ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il diritto internazionale nell’evoluzione del conflitto in Ucraina
Intervista di Giuseppe Amara a Pasquale De Sena*
*Pasquale De Sena, professore ordinario di Diritto internazionale presso l’università di Palermo. Presidente della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea (2021).
Giuseppe Amara Professor De Sena, buongiorno. Nelle ultime settimane abbiamo registrato dichiarazioni che sembrano ulteriormente aggravare lo scacchiere politico internazionale e che inducono taluno a ritener che sia in atto una “guerra per procura”. Penso, in particolare, alle parole del segretario della difesa Lloyd Austin il quale ha detto: “vogliamo vedere la Russia indebolita al punto di non poter fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina”. Queste dichiarazioni modificano gli scenari? Introducono logiche preventive compatibili con il diritto internazionale?
Giuseppe Amara L’art. 5 del Trattato Nato prevede che un attacco armato contro uno o più stati aderenti in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti e, di conseguenza, scaturirà un obbligo di assistenza, anche militare se necessario. Ritiene che tale disposizione possa essere attivata nell’attuale emergenza, anche a mente il successivo art. 6 e le dichiarazioni di Putin che, più volte, ha ribadito come verranno ritenuti obiettivi militari legittimi i mezzi di trasporto Usa-Nato che riforniscono di munizioni e armi il territorio ucraino?
Pasquale De Sena Alla prima questione vorrei rispondere più avanti, essendo questa strettamente legata alla conformità dell’azione del Governo italiano all’articolo 11 della Costituzione.
Sulla questione riguardante l’obbligo di assistenza militare, ex-art. 5 del Trattato NATO, va anzitutto detto che tale obbligo è destinato a scattare, non per un incidente – come può essere il caso di un veicolo NATO colpito per errore – né per una scaramuccia che corrisponda ad un uso “minimo” della forza. Ai sensi dell’art. 5, da interpretarsi in connessione con l’art. 51 della Carta dell’ONU (che stabilisce il principio della legittima difesa individuale e collettiva), per attacco armato deve intendersi l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato. L’art. 6 del Trattato NATO vi include sì, ed espressamente, i casi in cui un simile attacco sia condotto contro forze terrestri, navali o aeree o di uno degli Stati parti sul territorio di altri Stati parti; ritengo però difficile che la Russia si spinga sino a colpire - per esempio, in territorio polacco - mezzi di trasporto NATO che movimentino armi. D’altra parte, neppure in un caso del genere, l’art. 5 opererebbe automaticamente, se si tiene presente, che nel caso dell’intervento statunitense in Afghanistan, la sua attivazione fu oggetto di una specifica delibera del Consiglio Atlantico; delibera, quest’ultima, che dovrebbe intervenire, a maggior ragione, in un caso come il nostro, date le gravissime implicazioni che esso presenta. Inoltre, vi è da specificare che il Trattato NATO non impone ai membri dell’Alleanza, anche nel caso di attivazione dell’articolo 5, di mandare direttamente truppe in aiuto dell’aggredito. La partecipazione alla difesa militare di uno Stato membro può essere prestata in diverse forme. La mente corre, ancora una volta, all’invocazione dell’articolo 5 dopo l’attacco sul suolo USA alle “Twin Towers”, che fu imputato all’Afghanistan, e che vide i Paesi dell’Alleanza contribuire in forme diverse alle operazioni militari della NATO in quel Paese.
Giuseppe Amara Ancora, a mente le recenti dichiarazioni di Biden sulle conseguenze di un potenziale attacco cibernetico su larga scala, va modificata la nozione di attacco armato, intendendosi anche quello arrecato in via informatica?
Pasquale De Sena Non vi sono precedenti che attestino una conclusione del genere. Per quanto riguarda specificamente il trattato NATO, l’articolo 5 è stato attivato – come ho appena detto - solo nel contesto della reazione rispetto all’attacco alle “Twin Towers”, e la sua formulazione testuale risale a un periodo in cui lo stato della tecnologia era molto meno avanzato rispetto ad oggi. Nel 2007 l’Estonia subì una paralisi del suo sistema informatico, di cui quel Paese accusò la Russia, in prima battuta. In assenza di prove inequivocabili di un coinvolgimento russo (diretto o indiretto), l’articolo 5 non venne però invocato. Nell’ipotesi in cui un attacco cibernetico ad un Paese NATO risultasse certamente riconducibile alla Russia, bisognerebbe dunque vedere, se i membri dell’Organizzazione sarebbero pronti ad un’interpretazione estensiva (se non proprio a un’applicazione analogica) dell’articolo 5. Mi pare, peraltro, che una simile operazione risulterebbe giuridicamente plausibile, solo ove l’attacco fosse in grado di produrre effetti affini a quelli di un attacco armato, rivelandosi in grado di pregiudicare l’esercizio delle funzioni sovrane essenziali dello Stato destinatario, ovvero di attentare alla sua indipendenza politica. In mancanza, un attacco cibernetico direttamente sferrato - o tollerato – dalla Russia, pur non rilevando come attacco armato, potrebbe costituire comunque un illecito internazionale, configurandosi, per esempio come una violazione del divieto di ingerenza negli affari interni (se direttamente sferrato), o, secondo alcuni, come una violazione del divieto di utilizzare il proprio territorio per atti nocivi nei confronti di uno Stato straniero (se operato da privati).
Giuseppe Amara Come cambierebbe lo scenario internazionale con un eventuale ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia e, a mente il disposto di cui all’art. 10 del Trattato, norma che richiede un accordo unanime, come spiega la posizione della Turchia?
Pasquale De Sena A stare alle dichiarazioni del Presidente della Federazione russa, questa prospettiva non verrebbe considerata, di per sé, una minaccia per la sicurezza di quel Paese. In altri termini, un’eventuale reazione militare parrebbe destinata a commisurarsi rispetto alle implicazioni concrete della partecipazione di Svezia e Finlandia (ad es., installazione di basi missilistiche lungo il confine russo-finlandese), ferma restando, naturalmente, l’eventualità dell’adozione di ritorsioni di vario genere (un cenno non meglio precisato è stato fatto alla prospettiva dell’adozione di reazioni di carattere politico). Sul piano giuridico, non vi è dubbio poi che anche l’opposizione di una sola parte sia in grado di bloccare l’ingresso dei due Stati in questione nell’Alleanza, in virtù della disposizione sopra richiamata. Né vi è dubbio che il processo di adesione alla NATO possa prendere un certo tempo, com’è accaduto, del resto, per la stessa vicenda relativa all’adesione dell’Ucraina. Di questo Erdogan è perfettamente consapevole, benché non sia chiaro se la dichiarata contrarietà della Turchia alla prospettiva in questione costituisca una mossa “tattica”, ovvero rivesta un valore strategico. Vi è peraltro da sottolineare che un modello in qualche misura alternativo rispetto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO è ricavabile dallo “Statement” bilaterale fra Regno Unito e Finlandia dell’11 maggio scorso. “Statement” nel quale i due Stati hanno stabilito di assistersi vicendevolmente, anche sul piano militare, nel caso di un attacco esterno. Per quanto tale “Statement” non rivesta un carattere formalmente vincolante (né intenda sostituirsi al sistema NATO), esso è senz’altro significativo, e può costituire, per l’appunto, un modello di cooperazione bilaterale, eventualmente suscettibile di essere riprodotto anche sotto forma di trattato, ed idoneo ad operare, già prima che l’ingresso nell’Alleanza si realizzi, ovvero, in grado di affiancarsi a quest’ultima, ove tale ingresso non si realizzasse.
Giuseppe Amara Intravede, dal segno opposto, un disegno unitario di Cina e Russia per ridiscutere l’ordine giuridico e politico internazionale costituito?
Pasquale De Sena Non vi è dubbio che Cina e Russia siano portatrici di una visione dell’ordine giuridico-politico internazionale che diverge da quello consolidatosi al termine della guerra fredda, all’insegna dell’unipolarismo statunitense. Una visione che, perlomeno per ora, non sembrerebbe intesa a pregiudicare le Nazioni Unite, e la vigenza dello stesso divieto dell’uso della forza, peraltro clamorosamente violato con l’invasione. Come si evince da un importante documento congiunto fra i due Paesi, adottato il 4 febbraio scorso, si tratterebbe di dar vita ad un assetto non più riconducibile al solo predominio degli Usa e dei loro alleati occidentali, ma multipolare; tale da ammettere, cioè, due o tre poli e le rispettive aree di influenza, connotate dai loro diversi modelli di “democrazia”, dalla parziale diversità dei diritti fondamentali tutelati. L’affermazione di una simile prospettiva è da mettersi anche in correlazione con lo scenario indo-pacifico, nel quale la Cina è interessata ad impedire il costituirsi di alleanze sul modello NATO, e dove la competizione con gli USA è fortissima: ciò spiega l’appoggio dato all’esigenza, fatta valere dalla Russia, di contrastare l’espansione della NATO in Europa orientale. È difficile dire, peraltro, se la visione in questione darà vita ad una vera e propria strategia unitaria da parte dei due Stati, ed, in particolare, se essa sarà in grado di incidere significativamente – ed in che modo - sulle nozioni di sicurezza internazionale e di minaccia alla pace (art. 39 Carta Onu), così come queste si sono venute configurando negli ultimi trent’anni. È però un dato di fatto che la Cina, non solo si è costantemente astenuta sui progetti di risoluzione di condanna dell’aggressione russa - sia in Consiglio di Sicurezza, che in Assemblea generale ONU - ma si è costantemente opposta alle sanzioni adottate dagli Stati occidentali e dall’Unione europea contro la Russia. Ed è ugualmente un dato di fatto che il numero di Stati che si sono astenuti, insieme alla Cina, in Assemblea generale, non solo è stato di per sé consistente (si pensi che la decisione di sospendere la Russia dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite è stata adottata con 24 voti contrari e ben 58 astensioni), ma corrisponde altresì a più di un terzo della popolazione mondiale. Non ci è concesso invece di prevedere con certezza se quest’insieme di Stati sarà in grado di costituire un ampio blocco contro-egemonico, fondato sui principi cui accennavo poc’anzi, e guidato, in qualche modo, da Cina e Russia.
Giuseppe Amara “Considerando la catastrofe che investirebbe tutta l’umanità nel caso di un conflitto nucleare e la conseguente necessità di compiere ogni sforzo per stornarne il pericolo e di prendere le misure atte a garantire la sicurezza dei popoli”. Questo l’incipit del Trattato di non proliferazione nucleare sottoscritto a Londra, Mosca e Washington il 1° luglio 1968. Ritiene che, oggi, vi sia un pericolo reale di un conflitto nucleare e cosa potrebbe provocarlo?
Pasquale De Sena È una domanda cui, da giurista, non mi riesce facile rispondere. Ciò premesso, mi preoccupa che l’utilizzazione dell’arma nucleare sia stata chiaramente prospettata, in alcune dichiarazioni ufficiali di organi di vertice della Federazione russa, sia pure come “extrema ratio” difensiva, nel caso in cui “interessi vitali”, ovvero l’esistenza di quello Stato dovessero esser messi in pericolo. È chiaro, infatti, che a decidere sul ricorrere di una simile ipotesi non potrebbe che essere la stessa Federazione russa; ed è chiaro, altresì, che la percezione complessiva di una sorta di accerchiamento sanzionatorio e strategico (si pensi, per l’appunto, alla prospettiva di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia), da parte occidentale, in risposta all’invasione dell’Ucraina, potrebbe costituire il presupposto di una simile – folle – decisione.
Giuseppe Amara Esistono – quanto meno in astratto – giustificazioni giuridiche nel diritto internazionale alla guerra di Mosca, con peculiare riferimento alla situazione che, dal 2014, nella regione del Donbass vede contrapporsi forze separatiste filorusse ed esercito ucraino e che, poi, nel febbraio di quest’anno, aveva condotto al riconoscimento delle repubbliche di Lugansk e Donetsk da parte di Mosca ed alla firma di accordi di «amicizia e mutuo soccorso» usati come pretesto per l’inizio dell’invasione?
Pasquale De Sena No, a mio avviso, nessuna delle circostanze fatte valere dalla Russia costituisce, sul piano del diritto internazionale vigente, una valida causa di giustificazione dell’intervento armato in Ucraina. Non lo è l’argomento della legittima difesa preventiva (argomento già prospettato, in passato, dagli Stati Uniti, nel contesto della “guerra al terrorismo”, seguita all’attacco alle “Twin Towers” del 2001); né lo è il preteso genocidio delle popolazioni russe del Donbass. Ove pure il sussistere di tale genocidio (sconfessato, per ora, sia pure “prima facie”, in sede cautelare, dalla stessa Corte internazionale di giustizia, chiamata a decidere su una controversia fra Russia ed Ucraina a questo riguardo) dovesse essere provato, non vi è alcun elemento certo per concludere che esso avrebbe giustificato l’intervento russo. A parte la circostanza che tale intervento - perlomeno nella sua prima fase – ha interessato in realtà tutto il territorio ucraino, è da ritenersi che l’uso della forza militare a fini umanitari sia tutt’altro che consolidato sul piano del diritto internazionale, se si pensa che lo stesso intervento militare NATO in Jugoslavia del 1999 – effettuato in assenza di un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza - venne avversato da una parte consistente della comunità internazionale. Proprio l’insostenibilità delle ragioni fatte valere dalla Russia sul piano giuridico, evidenziano, invece, a mio avviso, come la controversia con l’Ucraina sia essenzialmente una controversia di carattere politico, avente ad oggetto, cioè, il progressivo schierarsi di questo Stato con gli Stati europei occidentali e con la NATO, ed il suo progressivo inserimento nella sfera di influenza degli Stati Uniti, già evidenziato dal ruolo giocato da questi ultimi nei fatti di Piazza Maidan del 2014.
Giuseppe Amara Lo scorso 22 aprile è stato firmato un secondo decreto interministeriale sugli aiuti militari per l’Ucraina con apposizione del vincolo di segretezza concordato con il Copasir. Cosa ne pensa? Ha senso parlare di una distinzione nell’invio tra armi difensive ed armi offensive e fino a che punto tali politiche sono compatibili con l’art. 11 Cost.?
Pasquale De Sena Sul decreto interministeriale del 22 aprile, mi chiedo se il coinvolgimento del COPASIR – che è composto paritariamente da maggioranza e opposizione, e che, come si è giustamente osservato (De Fiores) non è dotato di poteri di indirizzo, essendo preordinato al controllo dei servizi segreti - esaurisca davvero il ruolo che sarebbe proprio del Parlamento. Quanto alla seconda questione, mi pare che, più che sulla distinzione fra armi offensive e armi difensive, abbia senso concentrarsi sulla finalizzazione dell’aiuto militare occidentale all’Ucraina. A seguito delle dichiarazioni rese il 27 aprile scorso dal Segretario alla Difesa americano, Austin, nonché a seguito del vertice NATO allargato di Ramstein ci si può chiedere infatti se tale aiuto, nel suo complesso, abbia solo carattere difensivo, ovvero miri ad una sorta di logoramento della Federazione, onde prevenire altre possibili aggressioni da parte della Russia ad altri Stati, come espressamente affermato da Austin. Così l’azione di legittima difesa tenderebbe a trasformarsi in azione preventiva, in contrasto col diritto internazionale, giacché la prevenzione di aggressioni future attraverso (l’uso e) il contributo all’uso della forza armata non è consentita né dal diritto delle Nazioni Unite (art. 51 della Carta), né dal diritto internazionale generale, che permettono eccezionalmente l’uso della forza, solo in risposta ad attacchi armati già sferrati. Agire a titolo di protezione preventiva di altri Stati finirebbe per assomigliare parecchio, e paradossalmente, proprio all’azione “preventiva”, invocata, come ho detto poco sopra, in modo insostenibile da Putin, per giustificare l’attacco russo, nonché, già in precedenza, dal presidente americano G.W. Bush, per fondare giuridicamente la “preemptive war”, come mezzo di reazione, da parte degli Stati Uniti, al terrorismo internazionale. Malgrado siffatto precedente, però, né la Carta delle Nazioni Unite, né il diritto internazionale generale permettono – lo ribadisco - di usare la forza o di contribuire all’uso della forza a fini di prevenzione di attacchi armati, per di più a protezione di altri Stati. Ne consegue che, se l’aiuto militare occidentale va orientandosi davvero in questo senso, la partecipazione italiana è suscettibile di entrare in conflitto con l’articolo 11, dal momento che tale disposizione va interpretata alla luce della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. L’esigenza di un dibattito parlamentare e un voto sono [sarebbero] di importanza fondamentale, anche perché la continuazione del supporto militare italiano potrebbe fuoruscire, in questa ipotesi, dal (sia pur ampio) mandato conferito al Governo dal Parlamento con la Risoluzione del primo marzo scorso.
Giuseppe Amara La Corte penale internazionale il 28 febbraio ha aperto un’indagine sui crimini di guerra commessi dalla Russia nell’invasione dell’Ucraina. È noto come, nel 2014 e nel 2015, l’Ucraina – che non è parte della Convenzione di Roma – ha accettato con due dichiarazioni la competenza della Corte per i crimini commessi dalla Russia sul proprio territorio. In particolare, la seconda dichiarazione non indica un limite finale di tempo, divenendo così la base giurisdizionale per la Corte per perseguire (e indagare) i crimini commessi nel territorio ucraino, ad eccezione di quello di aggressione (art. 15 bis paragrafo 5 statuto di Roma). Cosa ne pensa e come opera il personale chiamato ad indagare per garantire un accertamento imparziale?
Pasquale De Sena Io credo che la repressione dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi dai russi, e da chiunque altro sul territorio ucraino (non bisogna dimenticare che gravi violazioni dei diritti umani erano state documentate da una missione OSCE, a carico di milizie ucraine nel corso del conflitto civile nel Donbass), sia una questione seria ed importante; e ritengo altresì che gli accertamenti compiuti dall’Ufficio del Procuratore della Corte penale internazionale diano adeguate garanzie di imparzialità. Mi auguro che altrettante garanzie siano offerte dagli investigatori ucraini - visto che i primi procedimenti per crimini di guerra iniziano ad essere intentati, proprio nell’ambito della giurisdizione ucraina – nonché dagli investigatori russi che, a quanto se ne sa, si stanno occupando di crimini commessi da parte ucraina. A tal fine, come suggerito il 12 aprile scorso da una specifica missione di controllo dell’OSCE, sarebbe opportuno che entrambe le parti indagassero anche su violazioni commesse da propri soldati o ufficiali. E questo, fermo restando che la stessa missione cui mi riferisco, pur ritenendo ancora incerta l’ipotesi di un attacco sistematico alla popolazione civile ucraina – tale, cioè, da far presumere la commissione di crimini contro l’umanità - ha già verificato l’esistenza di violazioni estesissime dei diritti di detta popolazione, da parte russa, tali da far presumere, invece, la commissione, su larga scala, di crimini di guerra, peraltro da accertare caso per caso. Fermo restando che la raccolta delle prove esige un’estrema rapidità, resta allora il dubbio che una fretta eccessiva nell’operare la repressione dei crimini in questione nasconda in realtà - da parte ucraina e da parte russa - la volontà di sanzionare la controparte, più che quella di raggiungere un accertamento obbiettivo di fatti e responsabilità individuali. Ci si può chiedere poi se l’accento, posto da più parti, sull’esigenza di far operare le responsabilità personali del presidente della federazione russa e dei vertici politico-militari di quest’ultima, pur ispirandosi a principi fondamentali del diritto internazionale vigente, sia tempestiva. Da questo punto di vista, qualche perplessità in effetti, neppure manca di porsi; basti pensare che la prospettiva che si verifichi un “regime change” in Russia non è particolarmente verosimile, e che, perciò, è ipotizzabile che, proprio con costoro, una composizione del conflitto dovrebbe essere negoziata… Simili perplessità investono quindi anche la proposta, avanzata da Gordon Brown, e sottoscritta da molti prestigiosi colleghi di vari Paesi, di istituire un tribunale “ad-hoc” per giudicare il crimine di aggressione commesso da Putin e dai componenti delle istituzioni russe che hanno deciso l’intervento in Ucraina. A parte la difficoltà di immaginare il meccanismo giuridico di creazione di un tribunale di questo tipo (essendo irrealistico, per ovvie ragioni, che sia il Consiglio di Sicurezza a poterlo istituire, ed essendo assai difficile che, in assenza di un “regime change”, un processo possa essere celebrato su altre basi, per esempio convenzionali - come nel caso del Tribunale di Norimberga – ovvero sul presupposto di una risoluzione dell’Assemblea generale, totalmente sprovvista di competenze al riguardo), mi pare evidente che un giudizio a carico di Putin, in questa fase, sarebbe senza dubbio in grado di recare nocumento a qualsiasi prospettiva di tipo negoziale.
Giuseppe Amara Il segretario generale dell’ONU Guterres, all’indomani della visita a Kiev conclusasi con il lancio di missili russi sulla capitale, ha parlato di fallimento del consiglio di sicurezza. Cosa ne pensa e come l'organizzazione delle nazioni unite può ancora entrare nel conflitto per risolverlo e ristabilire la pace e della sicurezza mondiale?
Pasquale De Sena In realtà il Consiglio di Sicurezza è stato messo fuori gioco più volte nel corso degli anni 2000; basti solo pensare che l’intervento in Irak del 2003 (cui sono seguiti quasi centomila morti), e lo stesso intervento della NATO in Jugoslavia del 1999, sono stati entrambi effettuati senza il suo avallo. Espressa in questi termini, mi sembra dunque che l’opinione di Guterres provi … troppo rispetto al conflitto in corso, e … troppo poco rispetto al pregresso. D’altro canto la portata dell’aggressione russa è apparsa, sin dall’inizio, tale da poter mettere in discussione – come ho già osservato – non tanto l’ONU in sé e per sé, ma proprio l’evoluzione dell’azione Consiglio di sicurezza prodottasi negli ultimi trent’anni; come pensare, dunque, che proprio il Consiglio di sicurezza avrebbe potuto, in qualche modo, “governare” una crisi simile? A questo si aggiunge poi un‘altra considerazione; e cioè che il Consiglio di Sicurezza, pur essendo stato pretermesso - sul piano delle decisioni relative all’uso della forza - sia nella vicenda irachena che in quella jugoslava, si è comunque ritagliato un ruolo, in entrambe le vicende, intervenendo variamente a regolare le situazioni post-conflittuali determinatesi nei territori coinvolti, una volta cessate le ostilità. Un’analoga prospettiva può forse immaginarsi anche per il conflitto in Ucraina; sempre, però, che le condizioni politiche per il raggiungimento della pace vengano a maturare. A tal fine ben poco può il Consiglio, inteso come organo dell’ONU, e cioè come organo di un ente distinto rispetto agli Stati che ne sono membri; è a questi ultimi che spetta operare.
Giuseppe Amara Cosa ne pensa della questione della qualificabilità e del trattamento come terroristi dei miliziani di Azovstal?
Pasquale De Sena Anzitutto non mi sembra condivisibile l'argomento secondo cui, seppure i membri del battaglione Azov avessero compiuti atti di terrorismo, essi non sarebbero punibili dalla Russia, perché ricadrebbero nella giurisdizione ucraina (S. Cassese). A parte che l'affermazione è priva di fondamento (dal momento che senz'altro di tali atti saranno stati vittime anche soldati russi, giustificandosi così l'esercizio della giurisdizione da parte di quel Paese, in base al principio della personalità passiva), ragionare in termini di "terrorismo", in un contesto di conflitto armato internazionale, non ha molto senso. Ed infatti, seppure tale battaglione non risultasse inquadrato nell'apparato militare ucraino (ciò che è da accertare), esso si qualificherebbe, con ogni probabilità, come un movimento di resistenza organizzata (ciò che può, certo, non piacere viste le sue tendenze ideologiche), e, dunque, come gruppo di legittimi combattenti. Naturalmente se si accertasse che tale formazione si è comportata in violazione delle norme del diritto di guerra, i suoi membri non avrebbero diritto a beneficiare della protezione dovuta ai combattenti legittimi (art. 4, lettera A, 2), della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra del 1949).
Forma dell’atto di riassunzione di un precedente giudizio e sinteticità degli atti nel processo amministrativo (Nota a Cons. giust. amm. Regione Sicilia, 3 marzo 2022, n. 20)
di Ilaria Genuessi
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il richiamo nella pronuncia alla riassunzione di un precedente giudizio: cenni al fenomeno della translatio iudicii. – 3. Forma dell’atto di riassunzione e principio di sinteticità in ambito processuale amministrativo nelle previsioni ante Codice del processo amministrativo. – 4. Sinteticità e limiti dimensionali degli atti processuali di parte nelle previsioni normative vigenti: l’art. 13-ter All. II c.p.a. e il d.P.C.S. 167/2016. – 5. Il decreto in esame nel quadro delle pronunce giurisprudenziali sul punto. – 6. L’assenza di un’applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle conseguenze delle condotte difformi rispetto al principio di sinteticità. – 7. Osservazioni conclusive anche alla luce dell’art. 24 Cost.
1. Il caso di specie
Nella vicenda in esame, concernente un giudizio in ambito risarcitorio, il Presidente della sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana si pronuncia a seguito del deposito dell’istanza, formulata dalla società appellante, in relazione al proponendo appello per la riforma della sentenza del Tar Sicilia – Catania, sez. III, 17 settembre 2021, n. 2791, espressasi con dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto.
L’appellante, nel dettaglio, presenta al Presidente del CGARS un’istanza di deroga ai limiti dimensionali degli atti previsti per il giudizio di appello, motivando l’istanza suddetta con l’esigenza di attaccare la sentenza del giudice di prime cure, riproponendo i motivi del ricorso di primo grado, a sua volta rappresentante, di fatto, atto di riassunzione del giudizio in precedenza incardinato davanti al giudice civile, in sede di appello.
Il decreto in questione si pronuncia, pertanto, in prima battuta, sulla questione della riassunzione di un precedente giudizio davanti al giudice amministrativo: nelle statuizioni del Presidente della Sezione giurisdizionale del CGARS si rinvengono, infatti, rilevanti precisazioni proprio a proposito dell’atto di riassunzione avanti al giudice amministrativo, circa il contenuto del medesimo, ma altresì con riguardo alla forma, anche e soprattutto in termini di estensione e limiti dimensionali dell’atto di parte nel giudizio di appello e relative possibili deroghe.
In altri termini, la pronuncia opera un riferimento generale alle modalità di riassunzione del giudizio avanti ad altro giudice, sebbene il giudicante si soffermi, in particolar modo, sul dato formale della estensione dell’atto di riassunzione medesimo; per tali ragioni, si ritiene il decreto in commento offra lo spunto per operare una compiuta riflessione a proposito dei fondamentali principi di sinteticità e chiarezza del ricorso e degli atti difensivi nell’ambito del processo amministrativo, anche alla luce dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali degli atti in tale ottica individuati mediante decreto del Presidente del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 13-ter dell'Allegato II al Codice del processo amministrativo.
È proprio sull’essenziale principio di sinteticità degli atti nel processo amministrativo, anche in termini di approdi della dottrina e della giurisprudenza, che si intende dunque soffermarsi nella presente sede.
2. Il richiamo nella pronuncia alla riassunzione di un precedente giudizio: cenni al fenomeno della translatio iudicii
Come anticipato, il Presidente, esprimendosi sull’istanza formulata, rileva anzitutto nel decreto come, al fine di impugnare la sentenza di primo grado, l’appellante abbia prodotto uno «schema di atto di appello redatto con tecnica di copia e incolla e struttura “a matrioska” », laddove l’atto di appello ricalca in maniera pedissequa il ricorso presentato al T.a.r., a sua volta identico rispetto all’atto di appello in sede civile e occupante 174 cartelle.
Ne consegue la rilevante statuizione in tema di forma (e sostanza) dell’atto di riassunzione di un precedente giudizio, riassunzione che – come espresso chiaramente dall’organo giudicante nel caso di specie – determina e richiede la “riproduzione sostanziale” di un precedente atto processuale, senza novazione. In altri termini, la riassunzione non richiederebbe una riproduzione in senso “formale” dell’atto precedente, specialmente laddove la struttura dell’atto riprodotto non appaia conforme – come del resto nel caso in questione – ai parametri ed alle specifiche previsioni vigenti in relazione agli atti del processo amministrativo[i].
In merito, non si può non richiamare, di conseguenza, il noto principio della "traslatio iudicii", compiutamente trattato nell’ambito della nota sentenza della Corte costituzionale 12 marzo 2007, n. 77[ii], laddove si è dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 30 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, nella parte in cui non prevedeva che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservassero, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.
Nella pronuncia si è altresì ravvisata l'esigenza di colmare una lacuna dell'ordinamento processuale, introducendo con urgenza una disciplina legislativa sul punto che – si è evidenziato – dovesse essere vincolata solo nel senso della attuazione del principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato – a seguito di declinatoria di giurisdizione – davanti al giudice che ne è munito.
La suddetta pronuncia del Giudice costituzionale, peraltro, ha rammentato nell’ambito della motivazione come immediato precedente della pronuncia stessa fosse rappresentato dalla sentenza della Corte costituzionale del 6 luglio 2004 n. 204, la quale ha precedentemente dichiarato la «illegittimità costituzionale di talune norme che, secondo il criterio dei "blocchi di materie", ripartivano la giurisdizione tra autorità giudiziaria ordinaria e giudice amministrativo»[iii].
L’istituto in questione, recentemente disciplinato dall'art. 59 della l. 18 giugno 2009, n. 69, risulta oggi regolato, per quel che concerne nello specifico il processo amministrativo, dall'art. 11 d.lgs. 104/2010 s.m.i.[iv], ai sensi del quale il processo promosso avanti ad un giudice carente di giurisdizione può essere riassunto davanti al giudice munito di giurisdizione, fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda, laddove il processo sia riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato.
A seguito dell’entrata in vigore delle predette norme i giudici amministrativi hanno dunque ribadito in numerose occasioni come la "traslatio iudicií", in conseguenza della declaratoria di difetto di giurisdizione ad opera del giudice adito, determini la riassunzione del giudizio innanzi al giudice indicato, sebbene nei limiti della domanda inizialmente proposta, ossia con esclusivo riferimento al petitum ed alla causa petendi propri dell'originario giudizio promosso innanzi al giudice sfornito di giurisdizione, non essendo ammissibili in sostanza domande nuove[v].
Tale interpretazione è, del resto, sostenuta anche dall’organo giudicante nella pronuncia in esame, laddove opera sul punto uno specifico richiamo alla riproduzione “sostanziale” del precedente atto processuale di parte, “senza novazione”.
Chiarito il suddetto aspetto relativo alle peculiarità dell’atto di riassunzione e proprio poggiando le ulteriori indicazioni su tale presupposto, il giudice evidenzia, nel decreto preso in esame, come la necessità di operare una riproduzione pedissequa e formale degli atti – peraltro estremamente estesi e articolati – del precedente giudizio avanti al giudice civile e di riassunzione in primo grado avanti al giudice amministrativo nella fattispecie in questione, non possa essere ritenuta quale giusta causa di deroga dei limiti dimensionali del ricorso in appello nell’ambito del processo amministrativo.
Peraltro, nel caso di specie, l’organo giudicante osserva come anche in relazione al tipo di contenzioso azionato, di ordine risarcitorio, non si ravvisi ricorrenza statistica di atti processuali estesi “oltre 170 pagine” e neppure vi sia prova di ragioni peculiari ed eccezionali, tali da giustificare, nel caso concreto in questione, tale estensione dell’atto introduttivo del giudizio di appello.
3. Forma dell’atto di riassunzione e principio di sinteticità in ambito processuale amministrativo in senso generale e nelle previsioni ante Codice del processo amministrativo
Come accennato, la pronuncia in commento viene resa a proposito della questione dei limiti dimensionali del ricorso in appello, nel caso di specie atto di riassunzione di un precedente giudizio, nell’ambito del processo amministrativo e relative deroghe.
La medesima offre così l’opportunità di riflettere a proposito della questione della sinteticità degli atti difensivi nell’ambito del processo amministrativo, principio da ultimo codificato in specifiche previsioni di cui al d.lgs. n.104/2010[vi].
In senso generale, è negli anni Novanta che si origina un vero e proprio dibattito circa la sinteticità degli atti, peraltro sviluppatosi con l’avvento dell’informatica e la inevitabile ed evidente conseguenza della possibile redazione degli atti giudiziari secondo un sistema “copia e incolla” – peraltro menzionato nella stessa pronuncia in commento – determinante una produzione di atti difensivi sovente di dimensioni spropositate od abnormi[vii].
In ambito sovranazionale, la questione della necessaria sinteticità degli atti è presa in considerazione dalle stesse Corti internazionali, le quali hanno individuato precisi limiti dimensionali rispetto agli atti di parte: così la Corte di Giustizia UE, avanti la quale è prevista la presentazione di ricorsi e memorie aventi un predeterminato numero massimo di pagine[viii]e la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo che prevede l’impiego di un formulario di ricorso, che rechi una esposizione dei fatti e dei motivi “succinta”[ix].
Nel nostro ordinamento il principio di sinteticità ha investito lo stesso processo civile, peraltro con l’affermazione, in tempi recenti, di un accesso dibattito sul punto, anche in conseguenza di precise disposizioni introdotte dal legislatore nel senso della semplificazione del momento decisorio nell’ambito del processo civile[x].
Nell’ambito del contenzioso amministrativo, nello specifico, tale principio ha lentamente fatto capolino sul piano normativo, dapprima – come si avrà modo di evidenziare – con esclusivo riferimento al rito in materia di appalti pubblici, mentre ad oggi, a seguito della intervenuta codificazione generale all’interno del c.p.a., il principio di necessaria sinteticità degli atti rappresenta un vero e proprio principio generale del processo amministrativo[xi].
Ripercorrendo le tappe della sua affermazione, occorre osservare anzitutto come nella legislazione che precede il Codice del processo amministrativo si ravvisano unicamente disorganiche e sporadiche previsioni relative alla sinteticità degli atti: così l’art. 6 del r.d. n. 642/1907, laddove rispetto al contenuto del ricorso, si menzionava l’”esposizione sommaria dei fatti”, ovvero l’art. 41, comma 1 del r.d. n. 1054/1924, il quale prevedeva che nella pubblica udienza l’avvocato potesse essere ammesso a svolgere “succintamente il proprio assunto”.
Procedendo con ordine, tuttavia, si può rilevare come il principio di sinteticità degli atti abbia fatto ingresso nell’ambito del processo amministrativo, come accennato, mediante le specifiche previsioni di cui al d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, recante normativa interna di attuazione della direttiva 2007/66/CE con riferimento al miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di contratti pubblici. Tali previsioni hanno in sostanza individuato una disciplina speciale finalizzata ad una più rapida definizione dei giudizi in materia di appalti pubblici, rispetto al giudizio: nello specifico, l’art. 245, comma 2-undecies del d.lgs. 163/2006 ha disposto che tutti gli atti di parte, con riferimento ai predetti ricorsi, dovessero essere sintetici, mentre la sentenza dovesse essere di norma redatta in forma semplificata.
La previsione in questione, concernente il rito in materia di appalti, è stata inoltre ribadita nell’ambito dell’art. 120, comma 10 c.p.a.: rispetto alle controversie in materia di contratti pubblici cioè il codice del processo amministrativo ha dettato una speciale disciplina in materia di sinteticità degli atti, alla luce della quale “tutti gli atti di parte e i provvedimenti del giudice devono essere sintetici”[xii].
Di seguito, mediante la previsione di cui all’art. 3 c.p.a., riguardante proprio il dovere di motivazione ed il principio di sinteticità degli atti, quest’ultimo è stato introdotto nell’ambito dell’ordinamento interno quale vero e proprio principio generale, valevole non più soltanto con riguardo alla materia dei contratti pubblici, ma esteso a qualsiasi giudizio amministrativo[xiii].
La regola generale di sinteticità suddetta, peraltro, non gode di una “tutela” costituzionale, a differenza del dovere di motivazione laddove si consideri la previsione di cui all’art. 111 Cost; il principio di cui trattasi, può conseguentemente essere considerato una specificazione od un corollario del principio generale e, di rilievo costituzionale, del giusto processo, inteso, in particolare, nel senso della ragionevole durata del processo[xiv].
Il principio, inoltre, al momento della sua generale codificazione nell’ambito processuale amministrativo, è stato previsto quale disposizione meramente programmatica, in quanto tale non assistita da alcuna sanzione per il caso di violazione del precetto[xv].
Soltanto in seguito, mediante il c.d. secondo correttivo al c.p.a., di cui al d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160, che ha introdotto “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo, a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69”, si è disposta una modifica alla disciplina specifica di cui all’art. 26 in tema di spese di giudizio, con la previsione per cui l’organo giudicante possa, ai fini della condanna alle spese di lite, prendere in considerazione, altresì, il “rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità” di cui all’articolo 3, comma 2 c.p.a.[xvi]
Ulteriori specificazioni al principio in esame, in particolare con riferimento ai parametri per la definizione della sinteticità, intervengono sul piano normativo sempre in un secondo momento e – come già evidenziato rispetto al principio in senso generale – dapprima con esclusivo riguardo al rito speciale dedicato alla materia degli appalti pubblici e, in seguito, anche rispetto all’intero processo amministrativo.
Nel dettaglio, occorre riferirsi in primo luogo alla modifica apportata all’art. 120, comma 6 c.p.a. ad opera dell’art. 40, comma 1, lett. a) del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, recante “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, laddove si è previsto, al fine di consentire uno spedito svolgimento del giudizio, coerentemente con la previsione di cui all’art. 3, comma 2 c.p.a., che le parti dovessero contenere le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini previsti da apposito decreto del Presidente del Consiglio di Stato, adottato sentiti il Consiglio nazionale forense e l’Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti.
Con lo stesso decreto si prevedeva dovessero in aggiunta essere individuati i casi per i quali, per specifiche ragioni, potesse essere consentito superare i relativi limiti. Il medesimo decreto, nel fissare i predetti limiti dimensionali, stabiliva si dovesse tenere conto di una serie di aspetti, tra i quali: il valore effettivo della controversia, la sua natura tecnica e il valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti.
La medesima previsione di cui all’art. 120, comma 6 c.p.a. prevedeva che il giudice dovesse esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti[xvii].
In attuazione della previsione suddetta, riferita al rito appalti, è stato emanato il decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 40 del 25 maggio 2015; quest’ultimo rappresenta un approdo fondamentale con particolare riguardo ai limiti dimensionali degli atti, posto che, mediante tale decreto, per la prima volta si è individuato un preciso contenuto dimensionale rispetto al principio di sinteticità[xviii].
Successivamente l’art. 7-bis della legge 25 ottobre 2016, n. 197 di conversione del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 recante “Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l’efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa” ha disposto l’abrogazione della suddetta norma, introducendo l’art. 13-ter in sede di Allegato II al c.p.a. rubricato “Criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte”.
Tale norma, in sostanza, ha esteso la disciplina poc’anzi esposta e riferita al solo rito in materia di appalti a tutto il processo amministrativo.
4. Sinteticità e limiti dimensionali degli atti processuali di parte nelle previsioni normative vigenti: l’art. 13-ter All. II c.p.a. e il d.P.C.S. 167/2016
L’art. 13-ter dell’All. II c.p.a. oggi dispone che “1. Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza di cui all'articolo 3, comma 2, del codice, le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato, da adottare entro il 31 dicembre 2016, sentiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria degli avvocati amministrativisti. 2. Nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi si tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto. 3. Con il decreto di cui al comma 1 sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. 4. Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, anche mediante audizione degli organi e delle associazioni di cui al comma 1, effettua un monitoraggio annuale al fine di verificare l'impatto e lo stato di attuazione del decreto di cui al comma 1 e di formulare eventuali proposte di modifica. Il decreto è soggetto ad aggiornamento con cadenza almeno biennale, con il medesimo procedimento di cui al comma 1. 5. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”.
Il decreto n. 40/2015 sopra menzionato è stato successivamente sostituito dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 167 del 22 dicembre 2016, emanato in ottica generale con riferimento all’intero processo amministrativo, in attuazione dell’art. 13-ter suddetto, decreto a sua volta modificato dal successivo d.P.C.S. 16 ottobre 2017, n. 127.
Il provvedimento in questione riveste particolare rilevanza ai fini della trattazione presente considerato che, in primo luogo, ha individuato precisi criteri di redazione degli atti processuali di parte, tra i quali: l’indicazione distinta dei fatti e dei motivi in parti specificamente rubricate; l’individuazione, sempre in distinti paragrafi, specificamente titolati, delle eccezioni di rito e di merito, le richieste di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, le richieste di rinvio alla Corte costituzionale, le istanze istruttorie e processuali; la formulazione di motivi e specifiche domande in paragrafi numerati e muniti di titolo.
Tra gli altri criteri redazionali di cui al decreto presidenziale, avuto riguardo in particolare alla pronuncia in commento, si evidenzia inoltre la specifica previsione di cui all’art. 2, lett. d) alla luce della quale le parti “evitano, se non è strettamente necessario, la riproduzione pedissequa di parti del provvedimento amministrativo o giurisdizionale impugnato, di documenti e di atti di precedenti gradi di giudizio mediante “copia e incolla”; in caso di riproduzione, riportano la parte riprodotta tra virgolette, e/o in corsivo, o con altra modalità atta ad evidenziarla e differenziarla dall’atto difensivo”.
L’art. successivo del decreto in esame detta, in aggiunta, i precisi limiti dimensionali degli atti processuali di parte individuando nello specifico un numero massimo di caratteri, in conformità alle specifiche tecniche di cui all’articolo 8 del medesimo decreto, indicati per ciascun rito ed in particolare: “a) nei riti dell’accesso, del silenzio, del decreto ingiuntivo (sia ricorso che opposizione), elettorale di cui all’articolo 129 del codice del processo amministrativo, dell’ottemperanza per decisioni rese nell’ambito dei suddetti riti, dell’ottemperanza a decisioni del giudice ordinario, e in ogni altro rito speciale non espressamente menzionato nel presente comma, 30.000 caratteri (corrispondenti a circa 15 pagine nel formato di cui all’articolo 8); b) nel rito ordinario, nel rito abbreviato comune di cui all’art. 119, nel rito appalti, nel rito elettorale di cui all’articolo 130 e seguenti del codice del processo amministrativo, e nei giudizi di ottemperanza a decisioni rese nell’ambito di tali riti, 70.000 caratteri (corrispondenti a circa 35 pagine nel formato di cui all’articolo 8); c) la memoria di costituzione unica relativa a un numero di ricorsi o impugnazioni superiori a due, proposti contro un atto plurimo, non può eccedere le dimensioni della somma delle singole memorie diviso due”.
Ulteriore questione prevista nell’ambito del decreto Presidenziale più recente, la quale rileva con riferimento alla pronuncia in commento, è certamente quella delle deroghe previste rispetto ai suddetti limiti dimensionali degli atti (espressamente indicate all’art. 5 del decreto) secondo un procedimento di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali – descritto al successivo art. 6 – consistente nella valutazione in ordine alla sussistenza dei predetti presupposti di cui all’art. 5 ad opera del Presidente del tribunale adito.
Al fine dell’ottenimento dell’autorizzazione al superamento dei limiti, il ricorrente, principale o incidentale, è in concreto chiamato a formulare istanza motivata, allegando ove possibile lo schema di ricorso, sulla quale il Presidente o il magistrato delegato debbono pronunciarsi con decreto, entro i tre giorni successivi, così come avvenuto mediante la pronuncia in commento[xix].
5. Il decreto in esame nel quadro delle pronunce giurisprudenziali sul punto
La giurisprudenza ha applicato il suddetto principio generale di sinteticità di cui all’art. 3, comma 2 del c.p.a. individuando rispetto a singoli casi una violazione del dovere di sinteticità, anche prima della introduzione nell’ordinamento interno, rispetto a tutti i giudizi promossi avanti ai giudici amministrativi, degli specifici criteri di redazione degli atti e dei precisi limiti dimensionali degli atti di parte.
In tal senso, si è ritenuto contrario al dovere di sinteticità un atto di appello connotato da “estrema prolissità e ripetitività (…), che ha particolarmente aggravato l’attività difensiva delle controparti mediante violazione dei principi di cui al cit. art. 3 c.p.a., soprattutto in quanto reca: 1) 53 pagine di oltre 30 righe, palesemente non proporzionate al livello di complessità della causa; 2) un evidente abuso della funzione di c.d. “copia e incolla”, applicata ad atti già necessariamente presenti nel fascicolo (ricorso di primo grado e sentenza appellata); 3) una frequente ripetizione di concetti già esposti”[xx].
Nel caso di specie, applicando le previsioni generali di cui all’art. 3, comma 2 c.p.a. e all’art. 13-ter All. 2 c.p.a, ma altresì gli artt. 5 e 6 del d.P.C.S. n. 167/2016, l’organo giudicante adito ai fini dell’autorizzazione di cui all’art. 6 del medesimo decreto, mediante istanza di deroga ai limiti dimensionali, precisa come giusta causa di deroga ai suddetti limiti, in sede di riassunzione e nell’ambito del giudizio di appello, non possa essere ritenuta la circostanza della particolare estensione degli atti precedenti di ricorso alla Corte d’appello e di ricorso al T.A.R. in primo grado.
In aggiunta, come asserito, né si ravvisano, né risultano provate “eccezionali ragioni” giustificanti nel caso concreto l’estensione dell’atto, in deroga al principio di sinteticità.
L’istanza è pertanto solo parzialmente accolta, in applicazione del disposto di cui all’art. 5, comma 1 del d.P.C.S. richiamato, in particolare con autorizzazione di 100.000 caratteri, esclusi spazi, epigrafe, dispositivo e riassunto iniziale.
Un aspetto sul quale si è incentrato il dibattito dottrinale, laddove si consideri anche quanto osservato nella pronuncia in commento, è senza dubbio quello della innegabile discrezionalità che connota le decisioni degli organi giudicanti, nell’interpretazione e nell’applicazione concreta delle previsioni di cui all’art. 5 del d.P.C.S. e così, caso per caso, nella valutazione circa la sussistenza dei generali presupposti di fatto legittimanti l’autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali degli atti.
Il menzionato art. 5 fa riferimento in particolare ad una controversia che “presenti questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero attenga ad interessi sostanziali perseguiti di particolare rilievo anche economico, politico e sociale, o alla tutela di diritti civili, sociali e politici; a tal fine vengono valutati, esemplificativamente, il valore della causa, ove comunque non inferiore a 50 milioni di euro nel rito appalti, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato; il numero e l'ampiezza degli atti e provvedimenti effettivamente impugnati, la dimensione della sentenza gravata, l'esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande od eccezioni non esaminate, la necessità di dedurre distintamente motivi rescindenti e motivi rescissori, l'avvenuto riconoscimento della presenza dei presupposti di cui al presente articolo nel precedente grado del giudizio, la rilevanza della controversia in relazione allo stato economico dell’impresa; l'attinenza della causa, nel rito appalti, a taluna delle opere di cui all'articolo 125 del codice del processo amministrativo”.
Oltretutto, le predette deroghe ai limiti dimensionali individuati in attuazione del generale e codificato principio di sinteticità – occorre precisare – si rinvengono nell’ambito di un atto, il decreto del Presidente del Consiglio di Stato, che difficilmente può essere inquadrato nell’ambito delle fonti di rango primario.
Ulteriore questione connessa e – si ritiene – maggiormente rilevante, oltre che, ad oggi, oggetto di vivace dibattito in ambito dottrinale e giurisprudenziale laddove si faccia riferimento alla sinteticità degli atti nell’ambito del processo amministrativo, pare quella concernente le conseguenze della violazione del principio di sinteticità, parimenti in assenza di una espressa previsione legislativa sul punto[xxi].
6. L’assenza di un’applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle conseguenze delle condotte difformi rispetto al principio di sinteticità
In sostanza, codificato il principio sul piano normativo e disciplinati – in attuazione del principio in questione – taluni requisiti formali degli atti di parte nell’ambito del processo amministrativo, si è tuttavia rimessa a dottrina e giurisprudenza l’interpretazione circa le conseguenze della violazione delle suddette norme, anche in termini di requisiti e limiti dimensionali degli atti.
Di fatto, come posto in evidenza dalla dottrina, nessuna norma di rango primario prevede esplicitamente che la violazione del principio di sinteticità possa dar luogo alla inammissibilità – in parte qua – della domanda: come accennato, infatti, rispetto alle conseguenze della eventuale violazione del principio occorre fare riferimento all’art. 26 c.p.a., con esclusivo riguardo all’aspetto della condanna alle spese di lite e all’art. 13-ter, comma 5, All. II c.p.a., laddove è previsto che l'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine dell’atto eccedenti i limiti dimensionali prescritti o autorizzati non rappresenta motivo di impugnazione[xxii].
Di conseguenza, la giurisprudenza si è pronunciata sulla questione della sinteticità degli atti ed in particolar modo, altresì, sulle conseguenze del mancato rispetto dei limiti dimensionali secondo orientamenti contrastanti.
Un recente filone della giurisprudenza amministrativa si è consolidato sull’assunto per cui il superamento dei limiti dimensionali determinerebbe, alla luce dell’interpretazione preferibile delle previsioni normative analizzate, l’inammissibilità delle specifiche censure o delle deduzioni svolte dalla parte[xxiii].
In dottrina, tuttavia, si è eccepito che non pare chiaro quale sia la norma dalla quale sarebbe possibile far derivare la conseguenza dell’irricevibilità od inammissibilità in parte qua dell’atto processuale di parte eccedente i limiti dimensionali previsti[xxiv].
Altro orientamento, di contro, ha escluso che la violazione dei limiti dimensionali comporti la irricevibilità, in parte qua, dell’atto[xxv].
Da ultimo, peraltro, sembra si sia affermato quale orientamento prevalente in seno alla giurisprudenza amministrativa quello volto a sanzionare proprio in termini di irricevibilità, ovvero inammissibilità il superamento non autorizzato dei suddetti limiti, sebbene con alcune cautele di seguito poste in evidenza[xxvi].
Nell’ambito della recente sentenza del Consiglio di Stato n. 3006/2021, in particolare il collegio giudicante – richiamando il principio di leale collaborazione (ai sensi dell’art. 2, comma 2, del c.p.a.) – ha invitato le parti a riformulare le difese nell’ambito di precisi limiti dimensionali, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuovi rispetto a quelli già dedotti e, nel caso di specie, ha assunto tale determinazione al precipuo fine di “non "sorprendere" le parti in una fase caratterizzata dall'assenza di una applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle suddette conseguenze delle condotte difformi (salvo alcuni sporadici ma significativi precedenti: cfr. Sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636.; Sez. V, 12 giugno 2017, n. 2852)”[xxvii].
Nella stessa pronuncia il supremo consesso amministrativo ha rilevato, a proposito del requisito della sinteticità degli atti di parte e del rispetto dei limiti dimensionali richiamati all’art. 13-bis All. 2 c.p.a., che “mentre l'iniziale impostazione legislativa faceva leva unicamente sulla condanna alle spese di lite (art. 26 del c.p.a.), il citato art. 13-ter, in modo estremamente innovativo sul piano sistematico, sanziona in termini (non di nullità, bensì) di "inutilizzabilità" le difese sovrabbondanti, in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l'esame tempestivo e l'intellegibilità della domanda; in questi termini va interpretata la disposizione che ha introdotto una deroga rispetto all'obbligo generalmente esistente in campo al giudice di pronunciare su tutta la domanda (il mancato esame delle difese sovrabbondanti non è infatti censurabile come vizio di infra-petizione)”.
Merita attenzione, dunque, anche alla luce di quanto statuito dalla pronuncia anzidetta, così come dalla pronuncia in commento, la seguente precisazione.
Considerando la ratio delle disposizioni da ultimo introdotte con riferimento alla sinteticità degli atti di parte nell’ambito del processo amministrativo appare fondamentale, anche laddove si sposti il focus sulla questione delle conseguenze – per gli atti di parte – del mancato rispetto della sinteticità nella redazione degli atti medesimi, l’aspetto della intellegibilità della domanda.
Lo stesso Consiglio di Stato, in merito, ha recentemente evidenziato come il mancato rispetto dei princìpi di chiarezza e sinteticità di cui all’art. 3, c. 2 c.p.a. esponga l'appellante alla declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, non tanto per la irragionevole estensione del ricorso, bensì in quanto rischia di pregiudicare l'intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e – in caso di appello – confuse le stesse censure mosse alla sentenza gravata, con conseguente violazione della regola di specificità dei motivi di appello, ex art. 101, c. 1 c.p.a., imposta a pena di ammissibilità del gravame[xxviii].
In altri termini, come – si ritiene – correttamente affermato dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, la brevità dell'atto processuale (in termini di caratteri, pagine e battute) andrebbe intesa quale “strumento attraverso il quale il legislatore ha inteso vincolare le parti a quello sforzo di "sintesi" giuridica della materia controversa, sul presupposto che l'intellegibilità dell'atto (e quindi la giustizia della decisione) è grandemente ostacolata da esposizioni confuse e causidiche”[xxix].
Il principio di sinteticità avrebbe, in altri termini, una particolare rilevanza nella misura in cui il mancato rispetto del suddetto principio generale pregiudichi l’intelligibilità delle questioni, rendendo non chiara l’esposizione dei fatti di causa e non precisamente individuabili le censure mosse alla sentenza appellata, ponendosi in tal senso in contrasto con il principio di rilevanza costituzionale di ragionevole durata del processo, oltre che con il principio di leale collaborazione tra le parti processuali e tra queste ed il giudice, determinando di fatto un impedimento al pieno e proficuo svolgimento dello stesso contraddittorio processuale[xxx].
7. Osservazioni conclusive anche alla luce dell’art. 24 Cost.
Dall’analisi condotta emerge, con evidenza, il dato per cui le tecniche di redazione degli atti ed in particolare la sinteticità degli atti processuali quale principio generale del processo amministrativo, non si pongano quali tematiche concernenti la forma, ma investano la stessa sostanza del processo, in quanto la sinteticità diverrebbe uno dei mezzi per assicurare una più celere risposta alla domanda di giustizia della collettività[xxxi].
In termini generali, le recenti previsioni circa la necessaria sinteticità degli atti di parte hanno generato un ampio e complesso dibattito in dottrina. Larga parte di quest’ultima, in particolare, ha posto in dubbio la compatibilità delle suddette previsioni in termini di sostanziale contrarietà con il diritto di difesa presidiato dalla previsione di rango costituzionale di cui all’art. 24 Cost.
Del pari, numerose critiche sono state mosse dalla dottrina rispetto alla formulazione dell’art. 5 del d.P.C.S. 167/2016 quale norma “in bianco” che attribuirebbe una amplissima discrezionalità in capo al giudicante, in contrasto con i principi di parità delle parti, del giusto processo, oltre che di legalità[xxxii].
D’altra parte, nell’ambito della stessa giurisprudenza amministrativa si è posto in evidenza come gli oneri di specificità, sinteticità e chiarezza incombenti sulla parte ricorrente (e sul suo difensore) trovino un preciso fondamento nell’ambito dello stesso art. 24 Cost., posto che solo un’esposizione chiara dei morivi di ricorso o, comunque, delle ragioni che sorreggono la domanda, consentirebbe l’esplicazione del diritto di difesa delle altre parti evocate in giudizio[xxxiii].
Un primo punto fermo, dunque, laddove si tratti del principio di sinteticità degli atti – peraltro come codificato in ambito normativo nell’ambito del rammentato art. 3, comma 2 c.p.a. – pare essere in conclusione quello per cui il principio debba essere concretamente applicato non soltanto dagli avvocati nella redazione degli atti di parte, ma altresì dall’organo giudicante nella stesura dei provvedimenti[xxxiv].
Una seconda considerazione di sintesi che si intende formulare, ricollegandosi in particolare alla ratio della norma che ha codificato il principio di sinteticità anche in ambito amministrativo, pare possa essere, altresì, quella per cui il principio assume una valenza generale, ma anche e soprattutto pratica, ponendosi a presidio della effettività della tutela e della giustizia delle decisioni nell’ambito del processo amministrativo, nella misura in cui sia inteso quale principio volto a disincentivare e – di fatto in qualche misura, come osservato, sanzionare – la classe forense laddove nella redazione degli atti introduttivi del giudizio e difensivi, in particolar modo laddove non siano coinvolte questioni tecniche particolarmente complesse, rediga atti sproporzionati e sovrabbondanti, densi di ripetizioni e forieri di confusione sul piano interpretativo[xxxv].
Ciò precisato, sembra opportuno aggiungere, sul piano delle conseguenze ed a livello pratico, considerate altresì le norme di rango primario ad oggi in vigore sul tema, come il superamento dei limiti dimensionali previsti proprio allo scopo di garantire la sinteticità degli atti processuali di parte, non produrrebbe ex se l’inammissibilità o irricevibilità dell’atto processuale, la quale potrebbe essere dichiarata dal giudicante solamente nella misura in cui il superamento dei limiti dimensionali si riverberi, come esposto, sulla intellegibilità dell’atto[xxxvi].
[i] In tema di riassunzione, tra le più recenti e rilevanti pronunce della giurisprudenza amministrativa si v. T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. II, 2 luglio 2021, n. 626, in Foro amm, 2021, 7-8, 1169, laddove si è chiarito che il giudice ad quem, avanti al quale avviene la riassunzione, erediti un giudizio nel medesimo stato in chiuso si è chiuso davanti al giudice per primo adito, con la conseguenza per cui, perché la riassunzione operi, occorre che petitum e causa petendi coincidano, non essendo ammissibili nuove domande. Sempre sul punto la giurisprudenza amministrativa, di recente, è giunta ad affermare che, in sede di translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice amministrativo, è ammissibile la domanda che, seppur risultando quella in origine proposta avanti al giudice civile, sia stata tuttavia formulata in maniera differente, per esigenze di mero adeguamento convenzionale alle formule di stile tipiche del processo amministrativo (cfr. T.a.r. Sardegna, Cagliari, sez. II, 28 aprile 2021, n. 304, in Foro amm., 2021, 4, 712).
[ii] Trattasi di Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77, in Foro amm. CDS, 2007, 7-8, 2103, con nota di Scognamiglio e in Dir. proc. amm. 2007, 3, 796,con nota di Sigismondi. La questione di legittimità costituzionale decisa dalla pronuncia in commento è stata sollevata da T.a.r. Liguria, ord. 21 novembre 2005, n. 148. Per un’analisi della pronuncia in questione, oltre che di Cass., sez. un., 22 febbraio 2007 n. 4109, si v. in dottrina, R. Oriani, È possibile la translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale: divergenze e consonanze tra Corte di cassazione e Corte costituzionale, in Foro it., 2007, I, 1013; M. Lipari, La translatio del processo nel disegno di legge governativo approvato dalla camera dei deputati (as-1082): certezze e dubbi, in Federalismi.it, 2008; M.A. Sandulli, Dopo la “translatio iudicii”, le Sezioni Unite riscrivono l’art. 37 c.p.c. e muovono un altro passo verso l’unità della tutela (a primissima lettura in margine a Cass. SS.UU., 24883 del 2008), in Federalismi.it, 20, 2008.
Tra i contributi più recenti sull’istituto si v. M. Cirulli, Profili dinamici della giurisdizione nel Codice della giustizia contabile, in Federalismi.it, 6, 2020.
[iii] Si fa riferimento a Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204, in Diritto e Giustizia, 2005, 20, 99, con nota di Proietti e in Dir. proc. amm., 2005, 214, con nota di Mazzarolli. Sulla storica pronuncia in questione si v. tra gli altri A. Travi, La giurisdizione esclusiva prevista dagli art. 33 e 34 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, dopo la sentenza della C. cost. 6 luglio 2004 n. 204, in Foro it., 2004, I, 2594; M.A. Sandulli, Un passo avanti e uno indietro: il giudice amministrativo è giudice pieno, ma non può giudicare dei diritti (prima lettura a margine di Corte cost. n. 204 del 2004), in RGE, 2004, I, 1230; F. Satta, La giustizia amministrativa tra ieri, oggi e domani: la sentenza della Corte cost. n. 204 del 2004, in Foro amm. CdS, 2004, 1903; C.E. Gallo, La giurisdizione esclusiva ridisegnata dalla Corte costituzionale alla prova dei fatti, ivi, 1908; D. Siclari, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie afferenti alla vigilanza sul credito: una conferma implicita e alcune incertezze residue, ivi.
[iv] Sulla previsione normativa in questione, tra i contributi più recenti, si v. M. Clarich, Il dualismo giurisdizionale nel sistema della giustizia amministrativa: un equilibrio perennemente instabile, in Dir. proc. amm., 2, 2021, 213 ss.
[v] Si v., tra le altre, T.A.R. Molise, Campobasso, 4 agosto 2011, n. 528, in Foro amm. TAR, 2011, 7-8, 2421 (s.m); T.A.R. Umbria, Perugia, sez. I, 5 dicembre 2014, n. 605, in Foro Amm., 2014, 12, 3215. Peraltro, proprio a proposito dell’atto di riassunzione, le stesse sezioni unite della Cassazione hanno avuto modo di rammentare la certezza della regola di perpetuazione anche nell’ipotesi di una traslatio effettuata prima dell'entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, art. 59, comma 2. Così, nell’ambito della sentenza Cass civ., sez. un., 23 novembre 2010, n. 23596, si è posto in rilievo come “il processo iniziato davanti ad un giudice, che ha poi dichiarato il difetto di giurisdizione, e riassunto nel termine di legge davanti al giudice, indicato dal primo come dotato di giurisdizione, non costituisce un nuovo ed autonomo procedimento, ma la naturale prosecuzione dell'unico giudizio per quanto inizialmente introdotto davanti a giudice carente della, giurisdizione”. Conformemente, nell’ambito di una successiva pronuncia delle sezioni unite, Cass. civ., sez. un., 21 aprile 2011, n. 9130, si è ribadito come “mediante l'istituto della translatio iudicii si intende proprio realizzare la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda originaria, con esclusione della necessità della riproposizione ex novo della domanda, allorchè il giudizio è riattivato innanzi al giudice provvisto di giurisdizione, secondo i principi fissati dalla Corte costituzionale (si v. la già menzionata sent. Corte cost. n. 77/2007) e dalle stesse sezioni unite (Cass. civ., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4109). Il principio della conservazione degli effetti che la domanda avrebbe proposto se presentata al giusto giudice, deve trovare attuazione pratica col consentire alle parti di proseguire davanti ad un secondo giudice quello stesso processo iniziato davanti a quello male individuato dall'attore. I principi costituzionali di effettività e certezza della tutela giurisdizionale impongono che la funzione di dare giustizia, pur articolata secondo il sistema della Costituzione, attraverso una pluralità di ordini giurisdizionali non sia da questa ostacolata”. Sempre nell’ambito di tale pronuncia si è posta in evidenza la necessità di tenere distinte le fattispecie della riassunzione e della riproposizione, chiarendo come il legislatore abbia adottato, non casualmente, i diversi termini di riassunzione e di riproposizione (di seguito unificati nel regime del termine dall'art. 59, comma 4) “avendo ben presente la necessità di distinguere le ipotesi della conservata attività della prima domanda per la identità dell'"ambiente" processuale, quello a quo e quello ad quem, da quella del passaggio da un regime prevalentemente impugnatorio ad un regime esclusivamente cognitivo del rapporto, ferma restando in entrambe le ipotesi la conservazione di una unicità del rapporto (che giustifica la preclusione a contestare la giurisdizione ai sensi dell'art. 41 c.p.c. come queste Sezioni Unite hanno ripetutamente affermato: n. 23596 citata e nn. 19256 e 14828, tutte del 2010). Nel primo caso nessuna revisione della domanda, nè alcun adattamento del petitum, appare essere predicabile, nel secondo caso emerge essere necessaria la riproposizione - con relativa emendatio - "con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile" (art. 59, comma 2 ultima parte citato), e pertanto tal riproposizione deve essere ragguagliata , nella sua idoneità, alla regola del giudice e del rito innanzi al quale il processo viene a continuare” (così Cass. civ., sez. un., 21 aprile 2011, n. 9130, in Giust. civ., 2012, 11-12, I, 2741). In senso conforme nell’ambito della giurisprudenza amministrativa si v., altresì, Cons. St., sez. VI, 9 aprile 2015, n. 1781, in Dir. proc. amm., 2015, 4, 1415, con nota di Tropea. In dottrina si v. M. Mazzamuto, La translatio iudicii si “schiude”?, in Dir. proc. amm., 2, 2012, 660 ss.; A. Caldarera, Considerazioni sulla c.d. translatio iudicii, in Dir. proc. amm., 3, 2009, 715; A. Travi, Difetto di giurisdizione e riassunzione della causa: alcune questioni aperte, in Urb. e app., 2008, 857 ss.
[vi] Sul principio in esame, tra i numerosi contributi in dottrina, si v. F. Saitta, La violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, in Il Processo, n. 3/2019, 539 ss.; G. Milizia, Il dovere di sinteticità non riguarda solo gli scritti difensivi ma anche i documenti depositati, nota a T.A.R. Palermo, 17 settembre 2019, n. 2203, in Diritto & Giustizia, 176, 2019, 17; F. Francario, Il principio di sinteticità, in Enc. Giur., Treccani, Roma, 2018, 683 ss.; M. Taruffo, Note sintetiche sulla sinteticità, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 2/2017, 453 ss.; G. Corso, Abuso del processo amministrativo?, in Dir. proc. amm., 1, 2016, 1 ss; F. Cordopatri, La violazione del dovere di sinteticità degli atti e l’abuso del processo, in Federalismi.it, 2014; G.P. Cirillo, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in www.giustizia-amministrativa.it, 2012; F. Merusi, Sul giusto processo amministrativo, in Foro amm., CDS, 2011, 13533 ss.
[vii] Cfr. sul punto R. De Nictolis, La sinteticità degli atti di parte e del giudice nel processo amministrativo, Relazione al Convegno presso la Corte di Cassazione “Giornata europea della giustizia civile”, Roma, 26 ottobre 2016, in www.giustizia-amministrativa.it.
[viii] Si v. il Reg. n. 629 del 17 aprile 2019 del Parlamento e Consiglio europeo, recante modifica del Protocollo n. 3 concernente lo statuto della Corte di giustizia UE, di introduzione di un limite dimensionale degli atti di parte.
[ix] Cfr. in particolare l’art. 47 del Regolamento della Corte EDU.
[x] Cfr., tra gli altri contributi sul tema, L.R. Luongo, Il «principio» di sinteticità e chiarezza degli atti di parte e il diritto di accesso al giudice (anche alla luce dell’art. 1, co. 17 lett. d ed e, d.d.l. 1662, in Judicium, 2021.
[xi] In tal senso F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Dir. proc. amm., n. 1/2018, 129 ss.
[xii] Si v. sul punto M. Nunziata, La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo sui contratti pubblici, in www.l’amministrativista.it, 2016.
[xiii] In dottrina, a proposito del principio in esame, in senso generale, si v., tra gli altri contributi, M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, 2017, in partic. 203 ss.; G. P. Cirillo, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, vol. XXXXII, 39 ss.
[xiv] Si v. in argomento Cons. St., sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210, in Foro amm. - C.d.S., 2013, 6, 1650.
[xv] Su tale specifico aspetto si v. in particolare il successivo par. 6.
[xvi] Ulteriori modifiche all’art. 26 sono state disposte mediante l'art. 41, comma 1, lettera a), della legge n. 114 del 2014.
[xvii] Per un’analisi del contenuto dell’art. 120, comma 6 c.p.a. nella predetta formulazione si v. M.A. Sandulli, Il tempo del processo come bene della vita, Relazione al 60° Convegno di Studi di scienze amministrative di Varenna, 2014, in Federalismi.it, 18, 2014, 32-35; F. Volpe, Sui limiti all’estensione degli atti di difesa nel processo amministrativo, in www.lexitalia.it, 5, 2015.
[xviii] Sino alla determinazione di limiti quantitativi nell’ambito degli atti evidenziati l’elaborazione di canoni di sinteticità è stata affidata alla giurisprudenza che, sul piano interpretativo, in relazione a diversi casi, ha considerato non conformi a sinteticità, tra gli altri, atti che: ripetono lo stesso concetto più di una volta, anche se con espressioni diverse; si dilungano a riportare interi brani di giurisprudenza o dottrina, non necessari; indugiano nella ricostruzione teorica di istituti, non necessaria per la soluzione della questione controversa; propongono un numero elevato di motivi di ricorso palesemente infondati o inammissibili.
[xix] L’autorizzazione, ai sensi dell’art. 7 del decreto presidenziale, può anche essere successiva a seguito di istanza formulata dalla parte, in caso di mancata autorizzazione preventiva per gravi e giustificati motivi.
[xx] Così Cons. giust. reg. sic., 19 aprile 2012, n. 395, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxi] Cfr. G. Ferrari, Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo, in Treccani, Libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013, 706.
[xxii] F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, cit., 141.
[xxiii] In tal senso, in particolare, v. Cons. St., sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636, in Foro amm., 2016, 11, 2644, la quale ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto per violazione del dovere di specificità dei motivi di ricorso ex artt. 40, comma 1, lett. d) e 101, comma 1, c.p.a. ed altresì del dovere di sinteticità di cui all’art. 3, comma 2, c.p.a. Nella pronuncia si è posto in evidenza, in particolare, come “il dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), è a sua volta corollario del giusto processo, ed assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica; tale impostazione è conforme alla considerazione della « ...giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l’utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale» (l’idea della funzione giurisdizionale quale “risorsa scarsa” è stata sviluppato dall’ Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in due recenti pronunce, 25 febbraio 2014, n. 9 e 27 aprile 2015, n. 5, e ripreso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nelle sentenze 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243 e, da ultimo, nella sentenza 20 ottobre 2016 n. 21260)”. In senso conforme si v., altresì, Cons. St., sez. III, 21 marzo 2016, n. 1120, in www.giustizia-amministrativa.it e Cons. St., sez. V, 12 giugno 2017, n. 2852, in Foro amm., 2017, 6, 1273, laddove, in particolare, si è statuito che, in mancanza di autorizzazione, l’atto risulta irricevibile per la parte eccedente i limiti dimensionali.
[xxiv] V. F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, cit., in partic. 145 e 153 ss.
[xxv] Si v., tra le altre, CGARS (ord.) 15 settembre 2014, n. 536, in Foro it. 2014, 11, III, 631, a proposito di un caso analogo a quello in commento, nell’ambito del quale, a fronte di un appello di dimensioni palesemente sproporzionate se comparate con la complessità della vicenda, dunque contrastante con i principi di chiarezza e sinteticità di cui all’art. 3, comma 2, c.p.a., non ha dichiarato inammissibile l’appello nel caso concreto, ma ha invitato la parte appellante a produrre una memoria riepilogativa sintetica di non oltre venti pagine. In senso conforme, tra le altre, anche Cons. St., sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2969, in Foro amm., 2017, 6, 1279.
[xxvi] Così, tra le altre, Cons. St. sez. IV, 1° dicembre 2020, n.7622, in Diritto & Giustizia, 2020, 3 dicembre, laddove si è statuito che deve ritenersi inammissibile il ricorso che viola il principio di sinteticità, a nulla rilevando che tale gravame sia stato proposto prima dell'adozione del decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 167 del 22 dicembre 2016 sui limiti dimensionali, avendo il dovere di sinteticità una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dalla centralità dell'interesse pubblico in occasione del controllo sull'esercizio della funzione pubblica. V. altresì Cons. St., sez. IV, 24 aprile 2019, n. 2651, in Foro amm., 2019, 4, 634.
[xxvii] Cons. St., sez. VI, 13 aprile 2021, n. 3006, in Guida al diritto, 2021, 18. Per un commento alla specifica recente pronuncia si v. F. Valerini, L'avvocato deve fare il riassunto se vuole che le sue difese siano esaminate, in Diritto & Giustizia, 76, 2021, 6.
[xxviii] V. Cons. St., sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1450, a conferma di T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, n. 5497/2012, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. IV, 1° dicembre 2020, n. 7622, cit.; Cons. St., sez III, 12 ottobre 2020, n. 6043, in Foro amm., 2020, 10, 1850; oltre che Cass. civ., sez. trib., 21 marzo 2019, n. 8009 in Dejure.it.
[xxix] Cfr. Cons. St., sez. VI, 13 aprile 2021, n. 3006, cit. Sul punto si v. anche C.E. Gallo, Il secondo correttivo al codice del processo amministrativo, in Urb. e app., 2012, 1240.
[xxx] In questo senso si sono espresse le stesse sezioni unite nell’ambito della rilevante pronuncia sul tema Cass. civ., sez. un., 17 gennaio 2017, n. 964, in Foro it., 2017, 2, I, 509.
[xxxi] In tal senso, R. De Nictolis, La sinteticità degli atti di parte e del giudice nel processo amministrativo, cit.
[xxxii] Così I. Impastato, “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”: la scure del giudice amministrativo sui “limiti dimensionali di sinteticità” degli atti processuali di parte (e sul diritto di difesa), in Judicium.it, 2021. Si v., altresì, M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 1, 2013, 100 ss.
[xxxiii] Cfr. in partic. Cons. St. n. 4636/2016, cit.
[xxxiv] Tra gli altri contributi sul tema si v. F. Patroni Griffi, La sentenza amministrativa, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Diritto amministrativo speciale, V, Il processo amministrativo, Milano, 2003, 4466; R. De Nictolis, La tecnica di redazione delle sentenze del giudice amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it; G.P. Cirillo, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, ivi. In giurisprudenza, si v. da ultimo, Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045, in Foro amm., 2021, 10, 1415. Nell’ambito della pronuncia si è posto in evidenza come “l'essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito, non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l'ampiezza dell'atto che le veicola, in quanto la sinteticità è "un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra due grandezze, la mole, da un lato, delle questioni da esaminare e, dall'altro, la consistenza dell'atto - ricorso, memoria o, infine, sentenza - chiamato ad esaminarle" (Cons. St., sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900) ed è, si deve qui aggiungere, sul piano processuale un bene-mezzo, un valore strumentale rispetto al fine ultimo, e al valore superiore, della chiarezza e della intelligibilità della decisione nel suo percorso motivazionale”.
[xxxv] Si v., in questo senso, il riferimento, nell’ambito di una pronuncia del giudice amministrativo sulla questione, ad un atto di appello caratterizzato “da plurime reiterazioni delle medesime argomentazioni, dalla conseguente esposizione delle stesse in modo non specifico ed esaustivo ma attraverso motivi intrusi, da interpolazioni con atti giudiziari ed amministrativi (talora fotocopiati ed inseriti nel testo), dallo stralcio di dibattiti in sedute di organi collegiali nonché da manifesta prolissità”. Così Cons. St. n. 4636/2016, cit.
[xxxvi] V. F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, cit., 132. L’A. rileva, in particolare, sul punto come “ferma restando l’attenuazione dell’obbligo di pronunciare su tutta la domanda, al giudice non è precluso conoscere l’atto nella sua interezza, anche se sovradimensionato” ed ancora “è vero dunque che l’art. 13-ter dell’All. 2 del c.p.a. introduce il limite dimensionale come requisito formale dell’atto processuale di parte, ma è altrettanto vero che non è stata espressamente prevista e comminata la nullità dell’atto che risulti privo del suddetto requisito”.
Ricordo di Valerio Onida
di Marilisa D’Amico
Ricordare Valerio Onida non è facile. Non è facile per il valore e la grandezza del professore, dello studioso, dell’uomo, del personaggio pubblico, come in questi giorni in tanti hanno già riconosciuto. Non è facile, soprattutto, per il particolare rapporto che lega un Maestro a un allievo, anzi, in questo caso, a un’allieva: un rapporto molto intenso dal punto di vista scientifico e, nel caso di Valerio, anche umano, un rapporto però che, nonostante il tempo e la strada percorsa dall’allievo, non diventa mai paritario. Non che lui non lo volesse, anzi, ho sempre ammirato e cercato di emulare la sua capacità di ascoltare la persona più giovane o quella con maggiori difficoltà. Non gli piacevano affatto i “geni” o i supponenti: ci insegnava, senza dircelo esplicitamente, ma con i fatti, l’umiltà, la curiosità, la propensione a dubitare delle strade veloci e meno impervie.
Ma oggi, cercando di selezionare le innumerevoli cose che direi di lui, sono stata presa da quel senso di ansia, che ho sempre provato quando gli facevo leggere le mie cose o discutevo delle mie posizioni: soddisferò le sue aspettative, sarò all’altezza del compito?
Comincio dalla cosa più importante, Valerio Onida Professore, su cui ha già detto molto intensamente Marta Cartabia. Conoscendolo e sperimentandolo “sul campo”, come direbbe lui, ho capito che avrei voluto lavorare con lui e provare ad assomigliargli, almeno un po’. Valerio Onida era innamorato dell’insegnamento, non si stancava mai, gli piaceva trasmettere il senso delle cose che stava spiegando. Gli piaceva insegnare a tutti: agli studenti più bravi, perché discuteva con loro “alla pari”, interessandosi delle loro idee spesso in modo più appassionato che con i colleghi, e a quelli in difficoltà, perché la sfida per lui era far appassionare alla Costituzione, al diritto costituzionale. Ricordo esami che duravano ore e orari di ricevimento infiniti.
Il suo metro per consigliare a laureati di intraprendere il percorso universitario era sicuramente basato sull’impressione che vi fosse non solo interesse scientifico, ma soprattutto passione per gli studenti e per la trasmissione del sapere.
Qualità scientifiche rispetto alle quali, però, Valerio Onida era molto rigoroso, con sé stesso e quindi con gli altri. Il suo metodo si incentrava sul dato positivo che dominava, dai principi al dettaglio: partendo da un quadro completo del diritto positivo, poi, ammetteva in uno studio anche le tesi più originali. Ma se c’era una norma dimenticata, un passaggio del ragionamento poco chiaro dal punto di vista logico, a lui non sfuggiva mai. Tante volte sono arrivata convinta delle mie tesi e della solidità del lavoro e mi sono vista presentare così tanti dubbi, interrogativi e richieste di approfondimento, da rifare completamente il lavoro. Passato l’“esame” con lui, però, si poteva essere sicuri dell’accoglienza positiva del resto dell’accademia.
Anche nell’attività professionale, la prima cosa che chiedeva a chiunque, dal collega luminare al giovane praticante era: “Dov’è la norma?”. Ma solo lui riusciva a ricostruire il senso di discipline tecniche, talvolta anche aride, presentandole in modo estremamente affascinante e complesso. Non si accontentava mai, se una cosa non lo convinceva, faceva e rifaceva, faceva rifare e rifare….
Scientificamente Valerio Onida ha dominato, come è stato ricordato, tutti i campi del diritto costituzionale, dalle istituzioni, alla giustizia costituzionale, al regionalismo, di cui è stato uno dei padri nobili, ai diritti fondamentali, fino al diritto europeo e al rapporto fra corti, precursore di un settore che oggi è molto studiato, ma che all’inizio, era interesse di pochi.
La mia affinità con lui è nata soprattutto sulla giustizia costituzionale, con la tesi di laurea e con il dottorato di ricerca nonché con la frequenza del corso di giustizia costituzionale, un corso innovativo, dove studiavamo e discutevamo in piccoli gruppi, partendo dalle decisioni più significative della Corte costituzionale; corso che appena laureata cominciai a frequentare come sua “assistente”. Dal corso è nata una pubblicazione in comune i “Materiali di giustizia costituzionale- Il giudizio in via incidentale”, dove in modo innovativo e precursore di una sensibilità che si sta sviluppando ora, alla parte teorica, dalla quale emerge in modo nitido la visione “onidiana” di un giudice costituzionale strettamente collegato al giudizio a quo, alle sue sorti, al modo in cui il giudice imposta l’ordinanza di rimessione e interpreta le norme (visione che da giudice costituzionale lo porterà, insieme a Gustavo Zagrebelsky, ad aprire la via dell’interpretazione costituzionalmente conforme come requisito di ammissibilità della questione) si accompagnava una parte pratica di casi selezionati, descritti, completati da parti di decisioni e da domande rivolte agli studenti per evidenziarne gli aspetti più rilevanti. Di recente, in una delle nostre ultime conversazioni, abbiamo parlato di questa pubblicazione e il Maestro mi ha proposto di riprenderla in mano e di pensare a un aggiornamento. Sono uscita felice, orgogliosa della proposta e pensando che avesse più tempo, più tempo per il suo lavoro, ma soprattutto per i suoi cari.
Valerio Onida è stato un grande giudice costituzionale e negli ultimi mesi un grande Presidente: per nove anni punto di riferimento per tutti i colleghi che ne ammiravano la capacità di essere preparato su tutto. In effetti ricordo bene che lui studiava tantissimo non solo le “sue” questioni, ma anche quelle degli altri. E su queste ultime era sempre molto preparato, al punto che anche a Milano ci faceva ogni tanto studiare le ordinanze di rimessione e ne discuteva con noi.
Ricordo in particolare le decisioni che ammettono la legittimazione del magistrato di sorveglianza, come la sentenza n. 212 del 1997, con una soluzione rispetto al tema della legittimazione del giudice a quo che come studioso conosceva benissimo, di apertura, proprio per consentire alla Corte di cominciare a occuparsi dei diritti dei detenuti, tema che era molto sentito, al punto che appena concluso il mandato di giudice costituzionale, accettò di offrire assistenza ai detenuti nel carcere di Bollate diretto da Lucia Castellano.
Ricordo l’importantissima decisione n. 10 del 2000, decisione nella quale la Corte costituzionale cercò di limitare l’abuso del ricorso all’insindacabilità garantita ai Parlamentari dall’art. 68, comma 1 Cost., con il ricorso al cd. “nesso funzionale”: decisione limpidissima, nello stile che lo contraddistingueva.
Ricordo anche un’altra importante sentenza, la n. 49 del 2003, sul tema della presenza delle donne nelle Assemblee elettive nella quale la Corte riesce a “ribaltare” la sentenza n. 422 del 1995, con la quale aveva bocciato qualsiasi ipotesi di norme antidiscriminatorie in materia elettorale. Con un ragionamento che proseguirà negli anni, la Corte ammette la possibilità di norme che incentivino la presenza femminile, senza arrivare a giustificare le cd. quote vere e proprie, cioè quelle che garantiscono il risultato.
Valerio Onida è stato anche animato da un fortissimo impegno civico: non si è mai tirato indietro, dagli anni in cui si costruivano le regioni, alle battaglie referendarie, soprattutto in occasione del referendum elettorale del 1993, dove assisteva il comitato promotore del referendum e dove non si era arreso dopo la bocciatura del quesito nel 1990 da parte della Corte, alla sfida nelle primarie del pd come sindaco di Milano, alla campagna per il NO durante il referendum costituzionale del 2016: il suo impegno militante contribuì in modo decisivo ad orientare in quel senso tanti cittadini.
Infine, la parte più difficile da descrivere, quella umana. Valerio era una persona speciale, di enorme sensibilità e generosità. A me non ha mai fatto mancare il suo sostegno e la sua attenzione, non solo nelle occasioni scientifiche e accademiche cruciali, ma anche nei momenti belli e in quelli difficili della mia vita personale. Come non mi ha risparmiato le sue critiche, talvolta anche durissime. Credo che tutti i suoi allievi e le sue allieve, che, come è stato ricordato, sono tanti e dagli interessi e vite professionali e scientifiche diverse, e le persone che lo hanno incontrato nel corso della sua lunga e intensa vita, lo abbiano sperimentato e non potranno dimenticarlo mai.
La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura di Tomaso Epidendio
Nei sogni cominciano le responsabilità (Delmore Schwartz)
Sommario: 1. Introduzione: la fine del sogno. - 2. La decostruzione della magistratura. - 3. Il diavolo nei dettagli. - 4. Cenni di conclusioni per un nuovo inizio.
1. Introduzione: la fine del sogno.
Per iniziare vorrei partire da una fine, perché la fine possa essere un nuovo inizio.
Stiamo tutti vivendo – proprio tutti, magistrati e non – la fine di un grande sogno, quello del disegno costituzionale della magistratura, tratteggiato nel IV titolo della parte II della nostra Carta costituzionale.
Era davvero un sogno grande e bello quello dei nostri costituenti, forse senza pari negli altri ordinamenti: la fondazione di una magistratura interclassista, cui si accede per meriti tecnico-giuridici accertati in un pubblico concorso (art. 106, primo comma), costituita come un “ordine” istituzionale, ma non gerarchico (“i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”: art. 107, quarto comma), la cui autonomia e indipendenza da ogni altro “potere” (art. 104, primo comma) era concretamente assicurata dalle modalità di costituzione di un organo ad hoc, il Consiglio superiore della magistratura (composto in modo da dare effettività a quelle garanzie, pur nella inevitabile necessità di assicurare un “governo” della magistratura), da precise garanzie in tema di inamovibilità e di azione disciplinare (artt. 104, 105 e 107), da effettività (l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria: art. 109) e dal radicamento della legittimazione giudicante in una soggezione – quella alla legge, ma “soltanto” alla legge - che bene mette in luce il carattere di “servizio” di una giustizia amministrata “in nome del popolo”: un’autonomia e una indipendenza che si legittima in una sottomissione, quella a una “legge” davanti alla quale “tutti i cittadini” “sono eguali” (art. 3) e per la violazione della quale tutti devono avere uguale probabilità di essere puniti (“il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: art. 112). Un grande sogno non privo di caratteri di effettività e di realismo, garantiti da precisi e concretissimi vincoli (inamovibilità, restrizioni all’azione disciplinare, caratteri dell’organo di governo dei magistrati).
Un sogno libero, potente e concreto, che è andato molto vicino alla sua realizzazione: ho sperimentato direttamente (diversamente da quanto purtroppo si legge)[1] che esso ha consentito l’accesso alla magistratura ai meritevoli, indipendentemente dall’estrazione sociale, ben più che in molte altre professioni giuridiche, facendomi lavorare in un contesto che mi ha consentito di servire rispondendo solo alla mia coscienza, con un’autonomia e una indipendenza inimmaginabili in altri ambiti.
Questo sogno ormai è finito: una lenta, progressiva, più o meno consapevole, opera di “decostruzione” ha lavorato negli anni, per faglie interne ed esterne, e lo ha distrutto: l’evidenza degli ultimi progetti di riforma, già attuati e in fase di attuazione,[2] ne sono solo l’esito finale, la mera punta di un iceberg cresciuto nel tempo e le cui fondamenta sono ben più ampie e profonde delle ultime contingenze – riconducibili principalmente al cd. “modello giustizia -25%” per ottenere i fondi del PNNR – che hanno determinato l’urgenza di questi interventi e la determinazione nel perseguimento dell’obiettivo.
Inutile fare la guerra ai fatti: si finirebbe solo per ingrossare la folta e stolida schiera dei laudatores temporis acti (il sogno è andato vicino alla realizzazione, ma non è mai stato completamente realizzato, neppure in passato); né mi iscriverei al partito degli ottusi sostenitori delle “magnifiche sorti e progressive” di un futuro che ci consegna a inarrestabili cambiamenti sempre migliorativi, al partito degli innovatori per il solo gusto dell’innovazione, di chi è per il cambiamento solo per il cambiamento: credo che, con i disastri di una guerra alle nostre porte e i tanti fallimenti interni , ci sia ben poco da aggiungere sulla natura illusoria di questa prospettiva; si andrebbe soltanto a formare quella che Eugenio Montale chiama “una notevole sezione dell’industria delle false idee”.[3] Tuttavia, non mi riconosco neppure nel partito rassegnato dei cinici realisti, cui invece sempre Montale si ascrive, quello di chi vede una sola legge generale delle vicende umane, quella per cui a ogni guadagno e ad ogni avanzamento corrisponde sempre una equivalente perdita in altre direzioni, sì che resta invariato solo il totale di ogni possibile felicità umana.
Mi sento invece vicino e affine a coloro che pervicacemente si ostinano a voler capire, per poter continuare a lottare per questo sogno, grande, bello e realizzabile: per farlo, si tratta, prima di tutto, di comprendere le ragioni della “decostruzione” avvenuta e, una volta comprese le ragioni, verificare se si può ancora contribuire alla realizzazione di quel sogno costituente per il quale, come è chiaro e come credo, vale la pena di lottare ancora, almeno per la responsabilità che abbiamo nei confronti delle generazioni future.
2. La decostruzione della magistratura.
“De-costruzione”, vocabolo ossimorico, vocabolo tecnico (ad esempio della filosofia di Derrida)[4], magnificamente evocativo di qualcosa che demolendo una struttura costruisce qualcosa di diverso e che, in qualche modo, può essere traslato, in accezione impropria, per descrivere quello che è avvenuto al disegno costituzionale della magistratura in questi anni. Non si tratta di sovvertimenti improvvisi, rivoluzioni eclatanti, scontri manifesti contro il testo costituzionale, ma di progressivi slittamenti di senso, quasi inavvertiti o addirittura sentiti come virtuosi che, accumulandosi, hanno alterato radicalmente la struttura che li produceva.
Entriamo un poco più nel dettaglio e vediamo che la decostruzione della magistratura ha operato sia per fattori interni alla magistratura medesima, sia per fattori esterni.
Proviamo ad elencarli.
Tra i fattori interni alla magistratura, il primo in ordine di tempo è forse rappresentato dalla crisi della soggezione del giudice alla legge: in nome di un’ermeneutica giuridica (favorita dall’accademia)[5] che, alla riconosciuta impossibilità ricostruttiva di una intentio auctoris (il mito della volontà del legislatore), rinuncia a riconoscere i limiti di una pur sempre riconoscibile intentio operis (molteplici i significati attribuibili a un testo di legge, ma non tutti, con un “contesto” che aiuta a selezionarne un ristretto numero di possibili) e rivendicazione – come unica strada possibile per il diritto moderno la intentio lectoris (la volontà del giudice); il giudice è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di “sussunzione” del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di “bilanciamenti” di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili per garantire la soluzione che, in base alla sua “precomprensione” (convinzioni personali di varia natura), risulta più “giusta” nel caso concreto. Si tratta di una formula che evoca spaventosamente da vicino i fantasmi del cd. “diritto libero”, utilizzato in epoca nazista per giustificare le più discutibili operazioni giuridiche, ma che, ricontestualizzato in una dimensione teorica di “uso alternativo del diritto”,[6] che esalta la funzione sociale del giudice verso i più deboli, anche in chiave di tutela dei loro diritti costituzionalmente garantiti, non solleva in genere particolari preoccupazioni e incontra invece il maggioritario plauso della dottrina, anche costituzionale. Si tratta di una lunga parabola, che parte dalla celebre Assemblea della ANM di Gardone, attraversa la stagione dei cd. “Pretori d’assalto”, per approdare poi alle metodiche ermeneutiche delle cd. interpretazioni “costituzionalmente orientate” e, successivamente, “convenzionalmente o comunitariamente orientate”, attraverso l’irruzione delle fonti sovranazionali nell’ordinamento interno, così da innovare profondamente il metodo di motivare e argomentare le decisioni: largo uso del principio di proporzione, spesso inversione della logica del decidere (si parte dalla conclusione ritenuta più giusta, per poi ricercare e privilegiare gli argomenti testuali che la sostengono), attenzione prioritaria alla propria “precomprensione” dei valori da privilegiare e tutelare nella soluzione dei casi concreti attraverso operazioni di bilanciamento tra gli interessi coinvolti.[7]
Per una sorta di eterogenesi dei fini, nella specie quello di assicurare una più larga ed effettiva tutela dei diritti fondamentali della persona e garantire soluzioni più giuste, si è progressivamente minato uno dei capisaldi costituzionali dell’autonomia e indipendenza del giudice: la sua soggezione soltanto alla legge. Da organo soggetto “soltanto” alle legge, di fronte a una “legge” che non è più ritenuta in grado di porre effettivi vincoli, il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere inconsapevolmente la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante e non sa prevedere che, prima o poi, la tendenza all’omeostasi del sistema gli avrebbe chiesto il conto, avrebbe individuato nuove forme di responsabilizzazione, così da mettere a rischio quell’autonomia e indipendenza che il costituente voleva garantita da una soggezione, che, ormai non solo più scientificamente, ma sempre di più anche nella pratica, si riconosce impossibile, quella alla legge.
Alla crisi della soggezione del giudice alla legge, sul versante del pubblico ministero, corre parallela la crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale. Qui, prima ancora che scientifica o ideologica, la crisi è imposta dalla “forza del fatto”: sopra una certa dimensione demografica e in presenza di una legislazione penale inflazionistica, mancano inevitabilmente le risorse per perseguire tutti e tempestivamente i reati che vengono commessi; inizia a farsi strada l’idea che l’obbligatorietà dell’azione penale sia illusoria (molti reati si prescrivono o vengono archiviati), di tal che si fa sempre più diffusa la convinzione che, in realtà, il principio di obbligatorietà nasconda scelte selettive incontrollate sull’an e sul quando della persecuzione da parte delle diverse Procure della Repubblica. Così, anche su questo versante, quasi senza che ce se ne avveda, spinti dalla forza del fatto e dalla inevitabile limitatezza di risorse ed energie, si minano le fondamenta costituzionali delle garanzie e della legittimità di un pubblico ministero autonomo e indipendente da altri poteri, che trovano la loro radice appunto nell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, cui è correlato il principio di obbligatorietà dell’azione. Quanti però avvertono che ogni deriva dal principio di obbligatorietà sacrifica il principio di eguaglianza davanti alla legge e quanti invece plaudono a quello che viene ritenuto un freno, finalmente imposto, a quello che viene avvertito come un uso politico dell’azione penale da parte di magistrati che, per definizione, non hanno responsabilità politica? In questa situazione davvero può stupire che nella riforma si sia arrivati a prevedere osservazioni del Ministero della Giustizia sui progetti organizzativi delle Procure della Repubblica e criteri generali di priorità nell’esercizio dell’azione penale da parte del Parlamento? Davvero ci si può sorprendere che non si avverta la tensione con gli artt. 3, 104 e 112 della Costituzione o che non ci si avveda dei possibili condizionamenti, diretti o indiretti, da parte di vari potentati sull’esercizio dell’azione penale, creando una giustizia penale forte con i deboli e debole con i forti? O peggio ancora di una giustizia penale che segue le ondivaghe ed emotive reazione di una opinione pubblica a sua volta condizionabile dai social (in cui la stessa distinzione tra vero e falso pare diventata un mito) e votata alla cancel culture? A preoccupate riflessioni dovrebbe portare quanto sta avvenendo – nella convinzione oltre tutto che si sia solo agli inizi – nella consapevolezza, però, della dimostrata incapacità di gestire e comunicare le difficoltà nella persecuzione dei reati.
Tra i fattori esterni, della decostruzione del disegno costituzionale, inserirei invece i mutamenti dei modelli strutturali del processo e dei suoi protagonisti che, a mio avviso, hanno portato verso una “personalizzazione” delle funzioni. Il fenomeno è particolarmente evidente nell’emblematico caso del procedimento penale e, segnatamente, nel passaggio dal codice di rito del 1930 a quello Vassalli. Molteplici (ma quanto astratte!) le discussioni accademiche sulle trasformazioni del ruolo del pubblico ministero: eppure chiunque abbia avuto esperienza dell’operare pratico dei pubblici ministeri nel vecchio e nel “nuovo” codice ha l’elementare percezione dell’importanza crescente che ha assunto non l’ufficio, ma la singola persona del pubblico ministero, organo sempre più inquirente che requirente, più concentrato cioè sulle tecniche di indagine e di accertamento che sulla sua funzione giuridica nel dibattito processuale. Del resto – e più in generale – in un processo che sempre più si vuole di “parti” (adversary), che sempre più si vede come un agone sportivo (sulla spinta delle suggestioni della “sporting theory” del processo), in cui al centro non è più la “verità” (anche accademicamente ritenuta come un concetto compromesso o, comunque, di difficile accertamento), ma la “vittoria”, intesa come prevalenza di una posizione sull’altra in base alle capacità personali dei contendenti, era inevitabile che si verificasse una spinta verso il “protagonismo”, verso l’esaltazione di individualità. Qui la matrice della trasformazione è accademica: certo, una matrice teorica animata nelle origini dalle più buone intenzioni di lotta contro i fantasmi e gli eccessi storici di una “inquisitorietà” che aveva visto più di una grave degenerazione, più di una grave compromissione dei diritti fondamentali della persona, sacrificati sull’altare dell’accertamento della verità ad ogni costo. Eppure, non si è visto che ogni trasformazione chiede un prezzo da pagare: per l’ennesima eterogenesi dei fini, con l’intento di meglio tutelare l’imputato, si è finito per relegarlo sullo sfondo di un’arena in cui i protagonisti sono il singolo difensore e il singolo pubblico ministero e poi buon ultimo, ma non per importanza, il giudice che emette la “grande sentenza”, quella che farà parlare di sé. Può forse stupire, dunque, che in un mondo sempre più “mediatizzato” (dai mezzi di comunicazione più tradizionali fino ai “social”) che i “protagonisti” di questo agone saltassero dalle grigie aule giudiziarie - sempre meno frequentate da ormai ottocenteschi “spettatori in presenza” del processo – alla stampa, alla televisione o alle piattaforme digitali? Può forse essere una sorpresa che, come oggi si usa dire, si imponesse accanto a quello giudiziario un “processo mediatico”?
Anche nel mondo del diritto, come in quello della fisica, ad ogni azione corrisponde una reazione ed ecco, allora, arrivare provvedimenti diretti a regolare e limitare l’accesso ai media dei magistrati, con inconvenienti che da più parti si sono già sottolineati[8] e paventati con viva preoccupazione, legati alle inevitabili asimmetrie comunicative che tali restrizioni comportano. Eppure, ancora una volta, ci si poteva davvero attendere che, prima o poi, questi provvedimenti non dovessero arrivare?
3. Il diavolo nei dettagli
Esistono poi fattori misti (sia interni sia esterni alla magistratura) che si sviluppano in alcuni quasi impercettibili dettagli, all’apparenza fenomeni e normative di stretto respiro, di valenza quasi burocratica: ma, come si usa dire, “il diavolo è nei dettagli”. Si pensi a quanto è avvenuto a proposito dell’ordinamento giudiziario.[9] L’importanza di questo settore di disciplina non era sfuggita ai costituenti che hanno previsto una riserva di legge in proposito ed è significativo che la vera realizzazione del grande disegno costituente si possa ritenere iniziata solo con alcune previdenti riforme della precedente disciplina. Si leggano, ad esempio, le mirabili pagine sul “terribile” esame da aggiunto – scritte da Cordero sul suo vecchio manuale di procedura relativo al vecchio codice[10] – e si comprenderà quale ingessatura e quale indiretto controllo della magistratura poteva essere ottenuta, attraverso uno sbarramento alla stessa permanenza nell’ordine giudiziario per chi non superasse un esame, da affrontare nei primi anni di carriera, e condotto da parte di magistrati della Corte di cassazione. Si comprenderà quale liberazione per la magistratura, al fine di una effettiva realizzazione del suo disegno costituzionale, abbia significato un assetto ordinamentale basato sostanzialmente su progressioni (anche stipendiali, oltre che di carriera) che avvenivano per anzianità senza demerito. Una progressione che, anche nelle denominazioni, segnalava lo stretto legame tra tempo dell’esperienza e possibilità di svolgere determinate funzioni (magistrato di Tribunale, consigliere di Corte di appello, consigliere di Corte di cassazione, consigliere di Corte di cassazione abilitato all’esercizio delle funzioni direttive superiori), senza che ciò significasse necessità del concreto esercizio delle funzioni, a conferma di una magistratura non gerarchica, che non si distingue per gradi.
Spesso ci si dimentica da dove siamo venuti e si vedono solo i difetti di un sistema che, pure, era il risultato di un’attenta valutazione dei rischi, per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che avevano avuto altri sistemi.
Ecco allora profilarsi, con il plauso peraltro di larga parte della stessa magistratura, riforme ordinamentali ancora una volta animate da ottime intenzioni e ispirate a concezioni meritocratiche-efficientiste (per non dire aziendalistiche) delle funzioni: passaggio a valutazioni quadriennali (I, II, III, fino alla VII) sganciate da denominazioni legate a legittimazioni funzionali; abbassamento progressivo dell’anzianità necessaria per accedere a funzioni semi-direttive e direttive che, a seconda della dimensione dell’ufficio, consentono ad esempio di accedere alla Presidenza di un Tribunale con la sola terza valutazione di professionalità, di accedere a funzioni semidirettive anche solo con la II valutazione di professionali, così come alle funzioni di legittimità attraverso i concorsi riservati ai cd. juniores.[11]
L’abbassamento delle condizioni di legittimazione legate alla valutazione di professionalità conseguita si lega poi, in connessione sinergica, all’adozione del criterio dell’anzianità come residuale a parità di valutazione risultante dagli indicatori del merito e delle attitudini, ciò in base anche al cd. testo unico sulla dirigenza giudiziaria (circolare del CSM n. P-14858-2015 del 28 luglio 2015 e successive modificazioni) che, come è stato rilevato dal Consiglio di Stato[12], difettando la clausola legislativa a regolamentare e riguardando comunque una materia riservata alla legge ex art. 108, comma 1, Cost.), non costituisce un atto normativo, ma un atto amministrativo di auto-vincolo nella futura esplicazione della discrezionalità del CSM a specificazione generale di fattispecie in funzione di integrazione, o anche suppletiva dei principi specifici espressi dalla legge (in altre parole, si tratta di una delibera che vincola in via generale la futura attività discrezionale dell’organo di governo autonomo).
Ora al di là di mille discussioni e mille precisazioni che possono e sono state fatte in proposito, mi pare comunque difficilmente contestabile l’esistenza di una franca svolta “giovanilistica” nell’accesso a funzioni dirigenziali e superiori, se è possibile, come pure è possibile, diventare Presidente di un Tribunale con soli dodici anni di anzianità e consigliere della Corte di cassazione dopo soli otto anni di magistratura (con possibili esperienze fuori ruolo che, per quanto formative, non sono riconducibili al “mestiere” di magistrato): ma, si sa, la bravura deve essere premiata e ancor più deve esserlo, se essa si trova in giovani colleghi pieni di energie e di entusiasmo. Peccato che, in questo modo, inevitabilmente si sveglia il demone dormiente che alberga in ogni animo umano (quindi anche nei magistrati), quello dell’ambizione, che non è legata solo a remunerazioni economiche, ma anche alla ricerca di un prestigio di posizione (effettivo o avvertito come tale), pericoloso demone dell’ambizione dei magistrati che il costituente e il primo legislatore ordinamentale avevano cercato di sopire il più possibile, nella consapevolezza della sua estrema pericolosità in uffici così delicati come quelli della magistratura.
A ciò si aggiunga che, con l’encomiabile finalità di evitare pericolose e sospette interazioni ambientali derivate dal perdurante esercizio di una medesima funzione in un medesimo ufficio, ancor più se dirigenziale, si è stabilita una temporaneità dell’incarico (decennale in genere e, per i direttivi, di otto anni previa conferma dopo quattro anni): peccato che in questo modo si spingano, anche coloro che sono rimasti miracolosamente non intaccati da particolari ambizioni, a ricercare altre collocazioni (comprensibilmente cercate tra quelle ritenute più prestigiose), laddove per i direttivi, mi si perdoni il cinismo, pensare che essi francescanamente ritornino a svolgere le funzioni di mero giudice o sostituto procuratore[13] mi pare francamente ingenuo, specie quando si è fatto di tutto per solleticarne l’ambizione, attraverso cambiamenti che si vogliono meritocratici.
Il giovanilismo meritocratico ed efficientista – che pure sta ormai vacillando anche nell’ambito strettamente economico-aziendale, dove aveva più di qualche ragione per esservi promosso – trasposto nel cd. “sistema giustizia” comporta una serie di conseguenze, anche di tenuta del disegno costituzionale della magistratura, che credo dovessero essere più attentamente considerate.
In primo luogo, fra le conseguenze da più parti e ripetutamente rimarcate, v’è l’ulteriore dilatazione dei margini di discrezionalità delle valutazioni del Consiglio superiore della magistratura: ora, se già si riteneva non soddisfacente l’esercizio di tale discrezionalità nell’ambito più limitato imposto dai confini dell’anzianità, ci si sarebbe dovuti chiedere per quali ragioni l’ampliamento di tale discrezionalità avrebbe dovuto portare a un suo miglioramento, anziché a più vistose derive, come purtroppo si è verificato e come è stato reso evidente dal noto “caso Palamara”, ormai cristallizzato negli esiti di alcuni dei procedimenti disciplinari avviati che, se mai ce se ne fosse stato bisogno, hanno altresì dimostrato come i limiti temporali degli incarichi (ultradecennalità, e verifiche dopo quattro anni con il limite degli otto per gli incarichi direttivi) non hanno rappresentato un valido strumento di prevenzione contro possibili storture.
In secondo luogo, bisogna domandarsi se ci sia resi adeguatamente conto che, l’ampliamento della discrezionalità dell’organo di auto-governo della magistratura, avrebbe inevitabilmente determinato il corrispondente e altrettanto preoccupante ampliamento della discrezionalità della giustizia amministrativa, istituzionalmente investita del controllo di tali scelte, come altrettanto puntualmente verificatosi (anche in casi eclatanti, come la scelta degli apicali, quali il Presidente e il Presidente aggiunto della Corte di cassazione).
In terzo luogo, se le scelte meritocratiche in ambito economico-aziendalistico, pur non prive di complessità, sono comunque riconducibili a un regime di tecniche ormai consolidate di valutazione delle performances, che consente di controllarne la coerenza e la pertinenza secondo margini di obiettività crescente, altrettanto non può dirsi in ordine al merito dell’attività giudiziaria: non solo per le maggiori incertezze legate alle valutazioni qualitative delle prestazioni giudiziarie – non riducibili ad algoritmi, a meno di non voler consentire alle tesi, che personalmente ritengo agghiaccianti, di quelle teorie dell’jntelligenza artificiale applicata al diritto che spingono di fatto verso la sostituzione del decidente e del requirente umano da parte di macchine – ma anche perché sembrano sussistere valide ragioni per dubitare che ciò sia auspicabile. Infatti, se (come sembra proporsi recentemente) la valutazione delle performances del magistrato deve collegarsi al suo grado di conformità (rispetto ai precedenti o alle decisioni del giudice e dei successivi gradi di giurisdizione) inevitabilmente si riproporrebbe una ingessatura della magistratura, ancora più incisiva di quella corderianamente lamentata a proposito del già citato esame da aggiunto, in un sistema che invece si nutre di un dinamismo legato ai “casi vivi” (ciò che giustifica il rifiuto della già ricordata sostituzione dell’agente umano con la macchina) e che, a differenza dei cd. sistemi di common law, non presenta neppure tradizionali e consolidate regole di regimentazione degli overruling, come dimostrato dagli impressionanti rivolgimenti degli orientamenti giurisprudenziali anche a livello di Sezioni Unite della Corte di cassazione o, addirittura, della stessa Corte costituzionale. Che dire poi dell’insufficiente precisione e dettaglio qualitativo dei rilievi statistici che, oltre tutto, sono allo stato gestiti principalmente a livello ministeriale, con ulteriori rischi di condizionamenti esterni. Quali siano gli effetti paradossali di un sistema di valutazione efficientista dei dirigenti giudiziari è manifestato dai rischi di trasformazione del “sistema giustizia” in una sorta di “sentenzificio”, che ha portato a quello che ritengo un unicum mondiale (se rapportato ai dati demografici della popolazione) della giustizia, quello cioè di una Corte di cassazione che, ad esempio in materia penale, produce più di sessantamila sentenze all’anno. Non mi pare che si debba essere esperti di statistica o fini processualisti e comparativisti: davvero si vuole credere e affermare che il servizio in questo modo reso possa essere più efficiente e qualitativamente superiore?
Esula dagli intenti di questo breve scritto un più compiuto esame della materia disciplinare: mi limito ad osservare che, anche in questo campo, i fatti, prima della teoria, abbiano dimostrato quanto fosse illusorio pensare che una progressiva tipicizzazione e moltiplicazione di fattispecie di illecito disciplinare, più o meno obbligatorie, potesse impedire derive etiche all’interno della magistratura (noto è del resto che l’inflazione delle fattispecie di illecito ponga inevitabilmente maggiori problemi di enforcement), mentre pare evidente il rischio che simili assetti spingano verso una “giustizia difensiva”, debole contro le parti più agguerrite e potenti, forte con quelle più deboli e meno aggressive, secondo una schema di inconvenienti che dovrebbe essere già ben noto alla luce della pratica ormai storica della cd. “medicina difensiva”. Che dire poi della proposta previsione di un organo ad hoc (la cd. Alta Corte disciplinare) che, per rimediare alla ritenuta inefficienza del Consiglio Superiore della magistratura, non sostituisca le competenze (del resto costituzionali) di quell’organo, ma si ponga come alternativa al controllo delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, sul cui operato meno evidenti sembrano gli elementi di fondatezza di un giudizio complessivamente negativo. In disparte ogni considerazione sul fatto che la modellazione della cd. Alta Corte disciplinare sullo schema della Corte costituzionale non rappresenti affatto una garanzia in questo caso, posto la natura da alcuni ritenuti “ibrida” di quell’organo (giurisdizionale e politico), giustificata dalla sua funzione di controllore delle leggi, desterebbe invece più di una preoccupazione in riferimento al controllo disciplinare di un ordine che si vuole costituzionalmente autonomo e indipendente da ogni altro potere.
4. Cenni di conclusioni per un nuovo inizio.
Alla luce di quanto si è detto pare difficile dubitare che dalla riforma progettata e in atto della magistratura spirino forti venti contrari al sogno costituzionale, tratteggiato in esordio, che probabilmente andava ben al di là di quanto i singoli interpreti, istituzionali e non, hanno storicamente fatto esprimere a quel testo.
D’altro canto, pare altrettanto evidente che si tratti di venti di riforma che provengono da lontano, generati da squilibri (per così dire) “termodinamici” tra ciò che, da molto tempo e progressivamente, è avvenuto all’interno e all’esterno della magistratura.
Dunque, in un tempo di acceso dibattito sulla valutazione della riforma in atto, di discussione sulla legittimità di alcune forme di reazione (quali uno sciopero da alcuni ritenuto “politico” della magistratura, ma a difesa delle garanzie costituzionali di tutti i cittadini), credo che il problema debba essere affrontato alla radice e che l’attenzione debba essere riportata alla genesi di questa tempesta: la cosa a mio avviso più preoccupante di quanto sta avvenendo, infatti, è che la discussione, i progetti di riforma, gli atti già adottati, non affrontino minimamente le ragioni profonde della crisi del disegno costituzionale della magistratura o, addirittura, che aggravino la situazione, aggiungendo forza ai fattori che questa crisi hanno generato.
E allora partiamo prima di tutto da alcune evidenze: partiamo dunque dalla constatazione del fallimento pratico del metodo dell’anzianità residuale e degli indicatori di merito e attitudinali, che hanno finito per incoraggiare spinte carrieristiche all’interno della magistratura, incomparabili rispetto a quanto avveniva in precedenza, e per legittimare una sorta di gerarchizzazione dell’ordine (contraria al suo assetto costituzionale), se non di diritto certamente nei fatti e nella percezione all’interno della magistratura, oltre che accumulare nel Consiglio Superiore della Magistratura e negli organi di giustizia amministrativa poteri discrezionali senza eguali nella storia precedente, con margini estremamente esigui di controllo effettivo dell’operato e prevedibilità dei giudizi resi. Si tratta di un fallimento pratico che, a mio avviso, corrisponde anche al fallimento teorico di una indebita trasposizione di criteri aziendalistici a un ordine, come quelle dei magistrati, le cui funzioni devono rispondere a criteri che non si esauriscono in un mero efficientismo quantitativo (della produzione di provvedimenti), né a criteri qualitativi di valutazione ispirati a una esteriore conformità tra richieste ed esiti o tra giudizi nei vari gradi, neppure desiderabile in astratto del resto, in quanto finirebbe per ricondurre a una juristocracy delle giurisdizioni superiori e una gerarchizzazione della magistratura espressamente contraria al testo costituzionale.
Si abbia dunque il coraggio di riconoscere l’errore commesso e ridare centralità al criterio dell’anzianità. Non me ne vogliano i giovani colleghi, ma il mestiere di magistrato è un mestiere artigianale, si impara e si migliora facendo, con umiltà, con l’esercizio costante della prudenza per evitare di commettere di nuovo gli stessi errori, un mestiere che sappia riconoscere e sfruttare le conoscenze che gli vengono dagli esperti (professori, magistrati più anziani o migliori di noi): non è un mestiere da grandi scienziati del diritto; se si vuol fare l’ingegnere o il fisico teorico del diritto si doveva tentare la strada accademica, con tutti i privilegi, ma anche con tutti gi oneri e le criticità di quella strada. L’esperienza è costitutiva del buon magistrato: dunque l’anzianità non può e non deve essere demonizzata e non credo, alla luce di quanto storicamente avvenuto, che essa abbia rappresentato davvero un limite per una migliore giustizia, avendo invece rappresentato una soluzione minimale per salvaguardare il grande sogno costituzionale di un ordine istituzionale non gerarchico, che legittima la sua autonomia e indipendenza nel servizio-sottomissione alla legge, un sistema che ha consentito di evitare il dilatarsi pericoloso di spazi di discrezionalità da parte degli organi di auto-governo e ha permesso di mantenere sotto controllo l’inevitabile ambizione umana (ancor più pericolosa, per chi ha i poteri di un magistrato) e, infine, che aveva preservato la magistratura da sbandamenti tali da legittimare ingerenze reattive sempre più ficcanti da parte degli “altri poteri” di cui parla la Costituzione.
Anche le crescenti critiche al cd. “correntismo” in magistratura – che in tempi recenti hanno trovato sempre più numerosi e neofiti adepti, dopo anni di sostanziale silenzio e di sua indifferente o interessata pratica– credo siano in larga parte illusorie: la tendenza ad associarsi, a unirsi in gruppi e “sotto-gruppi”, insieme a chi condivide le stesse opinioni e idee, è a mio avviso una insopprimibile tendenza umana (prima che un diritto costituzionale). Il vero problema, semmai, è quello di promuovere un associazionismo “culturale”, di identità culturale tra gruppi di magistrati che condividono le medesime opinioni e idee in materia di giustizia e di suo esercizio, che non sia invece un associazionismo “politico” (di identità per adesione a ideologie esterne al giuridico, se mai è possibile la distinzione, collaterale alla politica esercitata in Parlamento) o un associazionismo di “interessi contingenti”, ispirato alla promozione personale e alla provvisoria condivisione di medesimi e variabili intenti pratici in quanto confluenti verso la realizzazione di comuni interessi egoistici. Mi rendo conto: tutto molto semplice da affermare in teoria, quasi “donchisciottesco” da realizzare in pratica, ma preferisco passare da idealista consapevolmente ingenuo, che da dissimulatore critico che ben sa, cinicamente, come quanto si butterà formalmente fuori dalla porta, ritornerà dentro, prontamente e sostanzialmente, dalla finestra alla prima occasione.
In secondo luogo, occorre evitare la tentazione delle “grandi sentenze” per il gusto delle grande sentenza che faccia parlare di sé, o delle “grandi indagini” per il gusto della grande indagine che ponga in primo piano l’inquirente, occorre contrastare, prima di tutto culturalmente, il “personalismo” giudiziario, riscoprendo il valore della condotta del magistrato come espressione di un atto dell’ufficio, ciò che si può realisticamente perseguire attualizzando i principi di sottoposizione alla legge e di obbligatorietà dell’azione penale, che sono il fondamento costituzionale dell’autonomia e della indipendenza della magistratura. È un falso mito pensare che la moderna scienza ermeneutica assegni una libertà senza limiti rispetto al testo, che essa legittimi un “uso alternativo del diritto” e che non sia possibile ricostruire, anche in tempi di dilagante “diritto giurisprudenziale”, un sistema di vincoli rispetto alla legge che consenta di dare nuova linfa al principio di sottoposizione alla legge e che consenta di distinguere tra “uso” e “interpretazione”. Come disse Umberto Eco, con la semplicità profonda dei grandi che non temono l’accusa di banalità: “c’è nel Codice Rocco un comma che s’intitola ‘Turbata libertà degli incanti’ e posso leggere questo titolo come un incipit poetico, fra rondismo ed ermetismo, sui fremiti di un’adolescenza delusa. Cio non toglie che le convenzioni linguistiche mi dicano che in quel testo ‘incanti’ vuol dire aste e l’articolo si riferisce alla turbativa d’asta. Ecco la differenza tra uso e interpretazione”.[14] Non si cerchino dunque alibi in pretesi e male intesi approdi della linquistica o della filosofia: il principio di sottoposizione del giudice alla legge, non solo resta ancora scritto nella nostra Costituzione, ma ha un preciso e fondamentale spazio di operatività. Allo stesso modo la limitatezza delle risorse o il numero dei reati commessi, non vuol dire selezione dei reati da perseguire secondo personali o variabili apprezzamenti delle singole Procure, ma secondo criteri obiettivi e verificabili, del resto ampiamente noti a seguito degli studi in merito. Ridimensionato il ruolo del magistrato, come ricostruttore dei significati possibili e selezionati dal contesto e come ragionevole titolare di un’azione penale che resta obbligatoria, si potrà forse ripensare allo stesso come espressione di un ufficio, riguadagnando in termini di tutela contro aggressioni e ingerenze sulla persona, quanto si perde in termini riconoscimento personale e merito: per il costituente la magistratura è un servizio, non uno strumento di affermazione di ambizioni personali (nel caso ci si rivolga ad un altro cursus honorum o ad altre professioni che a questo lascino maggiori spazi).
In terzo luogo, non me ne vogliano gli amici professori (lo si fa non contra, ma pro academicos), occorre che la dottrina riscopra il suo ruolo, che essa rifiuti di essere mera glossatrice di “sentenze didattiche”, che oltre a decidere il caso concreto si presentano come vere e proprie ricostruzioni di sistema, e recuperi un effettivo ruolo critico che, per essere efficace e recepito, deve però dimostrarsi capace di “theoria”, cioè di visione e previsione di tutte le conseguenze nei diversi casi che realisticamente si possono dare, oltre quello deciso, evitando un’astrattezza priva di concrete ricadute o sentimentali adesioni a ideologie, che sempre più sanno di pensiero unico e che rischiano di far smarrire quella neutralità tecnica che sola permette di giustificare una “scienza” del diritto, che non sia mera “politica” del diritto.
Infine, essendo quello del disegno costituzionale della magistratura un grande sogno appartenente a tutti, non certo ai soli magistrati, spero che – anche e soprattutto grazie all’aiuto dei costituzionalisti (che auspicherei più attivi) – si possa rendere maggiormente consapevoli tutti, esercenti di qualsiasi professione forense o in genere cittadini, dei contenuti effettivi di questo disegno, dell’importanza di quanto si sta perdendo e di una resistenza che non sia intesa come difesa corporativa, ma come salvaguardia di un sistema comune da consegnare anche alle generazioni future, che i costituenti, grazie alla sofferenza patita e all’autorevolezza morale di chi aveva provato le proprie convinzioni anche a rischio della vita, ci hanno donato.
Contro i venti contrari, come sa ogni buon navigante, si deve andare di bolina: queste le direzioni a mio avviso da prendere, direzioni che chiamano noi tutti a una reazione prima di tutto “culturale”, di proposta (prima di tutto nella quotidianità dell’esercizio del nostro lavoro, ancor prima che nei dibattiti nelle varie sedi), di un modello di magistrato nuovo e allo stesso tempo antico, in quanto radicato nel disegno costituzionale mai del tutto attuato e di cui si sta clamorosamente smarrendo il senso: un magistrato appartenente a un ordine non gerarchico, che si distingue non per grado ma per funzioni, che radica la sua autonomia e indipendenza da ogni altro potere nella sua soggezione soltanto alla legge e all’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione, a tutela del valore supremo dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.
[1] Ad es., tra i molti, v. di recente S. Cassese, Il governo dei giudici, 2022
[2] In particolare mi riferisco al la legge 27 settembre 2021, n. 134 di delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, e al disegno di legge (A.C. 2681-A, ora A.S. 2595) approvato dalla Camera, che delega il Governo a riformare l'ordinamento giudiziario e ad adeguare l'ordinamento giudiziario militare, introduce nuove norme, immediatamente precettive, in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Come noto, poi, con 5 decreti del Presidente della Repubblica del 6 aprile 2022, è stata fissata al 12 giugno 2022 la data per la votazione su 5 referendum abrogativi sulla giustizia, dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 56, 57, 58, 59 e 60 del 2022).
[3] Citato in A. Marchese, Visiting angel. Interpretazione semiologica della poesia di Montale, Torino, 1977, p. 12.
[4] J. Derrida, De la grammatoligie, Paris, 1967. Per una introduzione al tema cfr. M. Ferraris, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, 1984. Sulla declinazione giuridica del decostruzionismo è nota la polemica tra Dworkin e Fish (S. Fish, Is there a Text in This Class? The Authority of Interpretative Communities, 1980); sul tema in Italia v. almeno il fondamentale G. Zaccaria, Questioni di interpretazione, 1996, pp. 227-246.
[5] Per tutti v. M. Vogliotti, Lo scandalo dell’ermeneutica per la penalistica moderna, in Quaderni fiorentini, 2015, p. 131 ss.
[6] V. L’uso alternativo del diritto. Vol. I - Scienza giuridica e analisi marxista. Vol. II - Ortodossia giuridica e pratica politica (a cura di P. Barcellona), 1973.
[7] Vista la sterminata letteratura in proposito sia consentito rinviare per i riferimenti bibliografici a T. Epidendio, Riflessioni teorico-pratiche sull’interpretazione conforme, in Diritto Penale contemporaneo – Rivista Trimestrale, 3-4 2012
[8] Ad es. M. Dell’Utri, Processo mediatico e difesa della persona, in Giustizia Insieme, 2022
[9] Cfr. artt. 10, 12 e 45 del d.lgs. n. 160 del 2006. Per una recente disamina dei possibili e più gravi effetti del disegno di legge sulla riforma dell’ordinamento giudiziario v. Riccardo Ionta, I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai, in Giustizia Insieme, 2022.
[10] F. Cordero, Procedura penale, VIII ed., 1985
[11] Per una disamina anche storica delle valutazioni di professionalità in magistratura v. con ampli riferimenti P. Serrao D’Aquino,Le valutazioni di professionalità dei magistrati, in Giustizia insieme, 2020
[12] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione quinta, Sentenza 21 maggio 2020, n. 3213
[13] Cfr. il citato art. 45 del d,lgs n. 160 del 2006, la cui lettera pare stigmatizzare il comportamento di chi, scaduto da un incarico direttivo, non ne chiede o non ne ottiene altro, “punendolo” con l’attribuzione di funzioni “non direttive” nel medesimo ufficio.
[14] U. Eco, I limiti dell’interpretazione, IV ed., 2004, p. 127.
Alcune osservazioni sul progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario[1]
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa. Si limita l’indagine al ruolo dei capi degli uffici e alla valutazioni di professionalità dei magistrati. - 2. Le norme progettate in tema di ruolo dei capi degli uffici. - 3. Le norme progettate in tema di valutazioni di professionalità dei magistrati. - 4. Il quadro d’insieme che ne scaturisce. - 5. Una valutazione circa il giudice che vogliamo, tra Lodovico Mortara e Mariano D’Amelio. - 6. Qualche ultima considerazione.
1. Premessa. Si limita l’indagine al ruolo dei capi degli uffici e alla valutazioni di professionalità dei magistrati
E in discussione in Parlamento una riforma di ordinamento giudiziario che fa seguito al disegno di legge n. 2681 già presentato il 28 settembre 2020 dall’allora Ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede, e che, con i fatti c.d. di Palamara, e le discussioni, anche a livello politico e mediatico che ne sono seguite, ha avuto degli emendamenti, e infine una delibera favorevole dalla II Commissione permanente (Giustizia) della Camera dei Deputati il 14 aprile 2022.
Il progetto di riforma è vasto e investe molti aspetti: dalla disciplina delle funzioni direttive alla valutazione della professionalità, dall’organizzazione del Pubblico ministero a quella dei Consigli giudiziari, dall’accesso alle funzioni di legittimità ai procedimenti disciplinari, dall’accesso in magistratura ai collocamenti fuori ruolo, dal ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, dalla eleggibilità dei suoi componenti e all’elettorato attivo e passivo fino al riassetto dell’ordinamento giudiziario militare, ecc…….
Un po’ tutto è investito da questa riforma, cosicché una analisi articolata di essa non è possibile in un breve articolo, e i tanti aspetti coinvolti necessitano evidentemente di un vero e proprio Commento, che probabilmente qualcuno scriverà dopo la sua definitiva approvazione.
Io credo, però, fin d’ora, che, dovendo dare un giudizio complessivo della riforma, molti aspetti attengano all’amministrazione della giurisdizione e alla mera vita professionale del magistrato, cosicché, anche per la loro natura squisitamente tecnica, suscitano poco, o minor interesse, a chi magistrato non sia.
A fianco di questi, tuttavia, la riforma presenta altri aspetti che interferiscono invece con i principi costituzionali del Titolo IV della Costituzione, e con i principi di indipendenza della magistratura di cui agli artt. 101 e ss.
Questi, al contrario, sono gli aspetti che devono interessare tutti i cittadini, poiché altrimenti non ha senso asserire solennemente che la giustizia “è amministrata in nome del popolo” (art. 101 Cost.).
Questi aspetti, che peraltro sono quelli sulla base dei quali la magistratura associata, e precisamente l’ANM, ha deciso di indire una giornata di sciopero, a mio parere investono soprattutto le novità in punto di ruolo dei capi degli uffici e di valutazioni della professionalità: e alla trattazione di soli questi temi, così, è dedicato questo mio breve intervento.
2. Le norme progettate in tema di ruolo dei capi degli uffici
Al riguardo, prendo le mosse dall’esposizione delle norme.
Quanto alle funzioni direttive e semidirettive, si tenga presente:
a) In primo luogo l’art. 37 del d.l. 98/2011 recita che: “1. I capi degli uffici giudiziari sentiti, i presidenti dei rispettivi Consigli dell'ordine degli avvocati, entro il 31 gennaio di ogni anno redigono un programma per la gestione dei procedimenti civili. Con il programma il capo dell'ufficio giudiziario determina: - ) gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell'anno in corso;
- ) gli obiettivi di rendimento dell'ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, l'ordine di priorita' nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonche' della natura e del valore della stessa. 2. Con il programma di cui al comma 1, sulla cui attuazione vigila il capo dell'ufficio giudiziario, viene dato atto dell'avvenuto conseguimento degli obiettivi fissati per l'anno precedente o vengono specificate le motivazioni del loro eventuale mancato raggiungimento.
Ai fini della valutazione per la conferma dell'incarico direttivo ai sensi dell'articolo 45 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160, i programmi previsti dal comma 1 sono comunicati ai locali consigli dell'ordine degli avvocati e sono trasmessi al Consiglio superiore della magistratura.
b) L’art. 2, 1 comma, lettera d) del progetto n. 2681 prevede altresì che la partecipazione alle procedure per la copertura di posti direttivi è subordinata alla partecipazione di un corso mirato “allo studio dei criteri di gestione delle organizzazioni complesse e all’acquisizione delle competenze manageriali”; e il testo della Commissione aggiunge che, in dette procedure, deve prestarsi particolare attenzione: “alla capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici, alla conoscenza delle norme ordinamentali, alla capacità di efficiente organizzazione del lavoro giudiziario e agli esiti delle ispezioni svolte negli uffici presso cui il candidato svolge o ha svolto funzioni direttive o semidirettive”; e soprattutto la lettera m) asserisce infine che si debba: “prevedere che la capacità di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo sia valutata ai fini di quanto previsto dall’art. 12, comma 10 e 11 del d. lgs. 160/2006, nonché nella valutazione ai fini della conferma di cui all’art. 45 del d. lgs. 160/2006”.
c) Ed inoltre, per quanto concerni la conferma dell’incarico direttivo, l’art. 45 del d. lgs. 160/2006 statuisce: “Le funzioni direttive di cui all'articolo 10, commi da 10 a 16, hanno natura temporanea e sono conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato puo' essere confermato, previo concerto con il Ministro della giustizia, per un'ulteriore sola volta, per un eguale periodo a seguito di valutazione, da parte del Consiglio superiore della magistratura, dell'attivita' svolta. In caso di valutazione negativa, il magistrato non puo' partecipare a concorsi per il conferimento di altri incarichi direttivi per cinque anni”.
3. Le norme progettate in tema di valutazioni di professionalità dei magistrati
Per quanto invece riguardi la valutazione della professionalità, si consideri altresì:
a) l’art. 3, 1 comma, lettera d) prevede che “nell’applicazione dell’art. 11, 2° comma, lettera b) del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160, sia espressamente valutato il rispetto da parte del magistrato di quanto indicato nei programmi di gestione redatti a norma dell’art. 37, del d.l. 6 luglio 2011 n. 98”.
b) L’art. 11, 2° comma, lettera b) del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160 recita che “la laboriosita' e' riferita alla produttivita', intesa come numero e qualita' degli affari trattati in rapporto alla tipologia degli uffici e alla loro condizione organizzativa e strutturale, ai tempi di smaltimento del lavoro, nonche' all'eventuale attivita' di collaborazione svolta all'interno dell'ufficio, tenuto anche conto degli standard di rendimento individuati dal Consiglio superiore della magistratura, in relazione agli specifici settori di attivita' e alle specializzazioni”.
c) Più in generale, poi, la valutazione di professionalità è disciplinata nell’art. 3, 1 comma, lettera h) 1 dove si legge: “Prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo qualitativo che quantitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio”.
d) Queste condizioni sono poi richieste anche per l’accesso in cassazione, visto che l’art. 2, 3 comma, lettera d) statuisce che, nella valutazione delle attitudini circa la capacità scientifica e di analisi delle norme, deve tenersi conto degli “andamenti statistici gravemente anomali degli esiti degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”.
e) Si asserisce, infine, che nella valutazione di professionalità di un magistrato, art. 3, 1 comma, punto 2, lettera l) i dati conoscitivi dell’attività giudiziaria devono essere raccolti “anche con specifico riferimento a quella espletata con finalità di mediazione e conciliazione”.
4. Il quadro d’insieme che ne scaturisce
Sulla base di questo impianto normativo, credo si possa affermare quanto segue:
a) con riferimento ai capi degli uffici, e quindi per quanto riguardi le funzioni direttive e semidirettive, esse sono oggi strettamente legate al programma per la gestione dei procedimenti.
Questo programma è essenzialmente centrato sulla produttività dell’ufficio, poiché il primo obiettivo che esso ha è quello della riduzione della durata dei procedimenti.
Il programma deve altresì fissare l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, e quindi il capo dell’ufficio indica ai magistrati quali siano i procedimenti che devono essere trattati subito e quali quelli che al contrario possono essere trattati soltanto dopo altri.
In sostanza, il programma costituisce un vero e proprio budget aziendale, sul quale vigila il capo dell'ufficio giudiziario e che, alla fine di ogni anno, deve essere realizzato, oppure devono essere specificate le motivazioni del loro eventuale mancato raggiungimento.
Da sottolineare, poi, che a tutto questo il capo dell’ufficio ha un interesse personale, in quanto la legge prevede espressamente che la carriera direttiva di un magistrato dipenda dalla capacità di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo, che ha valore centrale ai fini della conferma di cui all’art. 45 del d. lgs. 160/2006.
b) Per quanto concerna invece la magistratura che operi senza incarichi direttivi, questa, oltre a doversi attenere al programma, deve: ba) in primo luogo cercare di mediare le controversie, poiché nella valutazione della sua professionalità si tiene conto dell’attività espletata con finalità di mediazione e conciliazione; bb) ed in secondo luogo, e soprattutto, deve stare attenta a non pronunciare provvedimenti che possano essere riformati e/o cassati, poiché ai magistrati è stato attribuito un fascicolo, che si è denominato anche pagella, il quale contiene non solo i dati statistici, ovvero i numeri del lavoro, ma anche i dati concernenti eventuali riforme dei provvedimenti assunti da parte dei giudici dei gradi superiori; la novità, sul punto, espressamente afferma che ai fini della carriera ha rilievo infatti la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio.
Si fa riferimento alla grave anomalia, ma io aggiungerei che gravi anomalie non le ho quasi mai riscontrate in circa quaranta anni di frequentazione delle aule giudiziarie; dal che, se non si vorrà dare una interpretazione abrogante della disposizione, essa sarà interpretata, sic et sempliciter, quale valutazione dei provvedimenti del giudice in raffronto ai mezzi di impugnazione; col che, ancora, nella sostanza, si sta dicendo che i giudici devono decidere uniformandosi agli orientamenti dei gradi superiori, poiché, non farlo, potrebbe incidere negativamente sulla loro progressione di carriera.
Si tratta di un meccanismo assai discutibile sotto un duplice profilo: perché lega le mani al primo giudice, che deve provvedere stando attento ai mezzi di impugnazione; - e perché lega le mani al giudice dell’impugnazione, che sa che se riforma il provvedimento mette in difficoltà il collega nella valutazione di professionalità.
Né si dica che una deroga ai principi secondo i quali “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.), e “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (art. 107 Cost.), era già stata posta dall’art., 374, 3° comma c.p.c., per il quale le sezioni semplici non possono disattendere gli orientamenti delle sezioni unite.
Si tratta, ovviamente, di cose totalmente differenti tra loro, perché infatti l’art. 374, 3° comma c.p.c. non impedisce alle sezioni semplici di dissentire dall’orientamento delle sezioni unite, solo queste devono rimettere la questione a quest’ultime; la norma si giustifica poi in forza del principio di nomofilachia, e il tutto non ha alcuna rilevanza ai fini della valutazione della professionalità.
c) Se si considerano questi dati, e quindi si prende atto che il capo dell’ufficio deve organizzare in modo aziendalistico il Tribunale, pena la sua stessa carriera, e che i magistrati devono sottostare al programma, porre in primo piano mediazioni e aspetti quantitativi dell’’esercizio della funzione giurisdizionale, e soprattutto decidere in modo conforme alle decisioni dei giudici di grado superiore, va da sé che la magistratura non ha torto a sostenere che si sta configurando un giudice burocrate e gerarchizzato, che semplicemente deve rispettare condizioni che da altri vengono disposte.
Per motivi di efficienza, così, si deve abbandonare la romantica idea dell’autonomia e dell’indipendenza (quanto meno interna) della delicata funzione del giudicare.
Si tratta, allora, di chiedersi che tipo di giudice noi vogliamo, e soprattutto che tipo di giudice ha assegnato la nostra Costituzione alla Repubblica.
5. Una valutazione circa il giudice che vogliamo, tra Lodovico Mortara e Mariano D’Amelio
Nell’affrontare il tema del “Giudice che vogliamo”, vorrei preliminarmente ricordare un precedente.
Desidero farlo perché appartiene a quegli episodi che rendono chiaro quanto sacro sia il valore della indipendenza della funzione giudiziaria, e perché forse non è neanche un caso così unico, magari invece è simile a tanti altri che noi non conosciamo.
Il ricordo che propongo è quello di due Presidenti di Cassazione: Lodovico Mortara, ultimo presidente della Corte di Cassazione di Roma, e Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di Cassazione unica del Regno.
Siamo negli anni compresi tra il 1922 e il 1924, ovvero negli anni nei quali il fascismo prende il potere: la marcia su Roma risale infatti al 28 ottobre del 1922 e Benito Mussolini diventa capo del Governo tre giorni dopo, il 31 ottobre 1922.
Ebbene, fino a quegli anni, secondo il noto e chiaro principio della divisione dei poteri, il compito di fare leggi spettava al Parlamento, e al Governo solo quello di metterle in esecuzione.
Con gli anni venti, tuttavia, questa ripartizione entrava in crisi, e sempre più il Governo emanava atti aventi valore di legge sorpassando in questo modo l’Assemblea.
Poiché nello Statuto Albertino non vi era una norma analoga al nostro attuale art. 77 Cost., spesso i decreti leggi non venivano convertiti dal Parlamento, e alle volte nemmeno presentati allo stesso per la loro conversione.
Con l’avvento del fascismo questo metodo si rafforzava, e oramai l’idea era quella che lo stesso Governo, anche senza passare dal Parlamento, poteva emanare atti aventi forza di legge sulla sola generica premessa dell’urgenza del provvedere.
In quel periodo, come detto, presidente della Corte di Cassazione di Roma era Lodovico Mortara, un giurista di grande cultura e indipendenza, già ordinario di procedura civile, e già Ministro della Giustizia con il Governo Nitti.
Lodovico Mortara non sopportava l’idea che il Governo si arrogasse poteri che spettavano invece al Parlamento, e, avuta occasione di pronunciarsi su questo tema quale giudice, egli emanava alcune sentenze chiare e nette sui rapporti che dovevano darsi tra funzione legislativa e funzione governativa.
Faccio riferimento a tre pronunce della Corte di Cassazione di Roma, tutte del 1922, e tutte che vedevano Lodovico Mortara non solo quale Presidente della Corte bensì anche quale Presidente del collegio giudicante.
Queste pronunce sono quelle di Cass. 24 gennaio, Cass. 16 novembre e Cass. 30 dicembre 1922, tutte in Giur. it., 1922, I, 66, 929; II, 1.
È importante tener conto delle date, poiché mentre la prima era con il fascismo alle porte ma non ancora al potere, le ultime due venivano pronunciate dopo la marcia su Roma, e quindi già con a capo del Governo Benito Mussolini.
Ebbene, Lodovico Mortara non aveva alcun problema a sottolineare come questo malcostume, già presente da un po’ di anni, si fosse aggravato con il fascismo.
Scriveva: “Non esiste nessuna norma costituzionale che autorizzi il Governo a investirsi in circostanze straordinarie della potestà legislativa”. Una volta accertata la “impossibilità non solo di un controllo sollecito, ma perfino di un controllo qualsiasi da parte delle due Camere sopra un grande numero di quegli arbitrari provvedimenti” è compito degli “organi supremi del potere giurisdizionale a un nuovo esame della grave questione”.
Asseriva ancora che, in effetti, in passato, i decreti legge “erano davvero emanati in circostanze eccezionali e con rigida parsimonia cosicché il sindacato parlamentare poteva essere sufficiente” ma oggi: “Il sindacato parlamentare si rileva impossibile in fatto, forse illusorio in diritto” e dunque si impongano “nuovi doveri alla magistratura, la quale, senza sostituirsi al Parlamento, non può dimenticare di essere quella fra i poteri sovrani dello Stato cui spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa”
Il discorso era chiarissimo: il Parlamento non è più in grado di controllare il Governo, quindi questo compito spetta alla magistratura, in quanto la situazione politica ha attribuito inevitabilmente nuovi doveri alla magistratura, alla quale spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa.
Questo scriveva Lodovico Mortara, e su queste basi la cassazione, a salvaguardia della democrazia, fissava questi principi: a) i decreti leggi sono atti arbitrari del Governo, eccedenti la sfera del potere esecutivo e quindi per loro stessi incostituzionali; b) L’autorità giudiziaria può esaminare se il governo abbia adempiuto alla sua promessa di presentare il decreto al Parlamento e verificare che il Parlamento abbia provveduto alla sua conversione.
Orbene, Lodovico Mortara sapeva perfettamente, non poteva non saperlo, che quelle decisioni sarebbero state invise al sopraggiunto regime, e che certo il regime non lo avrebbe premiato per quelle idee.
Ma Lodovico Mortara non esitava egualmente a pronunciare quelle sentenze, perché per lui, evidentemente, il valore delle idee, il rispetto dei principi costituzionali, e soprattutto l’indipendenza della funzione che stava esercitando, erano più alti e profondi del timore di essere punito.
Nei fatti, poi, il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 sopprimeva le c.d. Cassazioni regionali, tra le quali anche la Corte di Cassazione di Roma, e due mesi dopo Mussolini azzerava altresì, con decorrenza 1 novembre 1923, tutti i vertici di quelle cassazioni, e quindi Lodovico Mortara veniva rimosso dal suo incarico e collocato in pensione.
A Lodovico Mortara sarebbe succeduto nella Prima Presidenza della nuova Cassazione unica del Regno d’Italia, Mariano D’Amelio, e l’anno ancora successivo, 1924, le nuove Sezioni unite di Mariano D’Amelio avrebbero stabilito che “Il giudizio sulla valutazione della necessità urgente e improrogabile di emanare un decreto legge è demandata esclusivamente al potere esecutivo, e non può essere oggetto di sindacato da parte dell’autorità giudiziaria” (Cass. sez. un., 6 maggio 1924, Giur. it., 1924, I, 536).
Da quel momento, e fino all’arrivo della nostra Repubblica, la divisione della funzione legislativa da quella governativa veniva così meno, tanto che lo stesso Benito Mussolini, anni dopo, e precisamente il 30 ottobre 1939, alla presenza del Ministro della Giustizia Dino Grandi, in un discorso tenuto ai vertici della magistratura riunitisi in Palazzo Venezia, espressamente affermava che: “Nella mia concezione non esiste una divisione dei poteri nell’ambito dello Stato. Nella mia concezione il potere è unitario: non v’è divisione di poteri, c’è divisione di funzioni”.
6. Qualche ultima considerazione
Io credo, allora, che vadano fissate alcune cose.
a) Alla magistratura non può chiedersi di difendere i principi della democrazia a qualunque costo, anche a fronte di rischi personali e punizioni; questo possono farlo, e nel corso della storia lo hanno fatto, solo taluni magistrati; tuttavia a tutta la magistratura deve esser concesso di esercitare le funzioni in libertà, poiché solo se i giudici sono liberi, noi tutti possiamo essere liberi; e per rendere indipendente un giudice “non basta liberarlo dal timore che il suo atteggiamento di ribellione contro gli intrighi politici possa in qualche modo danneggiarlo, ma bisogna altresì togliergli ogni speranza che un atteggiamento servile ed inchinevole possa giovare alla sua carriera futura” (Calamandrei).
b) Alla magistratura non può inoltre esser chiesta solo efficienza, preparazione e autorevolezza.
Mariano D’Amelio fu primo presidente della Cassazione per tutto il periodo del fascismo, dal 1923 al 1941, e fece funzionare la cassazione con ottimi risultati di produttività. Era poi un giurista raffinato: direttore del Nuovo Digesto italiano, direttore di fatto della Rivista di diritto pubblico dal 1938, professore honoris causa delle università di Heidelberg e di Glasgow, e addirittura, a dieci anni di presidenza della Cassazione, furono promossi studi in suo onore Studi in onore di Mariano D’Amelio, Roma, 1933, 3 volumi; e fu altresì uomo di grande rilievo nel suo periodo storico: presidente del Consiglio superiore della magistratura e della Suprema Corte disciplinare, Senatore del Regno dal 1924, Ministro dal 1938, ottenne il titolo di Conte con r.d. 11 dicembre 1941.
Le forme, quindi, non sempre sono in grado di assicurare la distanza tra magistratura e politica.
c) Non dobbiamo poi nasconderci dietro le forme.
Non basta dire: è così perché l’ha detto la cassazione; le cose stanno in questi termini perché v’è una specifica pronuncia della Corte Costituzionale, ecc……
A fronte di ogni decisione, per quanto autorevole, v’è sempre da chiedersi se quella decisione ci convince, v’è sempre da domandarci se il giudice che l’ha pronunciata è Lodovico Mortara oppure Mariano D’Amelio, perché, con la burocratizzazione e la gerarchizzazione della magistratura, il rischio è che l’ultimo giudice debba dire quello che dice il primo, e il primo giudice debba dire quello che dice la politica.
E poi, è evidente, anche Lodovico Mortara può sbagliare.
Se ai giudici viene privata la libertà di giudizio, a tutti noi sarà automaticamente impedita la libertà di giudizio.
d) Non dobbiamo poi accontentarci delle forme nemmeno nel portare rispetto alla Costituzione.
La struttura gerarchica della magistratura e il modello di giudice burocratizzato non è nella nostra carta costituzionale, e non credo vi sia bisogno di dimostrare che il combinato disposto degli artt. 101, 104 e 107 Cost., ha inteso oltre ogni dubbio garantire quella che si denomina come indipendenza esterna ed interna della magistratura.
Questo modello non può essere derogato dalla legge né in modo palese, né in modo indiretto; e quindi, ai fini della costituzionalità, non basta che la legge non si ponga in contrasto frontale con i principi contenuti in dette norme costituzionali, è necessario che non lo faccia nemmeno in modo deviato, ovvero inserendo nel sistema dei meccanismi che, seppur rispettosi delle forme, giungono ad un risultato pratico che non è conforme ai precetti costituzionali.
In questa ottica disposizioni del progetto n. 2681 quali quelle dell’art. 2, 1 comma, lettera d), o dell’art. 3, 1 comma, lettera d), e soprattutto dell’art. 3, 1 comma, lettera h) 1, possono essere incostituzionali nella misura in cui tendono a creare una figura di giudice che non è quella voluta dalla Costituzione.
E cosa analoga è stata fatta, ancora, con riguardo alla disciplina del Pubblico Ministero.
La nostra Costituzione non prevede la separazione delle carriere tra requirenti e giudicanti, e quindi è necessario modificare la costituzione se si vuole raggiungere quel risultato.
La riforma, invece, cerca di ottenere il medesimo effetto in modo indiretto, visto che l’art. 12, lettera c) 1, modificando l’art. 13, 3° comma, del d. lgs. 5 aprile 2006 n. 160, prevede che “il passaggio” – ovvero il passaggio tra funzioni requirenti a quelle giudicanti – “può essere richiesto dall’interessato per non più di una volta nell’arco dell’intera carriera”.
E dunque, considerato che limitare il passaggio tra le funzioni requirenti e giudicanti per una sola volta costituisce, nella sostanza, separare le carriere, e considerato che il rispetto della costituzione non può essere raggirato facendo formalmente una cosa possibile che però serve per raggiunge un obiettivo impossibile, la novità dell’art. 12, lettera c) 1 è da considerare, parimenti, e a mio parere, incostituzionale, poiché, di nuovo, crea nei fatti una disciplina della magistratura non conforme alla nostra Costituzione.
e) Alla giustizia, inoltre, non può chiedersi solo risposte celeri e prevedibili.
Una giustizia predittiva, fatta con l’ansia del programma di gestione e il timore dei giudizi di professionalità basati sulla capacità del giudice di conformarsi ai colleghi dei gradi superiori, rischia non solo di compromettere l’indipendenza della funzione, bensì anche il risultato sostanziale dei processi.
Se infatti immaginiamo la giustizia come un pranzo al fast food, dove il giudice per far presto può (potrebbe) non assumere le prove, non guardare tutti i documenti, non studiare attentamente il fascicolo, agganciarsi ad ogni questione preliminare e/o pregiudiziale per chiudere in rito il caso e passare, presto e velocemente, ad un altro caso, con l’unica preoccupazione di star attendo a non prendere decisioni che non siano conformi agli orientamenti già consolidati, lì allora par evidente che quel senso di giustizia che tutti noi abbiamo è andato perso.
Ne’ si replichi che istituire la pagella dei giudici è poca cosa, poiché in realtà non lo è, in quanto la questione non è tanto quella di vedere a che punto siamo, ma quella di valutare in che direzione stiamo marciando, e se il senso di marcia è quello dell’inquadramento gerarchico e della burocratizzazione della magistratura, penso sia dovere di tutti chiedersi se è questo il tipo di giudice che vogliamo.
f) Gli avvocati diranno: e i giudici che non lavorano? E la vicenda Palamara? E quelli che da anni e anni sono fuori ruolo? E i provvedimenti negligenti, se non addirittura aberranti, cui talvolta si assiste?
Direi che il “Giudice che vogliamo” certamente non deve cenare all’hotel Champagne, deve stare nei palazzi di giustizia e non nei ministeri, deve stare lontano dalla politica, e deve egli stesso, per primo, rifiutare un ruolo meramente burocratico, deve egli stesso, per primo, concepire la sua funzione e il suo lavoro alla luce di quella indipendenza che costituisce un pilastro irrinunciabile di uno Stato di diritto.
Gli avvocati hanno ragione quando denunciano gli abusi, il malfunzionamento, i rinvii ingiustificati e/o pretestuosi, i provvedimenti negligenti, ma se l’indipendenza dei giudici viene messa in discussione, allora, a quel punto, ogni altra diatriba passa in secondo piano, e ogni altro problema viene necessariamente dopo.
In quel momento gli avvocati devono comprendere che sono nella stessa barca del giudice, e devono comprendere che non c’è dignità, per nessuno, senza libertà, “Nel processo giudici e avvocati sono come specchi; ciascuno, guardando in faccia l’interlocutore, riconosce e saluta, rispecchiata il lui, la propria dignità” (Calamandrei).
L’esercizio della professione forense è possibile e ha un senso solo se l’avvocato si può rivolgere ad un giudice libero e indipendente; se il giudice perde queste caratteristiche, la professione di avvocato è parimenti finita, e il suo ruolo sociale annullato.
g) Nel 1906 Lodovico Mortara era alla Corte di Appello di Ancona.
Una grande intellettuale di quel periodo, Maria Montessori, con una pubblicazione sul giornale La vita del 1906, invitava le donne ad iscriversi alle liste elettorali poiché la legge non ne faceva divieto.
Dieci maestre elementari raccolsero questo invito.
La commissione elettorale della provincia di Ancona accoglieva le domande di iscrizione alle liste elettorali delle dieci maestre ma contro di esse proponeva appello la Procura del Re.
La causa era trattenuta da Lodovico Mortara, redattore della decisione.
Osservava Lodovico Mortara che i diritti politici erano riconosciuti a tutti i regnicoli senza distinzione di sesso dall’art. 4 dello Statuto, e quindi non vi erano ragioni giuridiche per ritenere che le donne, in quanto regnicole, non potessero godere dei diritti politici; ed inoltre la legge elettorale non disponeva niente in contrario, ovvero, nello specifico, non escludeva dall’elettorato le donne. E dunque, asseriva Lodovico Mortara, poiché il diritto elettorale “è a sua volta un diritto politico, il quale alla stregua delle premesse considerazioni spetta a tutti i regnicoli”, esso comprende anche le donne, poiché il silenzio sul punto della legge elettorale va inteso come affermazione del principio generale contenuto nello Statuto, che senza distinzione di sesso attribuisce i diritti politici a tutti.
La sentenza, completamente rivoluzionaria per l’epoca, veniva subito diffusa dalla stampa a tutto il paese.
Ma la Cassazione di Roma, adita dalla Procura del Re, l’8 maggio 1907, annullava detta decisione e ordinava la cancellazione dalle liste elettorali delle dieci maestre di Senigallia.
Se anche allora ci fosse stato il fascicolo di cui all’art. 3, 1 comma, lettera h) 1 dell’attuale progetto di riforma, probabilmente Lodovico Mortara, per questa uscita estemporanea, non avrebbe potuto successivamente accedere alla Presidenza della Cassazione, e non avrebbe potuto denunciare gli abusi politici in punto di decreti legge con i quali il Governo negli anni ’20 si era attribuito il potere legislativo.
[1] Intervento tenuto nel Palazzo di Giustizia di Siena, il 25 magio 2022, in occasione di un incontro organizzato dall’ANM locale sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario.
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