ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Esiste forse una guerra giusta? Riflessioni su guerra e diritto in Lev Tolstoj*
di Giuseppe Guizzi
1. Il drammatico precipitare della crisi russo-ucraina ha riportato la guerra all’interno dei confini dell’Europa, e ci costringe a misurarci drammaticamente, toccandola con mano, con una realtà che all’indomani della devastante esperienza di morte e distruzione del secondo conflitto mondiale ci eravamo illusi di non veder più ripetersi, almeno su così larga scala, nel nostro continente. Non che eventi bellici non fossero prima d’oggi mancati, anche a causa - soprattutto negli ultimi vent’anni - della situazione di progressiva instabilità del quadro geopolitico, ma essi erano apparsi come fenomeni comunque estremamente circoscritti e localizzati, e in definitiva privi di un’incidenza immediata e diretta sulle nostre vite.
La guerra che si combatte ora senza esclusione di colpi, che ha tra i suoi bersagli persino la popolazione civile, assumendo così quella connotazione che fu uno degli elementi più largamente caratterizzanti la seconda guerra mondiale rispetto a ogni altro precedente conflitto, vede anche l’Italia, a suo modo, in prima linea, non solo per la convinta adesione alla politica delle sanzioni economiche adottata dalla comunità internazionale nei confronti della Russia, ma anche per la scelta di assicurare aiuto e sostegno militare all’Ucraina, seppure non attraverso l’invio dell’esercito bensì nella forma della fornitura e messa a disposizione di armi. Essa sollecita dunque inevitabilmente riflessioni, generando dubbi a cui nessuno può sottrarsi, meno che mai il giurista, che dinnanzi a quanto sta accadendo è in particolare chiamato a interrogarsi su quale significato possa ancora riconoscersi al principio che ai sensi dell’art. 11 della nostra Costituzione, non meno che degli artt. 2.4 e 51 della Carta delle Nazioni Unite, ripudia la guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali, riconoscendo la legittimità solo di quella difensiva.
Del resto già nel recente passato, dinnanzi al rinnovato attivismo militare del nostro paese, seppur nel quadro di iniziative sempre assunte almeno sotto l’egida dell’Alleanza atlantica e in difesa di paesi ad essa aderenti, i più sensibili e attenti tra i costituzionalisti[1] hanno iniziato a chiedersi se non sia oramai in atto un processo, se non addirittura di definitivo superamento, certo di ridefinizione in via interpretativa di quel divieto, nel senso di un ampliamento delle ipotesi di «guerra non ripudiata». Un ampliamento che, nel tentativo di mantenere una qualche forma di coerenza con il dettato della norma, viene condotto ora giustificando la partecipazione a iniziative militari nel quadro degli obblighi assunti per effetto dell’adesione a trattati internazionali implicanti l’accettazione di limitazioni della sovranità, ora, invece, provando a ricomprendere nel perimetro della fattispecie costituzionale oltre quella volta a proteggere l’integrità, non solo territoriale, dello Stato anche la guerra, in difesa dei valori di cui esso è portatore ed in cui si riconosce, ed in primo luogo dei c.d. diritti umani universali[2], ovunque essi siano annientati o negati con la forza dell’armi. Un’impostazione, questa, che finisce così quasi per postulare un recupero della antica concezione, risalente alla tradizione canonistica, che la guerra legittima sul piano dell’ordinamento giuridico, interno come internazionale, è ogni «guerra giusta», dunque quella dichiarata da una legitima auctoritas, condotta per una giusta causa e soprattutto iusto modo, ossia rispettando pur sempre un principio di proporzionalità tra mezzi impiegati e fini perseguiti[3].
Si tratta di domande e di interrogativi che agitano ogni coscienza, e a cui pur in assenza di una competenza specifica ratione materiae – ma mi soccorre la ferma convinzione che di fronte ai problemi fondamentali dell’esistenza umana tutti i giuristi indistintamente debbano far sentire la propria voce, non già perché in possesso di più o meno arcani e misteriosi metodi bensì in quanto uomini che «meno distratti da altre cure» più si soffermano sui problemi della civile convivenza[4] - vorrei provare a dare risposta utilizzando la lente della letteratura, ed in particolare attraverso l’analisi di alcune pagine di Lev Tolstoj. Un approccio che mi sembra possa essere particolarmente proficuo in ragione di una altra mia salda convinzione, ossia che se l’artista è «un homme habitue à faire de son âme un miroir ou l’univers tout entier vient se réfléchir»[5], in ogni opera d’arte è allora possibile cogliere il più profondo e autentico significato della realtà che ci circonda.
2. La scelta di affrontare il tema attraverso le pagine di Tolstoj è motivata non solo e non tanto da un’esigenza contingente, ovvero dal fatto che egli rappresenti, insieme con Dostoevskij, uno tra i massimi esponenti della letteratura russa di ogni tempo, sicché, costituendo le loro opere la più alta espressione del patrimonio spirituale proprio del paese che ha dato causa alla guerra in corso, viene naturale provare a chiedersi come esse debbano leggersi oggi[6] e quale contributo possano darci per comprendere il presente e la drammatica esperienza che stiamo vivendo.
Questa scelta trova la sua spiegazione anche e soprattutto nell’essere stato Tolstoj, tra gli scrittori della seconda metà dell’Ottocento, quello che più di ogni altro ha dedicato al tema profonde e meditate riflessioni, le quali oltretutto non si esauriscono nel suo più celebre romanzo, autentica espressione di un’epica moderna come si riconosce oramai concordemente dalla critica[7], in cui la contrapposizione tra la guerra e la pace campeggia sin dal titolo. Quelle riflessioni sono molto più diffuse, e se esse troveranno la loro più radicale espressione nella produzione saggistica della vecchiaia[8], quella caratterizzata dal recupero del messaggio cristiano delle origini[9] con il suo ripudio di ogni forma di violenza – una produzione che ha fatto del pensiero di Tolstoj uno dei principali punti di riferimento per i movimenti pacifisti e non violenti sviluppatasi nella prima metà del ventesimo secolo[10], e che si compendia, a livello narrativo, in «Resurrezione», il grande romanzo pubblicato nel 1900, con il suo richiamo agli insegnamenti del Vangelo di Matteo e soprattutto al discorso della montagna – tuttavia non nascono con la profonda crisi religiosa iniziata nel 1878 e che impresse una svolta alla sua vita, anche artistica[11]. Quelle idee hanno radici ben più profonde. Si tratta, infatti, di idee che si manifestano già in alcuni dei racconti pubblicati a partire dal 1855, in cui Tolstoj dà voce alle sue esperienze di vita militare, trovando una prima chiara espressione soprattutto nella raccolta dei Racconti di Sebastopoli[12] - dove si riflette quanto egli ebbe modo di osservare sul campo di battaglia durante la Guerra di Crimea, cui prese parte quale ufficiale di artiglieria - e che, dopo aver dato corpo all’ampio affresco di Guerra e Pace[13], trovano la teorizzazione probabilmente più compiuta, specie nella prospettiva del discorso che mi sono proposto di svolgere, nel libro VIII di Anna Karenina[14], pubblicato non senza polemiche nel 1877, allorché la c.d. questione d’Oriente deflagrò nella guerra russo-turca.
Si tratta di idee che Tolstoj ha, dunque, progressivamente maturato nel corso di un ventennio - ed è certo significativo che si tratti di un arco di tempo compreso tra due guerre che ebbero, ed in particolar modo la prima, ripercussioni profonde sulla società russa[15] - e che è allora di estremo interesse provare brevemente a ripercorrere.
3. Lungi dal poter essere classificata, come pure talora si è proposto, alla stregua di una «piccola guerra» - ma sempre ammesso che tale concetto sia legittimamente declinabile, giacché, come notava il duca di Wellington, una guerra non è mai affare di poco conto, sicché ad essa non si adatta una simile definizione - la Guerra di Crimea, svoltasi tra il 1853 e il 1856, che coinvolse alcune delle maggiori potenze dell’epoca ed in cui perse la vita oltre mezzo milione di uomini, ha invece costituito, come è stato scritto da chi più approfonditamente ha provato a indagarne le cause e lo svolgimento[16], ciò che si è avvicinato maggiormente, tra quelle napoleoniche e il primo conflitto mondiale, ad una guerra generale europea, ed ha anzi costituito, per certi versi, la prima guerra moderna.
I tre Racconti di Sebastopoli, apparsi in sequenza su “Il Contemporaneo”, la principale rivista letteraria russa dell’epoca, tra il 1855 e il 1856 e dunque nel pieno del conflitto, possono essere considerati, per molti aspetti, come un vero e proprio reportage dal fronte, tanto vivida è la rappresentazione dei luoghi e delle dinamiche dell’assedio ai bastioni della città, sicché la guerra vi viene rappresentata da Tolstoj in tutta la sua crudezza, senza alcuna retorica o abbellimento, mettendone in luce soprattutto gli orrori.
In questa prospettiva è emblematico già il primo breve racconto, Sebastopoli nel mese di dicembre – fra i tre quello che ricevette i più convinti apprezzamenti, soprattutto per l’afflato intensamente patriottico che vi traspare nel finale[17], tanto che fu lo stesso zar Alessandro II ad ordinarne la traduzione in francese –, dove Tolstoj, nel tratteggiare i diversi angoli della città e gli scenari in cui si svolge il conflitto quali si presentano al visitatore che va alla ricerca della «immagine eroica dei difensori di Sebastopoli», indugia a lungo sulla descrizione dello spettacolo che si presenta a chi abbia i nervi forti abbastanza per addentrarsi nelle stanze della Consulta della città, dove è ubicato l’ospedale da campo:
«Vedrete là dottori con le braccia insanguinate fino al gomito e facce pallide, cupe, all’opera accanto a una branda, su cui a occhi aperti e pronunciando come in delirio parole insensate, talvolta semplici e toccanti, giace un ferito sotto l’effetto del cloroformio. I dottori sono intenti al compito rivoltante ma benemerito dell’amputazione. Vedrete un coltello affilato e ricurvo entrare nel bianco corpo sano; vedrete che con un grido terribile, straziante, e imprecando, il ferito rientra immediatamente in sé; vedrete l’infermiere buttare nell’angolo il braccio amputato; […] vedrete spettacoli terribili, che sconvolgono l’animo; vedrete la guerra, non nella sua forma ordinata, bella e brillante, con la musica e il rullo del tamburo, con le bandiere al vento e i generali caracollanti, bensì la guerra nella sua più schietta espressione: nel sangue, nelle sofferenze, nella morte»[18].
Se è dunque già con il primo racconto della trilogia che Tolstoj mette in luce, seppure sinteticamente, gli aspetti salienti di ogni confitto armato, è tuttavia soprattutto nel secondo, Sebastopoli in maggio, che egli non solo ne delinea il vero volto, ma avvia il processo di riflessione critica che lo porterà, negli anni della definitiva maturità artistica, a denunciare la contrarietà di tutte le guerre ad ogni legge e principio di ordine etico e a mettere a fuoco come la responsabilità del loro svolgimento non siano da ascrivere soltanto al principe, al sovrano o ai governi che di volta in volta le dichiarano, bensì a tutti coloro che si prestano a combatterle, spesso per la sola ambizione di ottenere una medaglia o una decorazione e di scalare i gradini della carriera militare, sicché non sorprende che il racconto abbia subìto, al suo apparire, pesanti interventi dal parte del comitato della censura zarista, che prima tentò di impedirne la pubblicazione su “Il Contemporaneo”, salvo poi dare il suo assenso ma imponendo tali manomissioni e tagli che ne alterarono completamente il significato[19].
Si tratta di aspetti che si colgono con chiarezza sin dal prologo del racconto, dove Tolstoj riflette non solo sul fatto che
«sono passati già sei mesi da quando la prima palla ha sibilato sui bastioni di Sebastopoli, facendo esplodere la terra nelle fortificazioni del nemico e da allora migliaia di bombe, palle e pallottole continuano incessantemente a volare dai bastioni alle trincee e dalle trincee sui bastioni, e l’angelo della morte non ha mai smesso di librarvisi sopra»,
ma anche sul fatto che
«la questione che i diplomatici non hanno risolta, non viene risolta neppure dalla polvere da sparo e dal sangue».
Riflessioni, queste, che lo inducono così provocatoriamente a osservare che
«se è proprio necessario che complesse questioni politiche sorte tra ragionevoli rappresentanti di altre creature dotate di ragione vengano risolte con le armi, allora siano solo due soldati a battersi, e uno assedi la città mentre l’altro la difenda. [….] Che differenza vi è, in effetti, tra un russo che combatte contro un rappresentante degli alleati e ottantamila che combattono contro ottantamila? E perché non centotrentacinquemila che combattono contro centotrentacinquemila? Perché non ventimila contro ventimila? Perché non venti contro venti? Perché non uno contro uno? Nessuna di queste cose è più logica delle altre. L’ultima, viceversa, è la più logica, perché è più umana. Delle due l’una: o la guerra è una follia, oppure se gli uomini compiono questa follia, non sono affatto creature dotate di ragione»[20].
Quella critica che nel prologo è ancora solo accennata diventa, tuttavia, esplicita e chiarissima nel finale del racconto. L’ennesimo assalto al bastione, in cui perde la vita l’alfiere Praskuchin, lascia, infatti, sul campo
«centinaia di corpi, insanguinati di fresco, di uomini che due ore prime erano pieni di speranze e desideri più vari, elevati e meschini, […] centinaia di persone con maledizioni e preghiere sulle labbra secche».[21]
Eppure, la sera dell’indomani, sul corso della città, durante la tregua, i giovani ufficiali, gli junker, i soldati passeggiano festosamente, discorrendo dello scontro del giorno prima, e il filo conduttore della conversazione
«non era l’azione di per sé, ma la parte che chi narrava vi aveva avuto e il coraggio che aveva dimostrato. I visi e la voce avevano una espressione grave, quasi triste, come se le perdite subite nell’azione del giorno prima toccassero profondamente e amareggiassero tutti, ma a dire la verità, dato che nessuno di loro aveva perduto qualcuno di molto caro […], quell’espressione di tristezza era soltanto la maschera ufficiale che essi ritenevano loro obbligo mostrare. Al contrario, Kalugin e il colonello, benché fossero ottime persone, sarebbero stati disposti ad assistere tutti i giorni ad un’azione come quella, se non altro per ricevere ogni volta la sciabola d’oro e il grado di general maggiore. Mi piace quando chiamano mostro un conquistatore che, per soddisfare la propria ambizione, uccide milioni di persone. Ma provate a chiederlo in coscienza all’alfiere Petrusóv, al tenente Antonov e così via; altrettanti piccoli Napoleoni, piccoli mostri subito pronti a battersi, a uccidere un centinaio di persone soltanto per ricevere una stelletta in più o un terzo di paga in più»[22].
Dinnanzi al sibilare dei cannoni, dinnanzi al «sangue onesto e innocente» che viene ogni giorno continuamente versato, dinnanzi a una realtà in cui è obliata «la legge dell’abnegazione e dell’amore» che pure tutti coloro che sono e si dichiarano cristiani dovrebbero professare, la verità che occorre riconoscere e proclamare – per quanto si tratti «di una di quelle verità scomode, che si nascondono inconsapevolmente nell’anima» e che molti allora preferiscono «non propalare perché non nuocciano» - è, dunque, per il giovane Tolstoj, che in guerra finisce per annullarsi definitivamente ogni distinzione «tra l’espressione del male che bisogna evitare e l’espressione del bene che si dovrebbe prendere ad esempio»[23]. Si annulla ogni distinzione tra «chi è l’eroe e chi è il cattivo», perché in una guerra sono tutti gli uomini, qualunque ruolo ricoprano nella gerarchia militare e da qualunque lato combattano, a portare le responsabilità della morte e della distruzione.
4. Le riflessioni suscitate dall’esperienza della Guerra di Crimea che leggiamo nella trilogia su Sebastopoli costituiscono, dunque, un’anticipazione del pensiero più ampio ed articolato che Tolstoj esprimerà nel primo dei suoi due capolavori della maturità, ed anzi tale ne è la consonanza contenutistica non meno che di situazioni che i tre racconti del 1855 ben possono essere considerati, per certi versi, quasi come dei disegni preparatori, degli schizzi della grande epopea di Guerra e Pace, dove Tolstoj riesce a coniugare al più alto livello artistico la riflessione politico-filosofica con la dimensione poetica della narrazione[24].
Si tratta di un aspetto che possiamo cogliere attraverso il percorso di maturazione spirituale, anch’esso a suo modo di redenzione, del Principe Andréj Bolkonskij, in cui, come accade per molti dei protagonisti dei romanzi tolstojani, si colgono i dubbi esistenziali dell’autore. Se infatti al principio Andréj, profondamente insoddisfatto dalla vita coniugale e dalla frivolezza delle occupazioni della società aristocratica, sedotto dal miraggio dell’eroismo e dal fascino esercitato dalla figura di Napoleone vede nella gloria delle armi conseguibile attraverso la carriera militare la sola possibile forma di realizzazione della propria esistenza, con il progredire del racconto, segnato dalle esperienze belliche, egli maturerà una visione ben diversa.
Dalla caduta sul campo di battaglia di Austerlitz, dalla visione di quel «cielo infinitamente alto, con le nuvole grigie che vi strisciavano sopra dolcemente»[25], dominato dal silenzio, dalla quiete e dalla solennità, egli inizierà, infatti, a comprendere la vanità delle idee di gloria e dei valori della vita militare in cui pure, un tempo, aveva creduto:
«in quel momento gli pareva così insignificante tutto quel che interessava Napoleone, il suo stesso eroe gli pareva così piccino, con quella così meschina vanità e gioia per la vittoria a paragone di quell’alto cielo giusto e buono che egli aveva veduto e compreso [….]. Tutto gli pareva così inutile e insignificante a paragone di quella maestosa teoria di pensieri che avevano suscitato in lui l’indebolimento prodotto dalla perdita di sangue, le sofferenze e l’attesa di una prossima morte. Guardando Napoleone negli occhi, il principe Andréj pensava alla vanità della potenza, alla vanità della vita»[26].
L’acquisizione definitiva di tale consapevolezza avverrà, tuttavia, da parte di Andréj, in occasione della battaglia di Borodino, la cui rappresentazione costituisce il momento culminante dove si esprime, attraverso le parole del protagonista, la concezione tolstojana della guerra, che viene condannata moralmente senza riserve e accettata solo come una necessità ineluttabile[27], e poi nei limiti in cui si tratti di guerra in difesa della propria libertà.
Emblematico, in questa prospettiva, è il celebre dialogo tra Andréj e Pierre alla vigilia dello scontro, e soprattutto le riflessioni suscitate nel primo dai commenti di Carl von Clausewitz e degli altri generali prussiani arruolatisi nell’esercito zarista, con le loro concezioni della guerra come un gioco di strategia, simile al gioco degli scacchi, e che allora «non può tener conto della perdita degli individui singoli».
«Non prendere prigionieri. Solo questo cambierebbe tutta la guerra e la renderebbe meno crudele. E invece noi abbiamo giocato alla guerra, questo è il male: noi facciamo i magnanimi e così via. Questa magnanimità e questa sensibilità sono del genere di una signora a cui vien male se vede uccidere un vitello: è così buona che non può vedere il sangue, ma poi mangia con appetito di quel vitello con la salsa. […] Se in guerra non ci fosse questa magnanimità, noi marceremmo solo quando valesse la pena di andare verso una morte certa. Allora non ci sarebbe una guerra perché Pàvel Ivànyc ha offeso Michaíl Ivànič […] e noi non saremmo andati a batterci in Austria o in Prussia senza sapere perché […]. La guerra non è un’amabilità, ma la cosa più brutta della vita, e bisogna capirlo, e non giuocare alla guerra. Bisogna accettare austeramente e seriamente questa terribile necessità. Tutto sta in questo: spogliarsi della menzogna, e che la guerra sia la guerra e non uno scherzo […]. Lo scopo della guerra è la strage; strumenti della guerra sono lo spionaggio, il tradimento e l’istigazione a tradire, la spoliazione degli abitanti, il saccheggio e il furto per approvvigionare l’esercito, l’inganno e la menzogna»[28].
Anche nella riflessione del principe Andréj vi è così la denuncia di quella «verità scomoda» che Tolstoj aveva messo in luce nel secondo racconto della trilogia sull’assedio di Sebastopoli
«E malgrado ciò [quella militare] è la classe più elevata e rispettata da tutti. Tutti i sovrani [..] portano la divisa militare, e a chi ha ucciso più persone danno le maggiori ricompense. Si incontrano, come faranno domani, per uccidersi l’un l’altro, massacrano, stroppiano decine di migliaia di uomini e poi faranno preghiere di ringraziamento per aver ucciso molte persone [..] e proclameranno la vittoria, supponendo che quanta più gente sarà stata ammazzata, tanto maggiore sarà il merito. Come Dio può di lassù vedere e udire tutto questo!»[29]
5. Il radicale ripudio della guerra da parte di Tolstoj si esprimerà, tuttavia, nella sua forma più compiuta dieci anni più tardi, in occasione della pubblicazione dell’ultima parte di Anna Karenina.
Il 1877 è l’anno in cui, come accennato, la c.d. questione d’Oriente, che era stata già all’origine della Guerra di Crimea e che era ritornata di attualità da alcuni anni nell’agenda politica internazionale, come si direbbe con formula moderna, a seguito delle rivolte delle popolazioni slave nei Balcani e soprattutto in Serbia, Bulgaria e Montenegro, condusse allo scoppio del nuovo conflitto tra la Russia e l’Impero ottomano. La dichiarazione di guerra, emanata dallo zar Alessandro II il 24 aprile, se trovava il suo reale movente ancora una volta con l’esigenza, che già era stata la causa della guerra di vent’anni prima[30], di estendere l’influenza russa sul mediterraneo a scapito del decadente grande vicino, trovava tuttavia la sua giustificazione ideologica con la necessità di portare sostegno ai popoli salvi, fratelli nella fede ortodossa e oppressi dalla Sublime Porta.
La questione slava, come venne presto definita, era del resto fortemente sentita da una parte della c.d. intelligencija, gli intellettuali russi dell’epoca, e l’idea della necessità di un intervento militare a sostegno dei fratelli slavi troverà uno tra i più convinti e autorevoli sostenitori in Fëdor Dostoevskij, il quale più volte si pronuncerà pubblicamente in tal senso, come testimoniano le numerose pagine che egli vi dedicò nel Diario di uno scrittore[31], concependo quella guerra come uno dei possibili strumenti di realizzazione della funzione messianica assegnata al popolo russo[32].
A fronte di un dibattito pubblico di tale portata, in cui personalità del calibro di Dostoevskij non esitavano ad affermare che non vi era niente «di più sacro e più puro delle gesta di questa guerra intrapresa dalla Russia», che «così disinteressatamente e sinceramente ha chiamato i suoi figli alle armi per la salvezza e la rinascita dei popoli oppressi»[33], Tolstoj non poteva evidentemente rimanere silenzioso e astenersi dall’esprimere la sua posizione.
Sotto questo profilo l’ultimo libro di Anna Karenina – in cui un ruolo centrale assume la conversazione che si svolge a Pokrovskoe tra Levin, Sergej Ivanovič e il giornalista Katavasov, proprio sul tema della legittimità della guerra russo-turca – costituì un autentico caso editoriale, al punto che il «Messaggero Russo», la rivista che ne aveva pubblicato tutte le precedenti parti, lo rifiutò, in quanto in contrasto con la propria linea editoriale, costringendo così Tolstoj a procedere alla sua pubblicazione come libro a sé. Il volume scandalizzò, infatti, parte degli intellettuali,[34] tanto da ricevere un giudizio severissimo da Dostoevskij, che concluderà le pagine del Diario di uno scrittore dedicate al suo esame[35], in quella che a buon diritto può definirsi come un’autentica articolatissima e lunga recensione[36], tacciando Tolstoj di essere un cattivo maestro[37].
Ma quali erano le ragioni che suscitarono lo sdegno dell’altro grande nume tutelare della letteratura russa? La risposta risiede nel fatto che nell’ultimo libro di Anna Karenina Tolstoj spinge la sua riflessione sulla guerra ben oltre quanto aveva osservato in Guerra e Pace. Se, infatti, nel grande romanzo degli anni Sessanta, pur denunciandone la disumanità e condannandola moralmente, Tolstoj ammette ancora la legittimità della guerra, sia pure in quanto ineluttabile necessità, quando un popolo sia costretto difendere la propria libertà - sicché è ancora possibile cogliere nelle pagine del romanzo una sorta di legittimazione almeno della guerra patriottica, e così leggere anche Guerra e pace, non diversamente dalla ouverture solennelle opera 49 di Čajkovskij, come un inno alla grande vittoria russa del 1812 – dieci anni dopo anche quest’ultimo limite è abbattuto. Tolstoj non crede più al valore e all’idea di patriottismo[38], e soprattutto esclude recisamente che sia mai possibile qualificare una guerra come «giusta», considerando tale definizione alla stregua di un ossimoro.
La serrata conversazione che si svolge tra Levin - «il puro di cuore», come lo definisce Dostoevskij e in cui è fin troppo facile cogliere l’immedesimazione tra autore e personaggio – e i suoi ospiti è, sotto questo punto di vista, davvero esemplare.
Alla tesi di Sergej Ivanovič che rivendica la legittimità dell’intervento militare sostenendo come, indipendentemente dall’esistenza o meno di una legittima dichiarazione da parte del governo (che era l’aspetto da cui aveva preso avvio la discussione a tavola[39]), essa si fondi sulla
«semplice espressione di un sentimento umano e cristiano. Stanno uccidendo i nostri fratelli, gente che ha lo stesso nostro sangue e la stessa nostra fede. E se proprio non vogliamo considerare che sono nostri fratelli e correligionari, consideriamo che fra loro ci sono donne, vecchi e bambini! È lo sdegno a far sì che i russi corrano in loro soccorso affinché l’orrore abbia fine […..] e a offrirsi in sacrifico per i fratelli oppressi[40]»
Levin replica che
«non si tratta solo di offrirsi in sacrifico, ma anche di uccidere i turchi [….] Il popolò si immola e si immolerà sempre per la propria anima, ma non per la morte altrui»[41].
Al pari di Tolstoj, infatti, anche Levin
«non poteva tollerare che […] un gruppetto di persone, e suo fratello con loro, si arrogasse il diritto di esprimere a voce e sulla carta stampata, la volontà e il pensiero del popolo, un pensiero che si incarnava nella vendetta e nella morte. Non poteva tollerarlo perché non li coglieva, quei pensieri, né fra il popolo né dentro di sé (che di quel popolo si considerava parte), e soprattutto perché né lui né il popolo sapevano – o potevano sapere – in che cosa consistesse il bene comune; ma sapevano, invece, che per ottenerlo era necessario attenersi scrupolosamente alla legge che è a ciascuno rivelata. Per questo Levin non poteva desiderare la guerra, né alla guerra poteva chiamare, a qualunque scopo fosse intesa»[42].
L’antitesi con la concezione espressa da Dostoevskij nelle pagine del Diario che «non sempre è necessario predicare soltanto la pace» e che «non soltanto nella pace a qualunque costo è la salvezza, ma talvolta anche nella guerra»[43] non potrebbe essere più evidente.
6. Le riflessioni sulla guerra svolte da Tolstoj nella sua produzione artistica tra il 1855 e il 1877, e il suo approdo alle conclusioni, in qualche modo ultime e definitive, espresse in Anna Karenina sono, mi sembra, di grande aiuto per provare a sciogliere gli interrogativi che ci tormentano in questi mesi.
Le pagine tolstojane ci dimostrano, senza incertezze, come sia impossibile ricercare, di fronte ai limiti strettissimi della «guerra legale», una «giusta causa che consenta pur sempre, al di fuori di principi del diritto positivo e in assenza di una consuetudine legittimante, di darle almeno una giustificazione morale[44]. Le parole di Tolstoj disvelano l’ipocrisia che si nasconde dietro l’evocazione della «guerra giusta», anche quando a suo fondamento vengano invocate le reiterate violazioni dei diritti umani. Esse ci dimostrano, infatti, con chiarezza che l’individuazione della c.d. giusta causa di guerra è il frutto di valutazioni unilaterali, per lo più arbitrarie e discrezionali degli Stati che la intraprendono – ed è eloquente, nella drammatica contingenza che stiamo vivendo, che pur di giustificare un’azione che è in palese violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale il concetto della «giusta causa» sia stato invocato persino dalla Russia, con il richiamo all’esigenza di procedere alla denazificazione dell’Ucraina e alla difesa delle popolazioni russofone, con argomenti e accenti che appaiono così quasi riproporre quelli della guerra combattuta negli stessi territori centocinquant’anni fa[45].
Ma le parole di Tolstoj soprattutto ci disvelano - con il richiamo di Levin al fatto che «non si tratta di offrirsi in sacrificio ma si tratta di uccidere i turchi» - che nessuna guerra, anche se intesa allo scopo di tutelare i diritti umani, può mai realmente essere condotta «iusto modo». Se infatti, come nota il principe Andréj, «l’essenza della guerra è la strage» anche una guerra motivata con il più nobile degli ideali di tutela dei diritti umani non può che risolversi, inevitabilmente, proprio nella negazione e nell’annichilimento di quello che, al di là delle possibili diverse concezioni che nella storia possano affermarsi[46], è indiscutibilmente il più alto e universale di tali diritti: il diritto alla vita[47].
La lezione che possiamo trarre dalla lettura della narrativa tolstojana è tuttavia anche altra. Il monito che cogliamo dalle sue pagine – a conferma dell’intuizione di Ascarelli quanto alla necessità per il giurista, dinnanzi alle questioni fondamentali dell’esistenza umana, di appellarsi «ai saggi, e ancora prima che agli studiosi, ai poeti»[48], il che val dire appunto alla letteratura – e a non cedere alla tentazione di nascondersi dietro la «magia delle parole», per riprendere un’altra celebre espressione ascarelliana.
Parlare, come oggi si fa, di interventi di sostegno militare limitati all’invio soltanto di «armi difensive» - oppure parlare, come avveniva ai tempi della prima guerra del Golfo, di uso di «bombe intelligenti», capaci di colpire solo le installazioni militari e non le infrastrutture civili – e ancora ricorrere a locuzioni, anche nei testi e provvedimenti normativi, come «operazioni di polizia internazionale» ovvero di «conflitto armato» è solo, in fondo, un modo obliquo per nascondere quella «verità scomoda» di cui più volte ci ha parlato Tolstoj[49]. L’aggiunta di simili aggettivi non toglie, infatti, alle armi la loro essenza di strumenti di morte e distruzione, quale che ne siano le modalità e i limiti di impiego, così come l’uso di perifrasi per indicare le forme di intervento militare contro altri Stati e altri popoli non fa venire meno, quando essi siano destinate, com’è inevitabile, a provocare morte e distruzione, l’essenza stessa della guerra, sicché, quand’anche si dovessero ritenere esistenti i presupposti per affermare che la messa a disposizione di armi o altre forme di sostegno militare ad un paese coinvolto in un evento bellico costituiscano, in un dato contesto, delle opzioni ammissibili per il nostro ordinamento giuridico, non basta avvalersi semplicemente di tali locuzioni per escludere che di partecipazione alla guerra pur sempre si tratti, e quindi la necessità di un coinvolgimento e di un ruolo del parlamento nell’assunzione di tali decisioni[50].
Perché, ed anche questo è un insegnamento che dobbiamo alla letteratura, «What’s in a name? That which call a rose, by any other name would smell as sweet»[51].
* Testo dell’intervento svolto il 27 aprile 2022 nell’ambito dei seminari “Guerra e speranza nel diritto e nella letteratura” del Corso di Diritto e Letteratura del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II.
[1] Il riferimento è a M. Dogliani, Il divieto costituzionale della guerra, in www.costituzionalismo.it, fascicolo 1/2003. Ma per un’ampia disamina del tema si veda soprattutto G. de Vergottini, Guerra e costituzione (Nuovi conflitti e sfide alla democrazia), Bologna, 2004
[2] In questo senso V. Onida, Guerra, diritto, costituzione, in Il Mulino, 1999, p. 958 ss.
[3] Sul tema, oltre ampiamente a M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste, Bari, 2009, passim, cfr. anche B. Conforti, Guerra giusta e diritto internazionale contemporaneo, in Rassegna parlamentare, 2003, p. 11 s.
[4] Riprendo una osservazione di T. Ascarelli, Dispute metodologiche e contrasti di valutazione, già in Riv. trim dir. e proc. civ., 1953, p. 873 ss., successivamente in Saggi giuridici, Milano, 1955, p. 467 ss., in specie p. 479.
[5] Come scriveva Balzac in Des Artistes, pubblicato su La Silhouette nel 1832 (lo si può leggere in Ouvres diverses, II, Paris, 1996, p, 707 ss., in specie p. 713).
[6] È l’interrogativo che si pone A. Kokobobo, How should Dostoevsky and Tolstoy be read during Russia’s war against Ukraine?, in www.theconversation.com.
[7] Sulla dimensione epica della narrativa tolstojana si vedano gli scritti di György Lukács: Teoria del romanzo (1920), Milano, 1999, p. 49 ss. e soprattutto l’ancora oggi fondamentale studio del 1935, Tolstoj e l’evoluzione del realismo, in Saggi sul realismo3, Torino, 1976, p. 170 ss.; sul tema ampiamente anche G. Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, Milano, 1995, passim.
[8] In particolare, nel saggio Guerra e rivoluzione, pubblicato nel 1906 in Francia a causa della censura zarista all’indomani della guerra russo-giapponese. L’edizione italiana, a cura di Roberto Coaloa, è stata pubblicata soltanto nel 2015, da Feltrinelli
[9] Un cristianesimo dichiaratamente antiecclesiastico e che nel 1901 gli costerà la scomunica della chiesa ortodossa.
[10] Sul tema cfr. R. Coaloa, Lev Tolstoj, tra guerra, pace e rivoluzione. Alla scoperta del profeta di Jasnaja Poljana, in appendice a Guerra e rivoluzione, cit., p. 135 ss.; su questi temi anche E. Amadio, La legge della nonviolenza (Il pensiero di Tolstoj e la sua influenza sul pacifismo britannico (1847-1920), Saarbrücken, 2016, passim.
[11] Una svolta che è lo stesso Tolstoj a raccontarci in La confessione, pubblicato nel 1882. Per alcuni aspetti del profilo biografico e per l’analisi dell’evoluzione del suo pensiero, cfr. P. Citati, Tolstoj, Milano, 1996; H. Gifford, Tolstoj, Bologna, 2003.
[12] I racconti di Sebastopoli si possono leggere, nella traduzione di Bruno Osimo, in Lev Tolstoj, Tutti i racconti a cura di Igor Sibaldi, nella collana I meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991, volume I, p. 170 ss., da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono.
[13] Le citazioni che si proporranno nel testo saranno tratte dalla oramai classica edizione pubblicata in due volumi da Einaudi nel 1942, traduzione di Enrichetta Carafa D’Andria e prefazione di Leone Ginzburg.
[14] Che si può leggere nella edizione, sempre di Einaudi, traduzione di Claudia Zonghetti e con prefazione di Natalia Ginzburg.
[15] Proprio la sconfitta militare fu, infatti, una delle principali cause che condurrà alla epocale riforma del 1861 consistita nell’abolizione della servitù della gleba.
[16] Mi piace ricordare che uno degli studi italiani maggiormente approfonditi sulla Guerra di Crimea, e soprattutto sul ruolo giocato dal Regno di Piemonte, si deve in realtà a un giurista, ed anzi proprio a un giuscommercialista: mi riferisco a P. G. Jaeger, Le mura di Sebastopoli (Gli italiani in Crimea 1855-1856), Milano, 1991.
[17] «La principale convinzione» - così scrive Tolstoj nel concludere il racconto, riportando le impressioni dell’ipotetico visitatore della città - «è che sia impossibile prendere Sebastopoli […] ma questa impossibilità voi l’avete ravvisata non nella moltitudine di traverse, di terrapieni, di trincee, di mine e cannoni […], ma l’avete vista negli occhi, nei discorsi, nei modi, in quello che si chiama lo spirito dei difensori di Sebastopoli. […] Voi capirete dunque chiaramente [che] quegli uomini [..] hanno elevato il loro spirito e si sono preparati alla morte, non per la città ma per la patria. Per lungo tempo resteranno in Russia le tracce di questa epopea, di cui è stato eroe il popolo russo» (p. 186 s.)
[18] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 177: i corsivi sono miei.
[19] Tanto da suggerire alla redazione di pubblicarlo in forma anonima, senza neppure le iniziali di Tolstoj, proprio perché gli interventi erano stati di tale portata da tradire nel complesso il pensiero del suo autore. Sulla travagliata storia della pubblicazione della prima edizione del racconto cfr. le note al testo dell’edizione edita per I meridiani, cit., p.1181 s.
[20] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 187 s.
[21] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 234
[22] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 235 s. (il corsivo è mio).
[23] I racconti di Sebastopoli, cit., p. 242 s
[24] Un chiarissimo esempio in tal senso mi sembra costituito dal capitolo XXXVII della seconda parte del Libro III, in quella che è una tra le scene più commoventi ed alte di tutto il romanzo: la scena in cui, dopo essere stato falciato dall’artiglieria francese durante l’assalto nella battaglia di Borodino, il principe Andréj viene trasportato presso l’improvvisato ospedale da campo, dove in occasione delle medicazioni incrocerà il suo sguardo con quello di Anatole Kuràghin, l’uomo che aveva drammaticamente spezzato le sue ultime speranze e illusioni di felicità, e a cui era stata appena amputata una gamba. La scena riprende, evidentemente, le immagini e le situazioni delle sale della Consulta di Sebastopoli, con la curda rappresentazione degli interventi dei medici che amputano gli arti dei feriti; ma mentre nel racconto giovanile si tratta ancora solo di una rappresentazione obiettiva di uno scenario di guerra, per quanto di estrema drammaticità, e dunque, in definitiva, di un approccio ancora quasi cronachistico, in Guerra e Pace quelle immagini e quell’ambientazione diventano lo sfondo in cui si realizza il momento sublime della definitiva illuminazione del protagonista: «Egli si ricordava adesso il legame che esisteva fra lui e quell’uomo che lo guardava con sguardo appannato attraverso le lacrime che gli empivano gli occhi gonfi. Il principe Andréj si ricordò tutto, e una pietà, un amore fervente per l’uomo colmò il suo cuore felice […] “Compassione, amore per i fratelli, amore per chi ci ama, amore per chi ci odia, amore per i nemici; sì quell’amore che Dio ha predicato sulla terra e che mi insegnava la principessina Marja e io non comprendevo”» (Guerra e pace, cit., p. 957).
[25] Guerra e pace, cit., p. 325
[26] Guerra e pace, cit., p. 339
[27] In questo senso cfr. anche Pier Cesare Bori, nell’Introduzione al romanzo per l’edizione Einaudi, cit. p. XLVIII
[28] Guerra e pace, cit., p. 911
[29] Guerra e pace, cit., p. 912
[30] Cfr. ancora P.G. Jaeger, Le mura di Sebastopoli, cit., p. 4 s.
[31] Si tratta della rivista, da lui integralmente redatta, che Dostoevskij dette alle stampe tra il 1873 e il 1881. Lo si può leggere nell’edizione italiana curata da Ettore Lo Gatto (cui si deve anche la traduzione), Bompiani, Firenze, 2017.
[32] L’idea di Dostoevskij era, infatti, - così scriveva nel secondo fascicolo del gennaio 1877 - che «Ogni popolo crede e deve credere, se vuole restare a lungo in vita, che in lui è racchiusa la salvezza del mondo, e che vive per essere alla testa dei popoli, attrarli tutti a sé insieme e portarli in un coro armonico, a uno scopo definitivo a loro tutti predestinato.» (Diario di uno scrittore, cit., p. 739).
[33] Diario di uno scrittore, cit., 858 s.
[34] Anche parte della critica ha espresso delle riserve sull’ultimo libro di Anna Karenina, ritenendo poco felice l’innesto di un tema prettamente politico e di attualità in un romanzo che rappresenta, se volessimo utilizzare una terminologia balzachiana, scene della vita privata, e che oltretutto, da questo punto di vista, ha già raggiunto l’acme con la morte della protagonista. Ma per una lettura che respinge l’idea che l’ottava parte del romanzo esprima già il sopravvento del Tolstoj «predicatore» e «pubblicista» rispetto al «romanziere», e che sottolinea, invece, l’intima coerenza dei temi trattati anche nell’ottica dello sviluppo della psicologia dei personaggi cfr. G. Steiner, Tolstoj o Dostoevskij, cit., p. 106 ss.
[35] Cfr. Diario di uno scrittore, cit., p 1003-1047
[36] A dispetto dell’intenzione di «non lasciarsi andare alla critica dei letterati contemporanei» (Diario di uno scrittore, cit., p. 976)
[37] «Uomini come l’autore di Anna Karenina» - scrive Dostoevskij (Diario di uno scrittore, cit., p. 1047) - «sono maestri della società, nostri maestri e noi loro allievi. E che cosa ci insegnano?». Per una spiegazione delle ragioni più profonde del progressivo cambio di atteggiamento di Dostoevskij, culminato nelle critiche sempre più severe alla narrativa tolstoiana, cfr. R. Vassena, Dostoevskij, Tolstoj e la battaglia per la “parola nuova”, in Studi slavistici, III, (2006), p. 143 ss.
[38] Concetto che attaccherà poi frontalmente, definendolo come sentimento «cattivo e dannoso» in quanto «causa dei rovinosi armamenti e delle guerre nefaste», nel saggio del 1900 Patriottismo e governo (pubblicato in Italia – con il sottotitolo «per un umanesimo della pace» - nel 1991, Lungro di Cosenza, C. Marco editore)
[39] La discussione viene, infatti, introdotta, di fronte all’esaltazione di Sergej Ivanovič del movimento spontaneo di volontari che partono per la Serbia (e tra i quali è anche Vronskij,c he non ha oramai più nulla da chiedere alla vita dopo la morte di Anna), dalla provocatoria osservazione del vecchio principe, il suocero di Levin, su «chi ha mai dichiarato la guerra ai turchi? Ragozov, la contessa Lidija e madame Stahl?»; al che segue allora l’obiezione di Sergej Ivanovič che non occorre una dichiarazione espressa perché «la gente capisce quanto soffre il prossimo e vuole essergli di aiuto», e la conseguente replica di Levin che, essendo la guerra «una cosa talmente tremenda, crudele e bestiale, nessun essere umano, e tanto meno un cristiano, dovrebbe personalmente farsi carico di dichiararla. E un onere che spetta i governi, che, se costretti, non possono evitarlo» (Anna Karenina, cit., p. 872).
[40] Anna Karenina, cit., pp. 873 e 877
[41] Anna Karenina, cit., p. 877; il corsivo è mio.
[42] Anna Karenina, cit., p. 877 s., corsivi miei
[43] Diario di uno scrittore, cit., p. 860.
[44] Come rileva opportunamente G. de Vergottini, Guerra e costituzione, cit., p. 119 ss., in tanto si spiega, rispetto ad una guerra da intraprendere, il tentativo di recuperare il concetto di «guerra giusta», in quanto questa si pone evidentemente al di fuori del concetto di «guerra legale», ossia di «guerra già ammessa dall’ordinamento», altrimenti il primo concetto risolvendosi interamente nel secondo.
[45] Negli argomenti avanzati pubblicamente dagli esponenti dell’establishment russo traspare, infatti, anche un profilo “identitario” che si poneva già allora e che sembra oggi in qualche modo riemergere. Mi riferisco al tema espresso proprio da Dostoevskij in molte pagine del Diario di uno scrittore, e che attiene alla questione dell’identità slava del popolo russo, del rapporto tra la Russia e l’Europa e al paventato rischio di una subalternità della prima rispetto alla seconda. In questo senso è particolarmente significativa la riflessione che leggiamo nel gennaio 1877 nel Diario, dal titolo «Noi in Europa siamo soltanto dei poveracci» (p. 744 ss.) dove, nell’interrogarsi criticamente su cosa fosse stato «ottenuto» dopo due secoli di progressivo avvicinamento tra società e cultura russa e società e cultura europea, Dostoevskij osservava che si trattava di «strani risultati[..] Tutti in Europa ci guardano ironicamente, e con altezzosa condiscendenza [..] Gli europei non hanno voluto considerarci dei loro a nessun costo […] e quanto più, per acquistare le loro grazie, abbiamo disprezzato la nostra nazionalità, tanto più essi hanno disprezzato noi» (p. 746).
[46] In questo senso F. Viola, Pace giusta e guerra giusta (Luci e ombre del diritto internazionale contemporaneo), in Rivista di diritto costituzionale (Associazione “Gruppo di Pisa”), 2003, p. 212 ss., in specie p. 239 ss.
[47] Per una riflessione analoga, sulla base della considerazione che, indipendentemente dal problema dell’uso delle armi nucleari, la forza distruttiva delle moderne armi convenzionali è oggi tale che una guerra, pur giusta per la causa, non potrebbe mai essere condotta giustamente cfr. F. Viola, Pace giusta, cit., p. 242.
[48] T. Ascarelli, Antigone e Porzia, in Problemi giuridici, I, Milano, 1959, p. 3.
[49] Nel dovere verso la verità, che per Tolstoj sin dal secondo dei Racconti di Sebastopoli prevale anche sui doveri verso la patria, sembra quasi leggersi un’anticipazione del monito che Benedetto Croce rivolgerà agli uomini di ingegno e agli artisti durante la Grande Guerra (e si veda, sul tema, ampiamente C. Nitsch, La feroce forza delle cose (Etica, politica e diritto nelle Pagine sulla guerra di Benedetto Croce), Napoli, 2020, p. 34 ss.
[50] Per un’ampia disamina, condotta attraverso l’indagine comparatistica, della questione della competenza ad assumere decisioni sull’impiego della forza armata in ambito internazionale nel quadro del nostro ordinamento costituzionale, e per una prospettiva in definitiva non troppo lontana da quella esposta nel testo – ossia nel senso che pur rientrando tali decisioni, di regola, nella sfera di competenza dell’esecutivo, è comunque necessario attivare l’intervento parlamentare almeno per le «iniziative di maggiore spessore», ossia quelle che «tendano assumere carattere di guerra» - G. de Vergottini, Guerra e costituzione, cit., p. 295 ss.
[51] William Shakespeare, Romeo and Juliet, Act II, scene 2, 43-44
Tre premesse sulla circolazione probatoria delle intercettazioni·
di Roberta Aprati
Sommario: 1. Prima premessa. Le Sezioni Unite Cavallo: un precedente autorevole ma non vincolante per le sezioni semplici. – 2. Seconda premessa. La prevedibilità della base legale e l’interpretazione del nuovo art. 270 c.p.p. alla luce della soft law: il “principio di precauzione” in “assenza” di precedenti della Corte di cassazione. – 3. Terza premessa. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 270 c.p.p.: uno strumento in via di ridimensionamento. - 4. Una critica all’interpretazione restrittiva dell’art. 270 c.p.p. - 5. Una proposta di interpretazione estensiva dell’art. 270.
1. Prima premessa. Le Sezioni unite Cavallo: un precedente autorevole ma non vincolante per le sezioni semplici.
L’art. 270 c.p.p. disciplina la circolazione probatoria dei risultati delle intercettazioni di comunicazioni e di conversazioni, o meglio, ne sancisce il divieto.
Si è al cospetto di una delle disposizioni del codice di più difficile interpretazione e il legislatore ha pensato bene di modificarla[1]: eppure anziché agevolarne la lettura, la novella l’ha complicata ulteriormente.
Facciamo un passo indietro.
Dalla disposizione – invero sia ieri sia oggi - si ricavano tre precetti:
- il “divieto generale” di uso delle intercettazioni nei “procedimenti diversi” da quello in cui sono state autorizzate;
- le “deroghe al divieto” e dunque l’uso eccezionale dei risultati delle registrazioni nei “procedimenti diversi” da quello in cui sono state disposte;
- infine, il “normale uso” delle intercettazioni nel “medesimo procedimento” in cui sono state legittimamente attivate.
Ma questo non basta, perché solo dall'individuazione del significato di “procedimento diverso” e, a contrario, di “medesimo procedimento” si può ricavare la portata operativa della disposizione. E la Corte di cassazione aveva provveduto – prima della riforma - a definire i due fondamentali concetti con la nota pronuncia “Cavallo”[2].
Ebbene, semplificando al massimo, per la Corte di Cassazione a Sezioni Unite le intercettazioni si usano normalmente – ossia senza che si configuri alcuna circolazione probatoria - sia per i reati indicati nel decreto di autorizzazione, sia per i reati che emergano dalle conversazioni i quali siano però connessi ai primi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. e sempreché siano intercettabili ai sensi dell’art. 266 c.p.p. Questo era dunque il significato assegnato al concetto di “stesso procedimento”.
Si è poi precisato, a contrario, che è vietato l’uso – e dunque divieto di circolazione probatoria - per i reati ulteriori: e tali sono sia i reati non connessi rispetto a quelli autorizzati, sia i reati connessi ma non intercettabili. Praticamente l’inutilizzabilità investe qualunque informazione che risulti dalle registrazioni e che attenga a reati ulteriori – secondo l’accezione appena indicata – rispetto a quelli per cui era stato concesso il provvedimento. Questo era dunque il significato assegnato al concetto di “procedimento diverso”.
Infine, la Corte ha chiarito che se l’esito della intercettazione riguardi delitti per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, è consentito l’uso nei procedimenti diversi – e dunque circolazione probatoria autorizzata - prescindendo da qualsivoglia legame con i reati oggetto del decreto di cui all’art. 267 c.p.p. e senza che rilevi la circostanza che siano o meno intercettabili.
Su tale assetto è intervenuto il legislatore.
Ma riuscire a capire oggi quale sia il significato dell’art. 270 c.p.p., così come riformulato dalla legge 28 febbraio 2020 n. 7, appare impresa assai complessa[3].
La ragione è sempre la medesima: l’utilizzo nella disposizione dell’espressione “procedimento diverso”. Sebbene il legislatore non sia intervenuto sullo specifico punto, essendo il controverso sintagma rimasto invariato rispetto all’originaria formulazione[4], l’aver modificato la sola seconda parte della disposizione (attraverso l’inserimento della frase “e dei reati di cui all’art. 266 comma 1 c.p.p.”) rimette in gioco comunque il senso del controverso concetto.
Ma non solo. Invero il novello riferimento nell’ultima parte del comma 1 dell’art. 270 c.p.p. “ai reati intercettabili” impone di ritenere che la celebre pronuncia delle Sezioni Unite Cavallo non possa più essere considerata “un principio di diritto delle Sezioni unite” ai sensi dell’art. 618, comma 1 bis, c.p.p.
Il ritocco al campo applicativo della deroga al divieto di circolazione delle intercettazioni in procedimenti diversi, fa sì che a cascata debba essere riletta sia la portata generale di tale divieto, sia l’estensione della normale possibilità di usare le registrazioni nello stesso procedimento.
Le tre regole – “utilizzabilità nel medesimo procedimento”, “inutilizzabilità nei procedimenti diversi”, “deroghe a quest’ultima inutilizzabilità” si integrano a vicenda: il confine dell’una dipende dal confine delle altre due e viceversa. Sicché le Sezioni Unite Cavallo sono oggi una “autorevole” pronuncia, a cui bisognerà sicuramente rapportarsi; ma le Sezioni semplici che volessero mutare orientamento, potrebbero farlo autonomamente, senza dover rimettere obbligatoriamente la questione di fronte alle Sezioni unite.
2. Seconda premessa. La prevedibilità della base legale e l’interpretazione del nuovo art. 270 c.p.p. alla luce della soft law: il “principio di precauzione” in “assenza” di precedenti della Corte di cassazione.
È noto: la Costituzione assegna a ogni giudice il compito di interpretare le disposizioni.
Si tratta di un potere diffuso ex art. 101, comma 2, Cost.: ciascun giudice allora potrebbe leggere il nuovo testo dell’art. 270 c.p.p. diversamente.
E oggi, ancor più di ieri, sull’art. 270 c.p.p. si potrebbe dire tutto e il contrario di tutto. L’operazione volta a ricavare dalla disposizione la nuova norma, ovverosia la regola giuridica da applicare, potrebbe portare - qui come non mai - a risultati completamente differenti, se non addirittura opposti: tutto dipende dalle premesse che di volta in volta si scelgano di porre alla base del ragionamento giuridico
Tuttavia, qualsiasi interpretazione si voglia sostenere “oggi”, “domani” sarà comunque destinata a fare i conti con quanto dirà la Corte di cassazione: la funzione “dell’esatta interpretazione” della legge è riservata nel nostro ordinamento ad essa (art. 65 Ord. giud.).
Al momento la Suprema Corte non si è ancora pronunciata sul tema; e tuttavia nel mentre i processi si stanno svolgendo: l’art. 270 c.p.p. nella sua nuova formulazione si sta applicando a tutti i procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato dal 1° settembre 2020[5].
Siamo quindi tutti in attesa, come sospesi.
Se la Corte di cassazione dovesse allontanarsi dall’interpretazione seguita dai giudici di merito nelle “more” del suo autorevole intervento, si rischierebbe di vanificare il lavoro che hanno fin qui svolto, perché è noto: per le sentenze della Corte di cassazione non vale il principio di irretroattività.
Detto in altre parole, ad oggi non esiste ancora un diritto giurisprudenziale sul nuovo art. 270 c.p.p., e nel sistema non vige il divieto di applicazione retroattiva dell’interpretazione che fornirà la Cassazione qualora non dovesse coincidere con quella scelta dai giudici di merito prima del momento in cui essa si pronuncerà. Sicché la Corte di cassazione sarà destinata a prevalere.
In questo caso però non siamo di fronte a un “mutamento giurisprudenziale”, ma piuttosto a un’“assenza di giurisprudenza”, situazione che da un certo punto di vista è ancora più problematica, in quanto “meno indagata”.
Da qualche anno – in riferimento alle “regole processuali” civili, amministrative e da ultimo penali - si è iniziato a discutere sulla necessità di limitare nel tempo l’applicazione dell’overruling al fine di tenere indenne la parte dalle conseguenze che implicherebbe, sul piano processuale, l’applicazione del nuovo principio di diritto[6]. Le pronunce della Corte di cassazione che diano vita a un mutamento giurisprudenziale non dovrebbero applicarsi né al caso specifico (in occasione del quale la Cassazione ha dato vita al rinnovamento interpretativo), né agli altri processi decisi dai giudici di merito sulla base dell’orientamento fino a quel momento espresso dalla Corte di cassazione, ma solo a condizione che vi sia stato un incolpevole affidamento sulla stabilità del precedente poi invece mutato[7].
Questo non vuol dire che il brocardo tempus regit actum possa significare che la “legge del tempo è quella interpretata dalla Cassazione nel momento in cui viene applicata dal giudice di merito”. Qui è esclusivamente la necessità di tutelare il non colpevole affidamento che giustifica la temporanea “disapplicazione” della nuova interpretazione nel caso considerato. Per questo motivo tale tecnica viene definita come un “prospective overruling all’italiana”[8]. Non si è arrivati a sostenere che in via generale l’overruling dovrebbe applicarsi solo per il futuro, e quindi solo ai casi decisi successivamente all’intervento innovativo della Corte di legittimità, come se si fosse in presenza di una vera e proprio modifica normativa.
In osservanza a tale impostazione - ormai consolidata nel processo civile[9] e in quello amministrativo[10] – la Corte di cassazione penale ha fatto proprio il principio, ma non è ancora arrivata a qualificare come imprevedibile un particolare mutamento giurisprudenziale: nei singoli casi concreti portati alla sua attenzione ha sempre ritenuto prevedibile l’overruling e dunque colpevole l’affidamento sul precedente poi rovesciato[11].
La questione è alla ribalta anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Qui l’accento viene messo sulla necessità della “prevedibilità della base legale”[12] su cui si legittimano le interferenze degli Stati sui diritti fondamentali dell’uomo tutelati dalla Convenzione. Si allarga allora la prospettiva: il problema riguarda tanto il diritto processuale quanto il diritto sostanziale[13]. E anche per la Corte europea è solo il “mutamento giurisprudenziale imprevedibile” che impedisce di conoscere il precetto e dunque di adeguarsi ad esso, e non già il “mero mutamento”[14]. Gli Stati non possono limitare in maniera “inaspettata” e “improvvisa” la sfera dei diritti dell’uomo tutelati dalla Convenzione, così che l’overruling imprevedibile non si può applicare in pregiudizio del titolare del diritto[15].
Ma - ripetiamolo - ancora non si è affrontato il tema dell’“assenza di giurisprudenza”, ovverosia delle ipotesi in cui, al cospetto di una novella legislativa, la quale fisiologicamente richiede il trascorrere di qualche anno prima che arrivi all’attenzione della suprema Corte, nei giudizi di merito si decida in base a una interpretazione poi smentita dai primi interventi della Cassazione.
Proprio in questa ottica va letta l’enorme produzione, oltre che di letteratura scientifica, di soft law, ovverosia di documenti di natura interpretativa (e dunque non normativi) che sono stati predisposti in questi tre anni: tutte le Procure della Repubblica hanno dato delle indicazioni, così come l’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione.
C’è una corale partecipazione all’individuazione dell’esatta interpretazione dell’art. 270 c.p.p. per arrivare ad anticipare, “predire” quello che la Corte di cassazione dirà.
Ma c’è anche “molta prudenza”, circolano per lo più interpretazioni restrittive, come se – giustamente - non si volesse rischiare e si preferisse riservare alla Corte di cassazione eventuali letture più ampie della nuova disposizione.
In definitiva appare questa la ragione fondamentale per la quale nei documenti predisposti si sostiene che la novella ha solo ristretto il campo applicativo della deroga al divieto di circolazione probatoria nei procedimenti diversi, ora riferibile a reati che permettano l’arresto obbligatorio in flagranza e - nel contempo - l’attività di intercettazione.
In pratica si sta suggerendo l’applicazione del c.d. “principio di precauzione”[16].
Volendo proiettarsi ancora più lontano nel tempo, ovverosia verso quello che succederà quando si moltiplicheranno gli interventi della Corte di cassazione sul tema, si pone l’ulteriore il problema di evitare “contrasti giurisprudenziali”. Perché per la Corte edu vi è mancanza della base legale anche nel caso di conflitti sincronici della giurisprudenza delle Supreme Corti. L’incertezza interpretativa dovuta all’esistenza di conflitti giurisprudenziali gravi e perduranti equivale ad assenza della base legale allo stesso modo dell’imprevedibile mutamento giurisprudenziale[17].
Da questo punto di vista, sarebbe necessario un “immediato” intervento delle Sezioni unite per dare da subito stabilità alla nuova regola che scaturisce dall’art. 270 c.p.p. A tal fine il Primo Presidente potrebbe rimettere alle Sezioni unite la questione, in quanto di particolare importanza ex art. 610, comma 2, c.p.p. In alternativa potrebbero muoversi le sezioni semplici ex art. 618 comma 1 c.p.p. proprio al fine di prevenire possibili conflitti interpretativi.
Invero, sul tema appare necessaria una più meditata e ponderata decisione.
Il testo dell’art. 270 c.p.p. è oggettivamente oscuro e interpretabile in mille modi diversi. Di fronte a dati normativi così complessi è sempre auspicabile una riflessione corale, tutti devono essere messi nelle condizioni di esprimersi sul punto. Ma soprattutto occorre “tempo”: le prime letture spesso trascurano dati e non valutano tutte le conseguenze e implicazioni. Ed è questa una situazione fisiologica e non patologica.
Non a caso la modifica dell’art. 618 c.p.p. ha voluto proprio “procedimentalizzare” il modo attraverso cui si arrivi alla pronuncia delle Sezioni unite dotata di efficacia vincolante orizzontale[18] attraverso la valorizzazione della “partecipazione”. Quest’ultima viene realizzata attraverso una sorta di dialogo fra i giudici di merito, le sezioni semplici e le sezioni unite, oltreché le parti processuali[19]. Le Sezioni unite non si esprimono dall’alto e in solitudine, ma dal basso e coralmente, dopo che ciascuno ha proposto la sua lettura, in ossequio anche all’art. 101, comma 2, Cost.
E proprio per potenziare ancora di più la partecipazione, uno strumento da inserire nel “protocollo” da cui scaturiscono le decisioni delle sezioni unite potrebbe essere quello dell’art. 47 quater r.d. 30 gennaio 1941 n 12[20], oggi entrato nella motivazione di due sentenze della Corte di cassazione[21]: le riunioni preliminari convocate dal Presidente di sezione al fine di favorire lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione[22]. In tal modo, non solo si prevengono contrasti all’interno delle singole sezioni, ma soprattutto si facilita quel dialogo che è alla base della scelta della migliore interpretazione da proporre poi alle sezioni unite qualora nasca un contrasto fra le diverse sezioni.
3. Terza premessa. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 270 c.p.p.: uno strumento in via di ridimensionamento.
La caratteristica che maggiormente spicca nelle letture che si sono date all’art. 270 c.p.p., prima e dopo la riforma del 2020, è lo straordinario uso dell’interpretazione costituzionalmente orientata.
La ragione è ovvia: le intercettazioni toccano direttamente l’inviolabile diritto alla riservatezza delle comunicazioni. È normale che la norma debba essere cucita su misura intorno all’art. 15 Cost.
Alla luce dell’ampio dibattito che in questi anni si sta sviluppando intorno ai limiti dell’interpretazione costituzionalmente orientata[23], sorge però il dubbio della correttezza dell’impiego così disinvolto di tale strumento ermeneutico.
Ci si sta infatti interrogando su quanto il giudice comune, rispetto al giudice costituzionale, possa forzare l’interpretazione per rendere le norme conformi alla Costituzione.
E sul tema la Corte costituzionale sta facendo dei significativi – e anche inaspettati - passi indietro[24], dopo che invece aveva spinto sull’acceleratore[25], quasi costringendo i giudici comuni a fare ricorso a tale metodo interpretativo anche a costo di stravolgere il significato ricavabile letteralmente delle disposizioni. In pratica si stavano autorizzando i giudici comune a riscrivere i testi normativi[26].
Ci si è resi conto che, così facendo, il controllo di costituzionalità si sta trasformando in un controllo diffuso e non più accentrato di fronte alla Corte costituzionale[27]: “l’onere di interpretazione conforme operato dalla Consulta è il primario fattore interno della tangibile crisi che il controllo accentrato di costituzionalità attualmente attraversa”.
Questo non esclude che l’interpretazione costituzionalmente orientata rimanga un criterio interpretativo primario per ricavare dalla disposizione la norma, né fa cadere la sua configurazione come parametro di ammissibilità per sollevare le questioni di legittimità costituzionale.
Ma il giudice comune non deve - così ci sta dicendo la Corte costituzionale[28] - andare oltre un’interpretazione basata comunque sul testo delle disposizioni: non può più sostituirsi al legislatore “creando nuove norme”[29].
Se la conformità alla Costituzione dipende dalla scelta fra più soluzioni comunque compatibili con il dato letterale, si può e si deve percorrere la via dell’interpretazione conforme. Ma se l’unico modo per rendere una certa norma fedele alla Costituzione impone di allontanarsi dagli ordinari strumenti ermeneutici sì da travalicare “l’orizzonte di senso che il testo è in grado di esprimere”[30], allora si deve dare il passo alla Corte costituzionale, perché, altrimenti, il sistema si trasformerebbe in un controllo diffuso di legittimità costituzionale[31].
Ebbene, non appare del tutto infondato ritenere che rispetto all’art. 270 c.p.p. sia accaduto e stia accadendo proprio questo, e che dunque sia necessaria una sorta di ripensamento su come la disposizione possa essere nel suo complesso interpretata alla luce – ovviamente - della Costituzione.
4. Una critica all’interpretazione restrittiva dell’art. 270 c.p.p.
Da più parti si afferma che il nuovo art. 270 c.p.p. ha solo delineato diversamente la portata dell’unico caso di deroga al divieto di circolazione delle intercettazioni nei procedimenti diversi. Si è aggiunto un ulteriore requisito, con la conseguenza che si è ristretta la classe dei casi in cui è eccezionalmente consentita la circolazione probatoria. Ora essa è individuabile nei risultati delle intercettazioni riferibili ai delitti per i quali è consentito l’arresto obbligatorio in flagranza e che siano nel contempo intercettabili ai sensi dell’art. 266 comma 1 c.p.p.[32].
Se questa fosse la corretta interpretazione della nuova disposizione, assai agevolmente si potrebbe ritenere che le Sezioni Unite Cavallo non richiederebbero alcuna rivisitazione[33].
Il sistema della circolazione probatoria avrebbe così una sua logica e una sua coerenza: tanto nello stesso procedimento quanto nel diverso i risultati delle intercettazioni potrebbero essere usati con il “contagocce”.
E la differenza fra le due situazioni sarebbe blandamente individuabile dal diverso regime di ammissibilità: giudizio negativo nello stesso procedimento, giudizio positivo nel diverso (così come rafforzato dalla novella).
Nello stesso procedimento si utilizzerebbero le intercettazioni riferibili, oltre che a reati per cui sia stata concessa l’autorizzazione, anche a quelli ad essi connessi e nel contempo astrattamente intercettabili ai sensi dell’art. 266 c.p.p., e l’ammissibilità sarebbe regolata dall’art. 190 c.p.p. (quindi tutte ammissibili tranne quelle manifestamente irrilevanti e superflue).
Nel diverso procedimento si utilizzerebbero solo i risultati relativi a delitti “obbligatoriamente arrestabili” e “astrattamente intercettabili ex art. 266 comma 1 c.p.p.”, e l’ammissibilità sarebbe regolata da un vaglio più stretto di positiva rilevanza e indispensabilità (quindi ammissibili solo se pertinenti e non sovrabbondanti)[34]. Si tratta di una regola, d’altronde, già prevista in altre ipotesi nel nostro sistema (per l’integrazione probatoria in udienza preliminare, per i poteri istruttori del giudice in dibattimento, per la rinnovazione istruttoria in appello). Essa trova la sua giustificazione, qui come negli altri casi già regolati, nella circostanza che, potendo già essere state ammesse nel diverso procedimento altre prove, la valutazione sulla rilevanza e superfluità andrà effettuata utilizzando anche queste come termine di relazione del vaglio di ammissibilità e non solo la mera imputazione.
In tal modo poi si risolverebbe finalmente quella “incoerenza” della norma segnalata da più parti[35]. Nel passato si permetteva l’impiego delle registrazioni rispetto a delitti per i quali era invece previsto un divieto assoluto di intercettazione, in quanto non contemplati dall’art. 266 comma 1 c.p.p., essendo sufficiente il loro inserimento fra i delitti per i quali era prevista la possibilità dell’arresto obbligatorio (come ad esempio gli artt. 13, comma 13 ter, e 10 comma 2 quinques, T.U. Immigrazione). Tutto ciò ora non sarebbe più consentito.
Tuttavia, tale interpretazione si fonda sulla correzione del testo, ci si è distaccati del tutto dal significato letterale della disposizione[36].
In italiano “di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’art. 266 comma 1” può voler indicare solo due distinte categorie.
In italiano si usano altre parole per indicare una “specificazione”, non ci possono essere dubbi su questo.
Eppure si ritiene che questa debba essere la corretta interpretazione, altrimenti la norma risulterebbe contraria alla Costituzione[37].
Si sottolinea che va ribadito il principio espresso dalla Sezioni Unite Cavallo, secondo cui l’art. 15 Cost. introduce il principio di tassatività dell’attività intercettativa (meglio sarebbe invero dire la “legalità in senso stretto” del sistema delle intercettazioni)[38]: è sempre vietato intercettare le conversazioni o comunicazioni, tranne nei casi previsti dalla legge[39].
Da tale principio costituzionale deriverebbe come conseguenza – come corollario - che nemmeno il legislatore potrebbe autorizzare, pena l’illegittimità costituzionale della norma, l’utilizzazione dei risultati “casualmente intercettati” se anche questi non rientrino all’interno della categoria dei reati per cui è comunque consentita la registrazione. Vi dovrebbe cioè essere una “corrispondenza biunivoca” fra “reati intercettabili” e “uso dei risultati”, pena la illegittimità costituzionale.
In tal modo si giustifica tanto l’assetto delle Sezioni Unite Cavallo – da confermare quindi alla luce della novità normativa - tanto la nuova e più ristretta ipotesi di deroga al divieto di circolazione probatoria.
Si è dunque al cospetto di un’interpretazione costituzionalmente orientata, nella quale sia rispetto allo stesso procedimento, sia rispetto ai diversi procedimenti, si opera una manipolazione del testo legislativo, senza però passare dinnanzi alla Corte costituzionale.
5. Una proposta di interpretazione estensiva dell’art. 270.
Proviamo allora a seguire una diversa strada interpretativa.
Se si valorizzasse il dato testuale del nuovo art. 270 c.p.p., che è chiaro e univoco e non consente margini di scelta, le eccezioni al divieto di circolazione probatoria in altri procedimenti sarebbero due: tanto i delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, quanto per i reati che siano intercettabili[40].
Ma allora si porrebbe il problema di rivedere del tutto le Sezioni Unite Cavallo, perché il sistema non sarebbe altrimenti coerente.
Se sono utilizzabili nei procedimenti diversi le registrazioni relative sia ai reati per cui è consentita l’intercettazione ex art. 266 comma 1 c.p.p., (a prescindere quindi da qualsivoglia legame con il reato specificatamente autorizzato), sia ai delitti in cui non è invece consentita in assoluto l’attività di captazione ma è legittimo l’arresto obbligatorio, diventa assai complicato sostenere che nel medesimo procedimento si possano impiegare solo i risultati che riguardino reati nel contempo connessi e intercettabili. Perché nello stesso procedimento, in cui vi è un libero utilizzo, vi sarebbe una preclusione assai più forte che nel procedimento diverso, dove invece c’è un divieto. E tale disomogeneità non può certo ritenersi compensata dalle due diverse regole relative al regime di ammissibilità (negativo e più allentato nello stesso procedimento, positivo è più tirato nel diverso procedimento).
Facciamo un passo indietro
Norberto Bobbio[41] ci ha spiegato che spesso una regola, nel nostro caso il divieto di uso delle intercettazioni in altri procedimenti, nasce senza deroghe. E in effetti nel 1974 trova la sua genesi l’art. 226 quater comma 8 c.p.p. Rocco, il quale vietava in assoluto di usare le intercettazioni nei procedimenti diversi da quelli in cui erano state raccolte[42].
Poi, con lo scorrere del tempo – ci spiega ancora Bobbio - la regola viene affiancata da una prima deroga. Nel nostro caso nel 1978 si riconosce la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni in altri procedimenti a condizione che si riferissero a reati per cui era previsto il mandato di cattura obbligatorio (art. 226 quater comma 6 c.p.p. Rocco)[43]. La medesima eccezione viene confermata dall’attuale codice, ma diviene ovviamente – nella prima formulazione dell’art. 270 c.p.p. – “delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”.
Dopodiché è fisiologico che le deroghe piano piano aumentino ancora. Nel nostro caso con la riforma del 2020 si è aggiunta un’ulteriore eccezione al divieto: “i reati per cui è consentita l’intercettazione”.
La conclusione di tale percorso, sempre secondo Norberto Bobbio, è l’inversione della disciplina: le deroghe diventano la regola, la regola diviene la deroga. Se allora le eccezioni al divieto di utilizzazione nei procedimenti diversi sono ora due e sono così ampie, si potrebbe provocatoriamente affermare che le intercettazioni circolano normalmente negli altri procedimenti, a meno che abbiano ad oggetto “reati non intercettabili” o “reati non arrestabili”. Insomma, si potrebbe capovolgere il senso della norma.
Di fronte ad un così esteso utilizzo negli altri procedimenti, nello stesso procedimento diviene necessaria una più altra soglia di utilizzabilità. Se già tutti i reati in astratto intercettabili circolano nei procedimenti diversi, e in alcuni casi anche i non intercettabili, nello stesso procedimento “almeno” i non intercettabili dovrebbero essere usati in maniera più larga rispetto a quelli per cui è previsto l’arresto.
Da ciò consegue che il controverso principio di diritto delle Sezioni Unite Cavallo, secondo cui nello stesso procedimento si possono usare solo i risultati delle intercettazioni che siano intercettabili ex art. 266 c.p.p. (lasciamo per ora fuori il requisito della connessione) dovrebbe essere superato[44].
La nuova norma non consentirebbe più tale conclusione, non solo si forzerebbe il dato letterale, ma si costruirebbe anche un sistema privo di logica e coerenza.
Dalla nuova disposizione, allora, va ricavato che nello stesso procedimento i risultati delle registrazioni dovrebbero essere utilizzabili, a prescindere dalla circostanza che riguardino reati astrattamente intercettabili.
Se poi si continuasse ad affermare che dal principio di stretta legalità delle intercettazioni ex art. 15 Cost. derivi il necessario corollario del divieto assoluto di usare i risultati rispetto a reati che non sono intercettabili[45], per superare l’interpretazione appena proposta sarebbe necessario sollevare una questione di legittimità costituzionale[46].
La lettera della disposizione, così come la coerenza di essa, impongono di ritenere che non possa ricavarsi dall’art. 270 c.p.p. una corrispondenza biunivoca fra reati astrattamente autorizzabili ex art. 266 c.p.p. e informazioni utilizzabili, se non a costo di scavallare il limite dell’interpretazione costituzionalmente orientata così come ridelineata oggi dalla corte costituzionale. Senza contare che ad oggi la Corte costituzionale non ha mai affermato l’esistenza di tale binomio irriducibile.
Verifichiamo ora se debba o meno essere superato anche l’altro principio di diritto delle Sezioni Unite Cavallo, quello che ha individuato nel concetto di stesso procedimento l’insieme dei reati connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. a quelli per cui è stata concessa l’autorizzazione a intercettare.
In via generale, sempre per garantire coerenza alla nuova norma, se nel diverso procedimento possono circolare tutti i reati intercettabili, a prescindere da qualsivoglia legame processuale o sostanziale con i reati per i quali è consentita l’intercettazione, all’interno del medesimo procedimento i legami che uniscono i diversi reati dovrebbero essere più blandi rispetto a quelli configurati dalla Corte di Cassazione. Sicché si dovrebbe escludere tanto una conferma del principio di diritto delle Sezioni unite[47], quanto una sua rivisitazione più restrittiva[48].
Al fine di verificare la praticabilità di un siffatto percorso esegetico, occorre svolgere lo sguardo alle storiche pronunce della Corte costituzionale (quella del 1973[49], quella del 1991[50] e quella del 1994[51]), perché proprio su di esse si è fondato l’assetto giurisprudenziale della Corte di cassazione sulla disciplina della circolazione prima della riforma del 2020.
Franco Cordero avrebbe osservato che le sentenze, anche quelle della Corte costituzionale, non sono il Talmud. Occorre insomma molta attenzione nel riprendere quanto affermato nelle motivazioni delle decisioni della Corte costituzionale per giustificare successive interpretazioni costituzionalmente orientate. E lo stesso ci sta dicendo oggi la Corte costituzionale[52].
Nel 1973 la Corte costituzionale invitava a valorizzare – per rispettare l’art. 15 Cost. - il dato codicistico della motivazione, richiedendone analiticità e precisione. Inoltre, si spingeva a sostenere che nel processo potessero essere usati solo i risultati rilevanti[53].
Ma nel codice Rocco all’epoca era previsto ben poco: né parametri, né presupposti, né modalità attuative, né selezione dei materiali, né tanto meno una disciplina volta a tutelare la riservatezza delle registrazioni irrilevanti.
Si era di fronte ad un dato normativo scarno e praticamente inesistente: il comma 4 dell’art. 266, c.p.p. Rocco, introdotto nel 1955[54], richiedeva soltanto che le intercettazioni dovessero essere autorizzate da un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. E prima di tale intervento gli artt. 266, comma 3, e 339 c.p.p. Rocco permettevano senza limiti e condizioni di sorta l’impiego dello strumento. La sentenza del ‘73 in pratica sollecitava il legislatore ad introdurre una disciplina più analitica, e nelle “more” indicava di attenersi alle due implicazioni necessarie derivanti dall’art. 15 Cost.: una motivazione seria, e l’utilizzo esclusivo del materiale processualmente utile. Tanto basta a giustificare e capire le sue parole.
Una legge organica interviene finalmente nel 1974[55] (interpolata poi nel 1978[56]): si introduce una specifica e dettagliata disciplina delle intercettazioni, che viene nel 1989 recepita nel nuovo codice.
La Corte costituzionale solo nel 1991 e nel 1994 viene chiamata ad occuparsi direttamente del problema del divieto di circolazione probatoria nei diversi procedimenti. Ed essa, per delineare il confine fra ciò che è consentito e ciò che non lo è, riprende le motivazioni della sentenza del ‘73, ricavandone tuttavia argomenti e conseguenze non necessarie.
Nel ‘91 viene fatto il primo passaggio: ci si interrogava se l’art. 270 c.p.p. ricomprendesse nel divieto anche le notizie di reato emerse dalle registrazioni.
Qui la Corte, negando tale estensione, allarga molto il discorso rispetto a quanto richiesto, quasi formulando un obiter.
Prima ribadisce quando scritto nella sentenza del 1973: per intercettare (ovverosia per registrare) ci deve essere una motivazione nella quale siano indicati bersagli e reati; inoltre si possono usare solo le informazioni rilevanti processualmente (a tutela della privacy ovviamente).
Dopodiché passa a dire - innovando rispetto al ‘73 - che l'art. 15 della Costituzione, «oltre a garantire la “segretezza” della comunicazione e, quindi, il diritto di ciascun individuo di escludere ogni altro soggetto diverso dal destinatario della conoscenza della comunicazione - tutela pure la “libertà” della comunicazione: libertà che risulterebbe pregiudicata, gravemente scoraggiata o, comunque, turbata ove la sua garanzia non comportasse il divieto di divulgazione o di utilizzazione successiva delle notizie di cui si è venuti a conoscenza a seguito di una legittima autorizzazione di intercettazioni al fine dell'accertamento in giudizio di determinati reati».
Da tale premessa si trae allora la seguente conseguenza che «l'utilizzazione come prova in altro procedimento trasformerebbe l’intervento del giudice richiesto dall'art. 15 della Costituzione in un'inammissibile “autorizzazione in bianco”, con conseguente lesione della “sfera privata” legata alla garanzia della libertà di comunicazione e al connesso diritto di riservatezza incombente su tutti coloro che ne siano venuti a conoscenza per motivi di ufficio».
Infine arriva alla conclusione: «Dalla tutela della “libertà” di comunicazione deriva dunque che, in via di principio, è vietata l’utilizzabilità dei risultati di intercettazioni validamente disposte nell'ambito di un determinato giudizio come elementi di prova in processi diversi, per il semplice fatto che, ove così non fosse, si vanificherebbe l'esigenza più volte affermata da questa Corte che l'atto giudiziale di autorizzazione delle intercettazioni debba essere puntualmente motivato nei sensi e nei modi precedentemente chiariti».
In pratica per la Corte costituzionale il divieto di uso in altri procedimenti si salda non già con la tutela della “segretezza”, ma piuttosto della “libertà” di comunicazione, intesa anche come diritto a non essere turbati dalla possibilità dell’uso processuale illimitato di quanto possa essere stato captato. Di qui la necessità di limitare tale turbamento, circoscrivendo nei diversi procedimenti l’uso dei risultati delle intercettazioni[57].
Nel 1994 la Corte costituzionale riprende i medesimi argomento, e li utilizza per affermare che un eventuale uso senza limiti dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti sarebbe una inammissibile autorizzazione in bianco lesiva del diritto alla libertà delle comunicazioni. E quindi conclude che deve rimanere il divieto di circolazione di cui all’art. 270 c.p.p., ferma la possibilità di prevedere delle specifiche deroghe, che spetta al legislatore individuare ragionevolmente
Poi tutto tace, fino a quando la Corte di cassazione nel 2020 si pone il problema di delineare il campo di applicazione dell’uso nello “stesso procedimento”, e non già nel diverso, come avevano fatto le sentenze della Corte costituzionale del 1991 e 9194.
E qui il medesimo argomento utilizzato della Corte costituzionale per giustificare il divieto di uso nei “procedimenti diversi” viene speso dalla Corte di cassazione per giustificare il ridotto regime di uso delle intercettazioni nell’ambito dello stesso procedimento, come se le due situazioni siano identiche.
Si ribadisce infatti che il diritto inviolabile della “libertà” delle comunicazioni, non vuol dire solo “divieto di impedirle”, ma anche diritto di non “essere turbati nelle conversazioni”. Tale turbamento deriverebbe dalla consapevolezza, in capo a ciascuno, sulle conseguenze di un’eventuale intercettazione: tutto quello che si dirà sarà processualmente utilizzabile.
Dopodiché si ritiene che sia necessario contenere tale turbamento, limitando il normale uso dei risultati delle intercettazioni solo a ciò che è oggetto del provvedimento motivato, altrimenti vi sarebbe un’inammissibile autorizzazione in bianco. Si viene così a profilare un “binomio” fra reati indicati nel provvedimento di autorizzazione e uso processuale delle informazioni[58]
Da questo deriva che il significato di “stesso procedimento” deve essere trovato nell’esistenza di un “legame sostanziale” fra il reato oggetto dell’autorizzazione e le informazioni che si raccolgono e che non attengono al reato autorizzato: si deve trattare di informazioni relative a reati connessi. In tal modo è come se il decreto di autorizzazione si riferisca anche a questi perché, a ben vedere, i reati connessi costituiscono un tutt’uno, e come se fossero dal punto di vista del diritto sostanziale un unico reato. In tal modo si circoscrive quel turbamento, contenuto essenziale della libertà delle conversazioni
Ebbene, la Corte costituzionale nel ‘91 e nel ‘94 ha detto chiaramente che il legislatore può scegliere se impedire l’uso dei risultati delle intercettazioni negli altri procedimenti in via assoluta, come aveva fatto nella prima formulazione della norma, - o in via relativa, introducendo delle ragionevoli deroghe. Ma il trasportare il medesimo principio nello stesso procedimento appare operazione non corretta dal punto di vista esegetico. Se il principio spiega le ragioni del divieto probatorio, non può nei medesimi termini spiegare l’uso probatorio. Lo stesso principio non può nel contempo giustificare due regole opposte, e la Corte costituzionale non a caso si era preoccupata di sottolineare nel 1994 come con la questione sollevata «si mirava in sostanza a ottenere una trasformazione dell'ordinamento normativo tale da permettere la piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nell'ambito di procedimenti penali diversi da quello per il quale le stesse intercettazioni sono state validamente autorizzate». Come se desse per scontata una piena utilizzabilità nei medesimi procedimenti.
Inoltre, in via pregiudiziale appare quanto meno controvertibile l’obiter dictum della Corte costituzionale del ‘91, secondo cui esiste il “diritto al non turbamento”, inteso come diritto al non utilizzo di informazioni rilevanti penalmente perché ciascuno deve essere “libero” di conversare non temendo che quello che dirà potrà essere usato per reati diversi da quello per cui sono state autorizzate le intercettazioni. Obiter poi ripreso dalla Cassazione per giustificare l’interpretazione dell’espressione “stesso procedimento”.
Questo diritto non esiste per la Corte edu, per la quale è necessaria la “prevedibilità della base legale” su cui si fonda l’interferenza dell’Autorità nel diritto fondamentale di cui all’art. 8 Cedu, prevedibilità intesa come esistenza di una regola giuridica conoscibile; nonché la possibilità di un controllo successivo, volto a verificare che non ci sia stato un abuso dell’autorità. E il nostro ordinamento già soddisfa tali condizioni[59]. Ma certo non è questo un argomento dirimente, potendo ben essere alzate le soglie delle garanzie della Convenzione.
Inoltre, guardando al diritto interno, tal modo di intendere il diritto alla libertà delle conversazioni, di fatto introdurrebbe anche nello stesso procedimento una sorta di diritto al silenzio extraprocessuale[60], superiore a quello previsto per le dichiarazioni processuali dell’indagato, perché si estenderebbe anche a ciò che proviene da terzi estranei a profili personali di responsabilità e che invece sono solo depositari di informazioni che hanno ricevuto su fatti penalmente rilevanti. Senza contare che rispetto al terzo è davvero difficile immaginare un turbamento legato alla possibilità che circolino informazione che non lo riguardino personalmente.
Appare piuttosto che il divieto di circolazione probatoria nei diversi procedimenti sia espressione del principio del fair play, da intendere come scelta dello Stato di non ricorrere a metodi sleali[61]. Se ci si imbatte in una “notizia di reato inaspettata”, usando dei mezzi particolarmente insidiosi come le intercettazioni che vanno a toccare l’inviolabile diritto alla segretezza delle comunicazioni, è espressione di lealtà comportamentale utilizzare l’informazione esclusivamente come ipotesi da verificare, e non già nel contempo come ipotesi e conferma probatoria dell’ipotesi.
È però consentito, secondo ragionevolezza, individuare delle eccezioni.
Ed è ragionevole derogare a tale regola per i reati particolarmente allarmanti. E questi sono tanto quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio, quanto quelli per cui è possibile ricorrere alle intercettazioni.
Ma nessun comportamento contrario al fair play è configurabile quando indagando su qualcosa si finisce, secondo l’id quod plerunque accidit, per scoprire qualcos’altro: non quindi per fatalità, ma per una normale conseguenza. Man mano che si svolgono delle indagini su una certa ipotesi criminosa è fin troppo scontato reperire prove relative ad ulteriori ipotesi criminose legale alle prime[62].
E tale evenienza si verifica allo stesso modo tanto rispetto alle informazioni relative a reati connessi, quanto rispetto a quelle relative a reati collegati ex art. 371 comma 2 lett. b) e c) c.p.p.
Da questo punto di vista non sono rinvenibili differenze significative: la “massima di esperienza” che ci dice che “indagando su un qualunque reato si trovano prove relative anche al reato commesso per occultarlo” è identica alla “massima di esperienza” che ci dice che “indagando su un qualunque reato si scovano anche prove relative al reato commesso per conseguirne il profitto”. Ma esiste anche la massima di esperienza che ci dice che “quando una persona è a conoscenza dell’avvenuto compimento di due reati, se parla di uno, conversando con terzi, evocherà anche l’altro”.
Nessuna delle ipotesi regolate nel collegamento probatorio è qualificabile come evenienza imprevedibile dal punto di vista “processuale e investigativo”.
Proviamo allora a valorizzare il c.d. diritto tabellare, inteso in senso lato come l’insieme della disciplina tanto delle tabelle giudicanti, quanto dei progetti organizzativi delle procure[63].
Come è noto nei progetti organizzativi si stabiliscono le modalità attraverso cui le singole notizie di reato vengono assegnate ai “singoli” magistrati del p.m. e sono previste delle regole generali e delle deroghe.
In quasi tutti i progetti organizzativi approvati nell’ultimo triennio[64], la regola generale prevede che le notizie di reato sono attribuite per materia al Gruppo di lavoro corrispondente, e poi con “assegnazioni automatiche” ogni singola notizia è affidata ad uno dei magistrati facente parte del gruppo (in conformità all’art. 1 comma 4 lett. b) e c), d.lg. 206 del 2006).
I procedimenti che invece esulano dalle competenze dei Gruppi sono assegnati direttamente ai singoli magistrati, sempre attraverso meccanismi automatizzati che distribuiscono i carichi di lavoro via via a tutti i pubblici ministeri dell’ufficio in misura identica (in conformità all’art. 1 comma 4 lett. c), d.lg. 206 del 2006).
Poi ci sono le deroghe a tali regole.
La prima è quella che permette “l’assegnazione personale” al procuratore capo o a singoli magistrati, in base ad esigenze predeterminate (in conformità all’art. 2 comma 1 d.lg. 206 del 2006).
La seconda viene denominata “assegnazione per precedente” (in conformità all’art. 1 comma 4 lett. b) prima frase, d.lg. 206 del 2006): tutte le notizie di reato che riguardano reati connessi (ex art. 12 c.p.p.) o comunque collegati [ex art. 371, comma 2, lett. b) e c) c.p.p.] ad una “precedente notizia di reato” già assegnata ad un determinato p.m. sono affidati a quest’ultimo. Non importa se poi ci sarà la riunione dei procedimenti o rimarranno separati, il dato significativo è la “trattazione unitaria”, ovverosia la titolarità in capo al medesimo p.m.
Si tratta di una regola di efficienza processuale, ma anche strategica.
Le “relazioni fattuali” che esistono fra i vari reati, anche nel caso in cui siano indifferenti dal punto di vista sostanziale, assumono un “rilievo processuale” fondamentale: occorre conoscere tutto il materiale probatorio, perché le prove dell’uno avvalorano o escludono la ricorrenza dell’altro e viceversa; è poi necessaria una valutazione unitaria dei passi investigativi da compiere per ciascuno di essi, perché un successo investigativo sull’uno si irradia sull’altro, così come un passo falso sull’uno a cascata si riversa sull’altro; inoltre, è opportuna una ponderazione congiunta sulle scelte relative all’esercizio dell’azione.
Potremmo allora ipotizzare che il concetto di “stesso” e “diverso” procedimento si basi sull’esistenza o meno della “trattazione unitaria”, valorizzando così il dato della titolarità in capo al medesimo p.m., che a sua volta si fonda sulla connessione o sul collegamento fra le diverse notizie di reato di cui è competente una certa Procura della Repubblica.
Siffatta ricostruzione non esclude che si possano comunque colpire eventuali abusi, e a tal fine appare necessario distinguere due diverse situazioni: una “occulta” elusione del fair play sindacabile ex art. 271 c.p.p. e una “palese” violazione del fair play sindacabile ex art. 270 c.p.p.
Un conto è il caso in cui un singolo magistrato formuli una legittima richiesta di intercettazione per un determinato reato, mirando invece ad intercettare un ulteriore fatto non ricompreso nell’art. 266 comma 1 c.p.p., o ancora privo di una qualche soglia probatoria, perché solo ipotizzato.
La situazione è agevolmente qualificabile come un abuso del diritto[65]: c’è un impego sfunzionalizzato del mezzo investigativo[66]. E ormai da tempo sono previste varie tipologie di reazioni rispetto ad analoghe evenienze[67], dunque anche qui si potrebbe ipotizzare che intervenga una sanzione processuale, basata sull’effettivo pregiudizio [68], per violazione del fair play.
A tal fine basterebbe l’inutilizzabilità dell’art. 271 c.p.p., perché - anche se non apparentemente - sono comunque assenti le condizioni (in via di fatto o in via di diritto) per richiedere l’autorizzazione.
Un analogo sindacato, proprio ai sensi dell’art. 271 c.p.p., già viene eseguito dalla Cassazione nell’ipotesi in cui, a causa della “diversa qualificazione” giuridica del “medesimo fatto” alla fine dell’inchiesta, si passi da un reato intercettabile ad uno che non lo sia. In questi casi occorre verificare se al momento in cui era stata richiesta l’autorizzazione già esistevano gli elementi per qualificare l’ipotesi criminosa nel modo in cui si è proceduto solo alla conclusione dell’indagine e, quindi, abusivamente[69].
Allo stesso modo, le intercettazioni sono inutilizzabili se sono state eseguite proprio per registrare conversazioni relative a “ulteriori fatti” non qualificabili giuridicamente in una delle ipotesi criminose indicate dall’art. 266 c.p.p., ovvero se sono state disposte perché già si ipotizzavano come esistenti ulteriori fatti, ma ancora non vi era la disponibilità di indizi. In definitiva l’art. 271 c.p.p. è idoneo a ricomprendere al suo interno anche il caso in cui il mezzo di ricerca della prova sia strumentalizzato per cercare - non importa se esclusivamente o meno - informazione su “fatti ulteriori e aggiuntivi” rispetto a quelli indicati nella richiesta e nel decreto di autorizzazione.
Qualcosa di molto simile è oggi in procinto di essere introdotto: il sindacato sulla correttezza della data di iscrizione della notizia di reato, con conseguente inutilizzabilità dei risultati investigativi compiuti fuori del temine come retrodatato a seguito del controllo[70].
Occorrerebbe dunque analizzare il complessivo quadro indiziario raccolto nel momento in cui è stato chiesto il provvedimento – ora per allora – al fine di verificare la ricorrenza di tali circostanze abusive. Si deve quindi andare oltre l’analisi delle risultanze investigative relative ai reati per cui invece è stata richiesta l’autorizzazione: non si fa un vaglio sui reati autorizzati, che probabilmente lo sono stati legittimamente, ma su quelli che non compaiono nell’ordinanza. E proprio questo permette di qualificare il sindacato come un controllo sull’abuso del diritto.
Diverso è il caso in cui ci si imbatta accidentalmente in informazioni che esulano dalle ipotesi criminose oggetto dell’autorizzazione, senza che siano state fraudolentemente ricercate.
In questa circostanza tutto ciò che riguarda reati privi di qualsivoglia “legame processuale” con il reato bersaglio deve essere trasmesso al p.m. competente (nella stessa procura o in una diversa). E qui ai sensi dell’art. 270 c.p.p. l’informazione va qualificata come notizia di reato e non può essere usata come prova. E l’eventuale “palese” violazione del precetto è colpita dall’inutilizzabilità (a meno che non ricorrano le deroghe codificate che ne autorizzano il pieno impiego probatorio).
Ebbene, se si volessero mettere insieme tutte le suggestioni proposte, dal nuovo testo dell’art. 270 c.p.p. si potrebbe ricavare che nel medesimo procedimento - ovvero nei procedimenti assegnati al medesimo magistrato del p.m. - si usano i risultati delle intercettazioni relativi ai reati autorizzati e ai reati connessi o collegati a quelli autorizzati; di contro nei procedimenti diversi - ovverosia trattati da magistrati del p.m. diversi - vi è il divieto di circolazione probatoria, a meno che i risultati delle intercettazioni attengano a delitti per cui è consentito l’arresto in flagranza di reato o a reati per cui è ammissibile l’intercettazione ex art. 266 c.p.p.
Se questo possa essere un modo per raggiungere un ragionevole bilanciamento fra la tutela della riservatezza delle comunicazioni, le esigenze di accertamento dei reati e la configurazione di un giusto ed equo processo, senza stravolgere il dato letterale della disposizione, sarà la Corte di cassazione a dirlo, ma intanto ci si è uniti alle voci di tutti coloro che sono impegnati a “predire” la futura giurisprudenza della Cassazione e a partecipare a quella “cultura del dialogo” da cui poi nascono i principi di diritto parzialmente vincolanti delle Sezioni unite.
· Il presente lavoro è destinato alla pubblicazione nei Quaderni della Scuola Superiore della Magistratura, “Intercettazioni di comunicazioni e tabulati” - Corso di formazione Cod. P22021, Scandicci - 14 -16 marzo 2022. Si ringrazia il Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura per aver acconsentito all’anticipazione dello scritto.
[1] Con la legge 28 febbraio 2020 n. 7, l’art. 270 c.p.p. oggi prevede che «i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’art. 266 comma 1».
[2] Sez. U, 28 novembre 2019 - 2 gennaio 2020, n. 51, Cavallo, in C.E.D. Cass. n. 277395, secondo cui «in tema di intercettazioni, il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 c.p.p., a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata “ab origine” disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p.». Sulla pronuncia v. F. Alvino, Bene captum, male retentum: riflessioni in merito all’art. 270 c.p.p., in materia di circolazione endoprocedimentale delle intercettazioni e a margine delle Sezioni Unite Cavallo, in magistraturaindipendente.it; Gius. Amato, Procedimenti diversi, permangono dubbi nonostante le S.U., in Guida dir., 2020, f. 13, p. 45; M.S. Chelo, Divieto di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi: le Sezioni Unite scelgono la via garantista, in Proc. pen. e giust., 2020, f. 4; G. Illuminati, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: le Sezioni unite ristabiliscono la legalità costituzionale, in Sistema pen., 2020, 30 gennaio 2020; A. Innocenti, Le Sezioni Unite limitano l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per la prova di reati diversi da quelli per cui sono state ab origine disposte, in Dir. pen. e proc., 2020, f. 7, p. 993; K. Natali, Sezioni unite e “Legge Bonafed”: nuove regole per l'uso trasversale delle intercettazioni, in Cass. pen., 2020, p 187; A. Natalini, Uso obliquo dei flussi: vaglio d'ammissibilità sempre necessario, in Guid. dir., 2020, f. 6, p. 79; M. Mannucci, Prime osservazioni alla sentenza delle Cassazione Sezioni Unite Penali n. 51 del 28.11.2019, in Giur. pen. web, 26 gennaio 2020; G. Pecchioli, Intercettazioni e “diverso procedimento”: le Sezioni unite sull'annoso nodo gordiano, in Giur. it., 2020, f. 6, p. 1503; C. Santoriello, Esistono vincoli all’interpretazione delle norme processuali penali? Brevi riflessioni sollecitate da una decisione delle Sezioni unite in tema di intercettazioni, in Arch. pen., 2020, f. 17.
[3] Sulla nuova disposizione v. F. Alvino, La circolazione delle intercettazioni e la riformulazione dell’art. 270 c.p.p.: l’incerto pendolarismo fra regola ed eccezione, in Sist. pen., 2020, f. 5, 248 ss.; F. Cassiba, In difesa dell’art. 15 Cost.: illegittima la circolazione delle intercettazioni per la prova di reati diversi, in Giur. pen. web, 2020 (6); L. Cusano - E. Piro, Intercettazioni e videoregistrazioni, Giuffrè, 2020; G. De Amicis, Il regime della “circolazione” delle intercettazioni dopo la riforma, in Giustizia insieme, 22 febbraio 2020; C. Parodi - N. Quaglino, La nuova fisionomia delle intercettazioni (d.l. 30 dicembre n. 161, conv. con modif. L. 28 gennaio 2020, n. 7), Giuffrè, Milano, 2020; A. Pasta, Le lenti del formalista e i silenzi del legislatore. Sull’utilizzazione delle intercettazioni per l’accertamento di reati diversi, in Arch. pen., 2020, f. 2; E. Valentini, Il rompicapo senza fine: le arcane trasformazioni dell’art. 270 c.p.p., in Revisioni normative in tema di intercettazioni, a cura di G. Giostre, R. Orlandi, Giappichelli, Torino, 2021, p. 279 ss.; F. Vanorio, Il permanente problema dell’utilizzo delle intercettazioni per reati diversi tra l’intervento delle Sezioni unite e la riforma del 2020, in Sistema pen., 2020 (6), p. 181.
[4] Ex plurimis G. Illuminati, Utilizzazione delle intercettazioni, cit., p. 4.
[5] Sul tema del regime intertemporale della riforma delle intercettazioni v. M. Gambardella, Entrata in vigore e profili di diritto transitorio, in Revisioni normative in tema di intercettazioni, cit. 157 ss.
[6] Sul tema v. A. Proto Pisani, Un nuovo principio generale del processo, in Foro it., 2011, I, p. 117; R. Caponi, Il mutamento di giurisprudenza costante in materia di interpretazione di norme processuali come ius superveniens irretroattivo, in Foro it., 2010, V, p. 311.; S. Turatto, Overruling in materia processuale e principio del giusto processo, in Nuove leggi civili commentate, 2015, p. 1151 ss.; G. Ruffini, Mutamenti di giurisprudenza nell’interpretazione delle norme processuali e «giusto processo», in Riv. dir. proc., 2011, p. 1390 ss.
[7] Cfr. M. Condorelli, L. Pressacco, Overruling e prevedibilità della decisione, in Quest. Giust., 2018, f. 4.
[8] Cfr., sul punto, M. Condorelli, L. Pressacco, Op. cit., p.
[9] Cass. civ., Sez. unite, 11 luglio 2011, n. 15144, in Foro it., 2011, I, p. 2254, con nota di G. Costantino e di G. Mazzullo; A fianco alla disapplicazione allo stesso fine può essere utilizzato lo strumento della remissione in termini, che nel processo civile è stato spostato (con la legge 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 19) nel libro primo del codice di rito, così che ne viene estesa la sua operatività a tutte le attività processuali.
[10] Cons. Stato, sez. IV, 28 giugno 2018, n. 3977; Cons. Stato, ad. plen., 23 febbraio 2018, n. 1, in Foro it., 2018, III, c. 193, con nota di R. Pardolesi; Cons. Stato, ad. plen. 11 novembre 2015, n. 9, in Foro it., 2016, III, p. 65, con nota di E. Travi e M. Condorelli; CGA per la Regione siciliana, 29 aprile 2013, n. 421. Anche qui, accanto alla disapplicazione allo stesso fine può essere utilizzato lo strumento disciplinato, in via generale, per il processo amministrativo dall’art. 37 c.p.a., secondo cui “Il giudice può disporre, anche d’ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto […]”.
[11] Ex Plurimis, v. Cass., sez. II, 21 aprile 2021 – 15 giugno 2021, n. 23306, Saidi Hamaied, in C.E.D. Cass., n. 281458, secondo cui il principio secondo cui il mutamento non prevedibile della precedente e consolidata interpretazione di una norma processuale da parte della Corte di cassazione (cd. “overruling”) non si applica in pregiudizio della parte che abbia incolpevolmente confidato nella precedente soluzione, non può essere invocato - con conseguente rimessione in termini - con riferimento a quanto affermato dalla sentenza Sez. un. “Bottari” in tema di individuazione della data di presentazione rilevante ai fini della tempestività del ricorso cautelare, ai sensi dell'art. 325, comma 1, c.p.p., in quanto espressione del superamento del contrasto esistente in materia con l'adesione all'orientamento giurisprudenziale; Cass., sez. V, 3 marzo 2020, 22 aprile 2020, n. 12747, Rossi, ivi, n. 278864 , secondo cui il principio, affermato dalla giurisprudenza civile di legittimità, secondo cui il mutamento non prevedibile della precedente e consolidata interpretazione di una norma processuale da parte della Corte di cassazione non si applica in pregiudizio della parte che abbia incolpevolmente confidato nella precedente interpretazione (cd. “overruling”) non può essere invocato con riferimento ai principi affermati dalla sentenza Sez. un., “Bajrami” del 2019, in tema di immutabilità del giudice ex art. 525, comma 2, c.p.p., che ha semplicemente puntualizzato la corretta interpretazione della norma nell'ambito delle diverse letture, più o meno restrittive, sino ad allora praticate, sistematizzando la previsione di nullità rispetto alle iniziative delle parti e ai poteri del giudice in ordine alla prova; Cass., sez. VI, 25 febbraio 2020, 7 maggio 2020, n. 14051, Russo, ivi, n. 278843, secondo cui il principio “tempus regit actum” si applica solo alla successione nel tempo delle leggi processuali e non anche al mutamento dell'interpretazione giurisprudenziale di queste ultime, sicché qualora si succedano, in sede di legittimità, interpretazioni difformi di norme processuali, il provvedimento assunto nell'osservanza di un orientamento in seguito non più condiviso non può considerarsi legittimo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza del tribunale del riesame che aveva ritenuto l'utilizzabilità delle intercettazioni, recependo l'interpretazione successivamente non condivisa da Sez. un. Cavallo); Cass., sez. VI, n. 10659, 20 febbraio 2020, 26 marzo 2020, Najim Abdelouahad, ivi, n. 278750, secondo cui L'irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole presuppone un imprevedibile ribaltamento dell'orientamento consolidato, che, invece, è da escludere nel caso in cui sussista un contrasto giurisprudenziale risolto dalle Sezioni unite con il recepimento di uno dei contrapposti orientamenti, anche qualora sia riconosciuto come legittimo quello più restrittivo per le facoltà e poteri processuali della parte. (Fattispecie relativa al termine di impugnazione per l'imputato assente nel giudizio abbreviato, in cui la Corte ha chiarito che il principio enunciato dalle Sez. un. “Sinita” trova applicazione anche relativamente alle impugnazioni proposte in precedenza); Cass., Sez. V, 12 dicembre 2018 – 26 marzo 2019, n. 13178, Galvanetti, ivi, 275623, secondo cui il principio, affermato dalla giurisprudenza civile di legittimità, secondo cui il mutamento non prevedibile della precedente e consolidata interpretazione di una norma processuale da parte della Corte di cassazione non si applica in pregiudizio della parte che abbia incolpevolmente confidato nella precedente interpretazione (cd. “overruling”) non può essere invocato con riferimento ai principi affermati dalla sentenza Sez. un., "Galtelli" del 2017, in tema di inammissibilità dell'appello non sorretto da motivi specifici, che ha semplicemente puntualizzato la corretta interpretazione della norma nell'ambito delle diverse letture, più o meno restrittive, sino ad allora praticate.
[12] La Corte edu richiede non solo che la misura contestata abbia qualche base nel diritto interno, ma la base legale deve avere delle qualità, esigendo che debba essere accessibile alle persone interessate e che i suoi effetti debbano essere prevedibili. Cfr. Corte edu, 7 luglio 2012, Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano c. Italia, §. 140-141; Corte edu, 17 febbraio 2004, Maestri c. Italia, § 30. Sul tema v., amplius, V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Il Mulino, Bologna, 2016, p. 126 ss.
[13]In tema di tutela della vita privata ex art. 8 Cedu, nella quale è ricompreso anche il diritto alla segretezza delle comunicazioni, cfr. in particolare Corte Edu, 2 settembre 2010, Uzun c. Germania, in cui è stata negata la violazione dell’art. 8 Cedu, ritenendo che la possibilità di effettuare operazioni di sorveglianza satellitare fosse uno sviluppo giurisprudenziale ragionevolmente prevedibile in base alla disciplina sulle sorveglianze sonore e visive.
In tema di legalità penale ex art. 7 Cedu, cfr. Corte Edu, 30 marzo 2004, Radio France c. Francia, § 20; Corte Edu, 9 ottobre 2008, Moise Yev c. Russia, § 241; Corte Edu, , 10 ottobre 2006, Pessino c. Francia§ 36; Corte Edu, 22 novembre 1995, S.W. c. Regno Unito, §. 34-47, e in dottrina V. Manes, Art. 7, in Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di F. Bartole - P. De Sena - V. Zagrebelsky, Cedam, Padova, 2012, p. 279 ss.; V. Zagrabelsky, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di V. Manes e V. Zagrebelsky, Giuffrè, Milano, 2011, p. 69 ss.; A. Guidi, Art. 7 Cedu e interpretazione ragionevole nella giurisprudenza di Strasburgo, in Cass. pen., n. 2013, p. 4720 ss. Per l’applicazione interna di tali principi v. Cass., Sez. V, 9 luglio 2018 – 18 ottobre 2018, n. 47510, Dilaghi, in C.E.D. Cass. n. 274406, secondo cui non sussiste la violazione dell'art. 7 Cedu - così come conformemente interpretato dalla giurisprudenza della Corte edu – qualora l'interpretazione della norma incriminatrice applicata al caso concreto sia ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la violazione è stata commessa, atteso che l'irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole presuppone il ribaltamento imprevedibile di un quadro giurisprudenziale consolidato (c.d. “overruling”). (Fattispecie in tema di accesso abusivo ad un sistema informatico in cui la Corte ha escluso la sussistenza di un “overruling” ad opera della sentenza delle Sezioni unite “Savarese” e la conseguente violazione dell'art. 7 CEDU).
[14] Cfr. Corte edu, 18 dicembre 2008, Unedic c. Francia, §. 74; Corte edu, 24 gennaio 2012, Torri e altri c. Italia, §. 41-42.
[15] Un eventuale effetto favorevole del mutamento giurisprudenziale è tema trattato nell’ambito del diritto penale sostanziale, perché in tal caso ci si interroga se possa essere applicato il principio di retroattività del mutamento giurisprudenziale di favore. Sul punto, invero, se pur la Corte costituzionale ha escluso decisamente tale parificazione (Cort. cost. 230 del 2012), sottolineando con forza che “eius est condere eius est abragare”, una qualche apertura sul tema si intravede. Si è infatti sostenuto che nel caso in cui il mutamento giurisprudenziale riguardi l’interpretazione di una “nuova disposizioni”, e sulla novità vi sua un mutamento giurisprudenziale, che passi da un’interpretazione che vede nella novella una successione di norme sfavorevoli, ad una che valuti invece la successione come introduttiva di una norma favorevole, si possa applicare retroattivamente la nuova interpretazione, con possibilità addirittura di revocare i giudicati. Ma la ragione di tale conclusione risiede - ripetiamolo - nel fatto che la nuova interpretazione è legata alla novità normativa, non al mutamento di giurisprudenza “secco”.
[16] Nella giurisprudenza civile, per verificare la sussistenza di un affidamento meritevole di essere tutelato attraverso la disapplicazione del nuovo principio di diritto o la rimessione in termini per errore scusabile, non è stato ritenuto meritevole di tutela l’affidamento della parte se, al momento del compimento dell’attività, sussisteva un contrasto giurisprudenziale sulla portata della regola processuale, poiché in presenza di due o più indirizzi interpretativi relativi a una regola processuale la parte sarebbe tenuta a compiere l’attività processuale conformandosi all’orientamento più rigoroso, in virtù di un principio generale «di precauzione» (Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 2011, n. 4687; Cass. civ., sez. lav., 15 dicembre 2011, n. 27086; Cass. civ., sez. III, 5 agosto 2013, 18612). Il principio è stato poi ripreso dalla Cassazione penale (Cass., sez. VI, n. 10659, 20 febbraio 2020 - 26 marzo 2020, Najim Abdelouahad, in C.E.D. Cass., n. 278750, secondo cui l'irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole presuppone un imprevedibile ribaltamento dell'orientamento consolidato, che, invece, è da escludere nel caso in cui sussista un contrasto giurisprudenziale risolto dalle Sezioni unite con il recepimento di uno dei contrapposti orientamenti, anche qualora sia riconosciuto come legittimo quello più restrittivo per le facoltà e per i poteri processuali della parte. (Fattispecie relativa al termine di impugnazione per l'imputato assente nel giudizio abbreviato, in cui la Corte ha chiarito che il principio enunciato dalle Sez. U. “Sinita” trova applicazione anche relativamente alle impugnazioni proposte in precedenza).
[17] In tema di legalità penale ex art. 7 Cedu emblematica è Corte Edu, 14 aprile 2005, Contrada c. Italia. In tema di equo processo ex art. 6 Cedu emblematiche sono: Corte Edu, 2 luglio 2009, Iordan Iordanov e altri c. Bulgari, § 49-50; Corte Edu, 2 novembre 2010, Stefanica e altri c. Romania, §. 36.
[18] Cfr. R. Aprati, Le Sezioni unite fra l’esatta applicazione della legge e l’uniforme interpretazione della legge, in La riforma della giustizia penale, a cura di A. Marandola e T. Bene, Milano, Giuffrè, 2017, p. 291.
[19] Così R. Aprati, Cultura del dialogo e precedenti delle Sezioni unite», in Cass. pen., 2021, p. 1250 ss.
[20] Così M. Pollera, Contrasti sincronici e rimessione del ricorso alle Sezioni unite, in Cass. pen., 2022, doc. 204.6.
[21] Cass, Sez. V, 22 novembre 2021 – 16 febbraio 2022, n. 5538 e Cass., Sez. VI, 28 ottobre 2021 - 16 febbraio 2022, n. 5536, in Cass. pen., 2022, doc.204.5 e 204.6.
[22] Sulle due pronunce v. M. Pollera, Op cit., la quale nota che «l’aspetto innovativo delle decisioni in commento, meritevole di valorizzazione, sta nell’aver individuato in un modulo organizzativo uno strumento di composizione del contrasto sincronico interno alla Sezione, al fine di garantire l’effettiva prevedibilità delle decisioni giudiziarie ancor prima di un intervento delle Sezioni unite. Si tratta di una soluzione inedita, ma che ben si inquadra nel contesto delle possibili risposte al problema delle difformità interpretative all’interno della giurisprudenza di legittimità; problema di cui il sistema è oramai chiamato a farsi carico alla luce delle sollecitazioni derivanti dalla giurisprudenza della Corte edu. In particolare, il collegio ha ritenuto di accogliere l’orientamento “emerso nel corso della riunione tenutasi ai sensi dell’art. 47-quater r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario)”, indicando così la via da percorrere per la decisione del caso di specie, ma anche di quelli analoghi che verranno. La norma richiamata disciplina le attribuzioni del Presidente di Sezione ed è qui rilevante nella parte in cui attribuisce al medesimo la cura dello “scambio informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della Sezione” indicando in tal modo di la via da percorrere per la decisione del caso di specie, ma anche di quelli analoghi che verranno. I compiti del Presidente di sezione del Tribunale elencati nell’art. 47-quater r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 sono poi ribaditi all’art. 95 della Circolare tabelle 2020-2022 adottata dal C.S.M. con delibera 23 luglio 2020, aggiornata al 7 dicembre 2021. Nella medesima delibera si segnala altresì l’art. 222, rubricato “Collaborazione del Presidente di sezione all’organizzazione dell’Ufficio”, per cui “nella proposta tabellare sono indicati gli incarichi conferiti, nell’ambito di ciascuna sezione, ai Presidenti di sezione, nonché le modalità con cui essi collaborano con il Presidente titolare all’organizzazione della Sezione, anche al fine di evitare l’insorgere di contrasti inconsapevoli tra le decisioni e di determinare criteri omogenei ed efficaci con cui individuare i processi destinati alla pubblica udienza e quelli assoggettati al rito camerale”».
[23] Su cui, per tutti, v. V. Napoleoni, L’onere di interpretazione conforme, in V. Manes, V. Napoleoni, La legge penale illegittima, Giappichelli, Torino, 2019, p. 49 ss.
[24] Emblematica in tal senso Corte cost., 16 luglio 2013, n. 232.
[25] Sul tema v. R. Romboli, Dalla “diffusione” all’”accentramento”, una significativa linea di tendenza della più recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 2018, I, c. 2226 ss.
[26] Cfr. V. Napoleoni, p. 105 ss.; G. Sorrenti, La (parziale) riconversione della “questione interpretativa” in questioni di legittimità costituzionale, in Consulta online, 2016, n. 2, p. 293, ss.
[27] Napoleoni, Op. cit., p. 103 ss.; M. Luciani, Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir., Annali, vol. IX, Giuffrè, Milano, p. 473, M. Bignami, Profili di ammissibilità delle questioni incidentali (rilevanza, incidentalità, interpretazione conforme), in Quest. giust., 2017, p. 13; O. Chessa, Non manifesta infondatezza versus interpretazione adeguatrice?, in forum costituzionale.it, 2009, p. 8; A. Oddi, La corte di cassazione e l’utilizzo spinto in chiave ermeneutica del principio di ragionevole durata, in Costituzionalismo, n. 3/2010, p. 1 ss.
[28] Cfr. Corte cost. 1° luglio 2013 n. 170; Corte cost. 23 giugno 2014 n. 191, Corte cost. 24 ottobre 2018 n. 207, Corte cost. 9 luglio 2008 n. 291, Corte cost. 25 gennaio 2010 n. 26, Corte cost. 2 aprile 2012 n. 78, Corte cost. 18 aprile 2012 n. 110, Corte cost.22 novembre 2017 n. 268, Corte cost. 13 gennaio 2016 n. 36.
[29] V. Napoleoni, Op. cit., p. 106.
[30] M. Ruotolo, La cassazione penale e l’interpretazione delle disposizioni sulla custodia cautelare in carcere alla luce del principio del minor sacrificio della libertà personale, in giurcost.org., 6 novembre 2012, p. 4.
[31] V. Napoleoni, Op. cit., p. 117 ss.
[32] Ex plurimis L. Filippi, Intercettazoni: habemus legem!, in Dir. pen e proc., 2020, p. 462; K. Natalini, Sezioni unite e legge Bonafede, p. 1914.
[33] Cfr. L. Filippi, Op. cit., p. 462; F. Alvino, Op. cit., p. 250.
[34] Si esprimono per una portata assai limitata dell’innovazione v. E. Valetini, Op. cit., p. 299, F. Cassiba, Op. cit., p. 4; nonché F. Alvino, Op. cit., p. 242, K. Natali, Op. cit., p. 1912, D. Pretti, Op. cit.; S. Renzetti, Op. cit., p. 1161, J. Della Torre, Op. cit., p. 97.
[35] E. Valentini, Op. cit., p. 301; ma già prima A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1993, p. 288.
[36] Così anche E. Valentini, Un rompicapo senza fine, cit. 304 ss.; F. Cassiba, Op. cit., p. 4; A. Nappi, Nuova guida telematica al codice di procedura penale, Carrabba, 2020, parte II, cap. IX, 37.11.3.; J. Della Torre, La nuova disciplina del captatore: un nodo arduo da sciogliere, in Le nuove intercettazioni, a cura di M. Gialuz, in Diritto e internet, 2020, supplemento al f. 3, p. 100 e D. Pretti, la metamorfosi delle intercettazioni ultimo atto, in Sis. pen., 2 marzo 2020; F. Alvino, La circolazione delle intercettazioni, p. 244; A. Malacarne, L’art. 270 comma 1 c.p.p. crocevia fra interpretazioni giurisprudenziali e interventi normativi, in legislazionepenale.eu, 3 giugno 2020, p. 26; S. Renzetti, Sub artt. 266-271, cit. 1161; F. Vanorio, Il permanente problema, cit., p. 192.
[37] Cfr. L. Filippi, Op. cit., p. 462.
[38] Le Sezioni Unite Cavallo menzionano il principio di tassatività. Ma Il principio di tassatività imporrebbe di ritenere che è sempre consentito intercettare tranne nei casi in cui è vietato, di contro il principio di legalità in senso stretto ci dice che è sempre vietato intercettare tranne nei casi consentiti dalla legge.
[39] Cosi si erano espresse le Sezioni Unite Cavallo, cit., §. 8 della motivazione.
[40] Così anche E. Valentini, Un rompicapo senza fine, cit. 304 ss.; A. Nappi, Nuova guida telematica al codice di procedura penale, Carrabba, 2020, parte II, cap. IX, 37.11.3.; J. Della Torre, La nuova disciplina del captatore: un nodo arduo da sciogliere, in Le nuove intercettazioni, a cura di M. Gialuz, in Diritto e internet, 2020, supplemento al f. 3, p. 100 e D. Pretti, la metamorfosi delle intercettazioni ultimo atto, in Sis. pen., 2 marzo 2020; F. Alvino, La circolazione delle intercettazioni, p. 244; A. Malacarne, L’art. 270 comma 1 c.p.p. crocevia fra interpretazioni giurisprudenziali e interventi normativi, in legislazionepenale.eu, 3 giugno 2020, p. 26; S. Renzetti, Sub artt. 266-271, cit. 1161; F. Vanorio, Il permanente problema, cit., p. 192.
[41] N. Bobbio, Studi per una teoria generale del diritto, a cura di T. Greco, Giappichelli, Torino, 2012, p. 93.
[42] L’articolo è stato introdotto con la l. 8 aprile 1974 n. 98, che per la prima volta regolava in maniera analitica tutto il sistema delle intercettazioni.
[43] D.l. 21 marzo 1978 n. 59 convertito con modificazioni nella l. 18 maggio 1978, n. 191.
[44] Così anche E. Valentini, Op. cit., p. 307
[45] Affermato da Sez. Un. Cavallo, cit., §. 8. della motivazione.
[46] Cfr. le osservazioni sul punto di E. Valentini, Op. cit., p. 304 s.
[47] Così E. Valentini, Op. cit., p. 304 ss.; Gius. Amato, Op. cit., p. 45.
[48] Così F. Cassiba, Op. cit., p. 9 s., secondo il quale stesso procedimento, alla luce del sistema Costituzionale, dovrebbe voler dire solo stesso reato.
[49] Corte cost. 6 aprile 1973 n. 34.
[50] Corte cost. 11 luglio 1991 n. 366.
[51] Corte cost. 10 febbraio 1994 n. 63.
[52] Cfr. Napoleoni, Op. cit, 122 ss., che segnala come emblematica di tale mutamento di rotta Corte cost. 16 luglio 2013 n. 232, sulle presunzioni cautelari, rispetto alle precedenti Corte cost. 7 luglio 2010 n. 265, Corte cost. 9 maggio 2011 n. 164; Corte cost. 19 luglio 2011 n. 231, Corte cost. 12 dicembre 2011 n. 331. Non sembra quindi più attuale rifarsi a quanto affermato dal Corte cost. 8 luglio 2009 n. 2009 e Corte cost. 11 luglio 2007 n. 322, nelle quali si affermava che: «è necessario conformare le disposizioni normative ai principi ricavabili da precedenti decisioni della Corte stessa su temi analoghi, anche quando ciò significhi aggiungere al testo normativo, o eliminare da esso, parole o frasi»; sul punto v., ancora, V. Napoleoni, Op. cit, p. 108.
[53] Sulla pronuncia ancora insuperabili rimangono le riflessioni di V. Gravi, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche, in Giur. cost., 1973, p. 316 ss.
[54] Art. 266 ultimo comma, come introdotto dalla l. 18 giugno 1955, n. 517.
[55] L 8 aprile 1974, n. 98 abroga l'ultimo comma dell'articolo 226 c.p.p. Rocco e inserisce i nuovi artt. 266 bis, 266 ter, 266 quater e 266 quinquies; sostituisce l’art. 399 c.p.p. Rocco; aggiunge un secondo capoverso all’art. 423 c.p.p. Rocco, prevede che l’art 226 quinquies c.p.p. Rocco si applichi anche alle intercettazioni raccolte prima dell'entrata in vigore della legge; affida al Ministro per le poste e le telecomunicazioni, di concerto con altri Ministri, il compito di provvedere con propri decreti all'elencazione degli apparecchi idonei ad operare le intercettazioni; affida al procuratore della Repubblica la responsabilità della custodia degli strumenti di intercettazione installati presso la Procura della Repubblica.
[56] Con il già citato d.l. 21 marzo 1978 n. 59 convertito con modificazioni nella l. 18 maggio 1978, n. 191.
[57] Cfr. F. Cassiba, Op. cit., p. 8 ss. e A. Alvino, La circolazione, cit., p. 248, che inquadrano tale turbamento nell’art. 2 Cost. Inoltre, già prima della riforma v. C. Conti, Sicurezza e riservatezza, in Dir. pen. e proc., 2019, p. 1573; P. Ferrua, Due temi da distinguere nel dibattito sulle intercettazioni, in Dir. pen. proc., 1997, p. 486. Sul problema per un inquadramento sistematico v. F. Caprioli, Colloqui riservati e prova penale, Giappichelli, Torino, 1996, p. 11 ss.
[58] In tal senso F. Ruggieri, in Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, Giuffrè, Milano, 2001, p. 102; F. Cassiba, Op. cit., p.9 ss.; L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, Giuffrè, Milano, 1997, p. 182, M. Ciappi, Limiti all’utilizzabilità delle intercettazioni provenienti aluunde, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 1244; V. Grevi, La nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, Giuffrè, Milano, 1982, p. 66; G. Illuminati, La disciplina processuale delle intercettazioni telefoniche, Giuffrè, Milano, 1983, p. 164 ss.
[59] In tale contesto ciò che è necessario – al fine di evitare una violazione dell’art. 8 C.E.D.U. – è soprattutto l’esistenza di una ‘base legale chiara e precisa’: secondo la Corte edu «ci vuole un’adeguata indicazione delle condizioni e delle circostanze in cui le Autorità hanno il potere di ricorrere a tali misure e la base legale deve essere particolarmente precisa, in quanto la tecnologia disponibile per l'uso è sempre più sofisticata; le persone devono essere messe in grado di prevedere, anche solo in via astratta e ipotetica e non in senso determinato, in quali circostanze i loro diritti possano essere posti ad interferenza; in pratica devono essere messi nelle condizioni di poter evitare l’interferenza» (C. edu, 2 agosto 1984, Malone c. Regno Unito; C. edu, 30 luglio 1998, Valenzuela Contreras c. Spagna; C. edu, 29 giugno 2006, Weber e Saravia c. Germania; Corte edu, 28 giugno 2007, Associazione per l'integrazione europea ei diritti dell'uomo e Ekimdzhiev c. Bulgaria; C. edu, 1° luglio 2008, Liberty c. Regno Unito; C. edu, 10 febbraio 2009, Iordachi c. Moldova; C. edu, 2 settembre 2010, Uzun c. Germania). Sul recente problema relativo alla conservazione dei dati v. Corte Giust. UE, Grande Camera, 5 aprile 2022, n. 140, su cui L. Filippi, Stop ai tabulati: la Corte di Lussemburgo ribadisce una fine annunciata, in Il penalista, 12 maggio 2022.
[60] Esplicitamente escluso dalla Corte Cost. 6 aprile 1073 n. 34.
[61] Il principio del fair play evoca la questione relativa all’utilizzabilità o meno nel processo di prove che sono frutto di “trappole”, di “inganni”, di “insidie”. Il tema è stato oggetto di una particolare attenzione solo rispetto a quella peculiarissima forma investigativa costituita dalle operazioni sotto copertura (su cui v. F. Roberti, G. Furciniti, Le indagini contro il narcotraffico e il riciclaggio dei proventi illeciti, Laurus, 2015, p. 76 ss.). In tale contesto, la Corte edu ha sancito l’inutilizzabilità delle prove raccolte dall’agente provocatore, ovverosia di chi sia stato determinante nella decisione di commettere il reato. In pratica è contraria all’equo processo, al fair play, la circostanza di determinare qualcuno a delinquere e poi usare contro di lui la testimonianza di chi lo ha convinto a delinquere: si tratta del c.d. intrapment (C. edu, 4 novembre 2010, Bannikova c. Russia; C. edu, 21 febbraio 2008, Pyrgiotakis c. Grecia; Corte edu, 5 febbraio 2008 Ramanauskas c. Lituania; C. edu, 21 marzo 2002, Calabrò c. Italia e Germania; C. edu, 9 giugno 1998, Teixeira de Castro c. Portogallo). La Cassazione si è subito adeguata a tale indirizzo interpretativo, sostenendo che «è inutilizzabile la prova acquisita dall'agente infiltrato che abbia determinato l'indagato alla commissione di un reato e non quella acquisita con l'azione di mero disvelamento di una risoluzione delittuosa già esistente, rispetto alla quale l'attività dell'infiltrato si presenti solo come occasione di estrinsecazione del reato» (Cass., sez. V, 4 febbraio 2020 – 14 aprile 2020, n. 12204, Giannone in C.E.D. Cass., n. 278730). secondo la Corte sono legittime solo le prove raccolte dall’agente infiltrato, ovverosia di colui che al più rafforza un intento criminale già esistente (sul tema v. A. Balsamo, Operazioni sotto copertura ed equo processo, in Cass. pen., 2008, p. 2642 ss.).
[62] Cfr. A. Camon, Op. cit., p. 277, il quale già osservava come ex ante sia impossibile prevedere gli esiti delle intercettazioni.
[63] Sulla disciplina di dettaglio v. C.S.M., Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura (delibera del 16 novembre 2017 e succ.mod. al 18 giugno 2018); C.S.M., Modifica alla Circolare sull’Organizzazione degli Uffici di Procura deliberata in data 16 novembre 2017, così come modificata alla data del 18 giugno 2018 (delibera 16 dicembre 2020).
[64] Per tutti v. il Progetto organizzativo della Procura di Tivoli del triennio 2020-2022, virtuosamente pubblicato sul sito aperto al pubblico della Procura, in https://www.procura.tivoli.giustizia.it/documenti.aspx?id_gruppo=537.
[65] Su cui v. E.M. Catalano, L’abuso del Processo, Milano, Giuffrè, 2004, passim; P. Maggio, Processo (abuso del), in Dig. d. pen., Agg., vol. V, Utet, 2010, p. 634 ss.
[66] Cfr. Cass., Sez. Un., 29 settembre 2012 – 9 gennaio 2021, n. 155, Rossi, in Cass. pen. 2012, p. 2410.
[67] Per una panoramica delle quali v. R. Aprati, Nullità ed effettivo pregiudizio, Cedam, Milano, 2019, p. 247 ss.
[68] Sul tema v. R. Aprati, Nullità ed effettivo pregiudizio, Cedam, Milano, 2019, passim.
[69] Cass., Sez.VI, 19 gennaio 2021 – 7 ottobre 2021, n. 36420, Mazzone, in C.E.D. Cass., 281989, secondo cui in tema di intercettazioni telefoniche, la verifica dei presupposti di legittimità va effettuata con riguardo alla qualificazione del reato per il quale, in concreto, si dispone di indizi idonei al momento dell'autorizzazione, sicché, ove "ab origine" il reato astrattamente configurabile non era tra quelli contemplati dall'art. 266 c.p.p., le intercettazioni sono inutilizzabili pur se formalmente disposte per un titolo di reato che le consentiva. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inutilizzabili le intercettazioni inizialmente disposte in relazione al reato di corruzione e poi utilizzate con riguardo al reato di abuso d'ufficio, sul presupposto che quest'ultima era l'unica fattispecie concretamente configurabile sulla base degli elementi disponibili fin dal momento in cui l'autorizzazione era stata disposta).
[70] L. n. 134 del 2021, art. 1, n. 9, lett. p), q), r), s), secondi i quali il Governo è delegato a: p) precisare i presupposti per l'iscrizione nel registro di cui all'articolo 335 c.p.p. della notizia di reato e del nome della persona cui lo stesso è attribuito, in modo da soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni; q) prevedere che il giudice, su richiesta motivata dell'interessato, accerti la tempestività dell'iscrizione nel registro di cui all'ar. 335 del codice di procedura penale della notizia di reato e del nome della persona alla quale lo stesso è attribuito e la retrodati nel caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo; prevedere un termine a pena di inammissibilità per la proposizione della richiesta, a decorrere dalla data in cui l'interessato ha facoltà di prendere visione degli atti che imporrebbero l'anticipazione dell'iscrizione della notizia a suo carico; prevedere che, a pena di inammissibilità dell'istanza, l'interessato che chiede la retrodatazione dell'iscrizione della notizia di reato abbia l'onere di indicare le ragioni che sorreggono la richiesta; r) prevedere che il giudice per le indagini preliminari, anche d'ufficio, quando ritiene che il reato è da attribuire a persona individuata, ne ordini l'iscrizione nel registro di cui all'articolo 335 c.p.p., se il pubblico ministero ancora non vi ha provveduto; s) prevedere che la mera iscrizione del nome della persona nel registro di cui all'articolo 335 c.p.p. non determini effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo. Per una panoramica sul dibattito relativo al sindacato sulla data di iscrizione della notizia di reato nel registro v. R. Aprati, La notizia di reato nella dinamica del procedimento penale, Jovene, Napoli, 2010, p. 133 ss. e 185 ss.
Che fine ha fatto il magistrato intellettuale del diritto, risolutore dei conflitti nell’ottica della funzionalità della giustizia? Come riportarlo in vita? Intervista di Paola Filippi a Luciano Violante
La magistratura è stata attinta dal medesimo processo di plebeizzazione che ha travolto la società italiana. Processo tipico delle società occidentali ove l’apparire ha sopravanzato l’essere. Tra i magistrati il potere e la sua esibizione hanno preso il sopravvento sul senso di responsabilità e sullo spirito di servizio. La magistratura è in conflitto, oltre che con se stessa, con la politica. Il primo passo per risolvere positivamente il conflitto è che la magistratura torni a essere credibile, ricominci a volare alto, a riflettere sulla legge, sui diritti e sulla società contemporanea. La via è quella della “Grande ricostruzione” della figura istituzionale del magistrato. La soluzione è quella di ricominciare a parlare di diritti e di tutela, senza presunzioni e senza corporativismi, con l’accademia e con l’avvocatura.
Questo quanto emerge dal dialogo con il Presidente Luciano Violante.
In questo frangente tanto più importante appare l’obiettivo per cui la nostra Rivista è stata fondata ovvero quello di diffondere il modello di magistrato non autoreferenziale ma capace di ascoltare e confrontarsi con la società e di offrire un luogo di confronto sui temi giuridici tenuti insieme dal filo rosso della giustizia al servizio della società.
1. Onorevole Violante nell’intervista pubblicata su questa Rivista il 12 maggio ci ha descritto la magistratura degli anni 60-70 come una magistratura “integrata con l’Università, impegnata a criticare la neutralità del diritto e la sacralizzazione del ruolo”, che “forte aveva il senso” - così lei scrive - di “far parte di una aristocrazia della Repubblica”. Devo dire che la sua descrizione corrisponde a quella che, della magistratura che trovammo, avremmo dato noi, che entrammo in servizio nei primi anni 90 – circa 2000 giudici ragazzini in cinque anni. Rispetto ai magistrati più anziani avevamo un senso affievolito dell’aristocrazia della Repubblica, ma avevamo un senso forte della nostra funzione come missione in tutti i settori: nel contenzioso civile, nella volontaria giurisdizione, nelle esecuzioni individuali e concorsuali civili, nelle indagini penali e nel processo accusatorio. Forte era il senso della responsabilità collettiva e dell’importanza della cultura. Era il tempo di mani pulite e delle stragi di mafia.
La scuola della magistratura non esisteva, né era ancora iniziata l’organizzazione della formazione permanente da parte della nona commissione del CSM.
La formazione era autogestita. I più preparati volentieri consegnavano la caisse a outils ai più giovani.
Nel 1988, è stato fondato il Movimento per la Giustizia, da un gruppo di “transfughi” di Unità per la Costituzione e Magistratura indipendente – corrente quest’ultima fondata negli anni sessanta da giovani magistrati “tradizionalisti” che negli anni ’70 costituiva il 44 % della magistratura –.
Il Movimento per la giustizia – ora confluito in Area democratica per la giustizia – elaborava, alla fine degli anni ’80, il concetto di funzione giurisdizionale come servizio, proseguiva nella critica alla neutralità del diritto e si focalizzava attorno all’obiettivo dell’efficienza con attenzione verso i valori sociali. Il Movimento per la giustizia coagulava, in quegli anni, le energie e gli entusiasmi di molti giovani magistrati che, peraltro, vedevano in Giovanni Falcone, uno dei fondatori del Movimento, un modello al quale conformarsi nella responsabilità, nella dedizione e nel sacrificio.
Poi gradualmente, ma inesorabilmente, la magistratura è cambiata, l’attenzione e gli obiettivi sono ruotati, o meglio si sono ripiegati dall’esterno verso l’interno, dal collettivo all’individuale.
Così la magistratura, perso il senso dell’aristocrazia e messo in secondo piano il senso dell’impegno sociale, si è ritrovata in balia di interessi individuali e sterili antagonismi. Alla fine degli anni ‘10 il riflusso e l’antipolitica, hanno così reso possibile il predominio dei Palamara di turno. Per analizzare il fenomeno è forse utile considerare il fattore invecchiamento: dall’inizio del 2000 la magistratura è drasticamente invecchiata. Nel 2002 l’età pensionabile è stata infatti portata a 75 anni (tornata a 70 solo dal 2014). Dall’entrata in vigore della riforma Castelli ad oggi l’età media dei vincitori di concorso è passata da 26-27 a 32 anni. Nei primi dieci anni del 2000 i concorsi sono stati sei a fronte dei dieci concorsi del decennio 1990/2000. Ma può essere solo l’invecchiamento la causa di un così radicale allontanamento dalla cultura della giurisdizione, dallo spirito di servizio? Quali sono state, secondo lei, le cause e le condizioni che hanno determinato il ripiegamento dei magistrati sulle loro carriere e della magistratura su sé stessa? Quanto ha contribuito la riforma Castelli, contro la quale tanto si erano battuti i magistrati?
Negli anni Sessanta e Settanta la società italiana era attraversata da un potente flusso riformatore. Noi eravamo in sintonia con questo flusso, che voleva più diritti e meno gerarchie. Lo scontro tra conservatori e riformatori, presente nella società, si manifestava anche nella magistratura. La parte riformatrice della magistratura si sentiva portatrice di un progetto di diritto e di giustizia che coincideva con le istanze fortemente presenti nella magistratura e le integrava. Oggi non è cambiata solo la magistratura; è cambiata l’intera società italiana, attraversata da trasformazioni comuni a molte società occidentali. Sono scomparsi i tradizionali corpi intermedi, si sono indebolite le discriminanti ideali; la comunità nazionale è diventata conflittuale, incline alla rissa. Assumono rilievo determinante l’apparenza, lo spettacolo e la esibizione del potere, specie se è piccolo potere. Si sono incrinate le categorie sociali del rispetto e della fiducia. Sono minoritarie la sobrietà e la discrezione. In sintesi, la società si è plebeizzata. Questi processi hanno inevitabilmente investito anche il diritto e la magistratura. L’ordinamento giuridico ha perso le caratteristiche di sistema: è diventato un infinito arcipelago regolatorio, nel quale ciascun piccolo pezzo di interesse pretende una propria regolazione. Nella magistratura in assenza di una dottrina unitaria della democrazia, del diritto e della giustizia è prevalso il corporativismo, l’esibizione. Il potere ha preso la prevalenza sul servizio. La lingua scurrile usata spesso dai magistrati nelle conversazioni intercettate prova la sintonia con la lingua peggiore della società. Credo quindi che le radici vadano ben oltre la riforma Castelli.
2. Sarebbe interessante approfondire se in altre professioni o in altri settori della cultura si sia verificato un fenomeno analogo a quello che ha interessato la magistratura. L’accademia, ad esempio, è stata vittima di un simile riflusso?
A mio avviso le uniche istituzioni rimaste estranee sono state la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale. La presidenza della Repubblica ha assunto un ruolo di guida delle istituzioni e di modello per i cittadini; ha funzionato come autorevole motore di riserva del sistema politico. È molto interessante il processo di laicizzazione avviato dalla Corte. Accortasi che la torre d’avorio non era più consona ai tempi si é aperta alla società, senza scadere nei suoi vizi. È stata presente nelle scuole e nelle carceri; ha varato la libreria dei podcast con interviste di grande interesse; ha spiegato in modo comprensibile a tutti il senso delle sue decisioni più difficili. L’accademia non è stata esente dai processi che hanno attraversato la società; nelle facoltà giuridiche molti preferiscono dare la priorità alla professione e una certa corporativizzazione chiude molti spazi ai giovani talenti. Peraltro conosco molte grandi competenze che sarebbero disponibili ad un confronto con la magistratura.
3. È in discussione un’ulteriore riforma dell’ordinamento giudiziario. Ci troviamo
di fronte a un altro snodo epocale. A
parte le proposte di modifica dello statuto costituzionale del magistrato della
cui gravità e irreversibilità la politica non sembra tener conto, a parte
la frettolosità del confronto e la costruzione della legge delega per
emendamenti, l’impressione è che la
magistratura conti veramente poco per la politica, e che, anzi, sia percepita
come un corpo antagonista. Nell’intervista, pubblicata su questa Rivista il 12
maggio scorso, lei giustamente ha scritto che, “la riforma è compito primario
delle istituzioni politiche”. Ma non
crede che, con riferimento a taluni specifici aspetti, le istituzioni politiche
dovrebbero, anche solo semplicemente ascoltare la magistratura? E ciò
soprattutto con riferimento a campi che non si conoscono. Non ha anche lei la
sensazione che, come la magistratura, anche la politica, alle volte, pecchi di
autoreferenzialità? O che, come i vecchi
magistrati, sia diventata sorda? È forse anche la politica vittima del medesimo riflusso di cui è vittima la
magistratura? D’altra parte nessuno se ne stupirebbe perché siamo tutti figli
della stessa epoca.
La
politica è, inconsapevolmente, alla ricerca di un ubi consistam e quindi misura la propria identità più sulle
inimicizie che sulle alleanze, più su quello che c’è da distruggere che su
quello che bisogna ricostruire. Si manifesta inoltre una netta separazione tra politica e società
perché è in crisi il principio di rappresentanza. Basti pensare ai partiti che
da anni si costituiscono non nella
società, ma in parlamento per rispondere
ad esigenze tutte interne al sistema politico, estranee ai bisogni sociali.
Tutto questo spiega, almeno in parte, alcuni atteggiamenti del Parlamento e dei partiti. D’altra parte la magistratura, da almeno trent’anni, si pone come controparte morale della politica, indicata
nella sua interezza corrotta, incapace e
inefficiente. Con questo retroterra, nessuno ascolta l’altro.
4. Per effetto di fattori “post mani pulite” (ovvero il Berlusconismo e poi, più recentemente, gli attacchi di Renzi), la magistratura continua a sentirsi, o forse a essere, sotto attacco. Gli effetti dell’essere, o del sentirsi, sotto attacco sono deleteri in termini di chiusura e ciò soprattutto perché la magistratura non ha più l’autorevolezza per resistere, come esortava Borrelli. La macchia Palamara grava su tutti i magistrati indistintamente, come un riflesso di senso di colpa: paradossalmente coloro che se lo incontravano lo evitavano, si sono ritratti ancora di più dalla vita associativa. Qual è secondo lei la via da perseguire? Noi crediamo che, ripudiati gli antagonismi, la via sia quella del dialogo costruttivo. In uno Stato di diritto l’essenzialità della separazione dei poteri va di pari passo con l’armonia dei poteri. Non crede che, nella situazione contingente, per il raggiungimento degli obiettivi del piano nazionale di ricostruzione e resilienza, l’armonia e la condivisione sono ancora più essenziali ? Non ritiene che le istituzioni politiche ne dovrebbero tenere conto?
Oggi i rischi più gravi sono venuti e vengono dall’interno. Credo anche io che occorra ricostruire il dialogo. Ma, chiedo scusa, la magistratura deve prima recuperare una propria autorevolezza, altrimenti è un contraente debole. Il conflitto è inevitabile in democrazia; è anzi la forza della democrazia. Ma per affrontare il conflitto, delimitarlo e condurlo verso una positiva conclusione, occorre essere credibili.
5. Tomaso Epidendio in un articolo, pubblicato su questa rivista il 24 maggio, dal titolo La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, ha illustrato il disegno costituzionale della magistratura riferendosi a esso “come a un grande sogno appartenente a tutti”. Il rischio concreto di incrinare il sogno ce lo ha tratteggiato Riccardo Ionta nell’articolo dal titolo I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai, pubblicato il 12 maggio.
In questo contesto, in un’ideale prospettiva di rinascita, il primo passo potrebbe essere l’uscita della magistratura dal suo isolamento. Solo un rinnovato confronto con l’accademia, con l’avvocatura più illuminata e tutti gli operatori del diritto, con coerente abbandono di deleterie autoreferenzialità, potrebbe offrire un via di fuga dall’attuale stato di stagnazione. Occorre rielaborare idee e pensieri utili per l’efficace esercizio della giurisdizione, riproporre al centro di ogni dibattito l’essenzialità del servizio giustizia, nella costante consapevolezza che l’elaborazione del pensiero passa attraverso il confronto “senza contrapposizioni” di idee contrapposte.
Secondo lei potrebbe essere questa la via da percorrere per un proficuo rinnovamento della magistratura?
Le valutazioni di Epidendio, di forte spessore teorico e quelle di Ionta, improntate ad una rigorosa esposizione delle conseguenze delle innovazioni nell’ordinamento giudiziario, spingono verso una “Grande ricostruzione” della figura istituzionale del magistrato insieme a una riflessione sul ruolo della legge e del diritto nella società contemporanea. Prenderei le mosse dalla riforma del processo penale e del processo civile, che incidono profondamente sul ruolo del magistrato e dell’avvocato. Ad esempio, una discussione sulla nuova udienza preliminare che coinvolga oltre ai magistrati, professori e avvocati potrebbe essere utile per avviare una nuova stagione. La riforma cambia il ruolo del pm, del giudice e dell’avvocato e pone seri problemi teorici sulla funzione del processo. Lo slittamento verso il diritto giurisprudenziale è inarrestabile, determinato dalla scarsa chiarezza delle norme e dalla molteplicità delle fonti. Quale l’impegno della magistratura per assicurare la certezza dei diritti in questa fase di transizione dalla law in book alla law in action? Cominciare a parlare di questi problemi, ad affrontarli senza presunzioni e senza corporativismi potrebbe metterci sul binario giusto.
Il cognome della madre
di Maria Cristina Amoroso e Elisabetta Pierazzi
La recente decisione della Corte Costituzionale colpisce soprattutto per la sua enorme portata simbolica, forse addirittura più sociale che giuridica.
Naturalmente sappiamo tutti che storicamente la trasmissione del solo cognome paterno esprime e ribadisce l'irrilevanza delle donne nella sfera pubblica. A chi importa tramandare una discendenza ed una identità che non hanno valore? E, d'altro canto, come si può avere valore se non si ha nemmeno il diritto di dare vita (nonostante si dia la vita) ad una discendenza?
Da quando abbiamo una Costituzione che riconosce e promuove la pari dignità di uomo e donna, però, la trasmissione del solo cognome paterno è diventata un dinosauro, un residuato di un ordinamento patriarcale incompatibile con i valori fondanti della società che abbiamo voluto costruire.
Le questioni di cui occuparci, tanto più in questo periodo, non mancano, ma come operatori del diritto oltre che come cittadini abbiamo motivo di gioire del fatto che oggi viene rimossa una discriminazione così radicata da essere quasi invisibile, come fosse una espressione dell'ordine naturale delle cose anziché la perpetuazione di una antica e ingiusta discriminazione.
Semplicemente, se il cognome è il nostro nome pubblico, tanto che gli attribuiamo un valore legale ricognitivo dell'identità personale, è illegittimo imporre che ogni individuo nato da due genitori venga identificato pubblicamente con riferimento esclusivo ad uno dei due, sempre il padre.
Poi certamente non basta cambiare le parole, perché devono cambiare anche gli occhi e le teste, ma non si può fare tutto insieme.
E' una bella notizia in un momento in cui non ce ne sono tantissime.
Non possiamo non cogliere la forza culturale di questa decisione in un momento storico in cui le donne le madri e le mogli vengono uccise e massacrate ogni giorno e in cui in posti bui sono spose bambine o oggetto di vendette di guerra e non.
Come spesso accade il giudice delle leggi “traina” ( o cerca di trainare) la società un pezzo più avanti imponendo concetti scontati, ma non praticati, di civiltà. Un passaggio di rilievo dalla concezione retrograda di "stirpe" e di appartenenza al riconoscimento del pari rilievo giuridico e sociale dei genitori.
Provocatoriamente però verrebbe da dire che non basta...la vera rivoluzione ci sarà quando la forma si allineerà con la sostanza.
A Napoli si dice “i figli sono di chi se li cresce” e forse nella nostra società bisognerebbe iniziare finalmente a valorizzare la genitorialità sostanziale piuttosto che quella formale.
Cio’ accadrà quando si chiederà non più “a chi appartieni?” né “di chi sei figlio?”....ma quando la domanda sarà: “chi ha avuto cura di te?”
Non sappiamo se mai riusciremo a vedere scritto uno o due cognomi a seconda dell’ impegno che ciascuno ha profuso dopo aver fatto una scelta così seria come quella di mettere al mondo nuove vite.
Ma se bisogna aspirare ad una nuova civiltà, che il sogno sia grandioso!
Valerio Onida e la nascita della Scuola superiore della magistratura
di Ernesto Aghina, Beniamino Deidda, Cosimo D’Arrigo, Giacomo Fumu, Giovanna Ichino, Giuseppe Meliadò e Raffaele Sabato
Valerio Onida è stata una persona straordinaria, nel senso letterale del termine.
Abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo e di condividere con lui (e con Massimo Confortini, Giulio Garuti, Giovanni Guzzetta e Giorgio Spangher), il breve ma intenso quadriennio di fondazione ed esordio della Scuola superiore della magistratura, che lo vide come Presidente: Valerio era dotato di qualità che appaiono talora inconciliabili fra loro e che in lui coesistevano, rendendolo una persona assolutamente non convenzionale.
Era un uomo mite, dotato di una grande umanità e capacità di ascolto delle ragioni altrui e, d’altro canto, era testardo e intransigente quando riteneva che fossero in gioco dei diritti da difendere e quando intendeva sostenere fino in fondo le tesi in cui credeva .
Gentile e sorridente con tutte le persone che incontrava, dalle più semplici alle più erudite, ma anche capace di notevole severità e rigidità, quando riteneva di trovarsi in presenza di scorrettezze o di persone che non facevano bene il loro dovere.
Aveva un grande rispetto per le istituzioni democratiche, sia sotto il profilo sostanziale che formale e protocollare, e aveva cura nel mantenere ottime relazioni con le stesse, ma allo stesso tempo non tollerava interferenze indebite da parte dei rappresentanti di altre istituzioni sulle decisioni dell’istituzione per cui operava.
Era sempre puntuale ed estremamente rispettoso degli orari prefissati per evitare inutili sprechi di tempo (nelle riunioni del comitato scientifico mal tollerava le digressioni o la distrazione dei componenti) e però aveva una disponibilità senza limiti nel dedicare il suo tempo a chiunque gli chiedesse un consiglio, un aiuto personale o giuridico, come ben ricordano i giovani magistrati in tirocinio presso la Scuola.
Era uno studioso e un uomo di grande uomo di cultura, ma era anche molto concreto e capace di organizzare il lavoro suo e altrui e di parlare delle cose più semplici della vita quotidiana; sapeva scherzare su tutto ed era dotato di grande ironia e autoironia.
Quanto segue è testimonianza corale di un ricordo affettuoso e commosso di un’esperienza che, forse anche in ragione delle difficoltà che abbiamo dovuto affrontare insieme, ci ha unito in un vincolo di amicizia che ha valicato il mandato.
Abbiamo conosciuto tardi Valerio, in occasione dell’insediamento del comitato direttivo della SSM, il 24.11.2011.
Naturalmente, come tutti quelli che masticano un pò di diritto, sapevamo chi era, quanto fosse raffinato il suo modo di accostarsi alla Costituzione e anche eccezionale il suo contributo agli studi di diritto pubblico e costituzionale.
Il nostro primo contatto fu di conseguenza cauto e rispettoso, preoccupati come eravamo di non essere all’altezza del confronto con un personaggio di tale livello.
Esitazioni tutte evaporate rapidamente: Valerio era capace di annullare ogni soggezione, aveva una semplicità di modi e un calore umano che mettevano a proprio agio ogni interlocutore.
La cortesia sorridente, il suo sguardo rasserenante, i toni pacati con cui si confrontò con noi fin da subito fugarono ogni timore o preoccupazione e, nello stesso tempo, accrebbero l’attesa ed il desiderio di affrontare insieme a lui le difficoltà che il nostro agire avrebbe dovuto incontrare.
Era così Valerio Onida, naturalmente gentile, disponibile al dialogo “colto” ed alla confidenza amichevole; ma anche rigorosamente “essenziale”, in tutte le sue manifestazioni.
Fu subito chiaro che Valerio era perfettamente consapevole della difficoltà di far partire un’esperienza del tutto nuova per la formazione dei magistrati nel nostro paese, che avesse un carattere e un respiro ‘europeo’.
Nei quattro anni della sua direzione non lo abbandonò mai l’idea che si trattasse di un’impresa da “pionieri”, piena di difficoltà e incerta nel suo esito.
Sapeva bene che il C.S.M. non aveva ancora del tutto ‘elaborato il lutto” per la perdita di titolarità in materia di formazione dei magistrati, ma, con la signorilità che lo distingueva, creò subito un clima di collaborazione e di fiducia, che per lui voleva dire assoluto rispetto delle competenze di ciascuno, fermezza nella difesa dell’autonomia della Scuola ed esplicito riconoscimento delle prerogative del C.S.M. previste dalla Costituzione.
Come ricordato in precedenza, il primo comitato direttivo della Scuola fu costituito nel novembre del 2011.
Era un atto dovuto anche per garbo istituzionale nei confronti del Ministro della Giustizia, la professoressa Severino, che aveva nominato, dopo varie tribolazioni, anche i componenti di sua competenza.
Ma nessuno avrebbe scommesso un soldo sul fatto che la Scuola decollasse davvero e in molti, forse, se ne auguravano il definitivo naufragio. Lo stesso C.S.M., che aveva organizzato la cerimonia di insediamento, per oltre sei mesi si guardò bene dal collocarci fuori ruolo (come espressamente previsto dalla legge), forse opinando che la Scuola non sarebbe mai partita.
Non possedevamo null’altro che il decreto di nomina. Niente sede, niente fondi, niente personale e, soprattutto, niente segretario generale, senza il quale non potevamo attivare le sedi, sottoscrivere il contratto di tesoreria, assumere il personale. Ma per nominare il segretario generale era necessario approvare lo statuto della Scuola.
Il giorno stabilito per la riunione “carbonara” (ci adunavamo ospiti informali del Ministero e di una gentilissima dottoressa che ci dava una mano per verbalizzare le sedute) era il 6 febbraio 2012.
La sera precedente fu diramata un’allerta meteo. A Roma venne disposta la chiusura di tutti gli uffici pubblici. Noi provenivamo da ogni parte dello Stivale e si prevedevano gravi disagi per i viaggiatori. Con un rapido giro di telefonate decidemmo che era inevitabile differire la convocazione.
Avevamo fatto i conti senza l’oste: “Non se ne parla neanche per scherzo! – esclamò Valerio – due fiocchi di neve non hanno mai fatto male a nessuno!”.
E poi, incredulo come San Tommaso, aggiunse: “È il solito allarmismo giornalistico. Vedrete che sarà tutto aperto”.
La mattina dopo, in un clima siberiano, arrivammo in una Roma spettrale, disabitata, costellata da cumuli di neve ai bordi delle strade. Ma, come aveva previsto Valerio, che evidentemente aveva avuto rassicurazioni da colà dove si puote ciò che si vuole, non nevicava più. Meno ben informati, o forse più opportunistici, erano stati al Ministero: via Arenula era sprangata. E al Palazzo dei Marescialli le cose non andavano meglio: c’era solo il piantone che non aveva l’autorizzazione a farci entrare.
Valerio non si perse d’animo e bussò alle porte della Consulta, nella convinzione che almeno questa non si sarebbe fatta intimidire dalle previsioni allarmistiche di qualche meteorologo troppo zelante. Ennesima delusione: “Queste cose quando c’ero io non sarebbero mai accadute!”, commentò stizzito.
Insomma, eravamo un manipolo di spaesati che scorrazzava inutilmente per Roma – in cuor nostro emuli di Fogar e del suo fedele Armaduk – guidati da un Presidente pervicacemente deciso ad approvare lo statuto ad ogni costo, quando Giuseppe Meliadò si fece timidamente avanti: “Possiamo provare a casa mia. Non ho sedie per tutti, ma almeno stiamo al caldo”.
Entrammo quindi in quell’appartamento che, forse complice la felicità di aver trovato riparo, ci sembrò ben più accogliente e, soprattutto, molto meglio arredato di quanto il padrone di casa non avesse lasciato intendere. D’altro canto, conoscendo il suo gusto per l’arte (che successivamente trovò modo di esprimersi al meglio nella scelta dei lampadari d’epoca e dei grandi quadri degli Uffizi che tuttora arredano le stanze di Castelpulci), non poteva essere diversamente.
Così venne approvato lo statuto della Scuola superiore della magistratura.
Grazie Valerio. Non per il fatto in sé – lo statuto l’avremmo potuto tranquillamente approvare la settimana successiva – ma per una lezione di vita che, dietro l’apparente caparbietà, insegna come l’adempimento dei doveri d’ufficio non debba subire deroghe, mai.
Valerio pretendeva un estremo rigore nella gestione delle risorse pubbliche, perché i soldi dei cittadini andavano spesi bene e non sprecati
Per noi del direttivo era fonte di qualche amichevole sorriso quel suo essere attentissimo, al limite della pedante pignoleria, al bilancio della Scuola nella precisa ottica del contenimento della spesa di qualsiasi tipo gravante sull’ente.
Il suo personale rigore morale lo portava pure ad escludere in radice che il servizio potesse risolversi in qualsiasi forma di comodità superflue per chi al servizio partecipasse in qualunque modo: e dunque componenti del Comitato direttivo (lui per primo, ex Presidente della Corte costituzionale), docenti, partecipanti ai corsi viaggiavano sui treni tutti in seconda classe ed avevano precisi (e contenuti) limiti di spesa per il vitto. Regole inderogabili, al cui rispetto prestava la massima attenzione.
D’altronde Valerio era estremamente sobrio nella sua vita privata (viaggiava con i mezzi pubblici, o con le biciclette e le automobili in car sharing).
Ci piace rievocare un episodio divertente, perché proprio sul tema per il quale mostrava particolare sensibilità e rigore, organizzammo un riuscito scherzo al Presidente.
Si era tenuto un importante corso in comune con il Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, che rappresentava un inedito raccordo di conoscenza fra magistratura e servizi segreti, che si era svolto in campo “neutro” (Scuola delle forze di polizia) sicché non si poté usufruire del normale servizio mensa della nostra Scuola, la quale dovette regolare la quota di sua competenza della fattura emessa dal fornitore del catering.
Preparammo un documento fiscale falso con l’indicazione di un importo spropositato da portare all’approvazione del Comitato direttivo e lo sottoponemmo al Presidente.
La sua reazione fu quella che si aspettava: ci rimproverò più che aspramente per l’eccessiva spesa e chiese subito con una certa energia che gli indicassimo nome e recapito telefonico del fornitore per informarsi, protestare e chiedere la riduzione del conto: e lo avrebbe fatto, se sul tablet di uno di noi non fosse improvvisamente comparsa una grande scritta: sei su “Scherzi a parte”.
La tensione del momento si stemperò in un disarmante sorriso.
Il suo rigore amministrativo confliggeva con un’enorme generosità personale sia nel finanziare buone cause (sono innumerevoli le iniziative, che ha co-fondato o finanziato, a favore della società civile, o per la tutela di detenuti o degli immigrati), che nello spendersi gratuitamente per difendere persone indigenti davanti all’Autorità giudiziaria, o per sostenere questioni di principio avanti alla Corte Edu.
La nascita della Scuola fu un percorso ad ostacoli, e Valerio, insieme a noi tutti, non faceva nulla per aggirarne qualcuno.
Decidemmo, pertanto, di iniziare l’attività della Scuola, quando mancava un po’ di tutto, salvo un fermo ottimismo della volontà, da quanto vi era di più difficile: il tirocinio dei MOT, che Valerio preferiva chiamare uditori giudiziari, in quanto per lui il vizio capitale di un magistrato, e tanto più di un magistrato giovane, era l’incapacità di ascoltare.
Arrivarono pertanto i MOT a Scandicci, e noi capimmo subito che vi era aria di sedizione: i loro affidatari, con qualche pregiudizio verso la nascente Scuola, al pari di tanti altri colleghi, avevano detto ai giovani colleghi che a Scandicci avrebbero perso tempo, prezioso per la loro formazione, e che se volevano veramente imparare dovevano stare negli uffici, a confrontarsi con i “veri problemi della giurisdizione”.
La mattina di quel tanto atteso “primo giorno di Scuola” che inaugurò la formazione iniziale vide Valerio vittima di un non lieve incidente: per una caduta accidentale nella camera di albergo, Ernesto Aghina lo accompagnò d’urgenza in ospedale a Firenze, dove gli venne praticata una medicazione per una profonda ferita al capo.
Inutili tutte le raccomandazioni alla prudenza, volle comunque essere presente alla Scuola per portare il suo saluto ai m.o.t. che, partecipi dell’accaduto, lo gratificarono (con tutto il suo “turbante” di bende) con un lungo ed affettuoso applauso.
Facemmo di tutto per accogliere i neo magistrati al meglio, per non trasmettere loro “ansia di prestazione” (anche di questo si lamentavano, oltre che degli alberghi e della locomozione), e a poco a poco cominciarono ad apprezzare, oltre alle serate fiorentine, l’austero Valerio che prendeva la tranvia insieme a loro, la descrizione della storia della villa di Castelpulci, i nostri impareggiabili primi tutori, il piacere di conoscersi e di conoscere, attraverso le narrazioni degli altri, uffici e esperienze tanto diversi fra loro, che facevano costatare come anche per la magistratura valesse la verità scomoda del protagonista delle “Lettere persiane”: “non ho mai creduto che i confini del mio paese fossero i confini della mie conoscenze”.
Sta di fatto che un qualche risentimento covava (perché mai perdere tempo con lo stage nelle carceri? E che ce ne importa se negli altri paesi lo fanno, e addirittura fanno gli stage anche negli studi degli avvocati?) ed un giorno il comitato direttivo ricevette una lettera anonima (inviata anche ad un quotidiano), che in pratica ci accusava di sperperare il denaro dello Stato.
Peggiore accusa non si poteva muovere a Valerio che, senza un attimo di esitazione decise di convocare tutti i ragazzi nella sala grande della Scuola.
Tutti deprecarono l’accaduto, molti restarono silenti, ma per la prima volta ci accorgemmo che il fronte del dissenso stava incominciando a sgretolarsi, che la Scuola stava iniziando a dare i suoi primi frutti, a far passare il suo messaggio di apertura, di confronto e di modernità.
Una ragazza si alzò e disse “noi siamo le cavie della Scuola”, replicò Valerio “voi siete insieme a noi i MOT fondatori”.
E da allora in poi i ragazzi di quel corso, e di quelli immediatamente successivi, si fregiarono del titolo di “MOT fondatori” e Valerio continuò nella guida insieme sapiente, plurale ed aperta all’esterno dell’attività didattica in una fase ancora del tutto sperimentale
Valerio era sempre attento al tema carcerario, praticando “in incognito” e come volontario attività di consulenza giuridica (gratuita) dei detenuti negli istituti penitenziari milanesi.
Le sue visioni quale giurista ancorato al dettato costituzionale in tema di funzione rieducativa della pena, unitamente forse alle sue convinzioni personali di matrice cattolica e progressista, gli costarono anche sofferenze personali allorché volgeva al termine mandato di Presidente della Scuola.
Si verificava infatti un episodio emblematico agli inizi del febbraio 2016, mentre era ormai scaduto da fine 2015 il mandato del Comitato direttivo della SSM. La stessa determinazione della durata del Comitato “Onida” aveva formato oggetto di una polemica istituzionale, culminata in una delibera del CSM del 1 giugno 2015, e che non rievochiamo ma che un giorno si potrebbe separatamente narrare: i componenti del Direttivo avevano accettato l’insediamento nella carica in una cerimonia di fine novembre 2011 – allorché nulla esisteva di ciò che oggi definiamo Scuola - ma i componenti togati erano stati posti a disposizione da parte del CSM, che aveva il potere di decidere, solo nel giugno 2012, mentre i corsi venivano inaugurati, a tempo di record per gli standard italiani nell’institution building, nell’ottobre 2012.
Nel clima tempestoso che ha accompagnato la prima parte della vita della Scuola, per intuibili ragioni, il CSM con la delibera predetta – che il Comitato “Onida” comunque non impugnava - riteneva che il quadriennio decorresse…dalla cerimonia iniziale, così che il Comitato terminasse il mandato quanto prima.
In questa congerie non certo istituzionalmente tranquilla Valerio Onida, pur a mandato scaduto, era ancora entusiasta del lavoro nella formazione dei magistrati. Era però stanco per le difficoltà incontrate.
Era d’altronde reduce da un altro forte sgarbo istituzionale: per ragioni ancora tutte da chiarire il Comitato direttivo presieduto da Onida – che come detto era stato fatto scadere anzitempo a fine novembre 2015 – non era stato tempestivamente sostituito, in modo da rendersi applicabile la nota legge contro la “prorogatio” (n. 444 del 1994), che disponeva la “prorogatio” di soli 45 giorni limitata all’ordinaria amministrazione, dopo di che scattava la tagliola di un severo regime di nullità degli atti. Decorsi i 45 giorni, quindi, solo agli inizi del 2016 fu fatto insediare il nuovo Direttivo, che non poté ricevere un formale passaggio di consegne. Soprattutto, non vi fu alcuna celebrazione e/o cerimonia di ringraziamento.
La relazione quadriennale che, in logica di “rendicontazione”, il Comitato aveva predisposto non poté avere alcuna visibilità. Valerio Onida doveva uscire di scena in silenzio. Come da suo stile, solo privatamente alluse a tale sgarbo e alla sofferenza conseguitane.
Non invidiabile, del resto, era la posizione dei nuovi componenti, chiamati a eseguire una immissione in possesso “da soli”. Onida ritenne di surrogare con una sorta di chiacchierata “privata” a Scandicci, in una sola giornata, al fine di stabilire un contatto con almeno alcune delle persone che sarebbero subentrate; si era poi reso disponibile a presenziare a qualche corso in una logica di transizione. Almeno alcuni dei nuovi componenti del Direttivo soffrivano molto delle condizioni in cui si era collocato il loro rapporto con il CSM (come dirà il presidente Silvestri il 24 novembre 2021 – v. infra).
Si deve al riguardo ricordare che, sempre in virtù della cennata delibera del 1 giugno 2015, i nuovi componenti nominati dal CSM avevano dovuto sottoporre ad esso, in vista della nomina, un “progetto culturale e organizzativo” della Scuola, che illustrasse “i principi e le linee di sviluppo proposte dall’aspirante per la progettazione e lo svolgimento della formazione, anche in relazione alle competenze che spettano al CSM e, dunque, al rapporto di collaborazione istituzionale con l’organo centrale di autogoverno” (sottolineatura aggiunta); un atto questo che, a fronte di chiare norme primarie in tema di autonomia della SSM, fu inteso immediatamente come un actus submissionis, per invertire il trend autonomistico di Onida.
Gli eventi di febbraio del 2016 avrebbero riguardato – guarda caso – proprio il tema dell’autonomia didattica della Scuola.
La legge (d. lgs. n. 26 del 2006) prevede che il CSM e il Ministro della Giustizia forniscano alla Scuola semplicemente “linee programmatiche” (art. 5), non vincolanti, circa il programma annuale di attività, su cui il Comitato direttivo della stessa Scuola delibera autonomamente, posta l’indipendenza dei componenti dagli organi che li hanno nominati (art. 8). Come era oramai consuetudine, pervenute le linee programmatiche, già al finire del 2015 la Scuola, con provvedimento unanime del Comitato direttivo, aveva del resto lanciato e ottenuto anche le domande di partecipazione a tutti i corsi dell’anno da parte dei magistrati, ammessi in base a nota procedura informatizzata.
Tra questi corsi ve ne era uno, calendarizzato nel periodo post-transizione (primi giorni di febbraio 2016) sul tema «Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena».
Il tema era chiaramente innovativo: sei anni fa non c’era certo la consapevolezza attuale sulle problematiche della giustizia riparativa. Vi erano, però, raccomandazioni del Consiglio d’Europa, esperienze di altri paesi e, soprattutto, e ciò contava molto per un Comitato direttivo presieduto da Onida, esisteva un dettato costituzionale arricchito da pronunce della nostra Corte costituzionale, che chiaramente indicavano una tendenza.
Un punto di non ritorno sul tema, in Italia, si era avuto pochi mesi prima della programmazione del corso: il 27 settembre 2015 – in ambienti prossimi a quelli cui culturalmente apparteneva Valerio Onida – su iniziativa di un padre gesuita, Guido Bertagna, e alla presenza dell’arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi (nominato dal Papa in questi giorni Presidente della CEI), si era svolto un evento (inserito nell’annuale festival francescano) in cui, ricordandosi la visita di Francesco d’Assisi al sultano d’Egitto al-Malik al-Kamildi, si narrava di un esperimento di giustizia riparativa: vari incontri tra vittime e responsabili della lotta armata degli anni ’70, tra le quali Agnese Moro e Adriana Faranda, che presenziavano a Bologna.
Un mese dopo, nell’ottobre 2015, sempre con Agnese Moro e Adriana Faranda, veniva poi presentato a Milano il volume – “Il libro dell’incontro” – che, possiamo oggi dire con il senno di poi, cambiava la storia d’Italia in argomento.
In esso il predetto padre gesuita Guido Bertagna, con il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato, narravano il cennato ruolo di mediazione da essi svolto negli anni fra vittime e responsabili della lotta armata. Il cambio di paradigma era quello di affiancare al desiderio di “sapere – legittimo, anche a causa di verità giudiziarie spesso insoddisfacenti, come il libro chiariva – anche quello di “capire” (dando ai protagonisti la possibilità di “fare i conti”) il terribile periodo degli «anni di piombo», in un’idea di giustizia che non si esaurisce nella pena inflitta ai colpevoli. L’idea della ricomposizione di fratture, che comunque restano, si ispirava all’esempio del Sud Africa post-apartheid, citandosi anche i predetti testi internazionali sulla giustizia riparativa.
Sulla scia dell’elaborazione del libro, di matrice assai prossima alle convinzioni di Valerio Onida, e di un’ampia preesistente collaborazione della Scuola con i centri di ricerca cui facevano capo Ceretti (il Centro nazionale di Prevenzione e Difesa sociale) e Mazzuccato (il Centro Studi «Federico Stella» sulla Giustizia penale e la Politica criminale), alcuni componenti del Comitato direttivo avevano avuto modo di notare le iniziative di settembre-ottobre 2015, ritenendo imprescindibile che il luogo di elaborazione culturale dei magistrati – la Scuola – non restasse indifferente alla proposta. Di qui la programmazione, per i primi giorni di febbraio 2016, del predetto corso sul tema «Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena».
La predisposizione del corso era nota ovviamente da prima della scadenza del Comitato direttivo presieduto da Valerio Onida. Ma solo una volta insediatosi il nuovo Comitato direttivo, a distanza di pochi giorni dal previsto inizio del corso, sulle mailing list di magistratura nascevano polemiche, che venivano subito riflesse sulla stampa. Intervenivano inizialmente (in maniera che, sia detto chiaramente, per noi che scriviamo è del tutto comprensibile) magistrati che avevano avuto congiunti o colleghi vittime degli anni di piombo, trovando inaccettabile l’invito a Scandicci di ex terroristi come la Faranda e chiedendosi perché, oltre alla Moro, non fossero state invitate anche vittime che avessero un approccio non perdonista.
Intervenivano poi anche non magistrati: Elisabetta Casellati, allora consigliere laico del Csm, riteneva, come riportato da “Il Sole 24 ore” il 3 febbraio 2016, che “su un'iniziativa così importante ci sarebbe voluta più attenzione e meno leggerezza”.
Se tutto ciò era comprensibile, quello che invece apparse incomprensibile, in particolare a Valerio Onida, fu ciò che avvenne a livello istituzionale, a fronte del principio di autonomia della SSM: il Comitato di presidenza del CSM, con una inedita iniziativa, esprimeva – come sempre riportato dalla predetta fonte di stampa - «dissenso per la decisione della Scuola della magistratura, appresa da notizie di stampa, di invitare a un prossimo incontro di formazione dei magistrati italiani ed europei Adriana Faranda e Franco Bonisoli». L’auspicio era quindi che il nuovo Comitato direttivo della Scuola volesse “rivalutare l'opportunità di tale scelta”.
Come sempre riportato nel predetto articolo di stampa, Valerio Onida difendeva la scelta della Scuola; come indicato dall’articolista, Onida “non vede[va] alcuno scandalo nell’invito perché si tratta[va] di un corso sulla giustizia riparativa «in cui si inserisce il racconto di un'esperienza particolare e molto seria, che ben si presta a stimolare la riflessione in una sede come quella della Scuola della magistratura». “Servirà per «parlare di una esperienza che ha coinvolto diverse persone, tra parenti delle vittime e colpevoli, che da anni si sono ritrovati per parlare e comunicare su base volontaria». “Chi protesta, conclude Onida, sembra pensare che «la Scuola della magistratura non possa essere aperta a ”simboli del male”, ma questa è una concezione feticistica».”
La stampa riportava nei giorni successivi come finì la cosa: il nuovo Comitato direttivo della Scuola sottolineava in una nota di aver preso atto “delle posizioni espresse, anche con dolore, da numerosi magistrati e familiari delle vittime sull'inopportunità di coinvolgere nella formazione della Scuola persone condannate per gravissimi reati di terrorismo, nell'ambito del corso 'Giustizia riparativa ed alternative al processo e alla pena». Questa iniziativa «è ormai inevitabilmente condizionata - prosegue la nota - nella sua attuazione dalle discussioni delle ultime ore, che hanno visto anche l'intervento del Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura». «Pur dovendo precisare che l'incontro non configurava un'attività didattica dei signori Bonisoli e Faranda, ma solo la testimonianza di un percorso riparativo, i cui protagonisti sono le vittime dei reati, e pur riconfermando la volontà della Scuola di investire nella formazione della giustizia riparativa”, il Comitato direttivo decideva - concludeva il comunicato - di annullare l'incontro, ritenendolo inopportuno.
I magistrati di sorveglianza presenti al corso, di fronte all’annullamento della sessione, reagirono con una muta protesta.
Il vulnus inferto alla Scuola, e in particolare a Onida, non fu affatto seguito da un affossamento del dibattito sulla giustizia riparativa. Semmai, il contrario.
Un anno dopo il libro fu presentato in Senato, alla presenza delle stesse persone (ex terroristi) che non riteneva potessero presenziare in un altro luogo “istituzionale” come la Scuola. Presenziarono anche ministri della Repubblica.
Oggi la giustizia riparativa, grazie a iniziative della Ministra Cartabia, è diventata addirittura la priorità della Presidenza italiana del Consiglio d’Europa nel 2022, mediante un apposito vertice ministeriale di 47 Stati a Venezia.
Ma ciò che più conta è che Valerio Onida, pur ormai malato, è riuscito il 24 novembre 2021 a sentirsi chiedere scusa per quello sgarbo.
Onida presenziava – alquanto provato nel fisico ma lucidissimo ed energico nella mente - alla cerimonia di celebrazione, a Scandicci, del decennale dalla fondazione della Scuola ove, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella e di nuovi componenti sia del CSM sia della SSM stessa, il tempo trascorso consentiva di porre gli eventi del 2016 nella giusta prospettiva.
Ciò è avvenuto attraverso le nobili parole del prof. Gaetano Silvestri, successore di Valerio Onida sia nella presidenza della Consulta sia in quella della Scuola, il quale dedicava all’episodio che stiamo narrando la massima parte del suo intervento in quella sede, traendone spunti sia sui compiti della Scuola sia sulla collaborazione CSM-SSM. Opportunamente la SSM ha ripubblicato il link al video del decennale per commemorare Onida nel giorno della sua scomparsa: invitiamo tutti ad ascoltare sia Onida sia Silvestri (oltre gli altri interventori).
Circa l’episodio narrato il presidente Silvestri ricordava come egli e il suo Comitato direttivo fossero appena “entrati in funzione”, senza aver fatto in tempo a “guardar[si] intorno”, allorché si verificò la “vicenda del corso sulla giustizia riparativa” e arrivò loro l’“ukaze”, il “precetto del Comitato di presidenza del CSM” che “intimava a non realizzare [il] corso”, che aveva l’”intento di percorrere vie nuove” manifestando un “atto di autonomia e di indipendenza della Scuola che intendeva realizzar[lo]”.
Gaetano Silvestri dava atto a Onida che nella “intimidazione” vi erano “remore … ampiamente superate o in via di superamento”, e traeva conferma dagli eventi del 2016 di una visione criticabile della Scuola come “coda interna della magistratura, ancella subalterna all’organo di garanzia” e di una “idea della giustizia penale” quanto meno “non aggiornata, per usare un eufemismo”, entrambe “botte formidabili all’indipendenza della Scuola”.
Ammetteva che il comitato direttivo da lui presieduto aveva fatto “un passo indietro che probabilmente oggi non verrebbe fatto”, che gli “costò moltissimo”, con “sofferenza nel dover cedere di fronte a quella invasione violenta”. Organizzare il corso sulla giustizia riparativa configurava “un merito della Scuola”, e il suo annullamento “un demerito di cui [egli] si assum[eva] la responsabilità”.
Valerio è stato un punto di riferimento importantissimo per tutti quanti hanno avuto la fortuna di incontrarlo e di lavorare con lui ed è stato capace di trasmettere l’ esempio di una vita piena di valori e di principi da non disperdere. Nonostante la malattia, fino a quando le forze glielo hanno consentito, non si è mai risparmiato ed ha dedicato agli amici , alla Scuola e alle sue altre attività tutte le energie disponibili e sempre con lo stesso entusiasmo, ad esempio, prendendo parte, solo poche settimane prima di morire, alla tavola rotonda finale del Progetto europeo Re Justice dell’ Alta Scuola Federico Stella e della SSM sulla giustizia riparativa, o, ancora, dando il suo prezioso contributo nelle riunioni dello Sportello giuridico della Casa di reclusione di Bollate .
Crediamo che l’opera di Valerio Onida abbia avuto una straordinaria importanza per la definitiva affermazione dell’autonomia della Scuola Superiore della Magistratura e per le sorti della intera Magistratura italiana. E questo si deve alla sua visione straordinariamente ampia, alla finezza del suo pensiero e alla capacità di non fermarsi di fronte alle tante difficoltà.
Tuttavia Valerio non è stato solo uno straordinario giudice e Presidente della Corte Costituzionale, un professore universitario amato dai suoi allievi, un avvocato autorevole ed apprezzato: è stato anche un appassionato partecipante alla vita civile e, in senso ampio, politica del suo tempo.
Non si è mai tirato indietro di fronte alle battaglie più impegnative, specialmente di fronte a quelle in difesa della Costituzione.
Quando, pochi mesi dopo la fine dell’esperienza alla Scuola della magistratura, si dovette affrontare la campagna referendaria per la proposta “renziana” di modifica di gran parte della Costituzione, iniziò a girare l’Italia con l’energia che lo ha caratterizzato fino alla fine, spiegando con la consueta pacatezza e l’inimitabile finezza giuridica, che quella riforma avrebbe snaturato la nostra Costituzione, forse il più grande amore della sua vita
Abbiamo voluto bene al nostro Presidente, reincontrandolo dopo la ripresa dell’attività giudiziaria, e lo ricorderemo così, capace di battersi con giovanile energia per le cose in cui credeva, e non potremo mai dimenticare la sua mitezza (impressa nel suo timido sorriso che lo ha sempre accompagnato e che resta scolpito in tutte le sue immagini e nella nostra memoria) che, insieme alla fermezza sui principi, ne faceva una persona memorabile.
Vogliamo ricordare l’ultimo messaggio che inviò a tutto il comitato direttivo, l’ultimo giorno della sua attività (il 9.1.2016):
Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Ecco, la nostra forza deliberante svanisce……La carrozza diventa zucca (zucca gialla, buona!) e chi troverà sulla scala una scarpina di cristallo (o dodici scarpine di cristallo?) si domanderà dove è il piede che la calzava. Dodici, numero magico: sei G, una E, una C, una R, una B, un M, una V. Arrivederci!”
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