” come percorso di costante avvicinamento - ecco la “approssimazione” al centro del libro di T. del 2015 – agli obbiettivi. Un processo in cui si tratta di accostarsi ai fatti, nello scenario di riferimento, grazie alla disponibilità ad immergersi nell’esperienza osservata. Un processo, ancora, che dalla conoscenza contestualizzata – nello scenario dato, ma anche pazientemente indagato e ricomposto – deve però ad un certo punto passare alla “decisione”. Con uno scarto ineliminabile (richiamando Searle) tra le ragioni dell’agire e la scelta effettivamente compiuta: quello scarto dove si insinua l’intuizione, il bias cognitivo, fattori irrazionali; ma dove al tempo stesso abita e si esprime la libertà.
Rispetto ad un affresco così ricco ed “umano” dell’esperienza interpretativa mi limito ad esprimere due considerazioni, o forse preoccupazioni tratte dalla mia esperienza giuridica quotidiana, nella ricerca universitaria così come nel foro.
La prima è che in questo processo che dovrebbe essere collettivo, corale, e di mutuo arricchimento, oggi mi sembra esistano delle zone di incomunicabilità, che mi sembra di vedere soprattutto nella giurisprudenza, tendenzialmente sempre più autoreferenziale. Nel senso che la selezione dei significati “canonici” – punto di partenza per procedere oltre, come insegna T. – ha luogo qui per lo più esclusivamente a partire dal proprio universo dei precedenti, con tendenziale riduzione di spazi per il riconoscimento agli apporti della dottrina. Per restare agli esempi che T. largamente fa in tema di diritto impresa nel libro di cui parliamo, specie nello scenario delle procedure concorsuali si consolidano letture spesso molto distanti da ciò che si dice nelle università: difficile che si riconosca nei giudizi la natura esclusivamente agricola di un’attività; o che non si qualifichino “economiche” ex art. 2082 anche attività ben distanti dal modo di intendere questo requisito per una dottrina da lungi consolidata, a meno di una assoluta gratuità; per non dire della nozione codicistica di azienda, dove da tempo le divergenze, e le reciproche opacità, sono assai marcate. È ovviamente anche vero che l’impegno allo sviluppo cooperativo dell’esperienza giuridica deve riguardare tutti, a partire dalla dottrina e dagli operatori professionali, in una sinergia fra giurisprudenza teorica e pratica e universi professionali che valga a non perdere di vista quegli obbiettivi di ragionevolezza delle soluzioni, che T. addita quale frutto eletto della ricerca da parte del giurista di un bilanciamento qui ed ora – nel contesto cioè di riferimento dato – sostenibile fra i valori in gioco.
L’altra preoccupazione attiene agli strumenti di selezione delle informazioni, dove sempre gioca un ruolo la scelta di campo dell’interprete, ma dove sempre più oggi, con la scomparsa della stessa possibilità di repertori onnicomprensivi e la diffusione di banche date su piattaforme on line che obbediscono a logiche editoriali, la ricerca è spesso, più che il frutto di scelte di chi esplora, piuttosto il risultato di un matching (non per forza “casuale”) fra una domanda e una offerta di servizi informativi. Con un abbinamento che ha luogo su una piattaforma virtuale, nella quale sotto l’apparente neutralità di sistemi algoritmici si celano rischi di condizionamento dei risultati, comunque orientati quantomeno sugli interessi di un gruppo editoriale.
E questo della parzialità e non neutralità dei moderni sistemi di ricerca e selezione dell’informazione giuridica, una non neutralità spesso inavvertita o occulta, credo potrà costituire un rischio, o quantomeno una sfida per la ricerca giuridica delle generazioni attuali e future, e per la connessa serietà ed integrità delle basi del “ragionamento giuridico”.
Ricordo di Sergio Chiarloni
di Bruno Capponi
Con Sergio Chiarloni si spegne una voce personalissima e autorevole nel frastagliato panorama degli studiosi del processo civile, voce che fin dall’inizio aveva alternato lo studio di delicati problemi tecnici (L’impugnazione incidentale nel processo civile, Milano, 1969) con l’impegno scientifico e sociale nella più accentuata declinazione marxista (Diritto processuale civile e società di classi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, p. 733 ss.). Personalmente lo ricordo, sin all’inizio degli anni Ottanta, in occasione degli incontri di studio che Salvatore Mannuzzu era solito organizzare presso il Centro per la riforma dello Stato (erano presenti quasi sempre anche Michele Taruffo e Andrea Proto Pisani) e che hanno prodotto nel tempo pubblicazioni che restano di grande interesse, ad esempio sulla Cassazione civile o sul neonato Giudice di pace (a cura di Raffaello Sestini, ora magistrato amministrativo).
Sergio Chiarloni aveva con tutti un tratto semplice, amichevole, signorile; non amava le critiche prive di garbo, e a questo ispirava la sua attività di redattore prima e, poi, di condirettore della Giurisprudenza italiana.
Costante è stato il suo interesse per le riforme della giustizia civile, alle quali per i tipi di Zanichelli ha dedicato ampi e ripetuti studi (anche sul c.d. processo societario, che ebbe vita effimera) grazie soprattutto alla nutrita schiera di collaboratori della quale aveva saputo circondarsi; tanto da potersi parlare di una “scuola torinese” che peraltro, al suo interno, ha presentato e presenta voci tra loro molto differenziate a testimonianza della libertà di pensiero che Sergio riconosceva ai suoi allievi.
Molto differenziata è stata la sua indagine scientifica, come dimostra la pubblicazione nel 1980 della monografia Misure coercitive e tutela dei diritti, che resta una pietra miliare nello studio dell’esecuzione indiretta, e il successivo L’appello nel processo del lavoro (Milano, 1984).
Probabilmente i più giovani lo identificheranno con la formula (o forse sarebbe meglio dire con la vulgata) «formalismo delle garanzie», tema al quale Sergio aveva dedicato una lunga serie di saggi, taluni raccolti nel volume Formalismi e garanzie. Studi sul processo civile (Torino, 1995) che forse sono stati in buona misura malintesi da certa giurisprudenza, allorché si è ritenuto di poter derogare a tante regole tecniche del processo civile in contemplazione di “princìpi” liquidi, desunti da fonti sovraordinate (o dal “sistema”). Non a caso, in tempi più recenti Sergio ha parlato della giustizia civile quale fonte di ripetuti «paradossi» (Annali della Storia d’Italia Einaudi, 14, 1998).
Attento ai problemi ordinamentali, il suo sguardo di studioso si è spesso soffermato sulle esperienze di Paesi non ispirati, come il nostro, all’esperienza francese.
La sua passione per le discussioni e la “circolazione delle idee” lo ha portato ad essere uno degli interlocutori preferiti dei magistrati, nei confronti dei quali sempre osservava grande rispetto.
Questo ricordo, breve e forse impreciso, viene scritto nell’immediatezza della scomparsa soprattutto come testimonianza di un affetto che, da quei primi anni Ottanta, non è mai venuto meno.
Il “canto di natale” del legislatore: la non impugnabilità dell’estratto di ruolo
di Federico Rasi*
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Lo “Spirito del Natale Passato”: lo scenario aperto dalla sentenza n. 19704 del 2015. – 3. Lo “Spirito del Natale Presente”: il nuovo assetto delineato dal legislatore. – 4. Lo “Spirito del Natale Futuro”: il rischio di creare vuoti di tutela. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Considerazioni introduttive
Con il discusso art. 3-bis, d.l. 21 ottobre 2021, n. 146 ([1]), introdotto dalla legge di conversione 17 dicembre 2021, n. 215, è stato inserito, all’art. 12, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, il nuovo comma 4-bis per affermare normativamente:
a)la non impugnabilità dell’estratto di ruolo;
b)l’impugnabilità di ruolo e cartella di pagamento (asseritamente) non notificata in modo valido nei soli casi in cui il contribuente o possa subire da tali atti un pregiudizio in sede di partecipazione a una procedura di appalto o possa vedersi applicato, da una Pubblica amministrazione, il c.d. blocco dei pagamenti o possa perdere un qualunque beneficio nei rapporti con una Pubblica Amministrazione.
Le ragioni dell’introduzione di queste previsioni si rinvengono nella Relazione finale del 30 giugno 2021, della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria ([2]). Questo gruppo di lavoro aveva affrontato numerose criticità del processo tributario e aveva fornito puntuali suggerimenti per risolverle; tra le problematiche discusse, vi era proprio anche quella dell’impugnabilità o meno dell’estratto di ruolo.
Più dettagliatamente, la Commissione segnalava quale profilo di debolezza del sistema processuale il “caso delle impugnative proposte avverso gli estratti di ruolo” ([3]), in quanto la riconosciuta impugnabilità di tale atto consentiva di mettere in discussione il diritto di procedere alla riscossione sulla base di provvedimenti già notificati al contribuente, senza attendere la notifica di quelli consequenziali ([4]).
La Commissione osservava come l’orientamento giurisprudenziale, che era seguito all’“emanazione della sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite, n. 19704/2015, con la quale è stata ritenuta «ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario”, avesse comportato la possibilità per il contribuente di “far valere, spesso pretestuosamente, ogni sorta d’eccezione avverso cartelle notificate anche molti anni prima, senza che l’Agente della riscossione si fosse attivato in alcun modo per il recupero delle pretese ad esse sottese, e perfino nei casi in cui vi avesse rinunciato, anche nell’esercizio dell’autotutela”. La soluzione tramite cui ovviare a tale assetto era rinvenuta, anche dalla Commissione interministeriale, nel riconoscimento normativo della non impugnabilità dell’estratto di ruolo, salve eccezioni.
Il legislatore si è sostanzialmente avvalso di tali studi per regolare la questione e predisporre il menzionato art. 12, comma 4-bis, d.P.R. n. 602 del 1973. Questa norma apre scenari nuovi e pone le basi per una diversa organizzazione del sistema processuale tributario che meritano di essere analizzati. Allo stesso tempo, nel procedere al suo studio, non si possono trascurare le accese reazioni che ha suscitato in quanto ha modificato un assetto, di estremo favore per il contribuente, che sembrava prossimo a consolidarsi. Tali aspetti meritano di essere separatamente discussi.
2. Lo “Spirito del Natale Passato”: lo scenario aperto dalla sentenza n. 19704 del 2015
Le Sezioni Unite nella menzionata sentenza 2 ottobre 2015, n. 19704 ([5]), avevano, testualmente, negato l’impugnabilità dell’estratto di ruolo (escludendo addirittura che esso potesse qualificarsi come atto), vista l’inidoneità del medesimo a contenere qualsiasi pretesa impositiva. Per i giudici di legittimità si doveva affermare «indiscutibilmente» la non impugnabilità dello stesso «per la assoluta mancanza di interesse (ex art. 100 c.p.c.) del debitore a richiedere ed ottenere il suo annullamento giurisdizionale, non avendo infatti alcun senso l’eliminazione dal mondo giuridico del solo documento, senza incidere su quanto in esso rappresentato».
Questa conclusione era il frutto di più ampie considerazioni di fatto e di diritto, su alcune delle quali appare opportuno soffermarsi. Innanzitutto, la Corte definiva cosa fosse esattamente “l’estratto di ruolo”. Comunemente, viene indicato con tale espressione un documento, sorto nella prassi, di cui il diritto positivo non fornisce alcuna definizione legale, rilasciato dall’incaricato della riscossione, che evidenzia ciò che risulta dal suo sistema informativo interno e ove sono riepilogati i dati relativi ad una certa iscrizione a ruolo (l’ente impositore che ha eseguito quella iscrizione, la sua causale, il numero della conseguente cartella di pagamento e la data della sua notifica ove avvenuta) ([6]). Esso permette al contribuente di conoscere la propria situazione e, se del caso, saldare eventuali posizioni debitorie aperte. Questo atto è ricognitivo di un ruolo e/o di una cartella di pagamento, di regola, già emessi e già notificati o, comunque, in corso di notifica; non può però escludersi che il contribuente ottenga tale documento mentre ancora l’incaricato della riscossione non abbia neppure avviato gli adempimenti cui è tenuto. Potrebbe così, ad esempio, verificarsi che un contribuente venga a conoscenza dell’esistenza di un’iscrizione a ruolo nei suoi confronti prima della formale notifica della cartella di pagamento.
La Cassazione lo mette a confronto con il ruolo, osservando come l’estratto di ruolo sia un atto singolare (e non collettivo) che, nella parte relativa al contribuente interessato, riproduce sostanzialmente il contenuto del ruolo e che non viene notificato (a differenza del ruolo) al contribuente, ma solo occasionalmente e casualmente portato a conoscenza dello stesso ([7]).
Tali premesse consentono alla Corte di ritenere che l’estratto di ruolo e il ruolo sono atti del tutto distinti, sicché non è assolutamente possibile «confondere l’“estratto di ruolo” con il “ruolo” e, soprattutto, [non è in alcun modo possibile] ridurre, attesa la nota anfibologia di ogni documento, ad uno solo i due oggetti (“documento” e suo “contenuto”) come se si trattasse di una mera diversità di nome dello stesso oggetto». Per questa via la Cassazione giunge alla conclusione che, nonostante il contribuente, conoscendo l’estratto di ruolo, abbia, in via di fatto, contezza del ruolo (e, quindi, dell’esistenza di un titolo esecutivo nei suoi confronti), non si possono ritenere i due atti equiparabili in quanto la conoscenza dell’estratto di ruolo non può consentire l’avvio della fase esecutiva, effetto a cui è, invece, strutturalmente finalizzato il ruolo.
Le considerazioni che precedono consentono alla Corte di escludere che l’estratto di ruolo possa considerarsi un atto amministrativo. Secondo la tassonomia tradizionale è tale solo una manifestazione di volontà, di conoscenza o di giudizio avente rilevanza esterna, proveniente da un’Autorità amministrativa nell’esercizio di una funzione amministrativa la cui efficacia, ove trattasi di atto recettizio, è condizionata alla sua trasmissione all’interessato nei modi previsti dalla legge (pubblicazione, comunicazione e notificazione) ([8]).
Per tutti questi motivi, solo il ruolo può essere considerato un “provvedimento” proprio dell’ente impositore (quindi un atto potestativo contenente una pretesa economica dell’ente suddetto), mentre «l’“estratto di ruolo”, invece, è (e resta sempre) solo un “documento” (un “elaborato informatico... contenente gli... elementi della cartella”, quindi unicamente gli “elementi” di un atto impositivo) formato dai concessionario della riscossione, che non contiene (né, per sua natura, può contenere) nessuna pretesa impositiva, diretta o indiretta». Questa inidoneità a contenere qualsivoglia pretesa impositiva comporta indefettibilmente la non impugnabilità dello stesso in quanto tale per assoluta mancanza di interesse a ricorrere.
Le Sezioni Unite non si fermavano, però, a questa osservazione, ma procedevano oltre e prendevano in considerazione l’ipotesi che potesse residuare un interesse del contribuente ad impugnare non tanto l’estratto di ruolo, quanto il suo “contenuto”, ovverosia a impugnare gli atti che l’estratto stesso riporta: il ruolo e/o la cartella di pagamento. Se non sussiste alcun dubbio in ordine alla loro impugnabilità quando sono notificati al contribuente nei modi ordinari (in questi casi non può non ritenersi sussistente «il diritto e l’onere dell’impugnazione»), risulta, invece, problematico ammettere la loro giustiziabilità quando la notifica è mancante o invalida ed essi sono conosciuti, appunto, attraverso l’estratto di ruolo. È la questione della loro impugnabilità in caso di conoscenza “occasionale”.
La nozione di conoscenza “occasionale” (e la sua differenza con quella “legale”) è ben nota e risalente nella giurisprudenza della Cassazione ([9]) che l’ha tracciata con riferimento alle norme che stabiliscono il decorso dei termini per impugnare le sentenze. Adattando le conclusioni cui perviene con riferimento a questi casi ([10]), la Cassazione giungeva alla conclusione per cui, in tutti i casi in cui il contribuente viene a conoscenza “legale” (e non “occasionale”) di un atto, questo potrà essere impugnato e si tratterà di impugnazione a pena di decadenza, mentre (ed era questa la portata innovativa della sentenza) ove il contribuente venga a conoscenza dello stesso atto, ma in via “occasionale”, l’impugnazione sarà ugualmente ammessa, ma solo in via facoltativa ([11]).
Qualificare l’impugnazione quale facoltativa consente alla Cassazione di offrire un’opportunità in più al contribuente, senza in alcun modo pregiudicarlo: il contribuente potrà rinviare l’accesso alla giustizia tributaria a seguito della notifica del primo atto “tipico”. In definitiva, si offrono in questo modo “più frecce all’arco” del contribuente.
Per la Cassazione, si ovviava così alle inefficienze del sistema di differimento della tutela delineato dall’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992 ([12]), e si forniva una lettura costituzionalmente orientata di tale norma: per la Corte, l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non poteva costituire l’unica possibilità per il destinatario di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale era, comunque, legittimamente venuto a conoscenza. Si doveva, invece, dare al contribuente la facoltà di far valere, appena avutane conoscenza, la suddetta invalidità.
Il sistema delineato dalle Sezioni Unite era, dunque, quello della:
a)non impugnabilità dell’estratto di ruolo;
b)impugnabilità in via facoltativa di qualunque ruolo e cartella di pagamento (asseritamente) non notificata in modo valido.
La Cassazione aveva, dunque, fatto ricorso allo schema dell’impugnazione facoltativa (che consente al contribuente di impugnare un atto senza incorrere in decadenze e preclusioni) per costruire un assetto indubbiamente garantistico e favorevole al contribuente che poteva anticipare il più possibile il momento di accesso alla tutela giurisdizionale. In estrema sintesi, il sistema risultante da tale assetto evitava al contribuente di dover attendere l’avvio di una procedura esecutiva per contestare il diritto dell’Amministrazione finanziaria a procedere nei suoi confronti. Si salvaguardava allo stesso tempo la natura impugnatoria del processo tributario in quanto esso era pur sempre avviato dall’impugnazione di un atto impositivo (non notificato), evitando di configurare (pur muovendosi sul filo di lana) l’esperimento di azioni di accertamento preventivo negativo.
3. Lo “Spirito del Natale Presente”: il nuovo assetto delineato dal legislatore
La novella normativa di cui si discute toglie proprio dall’arco del contribuente la freccia che la Cassazione gli aveva dato, l’impugnazione facoltativa del ruolo e della cartella di pagamento invalidamente notificati, per consentirla solo in casi selezionati. È questa la ragione delle critiche sollevate a questa norma: essa comprime le occasioni di tutela del contribuente, rinviando la difesa all’avvio di azioni esecutive.
Occorre sul punto precisare che, nella parte in cui l’art. 12, comma 4-bis, d.P.R. n. 602 del 1973, dispone che “l’estratto di ruolo non è impugnabile”, esso non si discosta, sul piano formale, da quanto già avevano affermato le Sezioni Unite; vi si allontana significativamente solo nel prosieguo.
Se il problema fosse stato solo l’impugnazione dell’estratto di ruolo in quanto tale, un espresso intervento normativo sarebbe stato superfluo: sarebbe bastato che i giudici applicassero in modo sistematico (ed esemplare) l’istituto della condanna alle spese per paralizzare quelle azioni dei contribuenti che la Relazione finale della Commissione interministeriale criticava. Ciò che realmente ha voluto fare il legislatore è paralizzare l’anticipata reazione. Il problema che essenzialmente si pone è quello del “tempismo” della tutela: la tutela accordata al contribuente deve necessariamente arrivare al primo momento utile? Cassazione e Legislatore dimostrano di avere opinioni opposte.
Visto che la Cassazione forniva la sua soluzione in nome di un’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema (ritenendo di dover consentire l’accesso alla tutela giurisdizionale il prima possibile), appare doveroso chiedersi se il sistema che sussiste ora possa dirsi incostituzionale.
Si può dare a tale quesito risposta negativa in quanto ciò che è costituzionalmente vietato è il verificarsi di vuoti di tutela. In questo caso non ve ne sono. Ciò che la norma vieta è l’impugnabilità in via “diretta” di ruolo e cartella invalidamente notificati, non anche quella in via “indiretta”. Non è così impedito l’accesso ai giudici tributari, ma è solo rinviato.
Il problema dell’impugnabilità di ruolo e cartella di pagamento che presentano vizi di notifica si risolve riaffermando l’operatività dell’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992, secondo il quale, già ora, in caso di mancata notifica (cui deve accostarsi il caso di notifica invalida) ([13]) di un atto, quest’ultimo può essere impugnato unitamente al successivo atto e in questa sede è riconosciuta al contribuente la possibilità di impugnare e contestare nel merito la pretesa impositiva ([14]).
Il sistema delineato dal d.lgs. n. 546 del 1992 già ora tollera ipotesi di impugnabilità differita, che, anzi, è il sistema di tutela tipicamente previsto dal legislatore per risolvere la questione della giustiziabilità di atti non impugnabili. Riaffermare, nel caso che qui occupa, l’operatività dell’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992, non appare privo di copertura costituzionale.
Ciò non toglie che il contribuente potrà effettivamente trovarsi in situazione di “affanno”. La tutela è, infatti, rinviata all’avvio di procedure esecutive, i tempi delle quali sono ristretti e nelle quali non è sempre facile ottenere misure di tipo cautelare. È forse su questi punti che sarebbe dovuto intervenire il legislatore: avrebbe dovuto rendere più efficace la tutela accordata al contribuente nella fase esecutiva e gli avrebbe dovuto riconoscere forme di tutela in via d’urgenza più celeri.
Se questo vale con riferimento alla prima parte della norma, sono diverse le considerazioni che offre la seconda parte della stessa, ovverosia quella che ammette l’impugnazione del ruolo e della cartella di pagamento “che si assume invalidamente notificata” in presenza di circostanziate e tassative (stando al tenore letterale della norma) fattispecie: evitare l’esclusione da una procedura di appalto, evitare il c.d. blocco dei pagamenti da parte di una Pubblica amministrazione o evitare la perdita di un beneficio nei rapporti pendenti con una Pubblica amministrazione.
Vale la pena svolgere alcune riflessioni su tale previsione.
In primo luogo, non risulta chiaro se trattasi di impugnazione facoltativa o a pena di decadenza. Si ritiene di dover rispondere alla questione considerando questa impugnazione come prevista a pena di decadenza.
L’argomento sistematico restituisce questa conclusione in quanto, a livello normativo, non risultano previsti dal legislatore casi di impugnazione facoltativa; essa è affermata solo in via giurisprudenziale.
L’argomento teleologico consente di pervenire alla stessa conclusione in quanto dimostra che la norma è stata introdotta per evitare pregiudizi che il contribuente potrebbe subire da rapporti con la Pubblica amministrazione. Ciò che il legislatore prefigura è l’avvio presso una Pubblica amministrazione di un procedimento l’esito del quale è condizionato dalla regolarità fiscale del contribuente. Ne deriva che, esaurito tale procedimento, non sussiste alcun interesse del contribuente a ricorrere contro ruolo e cartella di pagamento; pertanto, al contribuente o si accorda tutela immediatamente o non ha senso accordargliela successivamente. La Cassazione, quando consente di impugnare in via facoltativa un atto, riconosce una tutela ulteriore e anticipata rispetto a quella prevista al momento “giusto”. Nel caso in esame, non è questo il problema che si pone; si discute piuttosto di quale sia questo momento “giusto”, al verificarsi del quale la tutela non può che essere a pena di decadenza.
In secondo luogo, si pone anche il problema di determinare il giorno dal quale calcolare l’ordinario termine di sessanta giorni per impugnare. In proposito, va ricordato che oggetto di impugnazione sono il ruolo e la cartella notificati in modo viziato, conosciuti per il tramite dell’estratto di ruolo, il quale è stato rilasciato in vista di un contatto con una Pubblica Amministrazione.
Una prima ipotesi, la più semplice, sarebbe quella di ritenere che il termine di impugnazione decorra dal rilascio dell’estratto di ruolo in quanto è in quel momento che si conoscono gli atti che si vogliono impugnare. Sembrerebbe essere questa la soluzione più semplice e in linea con il sistema normativo e giurisprudenziale. Il problema che tale soluzione pone è che in questo momento potrebbero non essersi ancora verificati gli eventi prefigurati dal legislatore per legittimare l’impugnazione, eventi che, invece, il contribuente dovrà dimostrare per vedere ammesso il ricorso.
In questa prospettiva, al fine di formulare una seconda ipotesi, si potrebbe “sfruttare” quella parte della norma in esame che dispone l’impugnazione del contribuente nel caso in cui “possa derivargli un pregiudizio” da un rapporto con la Pubblica Amministrazione. Potrebbe valorizzarsi tale passaggio ritenendo che il termine di sessanta giorni decorra dall’avere avuto il contribuente un “contatto qualificato” con una Pubblica amministrazione, ovverosia dall’aver presentato domanda di partecipazione ad una gara di appalto, dall’attendere un pagamento dalla stessa per ottenere il quale si deve tenere conto delle risultanze dell’estratto di ruolo o dall’attendere un qualunque altro vantaggio che il contenuto dell’estratto di ruolo potrebbe impedire di ottenere. Questa soluzione avrebbe un ulteriore merito: consentire al contribuente di provare giudizialmente di trovarsi nelle condizioni indicate dalla norma. Ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione, appare inevitabile che sia chiesto al contribuente di dimostrare di trovarsi in una delle ipotesi previste dall’art. 12, d.P.R. n. 602 del 1973.
Questa soluzione consente di rispettare il dato normativo, ma lascia aperto comunque un profilo: non esclude il rischio che la decisione della Commissione tributaria arrivi in via tardiva. Per risolverlo, si dovrebbe agire sui procedimenti amministrativi cui il contribuente partecipa sospendendoli o prevedendo una partecipazione con riserva dello stesso, fino a che la vicenda tributaria non sia stata chiarita.
In terzo luogo, si pone il problema di comprendere la portata temporale della norma, ovverosia se essa abbia o meno efficacia retroattiva.
L’Agenzia delle entrate, in occasione di Telefisco 2022 ([15]), ha ritenuto che «il legislatore si è posto nel solco già tracciato dalla giurisprudenza di Cassazione ed è intervenuto per ribadire la non impugnabilità dell’estratto di ruolo e prevedere le casistiche in cui l’interesse del debitore ad impugnare direttamente il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata, senza attendere la notifica dell’atto successivo». L’Amministrazione finanziaria sembrerebbe, dunque, attribuire alla norma in esame efficacia retroattiva.
Non si concorda del tutto con tale ricostruzione. L’art. 3-bis, n. 146 del 2021 di cui si discute, dal punto di vista sostanziale, reagisce ad una regola (l’impugnabilità facoltativa di atti non notificati, ma conosciuti dal contribuente) di esclusiva derivazione pretoria, ma non lo fa scegliendo uno tra i possibili significati che si potevano attribuire né all’art. 19, d.lgs. n. 546 del 1992, né ad una qualunque altra norma previgente. Il predetto art. 3-bis, n. 146 del 2021, neppure si autoqualifica, dal punto di vista formale come norma di interpretazione autentica, come, invece, richiederebbe lo Statuto dei contribuenti. Tali circostanze, complessivamente considerate, escludono si possa dargli quel valore che pretende di riconoscergli l’Agenzia.
Quand’anche si potesse qualificare l’articolo di cui si discute quale norma di interpretazione autentica, potrebbe invocarsi quella giurisprudenza della Consulta ([16]) per la quale l’efficacia nel tempo di simili disposizioni deve, comunque, soggiacere a un giudizio di ragionevolezza tale per cui la loro naturale retroattività può recedere se diviene lesiva della certezza dei rapporti giuridici. La diffusa dichiarazione di inammissibilità delle impugnazioni facoltative di ruoli e cartelle invalidamente notificate creerebbe, proprio una non desiderabile situazione di incertezza ([17]).
La novella normativa va piuttosto considerata regolare un profilo procedimentale, anzi processuale, del rapporto tra contribuente e Amministrazione finanziaria, tale per cui essa non si può qualificare quale norma sostanziale, ovverosia impositiva (poiché non interviene sulla determinazione del presupposto). Questa natura comporta che, al pari delle altre disposizioni processuali e procedimentali, l’art. 3-bis in questione soggiaccia al principio “tempus regit actum”, principio cardine delle logiche temporali del processo in base al quale un atto deve seguire le norme vigenti nel momento in cui viene realizzato, andando, dunque, ad applicarsi le regole esistenti nel momento in cui l’atto ha origine.
L’operatività di tale principio è stata poi precisata dalla giurisprudenza con riferimento a modifiche nel regime di impugnazione di un provvedimento giudiziario, caso che, pur essendo diverso da quello che qui ci occupa, pone problemi del tutto analoghi. Per la Corte costituzionale ([18]), in queste situazioni, «in mancanza di una disciplina transitoria, … [il regime di impugnazione degli atti giudiziari] … va desunto dalla normativa vigente quando essi sono venuti a giuridica esistenza (come osservato dalla giurisprudenza di legittimità: Cass., 12 maggio 2000, n. 6099, e 20 settembre 2006, n. 20414)». Per la Cassazione ([19]), «si avrebbe una indebita applicazione retroattiva della legge processuale ove si pretendesse di applicare la legge sopravvenuta in relazione ad atti, le sentenze, che in base alla legge del tempo in cui erano stati posti in essere implicavano un diverso regime di impugnazione. Il principio tempus regit actum sembra essere più correttamente applicato, … allorquando il regime impugnatorio venga ancorato alla normativa vigente al momento in cui la sentenza da impugnare sia venuta ad esistenza. (Cfr. utilmente Cass. 20414/06; 5342/09; 9940/09».
Da questi orientamenti risulterebbe del tutto rafforzata la regola secondo cui l’impugnazione di un atto deve avvenire secondo le regole vigenti al momento in cui esso è emesso.
In definitiva, riconoscere che il nuovo regime di impugnazione operi solo per i ricorsi notificati dal 21 dicembre 2021 appare più coerente con la vera natura dell’art. 3-bis, n. 146 del 2021 e maggiormente in linea con le posizioni della giurisprudenza in casi simili.
In quarto luogo, vale la pena riflettere sull’individuazione di casi in cui, in via eccezionale, è ammessa l’impugnazione dell’estratto di ruolo. La strada percorsa dal legislatore dimostra la sua intenzione di dare (o almeno di tentare di dare) corpo alla regola dell’interesse ad agire (come è chiamato nel processo civile) o interesse a ricorrere (come è chiamato nel processo amministrativo). Un simile assunto svolge un rilievo particolare in quanto tale principio è invocato, con una crescente frequenza, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione quale criterio alla luce del quale allargare il novero degli atti impugnabili.
Per la Corte di legittimità, l’elenco di cui all’art. 19, d.lgs. n. 546 del 1992 è suscettibile di interpretazione estensiva, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.), purché sia verificato il sorgere «in capo al contribuente destinatario [dell’atto da impugnare] già al momento della ricezione della notizia, l’interesse, ex art. 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale, comunque, di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva (e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico)». Per tale via, la Cassazione individua nuove occasioni di tutela.
La giurisprudenza tributaria dimostra così di invocare un principio fondamentale dei sistemi processuali nazionali che nulla osta ad essere applicato anche al sistema processuale tributario. Ciò che è criticabile di tale orientamento è piuttosto il fatto che, sino ad ora, la Cassazione non si sia in alcun modo curata di declinare in concreto tale interesse. Nella giurisprudenza della Corte, il rinvio all’art. 100 cod. proc. civ. ([20]) appare poco più di un “ritornello” cui non viene ancora data adeguata e definitiva sostanza, salve talune sporadiche eccezioni ([21]).
La proposta della Commissione fa, invece, proprio questo: procede, in modo coerente con le ricostruzioni sorte attorno all’art. 100 cod. proc. civ. nell’ambito del processo civile e di quello amministrativo, per predeterminare i casi in cui tale interesse può ritenersi sussistente.
La nozione di interesse ad agire/interesse a ricorrere si rinviene tanto nel processo civile quanto in quello amministrativo per legittimare l’accesso alla tutela giurisdizionale, a condizione che l’attore/ricorrente vanti un interesse ([22]):
- “personale”, dovendo il risultato positivo del contenzioso riguardare esattamente e direttamente il ricorrente. Tale requisito della personalità è ritenuto verificato quando il vantaggio attiene alla sfera giuridica del ricorrente medesimo, non rilevando, in alcun modo, la sfera di altri soggetti, neppure se legati a lui da vincoli stretti;
- “diretto” o “concreto”, dovendo l’effetto lesivo derivare direttamente dal provvedimento impugnato. Questo requisito esprime il rapporto di causalità che intercorre tra l’atto e la lesione, tale per cui si deve registrare un pregiudizio concretamente verificatosi ai danni del ricorrente;
- “attuale”, dovendo sussistere al momento del ricorso e persistere per tutta la durata del giudizio ([23]). La lesione non è ritenuta sussistere al momento del ricorso se il provvedimento in questione non è efficace in quanto, ad esempio, occorre: i) l’emanazione di provvedimenti successivi e l’autorità preposta non vi ha ancora provveduto; ii) dipende da provvedimenti che non sono ancora operanti; iii) occorre attendere il verificarsi di eventi futuri e incerti imputabili tanto all’Amministrazione procedente, quanto a soggetti estranei ad essa.
Sotto questo punto di vista, l’elencazione proposta dalla Commissione individua pregiudizi certamente apprezzabili: tanto l’esclusione da una procedura di appalto, che causa la perdita di opportunità per un’impresa, quanto il c.d. blocco dei pagamenti da parte di una Pubblica Amministrazione, che crea un danno patrimoniale immediato, quanto, ancora, la perdita di un beneficio, che potrà essere non necessariamente patrimoniale, nei rapporti pendenti con una Pubblica Amministrazione, soddisfano tali caratteri. L’elencazione normativa individua, in modo del tutto corretto, casi di sussistenza di un interesse a ricorrere che possono legittimare il contribuente all’impugnazione degli atti conosciuti per il tramite dell’estratto di ruolo.
Lo scenario che si apre non risulta, dunque, criticabile, fermi, ancora una volta, i problemi di “tempismo” tra tutela tributaria e procedimento amministrativo.
4. Lo “Spirito del Natale Futuro”: il rischio di creare vuoti di tutela
Il fatto che la predeterminazione normativa proposta dal legislatore sia esatta, non comporta anche che sia esaustiva. Una predeterminazione normativa del concetto di interesse a ricorrere implica inevitabilmente il rischio di tralasciare talune ipotesi rilevanti ([24]). Questo rischio si concretizza proprio nel caso in esame. Si giunge a questa conclusione ponendo mente all’utilizzo in sede fallimentare dell’estratto di ruolo. La Cassazione, in più di un’occasione, ha affermato che l’ammissione al passivo dei crediti tributari maturati nei confronti del fallito può essere domandata sulla base del solo estratto di ruolo ([25]), senza che occorra anche la previa notifica della cartella di pagamento.
La giurisprudenza ([26]), ferma la differenza sostanziale che caratterizza il ruolo e l’estratto di ruolo, ha ragionato a partire dall’osservazione che ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare, sia sufficiente l’allegazione al ricorso dei documenti dimostrativi del diritto del creditore sicché, a tali fini, ruolo ed estratto di ruolo, essendo appunto pressoché identici, possono essere ugualmente ritenuti idonei a dimostrare l’esistenza del diritto di credito ([27]).
La definitiva conferma di tale orientamento si trova nella sentenza 11 novembre 2021, n. 33408 ([28]), ove la Cassazione ha affrontato nuovamente la questione degli atti che legittimano l’ammissione al passivo fallimentare dei crediti di cui è titolare l’Amministrazione finanziaria, confermando, una volta di più, il principio secondo cui è sufficiente che i crediti dell’Agenzia delle Entrate da ammettere alle procedure concorsuali risultino dall’estratto di ruolo, a prescindere dalla notifica degli atti da esso menzionati.
La Corte questa volta giunge a tale conclusione mettendo a confronto la normativa tributaria e quella fallimentare. In particolare, viene evidenziato come le norme del d.l. n. 78 del 2010, che hanno introdotto l’avviso di accertamento impoesattivo, concernono la sola materia tributaria, mentre «l’insinuazione al passivo del fallimento è … diversa ed è autonomamente regolata». Quest’ultima è volta ad assicurare il conseguimento della par condicio creditorum, ovverosia a garantire l’uguale partecipazione di tutti i creditori all’ottenimento di quanto residua al termine della liquidazione. Ciò incide sulla definizione dell’oggetto delle procedure concorsuali di accertamento del passivo, che va ravvisato nel mero accertamento della sussistenza del diritto al concorso in capo al creditore (non già nella soddisfazione di tale credito). Per il conseguimento di questo risultato è sufficiente che l’Amministrazione finanziaria provi l’esistenza dei crediti che vanta, allegandone i documenti dimostrativi (e non anche che dimostri l’efficacia esecutiva del titolo di cui dispone). Questa conclusione, per la Cassazione, risulta altresì imposta dal fatto che, nella logica delle procedure concorsuali, si deve procedere all’accertamento in discussione nel modo più celere possibile, sicché appare opportuno non condizionare l’ammissione al passivo alla presentazione del ruolo o di altri titoli esecutivi.
Per i giudici di legittimità, dunque, essendo lo scopo della procedura concorsuale l’individuazione dei crediti opponibili alla massa e dei relativi privilegi (e non già, come detto, l’avvio dell’attività esecutiva), tali finalità possono essere efficacemente conseguite per il tramite dell’estratto di ruolo che contiene e documenta gli elementi fondamentali del credito tributario. Ciò spinge la Cassazione a sostenere addirittura che neppure la notifica dell’atto attestante la pretesa impositiva sia un elemento rilevante: la notifica risponde alla funzione d’informare il curatore della pretesa erariale, funzione che, nel caso di specie è già assolta dal deposito della domanda di insinuazione
La conclusione della Cassazione risulta particolarmente rilevante ai fini della presente analisi: se l’Agenzia delle Entrate intende insinuarsi al passivo di un contribuente facendo valere ruoli o cartelle erroneamente notificati, ma risultanti da un estratto di ruolo e tali ruoli e cartelle sono impugnabili nei «soli casi» evidenziati in precedenza, allora si deve denunciare l’esistenza di un’ipotesi problematica.
È uno di quei vuoti di tutela incompatibili con il dettato costituzionale, per risolvere il quale l’unica soluzione possibile è consentire, anche in questo caso, l’impugnabilità diretta del ruolo e della cartella invalidamente notificata. Ciò richiede di superare l’inequivoco tenore letterale dell’art. 12, comma 4-bis, d.P.R. n. 602 del 1973, risultato che possono conseguire solo il legislatore o la Corte costituzionale.
È auspicabile che provvedano al più presto in quanto è opportuno che vi sia una reazione la più tempestiva possibile all’incompletezza dell’elencazione di casi tassativi in cui sono impugnabili ruolo e cartella di pagamento invalidamente notificati.
5. Considerazioni conclusive
L’intervento normativo, come si è dimostrato, “apre e chiude” diversi scenari.
Rispetto al passato, reagisce ad una innovativa giurisprudenza della Cassazione che offriva al contribuente, in modo eterodosso rispetto al sistema, ma vantaggioso per lui, una tutela in più; lo fa chiudendo la possibilità di questa tutela in un modo ortodosso rispetto al sistema, ma svantaggioso per il contribuente.
Rispetto al presente, la norma richiede alcuni chiarimenti per funzionare. Il problema della decorrenza del termine per impugnare appare cruciale e passibile di più soluzioni, sicché solo il legislatore potrà intervenire a risolverlo. Se anche l’Agenzia delle entrate lo volesse chiarire in una circolare, essa non offrirebbe comunque una soluzione definitiva, in quanto questa potrebbe essere stravolta dalla giurisprudenza.
Rispetto al futuro, si è osservato come i casi di accesso alla tutela giurisdizionale avverso ruolo e cartella che presentano vizi di notifica siano identificati in modo corretto, ma incompleto, esponendo la norma ad aggiustamenti ad opera del legislatore o della Corte costituzionale.
L’intervento qui discusso nasce per risolvere un reale problema, ovverosia il proliferare di cause pretestuose, ma lo fa aprendone di nuovi. L’intervento normativo avrebbe meritato maggiori attenzioni e riflessioni. I “fantasmi” che si aggirano sul nuovo art. 12, d.P.R. n. 602 del 1973 sono così tanti da rischiare di aumentare la confusione di un sistema, quello processuale tributario, in cui già la giurisprudenza svolge un ruolo fortemente suppletivo.
Resta poi sullo sfondo una criticità di tale sistema: il “tempismo” con cui è accordata la tutela al contribuente. L’impostazione della sentenza n. 19704 del 2015 si giustificava per assicurare una tutela anticipata che ora non è più accordata. Tale questione si inserisce nel più ampio dibattito circa l’effettività della tutela di tipo cautelare nel processo tributario, tema da tempo dibattuto ([29]), che non ha ancora trovato una completa soluzione. Una tutela cautelare più efficiente e una giustizia tributaria più veloce potrebbero certamente risolvere alcune della criticità che la nuova norma pone, ma perché ciò si realizzi è necessario un più ampio ripensamento di tale processo.
*Professore Associato di Diritto Tributario presso l’Università degli Studi del Molise.
([1]) L’articolo, rubricato «Non impugnabilità dell’estratto di ruolo e limiti all’impugnabilità del ruolo» dispone che «1. All’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, dopo il comma 4 è aggiunto il seguente: “4-bis. L’estratto di ruolo non è impugnabile. Il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto, per effetto di quanto previsto nell’articolo 80, comma 4, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, oppure per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 18 gennaio 2008, n. 40, per effetto delle verifiche di cui all’articolo 48-bis del presente decreto o infine per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione”.».
([2]) Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, istituita con decreto del Ministro della giustizia e del Ministro dell’economia e delle finanze del 14 aprile 2021, Relazione finale del 30 giugno 2021, disponibile all’indirizzo internet https://www.fiscooggi.it/sites/default/files/file/2021/07/relazione-finale-commissione-interministeriale-MEF-riforma-giustizia-tributaria_30-06-21.pdf.
([3]) Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, istituita con decreto del Ministro della giustizia e del Ministro dell’economia e delle finanze del 14 aprile 2021, Relazione finale del 30 giugno 2021, cit., pag. 19.
([4]) Viene indicata, a giustificazione dell’urgenza di intervenire sul punto, la circostanza dell’incremento di tali controversie anche nell’anno della pandemia da COVID-19 ove si è registrata, per legge, una paralisi dell’attività di riscossione. La Commissione muove dalla considerazione del fatto che l’intensificarsi dei ricorsi contro gli estratti di ruolo impone una riconsiderazione del sistema in quanto “in tale contesto, è bene osservare che circa il 40% delle cause contro l’Agente della riscossione consegue all’impugnazione di estratti di ruolo – relativi a crediti affidati all’Agente della riscossione fin dall’anno 2000, riportati in oltre 137 milioni di cartelle di pagamento – e determina ingenti costi gestionali ed amministrativi per il presidio dei relativi contenziosi. Infatti, nel solo anno 2020 – anno contraddistinto dalla pressoché totale inerzia dell’Agente della riscossione a causa della sospensione delle attività, derivante dalla situazione sanitaria emergenziale – il 40,6% dei ricorsi in ingresso (ossia circa 55.000 ricorsi su circa 135.000 complessivamente introdotti), trae origine dall’impugnazione di estratti di ruolo”. (Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, istituita con decreto del Ministro della giustizia e del Ministro dell’economia e delle finanze del 14 aprile 2021, Relazione finale del 30 giugno 2021, cit., pag. 130)
([5]) Sulla quale cfr. D. CANÈ, Sulla impugnabilità, nel processo tributario, di atti non notificati, in Giur. It., 2916, 8-9, pag. 1986; F. CERIONI, La Cassazione riforma il processo tributario: dalle azioni impugnatorie a quella di accertamento dell’obbligazione tributaria, in GT – Riv. Giur. Trib., 2016, 1, pag. 40; F. CORDA, Riflessioni in merito all’impugnabilità dell’estratto di ruolo, in Riv. Dir. Trib., 2016, 4, pag. 168; D. CARMINEO, Gli “atti tributari”, ancorché invalidamente notificati, sono sempre impugnabili dal contribuente che sia venuto “comunque” a conoscenza della loro esistenza, in Boll. Trib., 2015, 121, pag. 1574; F. RANDAZZO, Alle Sezioni Unite la questione dell’autonoma impugnabilità dell’estratto di ruolo, in Corr. Trib., 2014, 40, pag. 3121.
([6]) Così nella giurisprudenza di merito; in particolare cfr. Comm. Trib. Reg. Puglia, sez. XIV, sent. 26 gennaio 2010, n. 13/14/10.
([7]) Cass., Sez. V, sent. 15 marzo 2013, n. 6610; Cass., Sez. V, sent. 20 marzo 2013, n. 6906.
([8]) P. VIRGA, Diritto amministrativo – Atti e ricorsi, Milano, Giuffrè, 1999, pagg. 3, 68 e 22.
([9]) Cfr., Cass., Sez. I, sent. 8 settembre 2004, n. 18075; Cass., Sez. V, sent. 12 luglio 2013, n. 17236; Cass., Sez. V, sent. 19 febbraio 2014, n. 3938.
([10]) La rilevanza in ambito tributario della situazione di “piena conoscenza” è stata chiarita da Cass., Sez. V, sent. 27 febbraio 2009, n. 4760, secondo la quale, nell’ottica del diritto sostanziale, la notificazione di un atto amministrativo d’imposizione tributaria, in quanto operazione di conoscenza che ha per oggetto una dichiarazione recettizia, è un fatto che si colloca nella fase integrativa dell’efficacia del provvedimento, sicché questa funzione può essere svolta tanto da una conoscenza potenziale dell’atto autoritativo, quanto (e «a maggior ragione» per la Cassazione) da una conoscenza effettiva dello stesso. Nell’ottica del diritto processuale, tale principio va coordinato con l’art. 21, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992, per il quale il termine per impugnare un atto dalla data di notificazione dello stesso. Per la Corte, benché la norma non preveda formalmente alcuna equipollenza tra notificazione e piena conoscenza, tuttavia, «sarebbe contrario alla natura delle cose, e alla logica che ne sta alla base, negare alla conoscenza effettiva, purché piena e purché provata dall’ufficio tributario, la stessa capacità di creare, a carico del contribuente, l’onere di rispettare il termine decadenziale per l’eventuale impugnazione dell’atto d’imposizione che non gli sia stato notificato, ma che egli abbia, comunque, pienamente conosciuto». In senso conforme cfr. Cass., Sez. V, sent. 4 febbraio 2011, n. 2728.
La giurisprudenza tributaria mutua da quella amministrativa i criteri per individuare i casi nei quali ritenere raggiunte la piena conoscenza. Per la giurisprudenza, la verifica di tale situazione di fatto deve avvenire in modo estremamente cauto e rigoroso, non potendo basarsi su mere supposizioni ovvero su deduzioni, pur sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche. Essa, al contrario, deve risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi (Cons. Stato, Sez. IV, sent. 28 maggio 2012, n. 3159). Non occorre poi che il provvedimento sia conosciuto in tutti i suoi elementi, ma solo che il destinatario sia stato reso edotto di quelli essenziali, quali l’autorità emanante, la data, il contenuto del dispositivo ed il suo effetto lesivo (Cons. Stato, Sez. IV, sent. 19 giugno 2007, n. 3303). Cfr. N. SAITTA, Sistema di Giustizia Amministrativa, Milano, Giuffrè, 2011, pag. 72.
([11]) Su tale problematica cfr. C. GLENDI, Atti recettizi, predeterminazione normativa degli atti impugnabili e improponibilità di impugnazioni facoltative nel processo tributario, in Dial. Trib., 2008, 3, pag. 22; F. PISTOLESI, L’impugnazione “facoltativa” del diniego di interpello “disapplicativo”, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2013, 2, pag. 457; G. M. CIPOLLA, Processo tributario e modelli di riferimento: dall’onere di impugnazione all’impugnazione facoltativa, in Riv. Dir. Trib., 2012, 11, pag. 957; G. FRANSONI, Spunti ricostruttivi in tema di atti impugnabili nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 2012, 11, pag. 979; G. INGRAO, Prime riflessioni sull’impugnazione facoltativa nel processo tributario (a proposito dell’impugnabilità di avvisi di pagamento, comunicazioni di irregolarità, preavvisi di fermo di beni mobili e fatture), in Riv. Dir. Trib., 2007, 12, pag. 1075; L. FERLAZZO NATOLI, Considerazioni critiche sull’impugnazione facoltativa – Postilla a G. INGRAO, Prime riflessioni sull’impugnazione facoltativa nel processo tributario (a proposito dell’impugnabilità di avvisi di pagamento, comunicazioni di irregolarità, preavvisi di fermo di beni mobili e fatture), in Riv. Dir. Trib., 2007, 12, pag. 1112; R. LUNELLI, Diniego di disapplicazione delle norme “antielusive”: impugnazione facoltativa od obbligatoria, in GT – Riv. Giur. Trib., 2011, 8, pag. 680; C. GLENDI, Ancora sugli atti “non notificati” tra diritto amministrativo e tributario, in Dial. Trib., 2008, 3, pag. 22; R. LUPI, L’impugnabilità richiede sempre la formale notifica?, in Dial. Trib., 2008, 2, pag. 41; R. LUPI, P. SANDRO, Impugnazione facoltativa: un caso marginale per riflessioni strutturali, in Dial. Trib., 2008, 3, pag. 33; P. SANDRO, Autoritatività del provvedimento e diritto di difesa tra diritto amministrativo e diritto tributario, in Dial. Trib., 2008, 2, pag. 43.
([12]) Nell’ottica della Cassazione, riconoscere al contribuente la possibilità di far valere immediatamente le proprie ragioni in relazione ad un atto non (validamente) notificatogli, senza bisogno di attendere la notifica di altro atto successivo (che potrebbe essere a sua volta malamente notificato) è funzionale anche al buon andamento della Pubblica amministrazione, in quanto contribuisce ad evitare i costi di una procedura esecutiva male instaurata, la produzione e l’aumento di danni da risarcire al contribuente, i rischi di decadenza dell’amministrazione in ragione di ripetute notifiche non andate a buon fine.
([13]) Non, invece, in caso di tardività della notifica ove occorre impugnare tempestivamente l’atto secondo Cass., Sez. V, sent. 27 giugno 2011, n. 14702.
([14]) Cfr. Cass., Sez. V, sent. 22 novembre 2017, n. 27776.
([15]) Telefisco 2022, Quesito n. 25, in Il Sole 24 ore, 28 gennaio 2022, pag. 45.
([16]) Corte Cost., sent. 2 aprile 2014, n. 69; Corte Cost., sent. 30 settembre 2011, n. 257. Amplius G. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, Cedam, 2003, pag. 462; ID., Lezioni di diritto tributario, Torino, Giappichelli, 2021, pag. 81.
([17]) Tale conclusione non varrebbe per le impugnazioni dell’estratto di ruolo tout court non ammesse tanto nel sistema previgente, quanto in quello vigente. Si ritiene valga tale conclusione nonostante si registri la presenza di sentenze delle Sezioni semplici V e VI-5 (Cass., Sez. V, ord. 24 dicembre 2021, n. 41508; Cass., Sez. V, ord. 10 dicembre 2021, n. 39282; Cass., Sez. V, ord. 07 dicembre 2021, n. 38964; Cass., Sez. V, ord. 22 novembre 2021, n. 36013; Cass., Sez. V, ord. 12 ottobre 2021, n. 27649; Cass., Sez. V, ord. 20 agosto 2021, n. 23157) in cui i giudici si esprimono frettolosamente nel senso di ammettere l’impugnabilità dell’estratto di ruolo. Esse non paiono dirimenti in quanto la loro difformità rispetto alla sentenza n. 19704 del 2015 appare più reale che apparente. Va notato che molte di queste pronunce (Cass., Sez. VI-5, ord. 11 gennaio 2022, n. 587; Cass., Sez. V, ord. 7 dicembre 2021, n. 38763; Cass., Sez. V, sent. 22 novembre 2021, n. 35910; Cass., Sez. V, ord. 09 novembre 2021, n. 32810; Cass., Sez. V, ord. 28 ottobre 2021, n. 30451; Cass., Sez. V, ord. 12 ottobre 2021, n. 27860; Cass., Sez. V, ord. 12 ottobre 2021, n. 27676; Cass., Sez. V, ord. 22 luglio 2021, n. 21009; Cass., Sez. V, ord. 21 luglio 2021, n. 20769; Cass, Sez. V, ord. 16 giugno 2021, n. 16692) ammettono l’impugnabilità dell’estratto di ruolo usando varietà di espressioni (il contribuente ha impugnato l’estratto di ruolo; il contribuente ha impugnato l’estratto con il ruolo; il contribuente ha impugnato il ruolo tramite l’estratto), che non si prestano a letture univoche. Va altresì notato che, comunque, la maggioranza di loro fa un rinvio adesivo alle conclusioni della sentenza n. 19704 del 2015, che si esprimeva in termini del tutto differenti negando l’impugnabilità dell’estratto di ruolo in quanto tale. La possibilità di considerare tali pronunce come in aperto contrasto con la posizione delle Sezioni Unite appare pertanto quanto mai dubbia.
([18]) Corte Cost., sent. 13 marzo 2008, n. 53.
([19]) Cfr., la giurisprudenza a partire da Cass., Sez. II, ord. 27 settembre 2010, n. 20234.
([20]) Sul tema cfr. A. ATTARDI, Interesse ad agire (voce), in Noviss. Dig. It., Torino, UTET, VIII, 1962, pag. 840; A. NASI, Interesse ad agire (voce), in Enc. Dir., XXII, Milano, Giuffrè, 1972, pag. 28.
([21]) Cfr. Cass., Sez. V, ord. 2 luglio 2020, n. 13536, e Cass., Sez. V, sent. 14 dicembre 2021, n. 40047.
([22]) A. TRAVI, Lezioni di Giustizia Amministrativa, Torino, Giappichelli, 2016, pag. 197; E. SANTORO, Interesse al ricorso e risarcimento del danno nelle procedure di aggiudicazione di contratti pubblici, in Riv. Trim. Appalti, 2011, 2, pag. 434.
([23]) Cons. Stato, Sez. VI, sent. 28 dicembre 2017, n. 6145; T.A.R. Lazio, Sez. II-ter, sent. 10 gennaio 2018, n. 233.
([24]) A. CARINCI, Note sparse sulla novella che ha introdotto la non impugnabilità dell’estratto di ruolo nonché della cartella di pagamento e del ruolo per vizio di notifica, in Riv. Telematica Dir. Trib., 12 gennaio 2022, pagg. 10 e 11, ritiene che il contribuente possa avere interesse a chiarire la sua posizione con l’Amministrazione finanziaria per evitare di essere pregiudicato nell’ambito di rapporti non solo pubblicistici, ma anche privatistici. L’Autore ipotizza, infatti, che il contribuente possa avere interesse ad impugnare gli atti in discussione per evitare, ad esempio, che siano ridotte le sue possibilità di accesso a finanziamenti bancari o che sia limitata la possibilità di circolazione di sue aziende.
([25]) F. PAPARELLA, Le indicazioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte sull’impugnabilità dell’estratto di ruolo e gli effetti sull’ammissione al passivo dei crediti tributari, in Riv. Dir. Trib., 2017, 1, pag. 1; L. DEL FEDERICO, Profili di specialità ed evoluzione giurisprudenziale nella verifica fallimentare dei crediti tributari, in Il Fallimento, 2009, 12, pag. 1376; ID., I crediti tributari nell’accertamento del passivo fallimentare, in Rass. Trib., 2015, 1, pag. 11; A. CARINCI, La Cassazione conferma il proprio orientamento sulla non necessità della notifica della cartella ai fini dell’insinuazione al passivo, in GT – Riv. Giur. Trib., 2014, 7, pag. 612; M. MAURO, Questioni in tema di ammissione dei crediti tributari al passivo fallimentare, in Rass. Trib. 2015, 4, n. 805; F. GALLIO, È sufficiente presentare l’estratto di ruolo per insinuarsi al passivo fallimentare, in Il Fisco, 2017, 39, pag. 3776.
([26]) Cfr. Cass., sez, VI-1, ord. 9 dicembre 2014, n. 25863; Cass., sez. I, sent. 13 giugno 2016, n. 12117; Cass., Sez. VI-1, ord. 5 settembre 2017, n. 20784; Cass., Sez. I, ord. 14 giugno 2019, n. 16112; Cass., Sez. I, sent. 30 settembre 2019, n. 24442; Cass., Sez. VI-1, ord. 7 settembre 2020, n. 18351.
([27]) Le maglie delle ipotesi di ammissione al passivo fallimentare sono state poi ulteriormente allargate (cfr. Cass., Sez. VI-1, ord. 15 gennaio 2016, n. 655; Cass., Sez. VI-1, ord. 28 febbraio 2017, n. 5244; Cass., Sez. VI-1, ord. 9 ottobre 2017, n. 23576; Cass., Sez. VI-1, ord. 16 maggio 2018, n. 11954; Cass., Sez. VI-1, ord. 30 gennaio 2019, n. 2732; Cass., Sez. VI-1, ord. 13 dicembre 2019, n. 32988; Cass., Sez. VI-1, ord. 30 gennaio 2020, n. 2078; Cass., Sez. VI-1, ord. 13 febbraio 2020, n. 3684): si segnalano, infatti, altre sentenze che hanno configurato quali titoli idonei, ad esempio, l’avviso di liquidazione in materia di imposta di registro (Cass., Sez. V, sent. 19 maggio 2006, n. 12777) e, soprattutto, l’avviso di pagamento dell’IVA ex art. 60, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Cass., Sez. I, sent. 14 luglio 2004, n. 13027) o, ancora, sono stati ammessi fogli di prenotazione a ruolo (ovverosia atti interni dell’Amministrazione Finanziaria che precedono l’emissione del ruolo e della successiva cartella di pagamento) relativi ad accertamenti divenuti definitivi in seguito a sentenza passata in giudicato (Cass., Sez. Un., sent. 15 marzo 2012, n. 4126).
([28]) Cass., Sez. Un., sent. 11 novembre 2021, n. 33408.
([29]) Sul tema cfr. P. RUSSO, La giurisdizione e la competenza, in P. RUSSO, Manuale di diritto tributario – Il Processo tributario, Milano, Giuffrè, 2013, pag. 57; G. INGRAO, Oltre l’ampliamento degli atti impugnabili, l’estensione del giudizio all’esercizio di un potere cautelare, in Dial. Dir. Trib., 2006, 10, pag. 1267; M. MISCALI, La tutela cautelare nel rimborso della imposta, in Riv. Dir. Trib., 2017, 5, pag. 590; A. PERRONE, I limiti della tutela cautelare nel processo tributario, in AA. VV., Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele, a cura di A. Guidara, Torino, Giappichelli, 2021, pag. 468; G. RAGUCCI, La tutela cautelare nei gradi di impugnazione del processo tributario, in Giur. It., 2010, 11, pag. 2447; ID., La Corte costituzionale ribadisce l’ammissibilità di una tutela cautelare nei gradi di impugnazione del processo tributario, in Giur. It., 2012, 10, pag. 2183; G. CORASANITI, Ancora sul riconoscimento della tutela cautelare nei gradi successivi al primo: brevi note a margine di un intervento della Corte di Cassazione, in Dir. Prat. Trib., 2012, 4, pag. 744.
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