ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ricordo di Mario Petrucci, un magistrato non comune
di Giovanni Cannella
Mario Petrucci ci ha lasciato. Il ricordo di un collega o di un amico sfocia spesso nell’esagerazione, nell’eccessiva enfasi su pregi e meriti, nella necessità di riempire righe e pagine con parole altisonanti. Per Mario il rischio è inverso, e cioè di non avere spazio sufficiente per dire tutto, per descrivere compiutamente di chi stiamo parlando.
Perché Mario non è stato un magistrato comune, ha fatto la storia della giustizia del lavoro a Roma e in poche pagine riuscirò a dire solo una piccola parte di quello che ha rappresentato.
L’ho conosciuto quaranta anni fa, quando nel 1983 sono arrivato alla Pretura del lavoro di Roma, dove lui lavorava da alcuni anni ed era già, come si dice, una colonna dell’ufficio. Preparatissimo, autorevole, carismatico. Fui subito attirato verso di lui, come molti altri, ed ebbi la fortuna di diventarne presto amico.
Dicevo che Mario non era un magistrato comune, perché non gli è bastato possedere un’elevatissima preparazione giuridica, una grande capacità e un fortissimo intuito nell’applicare le norme ai casi concreti, tutto ancorato ad una solida piattaforma culturale e ad un’alta sensibilità umana. Non gli è bastato vivere il proprio ruolo di magistrato con la massima efficienza, con capacità organizzativa nel gestire i propri fascicoli. Non gli è bastato, nell’assumere le decisioni, avere come faro la Costituzione e in particolare il principio di eguaglianza sostanziale a tutela dei lavoratori, quali soggetti deboli del rapporto di lavoro. Non gli è bastato il buon senso, la ragionevolezza, l’aspirazione alla giustizia sostanziale nello svolgimento del proprio lavoro.
Non gli è bastato, in sostanza, fare bene il proprio lavoro: ha sempre guardato oltre il proprio orticello, verso l’efficienza complessiva e la trasparenza dell’ufficio. Non monade isolata, quindi, ma protagonista e guida verso il migliore e più corretto funzionamento della giustizia del lavoro.
Questo diverso modo di intendere il magistrato mi ha subito attirato nella sua orbita, come è successo per molti altri. Si è creato un gruppo intorno a lui di colleghi che avevano le stesse aspirazioni e che lo riconoscevano come capo, come guida. Mi limito qui a ricordarne solo uno, Giacinto Di Nardo, che ci ha lasciato troppo presto e che a me ha insegnato, tra le altre cose, la coerenza senza compromessi.
Ma la guida era Mario. Lui ci dava la certezza che quello che facevamo era giusto, anche quando si trattò di scelte estreme che ci esposero a reazioni negative e all’isolamento nell’ufficio.
Fu la stagione più calda, che durò una decina anni. Non potevamo accettare la nebbia intorno alle modalità di assegnazione delle cause e cominciammo a controllare i registri, scoprendo innumerevoli violazioni dei criteri automatici. Protestammo, prima direttamente con il dirigente, poi rivolgendoci al Csm.
Quanto abbiamo scritto! Intorno a Mario, nella sua stanza, redigevamo decine e decine di lettere, documenti, esposti. Ma era lui che conduceva, che dava il la’, che ci caricava. Purtroppo troppi colleghi non ci seguirono, probabilmente per quieto vivere. Eravamo comunque una decina e continuammo per anni, subendone anche le conseguenze: da pareri parzialmente negativi nelle valutazioni di idoneità, a procedimenti disciplinari privi di fondamento, a strategie di isolamento dagli altri colleghi. Alla fine la spuntammo, costringendo il dirigente al trasferimento volontario al fine di evitare il trasferimento d’ufficio. Quando lo comunicammo felici a Mario, ci smontò, perché avrebbe voluto il risultato pieno. Era fatto così: pessimista e perfezionista.
Quanto agli aspetti organizzativi gli interventi e le sollecitazioni di Mario furono a tutto campo. Mi limiterò ad indicare i più importanti.
Fu tra i primi a comprendere l’utilità e le potenzialità del computer e dell’informatica ai fini della modernizzazione ed efficienza della macchina giudiziaria, ben prima di molti giudici ragazzini, che avrebbero dovuto essere più recettivi di fronte alle novità tecnologiche. I primi tre Commodore 64 comparvero sulle scrivanie di Mario, mia e di Giacinto già nel 1986 (quando Mario aveva già 45 anni!). I primi della sezione lavoro di Roma e forse di tutta la Pretura.
Non solo! Mario si fece promotore dell’informatizzazione degli uffici di cancelleria alla fine degli anni ’80, nell’intuizione che si trattava di un obiettivo fondamentale per la trasparenza e l’efficienza dell’ufficio. Passammo due anni io e lui con i funzionari dell’IBM per lavorare al programma, ma fu soprattutto Mario determinante per una splendida analisi funzionale, nella quale le esigenze della cancelleria erano pienamente coordinate con le esigenze dei magistrati e degli utenti.
Fu uno dei promotori del coinvolgimento degli avvocati e delle forze sociali per ottenere l’aumento dell’organico dei magistrati della sezione, ampiamente sottodimensionato, che sfociò nella formazione di un Comitato, essenziale strumento di sollecitazione dell’opinione pubblica e di intervento presso varie autorità, fino agli incontri con il Ministro della giustizia Vassalli, che dopo alcuni anni portò ad un consistente aumento del numero dei giudici.
Mi piace poi ricordare una vicenda che ha dell’incredibile e che dimostra come Mario non accettasse limiti, spingendosi anche al di là dei normali canali istituzionali. Alla fine degli anni ’80 era previsto il trasferimento della Sezione lavoro da Piazzale Clodio ad un’ex caserma di viale Giulio Cesare, dove ancora oggi si trova. Ebbene scoprimmo nell’imminenza del trasferimento che i locali che ci dovevano ospitare erano privi di collaudo (dovevano sopportare il peso non indifferente di armadi, fascicoli, magistrati, personale, avvocati e utenti, con elevata densità in spazi limitati), non era previsto l’ascensore, né le scale di emergenza (si trattava di due piani, più il piano terra a cui si accedeva da una rampa di scale). Ebbene ci recammo personalmente io, Mario e Giacinto dai Vigili del fuoco e presso la ASL per pretendere gli interventi necessari, che solo grazie a questa attività extra ordinem, furono decisi e realizzati.
E mi fermo qui, ma ci sarebbe tanto altro da dire!
In sostanza Mario era il vero capo dell’ufficio, ben prima che lo diventasse formalmente, e non gli importava che tali iniziative potessero essere ascritte ai meriti del formale dirigente. A lui importava il risultato nell’interesse del funzionamento della giustizia del lavoro romana.
Alla fine degli anni ’90 le nostre strade si divisero: io andai in appello, lui dopo qualche anno diventò appunto presidente della sezione. Molti colleghi mi hanno parlato di quello che ha fatto dopo per la sezione, come l’ha riorganizzata, quante soluzioni ha ideato e realizzato, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, non poteva essere diversamente.
Ho continuato a frequentarlo come amico fino alla fine e mi si è aperto il cuore quando poco tempo fa mi ha detto che era contento di aver vissuto quegli anni di battaglie in un gruppo che gli aveva dato tanto. Sentirlo da lui che non si apriva spesso mi ha fatto stare bene.
Ciao Mario. È stato un privilegio stare al tuo fianco!
Aggiornamenti dalla Corte Penale Internazionale. Una linea di indagine anche sui crimini contro l’umanità connessi alla tratta dei migranti nel Mediterraneo
di Ezechia Paolo Reale
Mentre l’attenzione internazionale è focalizzata sull’attività della Corte Penale Internazionale in Ucraina, numerosi sono gli sviluppi sulle altre, numerose, situazioni - per usare il termine tecnico che si ritrova nello Statuto di Roma, istitutivo della Corte, per dipingere gli scenari concreti all’interno dei quali la Corte stessa è chiamata ad esercitare la sua giurisdizione - nelle quali dall’organo della giustizia internazionale sono già state aperte indagini, sia preliminari che formali, o è stato dato inizio ai procedimenti a carico dei responsabili.
Il 31 ottobre, infatti, la Camera Preliminare ha autorizzato la riapertura delle indagini sulla situazione in Afghanistan, accogliendo la richiesta del Procuratore che lamentava l’ineffettività dei procedimenti in corso avanti le autorità giudiziari locali per i crimini internazionali che erano stati loro devoluti sulla base del principio di complementarietà che regola l’azione della Corte Internazionale, chiamata a intervenire solo quando le autorità giudiziarie dello Stato ordinariamente competente non hanno capacità o volontà di perseguire i crimini internazionali.
Analoga richiesta il Procuratore ha indirizzato alla Camera Preliminare per riaprire le indagini sulla situazione in Venezuela, dopo che le stesse erano state provvisoriamente archiviate in seguito alla richiesta di tale Stato di condurle direttamente, attraverso le proprie autorità giudiziarie nazionali, senza giungere, però, a risultati sufficienti nell’ottica della persecuzione penale dei responsabili dei crimini internazionali commessi in tale contesto.
Anche in questo caso il Procuratore ha lamentato, infatti, come le azioni intraprese a livello nazionale non abbiano, allo stato, il necessario carattere di effettività ed ha, pertanto, richiesto di riavviare le indagini in sede internazionale.
Del 26 ottobre è, poi, il rapporto periodico delle attività svolte nel biennio 2021/2022 che la Corte Penale Internazionale, per mezzo del suo presidente Piotr Hofmanski, ha sottoposto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, durante i lavori della 77ma sessione, tuttora in corso, in ottemperanza all’Accordo di Collaborazione stipulato nel 2004 tra la Corte stessa e le Nazioni Unite e della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Il Presidente della Corte ha, tra l’altro, sottolineato, nel presentare il rapporto, che solo in tale periodo sono state circa 13.000 le vittime di crimini internazionali che hanno partecipato, in varie forme, ai procedimenti pendenti, nelle diverse fasi, avanti la Corte e riguardanti le situazioni in Congo, Uganda, Repubblica Centro Africana,Darfur, Kenia, Libia, Costa d’Avorio, Mali, Georgia, Burundi, Afghanistan,Bangladesh e Myanmar, Palestina, Filippine, Venezuela e Ucraina e alle indagini preliminari in Nigeria e Guinea.
Poco prima era stato il Procuratore della Corte a sottoporre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il suo 35mo rapporto sulle attività svolte nella situazione in Darfur, che è stata deferita alla Corte nel 2005 proprio dal Consiglio di Sicurezza, confermando, tra l’altro, che nell’aprile del 2022 ha avuto inizio il primo dibattimento a carico di uno dei soggetti incolpati di crimini internazionali commessi in tale scenario.
Dati molto interessanti si ricavano dagli analoghi rapporti presentati dal Procuratore al Consiglio di Sicurezza in ordine alla situazione in Libia, rispettivamente il 23mo, del 28/04/2022, e il 24mo, molto recente, del 09/11/2022.
Il Procuratore ha evidenziato non solo un rinnovato impegno a perseguire i crimini internazionali commessi nello scenario libico e una modifica della strategia di indagine e di persecuzione penale, ma ha con chiarezza evidenziato come sia emersa una linea di indagine che collega chiaramente l’azione dei responsabili della tratta di migranti a crimini contro l’umanità di competenza della Corte per i quali sono stati identificati, in relazione alle violenze subite dalle vittime nei centri di detenzione, i presunti responsabili nei confronti dei quali sono già stati emessi alcuni ordini di custodia che potrebbero essere resi noti a breve, unitamente ad altri ordini emessi sulla base di successive richieste.
È probabile che gli elementi emergenti dai procedimenti in corso obbligheranno a nuove valutazioni politiche e giuridiche delle azioni che oggi caratterizzano la condotta degli Stati in uno scenario mediterraneo di migrazioni, destinato a ricevere una descrizione diversa da quella sino ad oggi prevalente, con una probabile rivalutazione degli strumenti normativi predisposti dalla Convenzione di Palermo contro il Crimine Organizzato e dai suoi Protocolli Aggiuntivi in materia di contrasto alla tratta e allo sfruttamento dei migranti che, in un’ottica coerente con quella dello Statuto di Roma, pone in evidenza un aspetto spesso trascurato della tutela dei diritti umani, quello della sicurezza delle persone e degli obblighi dello Stato di assicurarla, che il prof. Cherif Bassiouni, uno dei fondatori del diritto penale internazionale, tratteggiò dal punto di vista sistematico già nel 1982, in un intervento rimasto forse famoso solo per essere stato rilanciato, in quell’occasione, il brocardo “Aut Dedere aut Judicare” che, con il tempo, avrebbe sostituito in chiave garantista il noto ”Aut Dedere aut Punire” coniato da Grozio nel 1624 nel suo De Jure Belli ac Pacis, ma il cui contenuto, in realtà, ha consentito di porre le basi per comprendere sia l’importanza del ruolo delle vittime nei meccanismi, giudiziari e non, di protezione dei diritti umani, che la difficoltà della posizione degli Stati, chiamati a non ingerirsi nell’esercizio dei diritti umani individuali fondamentali e, nello stesso tempo, a proteggere la sicurezza di ciascun individuo affinché quei diritti possano essere effettivamente goduti in modo libero da interferenze di altri individui.
Il Procuratore, infine, ha sottolineato l’importanza del lavoro della squadra investigativa comune che indaga in Libia, composta da Europol e dalla polizia giudiziaria di Italia, Olanda, Inghilterra e Spagna, cui di recente ha formalmente aderito anche la squadra investigativa della Corte stessa, e ha lanciato un appello agli Stati per essere pronti ad esercitare la propria giurisdizione universale sui crimini internazionali, ricordando le recenti estradizioni ottenute, nell’ottobre 2022, in Olanda e in Italia a carico di due trafficanti somali di migranti etiopi.
Analogo appello era stato lanciato dal Presidente della Corte Penale Internazionale nel discorso di presentazione del rapporto delle attività della Corte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel quale il Presidente Hofmanski ha sottolineato come senza un significativo progresso dell’applicazione del principio di complementarietà - compreso l’esercizio in concreto della propria giurisdizione universale sui crimini internazionali e la formazione specifica di magistrati, avvocati e ufficiali di polizia giudiziaria - lo sforzo dell’organo giudiziario internazionale per la persecuzione penale e la repressione di crimini internazionali odiosi come il genocidio,i crimini contro l’umanità, il crimine di aggressione e i crimini di guerra è destinato a non raggiungere il proprio scopo di giusta punizione dei responsabili e di indispensabile deterrenza verso coloro che, confidando sull’impunità, avessero in programma l’esecuzione di analoghi crimini.
Un preciso monito che, tra gli altri, è certamente indirizzato anche all’Italia che, dopo oltre venti anni dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma, non si è ancora dotata di un codice dei crimini internazionali, strumento indispensabile per il corretto e fluido esercizio della giurisdizione universale sui crimini internazionali da parte di ogni Stato.
Raccomandazione che l’Assemblea Generale ha prontamente recepito reiterando, nella risoluzione con la quale ha approvato il rapporto della Corte, l’invito agli Stati Parte dello Statuto di Roma ancora in ritardo a dotarsi al più presto di una normativa di esecuzione delle obbligazioni positive contenute nello strumento internazionale.
L’auspicio è, pertanto, che i lavori di redazione del codice dei crimini internazionali, commissionati dal Ministro della Giustizia in occasione dell’esplodere della guerra in Ucraina e consegnati dalla Commissione Ministeriale nel giugno 2022, possano quanto prima, dopo lo stop imposto dal termine anticipato della legislatura, essere portati dal nuovo Governo all’attenzione del Parlamento, mettendo la parola fine ad un lungo e imbarazzante ritardo nella completa esecuzione di uno strumento internazionale che non solo porta il nome di Statuto di Roma, città nella quale ha visto la luce, ma che la cronaca oggi porta all’attenzione del mondo in relazione a uno scenario mediterraneo del quale l’Italia ha profonda e interessata familiarità.
“L’inganno” prove di un populismo garantista* di Giovanni Melillo
Proverò ad indicare le ragioni di una diversa possibilità di comprensione delle cose attratte e certe volte scaraventate nel fuoco polemico di un libro che, nel denunciare veri e soprattutto immaginari abusi della cd. Antimafia, sembra ripetere non pochi dei vizi e delle perversioni del mostro giudiziario contro il quale si scaglia.
Certo, il pamphlet muove da una nobile radice culturale e dal dichiarato intento di denunciare le pericolose oscillazioni delle prassi giudiziarie sull’orlo dell’abisso che può aprirsi ad ogni passo e verso il quale tutti dovrebbero, saper volgere lo sguardo, per meglio guardarsi dal rischio di precipitazione.
Ma non è necessario dubitare, come taluni eccessi discorsivi pure consentirebbero, della sincerità degli intenti dell’Autore, bastando rammentare che di buone intenzioni sono notoriamente lastricate le strade dell’inferno.
Più interessante è tuttavia notare che se è vero, come Massimo Nobili ci mostrava nel suo addolorato attraversamento della perenne immoralità del processo penale, che l’ardore, il fervore, la passione, persino la sincerità di intenti sono doti che non mancano a quelli che scrivono le pagine più dolorose e immorali della giustizia penale, quelle stesse connotazioni della passione civile dell’Autore non bastano a porre al riparo la sua opera dal rischio di ripetere le perversioni del peggior sistema inquisitorio, per di più affiancando ai vizi di questo quelli di una paradossale corrente garantista del più acre populismo.
Il furore inquisitorio di Alessandro Barbano non risparmia nessun istituto della legislazione antimafia e nessuna delle istituzioni chiamate ad applicarla, investendo indiscriminatamente ogni aspetto del nostro sistema di contrasto della criminalità mafiosa.
Il fuoco polemico arde senza sosta e travolge ogni cosa, tutto venendo raccolto e usato come legna da ardere.
Anche quando magari si tratta di legna giovane, in grado di fare soltanto fumo, o addirittura a dar vita a piccoli fuochi destinati a spegnersi subito.
Certo, la realtà offre non pochi e persino inquietanti esempi di ciò che accade quando la giustizia si allontana, per le ragioni più varie, dall’unica strada praticabile, quella che i maestri hanno indicato: “restare coi piedi per terra, tenersi stretti alle prove e alle regole: senza voli”.
Ma questi esempi ed altri ancora non possono giustificare la conclusione tranchant che nel libro si propone, secondo la quale le indagini e i processi di mafia ordinariamente procederebbero soltanto attraverso inaffidabili delazioni o massive intercettazioni senza riscontri, nutrendosi di congetture irresponsabili e inconsistenti illazioni.
Né l’estremismo delle tesi fondamentali può giustificarsi quando investe il pur delicato impianto del sistema italiano di sequestro e confisca dei patrimoni illeciti, essendo esso coerentemente inscritto, anche sul versante delle procedure di prevenzione, all’interno di un modello comune, pur variamente declinato nei diversi sistemi giuridici degli Stati democratici, proteso ad intensificare un doveroso controllo dell’origine delle ricchezze, sul presupposto che le accumulazioni patrimoniali e la stessa libertà di impresa debbano trovare un limite nella loro derivazione dai profitti derivanti dalla commissione di gravi delitti.
Un eccesso di ius vindicandi espone qualunque accusatore al destino che inesorabilmente tocca a quanti cessano dal guardarsi continuamente dal rischio di hybris che pure si è solitamente pronti a riconoscere negli altri. Vale per tutti gli accusatori, soprattutto se animati dal furore iconoclasta che anima il libro.
Così come soltanto come provocazione potrebbe accogliersi l’idea che la legislazione antimafia sia un moloch nutrito solo di pulsioni giustizialiste, anziché un ambito della nostra giurisdizione che, al pari degli altri, è continuamente sottoposto all’opera di verifica, adeguamento ed evoluzione che naturalmente discende dal sindacato di costituzionalità, dal rapporto con la giurisdizione sovranazionale, dall’evoluzione del diritto internazionale convenzionale e, soprattutto, dal controllo che delle sue applicazioni fa quotidianamente il giudice nel contraddittorio delle parti.
Per ridurre le distanze dalle prospettive privilegiate dall’Autore potrei dar conto della mia condivisione dell’allarme conseguente:
-alla frequente, parallelo corso rispetto allo sviluppo di indagini e processi di famelici e strumentali cori mediatici;
-all’ancora attuale coltivazione in magistratura di un’idea di sé e della propria funzione come baluardo contro ogni fenomeno criminale, poiché all’idea stessa di baluardo, tanto più se, come è, formidabile, corrisponde una visione che ha in sé i semi del conflitto e dell’esaltazione dei miti punitivi e vendicativi di quella “società giudiziaria” che si nutre di ansia da complotti e di un rancore estinguibile solo imboccando scorciatoie autoritarie;
-ai pericoli di dilatazione dell’area di specialità connessa all’azione di contrasto delle mafie e del terrorismo conseguente nel tempo realizzatasi oltre ragionevole misura, e di altrettanto gravi derive securitarie rette soltanto dalla percussione del giustizialismo mediatico e politico;
-alla necessità di una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, necessaria per introdurre nella gestione degli uffici giudiziari dosi massicce di trasparenza ed efficienza, che i riti corporativi intorno ai quali si costruiscono gli esoterici testi che dettano i criteri di funzionamento dei nostri tribunali sovente accantonano, assecondando piuttosto visioni burocratiche del lavoro giudiziario;
-alla consapevolezza dei pericoli di una impossibile missione del giudice a farsi amministratore di ingenti patrimoni e manager di aziende nelle procedure di sequestro e confisca, avendo l’esperienza (e non solo gli scandali, che pure è stata la magistratura stessa a sollevare), rivelato che quel modello normativo di gestione dei patrimoni illeciti rischia di alimentare una gigantesca mano morta, capace, anche per l’intollerabile durata delle procedure, soltanto di attirare le professioni, anche accademiche, nella distribuzione di grandi e piccole prebende;
-più in generale, al perdurare dell’idea che il contrasto delle mafie sia missione esclusiva della magistratura e delle forze di polizia, anziché obiettivo prioritario del complesso delle politiche pubbliche: educative, fiscali, del lavoro, della protezione e dell’integrazione sociale, come di quelle urbanistiche e culturali, progressivamente private di visione adeguata e della stessa possibilità di coerente attuazione di programmi e interventi che richiedono una amministrazione pubblica forte e autorevole, perché competente, trasparente, efficiente, dunque assai lontana dal grave stato di debolezza strutturale nel quale versano le funzioni statuali, soprattutto nelle regioni meridionali.
Sono temi che impongono ripensamenti profondi, anche delle prassi, poiché lo stato di salute di una democrazia dipende in grande misura da corrette relazioni fra politica e magistratura e dalla capacità di entrambe di svolgersi con equilibrio e correttezza, facendo prevalere il sentimento del dovere su quello del potere, la consapevolezza del proprio limite sulla tentazione dell’arbitrio.
Così come occorre riconoscere che la realtà impone di interrogarsi sulla trasformazione delle prerogative processuali del pubblico ministero, sempre più poste a contatto con la logica della prevenzione criminale dalla gravità dei fenomeni criminali. Ma le risposte non possono ricercarsi nella progressiva burocratizzazione della funzione requirente, ormai quasi soffocata dal moltiplicarsi di adempimenti formali che nulla aggiungono all’effettività delle garanzie difensive, né tantomeno nell’indebolimento progressivo di una funzione di direzione delle indagini invece essenziale per la tenuta reale del principio di legalità processuale anche nella fase delle indagini preliminari. In queste sempre più marcate tendenze sembra esprimersi una neanche troppo celata vena nostalgica dei tempi nei quali la giustizia scorreva lungo i mattinali delle questure ed era un po’ più lontana dal finalismo dei valori costituzionali.
Tuttavia, la complessità dei nodi ancora da sciogliere nulla toglie alla radicalità del dissenso da riservare al senso profondo delle accuse rivolte alla cd. Antimafia.
La scelta dell’obiettivo polemico dell’ardore iconoclasta che permea l’intero programma accusatorio, innanzitutto: il pubblico ministero e i capisaldi della legislazione che ne sostiene da trent’anni l’azione in materia antimafia.
Non è solo un obiettivo troppo facile di questi tempi, ma è soprattutto sbagliato.
Non perché la legislazione antimafia non sia bisognosa di revisione continua ed anche profonda, né perché la cd. Antimafia non abbia rivelato gravi limiti e precise responsabilità, né, ancora, perché quello stesso dispositivo abbia acquisito meriti che sarebbe comunque sciocco svilire, se è vero, come è vero, che una secolare condizione di impunità delle mafie è venuta meno, procedendo secondo le regole dello Stato di diritto, a meno di ridicolizzare, in uno ad una trentennale stagione legislativa, il ruolo della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale e della Corte EDU, le quali, al pari dei giudici di merito, ad ipotetici abusi sistematici avrebbero altrimenti assistito e ordinariamente avallato.
Ma l’obiettivo prescelto è sbagliato semplicemente perché il furore iconoclasta che ne anima la cattura finisce per oscurare all’inquisitore alcune realtà, che avrebbero richiesto ben altra considerazione.
Restano, infatti, sullo sfondo, ad esempio, la relazione, intima e profonda, affatto esaurita, fra giustizialismo e populismo e quella di entrambi con la crisi che attraversa la democrazia rappresentativa e liberale, definendosi per questa strada uno dei volti di quel mostro del fanatismo che è costantemente in agguato ed il cui spettro si aggira ancora per l’Europa delle piccole patrie e dei risorgenti movimenti nazionalisti e xenofobi.
Come non risultano presi in considerazione il peso e gli effetti dell’obiettivo ritrarsi della politica dalla responsabilità di dare una risposta, diversa da quella possibile nelle aule di giustizia e secondo le categorie del diritto penale, al bisogno di verità e giustizia originato da molti dei più gravi delitti che hanno insanguinato il cammino dell’Italia repubblicana e che, obiettivamente, appaiono come brutali prove di forza ispirate e guidate da strategie di destabilizzazione ed insieme di cinica preservazione di oscuri equilibri di potere.
Se si ricordassero le parole di Carlo Azeglio Ciampi pronunciate in Parlamento all’indomani degli attentati di Roma e Milano o, più recentemente, quelle di Sergio Mattarella sulla pesantezza dell’ipoteca mafiosa e terroristica a lungo gravata sui destini italiani forse si ritroverebbe una parte almeno della spiegazione dell’anomalia italiana che vede ancor oggi i magistrati impegnati a far luce sulle stragi che vanno dal 1969 al 1980, come su quelle degli anni ’90.
Soprattutto, si eviterebbe di guardare agli sforzi ancora in atto per individuare moventi e responsabilità di quei delitti, non criticamente, come certo sarebbe legittimo, ma considerandoli con attenzione e rispetto, anziché con il disprezzo che trasuda la definizione di “fogna di maleodoranti congetture” nel quale si risolverebbe il difficile lavoro di molti magistrati.
Infine, non solo è taciuta la realtà attuale delle mafie, ma si giunge ad affermare che delle mafie non avremmo nessuna rappresentazione attuale e attendibile. Naturalmente, sempre per responsabilità di una macchina dell’investigazione giudiziaria additata come perversa e autoreferenziale.
Potrebbe, forse, convenire ricordare che l’asserita mancanza di una rappresentazione di un fenomeno sociale non dovrebbe, a meno di smentire i precetti guida del nuovo populismo garantista, richiedersi alla macchina giudiziaria, ma ai centri decisionali delle politiche di prevenzione e più in generale al patrimonio di conoscenza al servizio del complessivo sistema sociale e istituzionale.
Del resto, un tempo ciò che si sapeva delle mafie lo si doveva alla funzione parlamentare, come nel caso dell’inchiesta Franchetti-Sonnino, ovvero alla coraggiosa sapienza dell’amministrazione prefettizia, come nel caso dell’inchiesta Saredo del 1901.
Anche nei decenni successivi, il peso dell’azione di vigilanza, denuncia e contrasto ricadde quasi soltanto sulle spalle dei partiti, dei sindacati e della cultura democratica, non certo su quelle della magistratura, che anzi flirtava con le élite criminali e ne negava l’esistenza nelle pompose inaugurazione degli anni giudiziari.
Oggi, invece, le indagini e i processi consentono all’osservatore che non voglia distogliere lo sguardo di cogliere la nitida realtà dei fenomeni mafiosi, superando la vana pretesa di considerarli emergenze, persino ormai superate, anziché per ciò che sono: componenti strutturali del tessuto economico e sociale di parti significative del territorio nazionale, ma anche, osservando le dinamiche su scala globale, forze in grado di travolgere la stabilità politica e sociale di interi paesi e regioni.
Molti ancora pensano che le mafie siano espressione di società dal tessuto economico debole e arretrato. Una sorta di riflesso della povertà di quelle società. La realtà dimostra invece che quelle organizzazioni criminali sono invece espressione e strumento di ricchezza economica e di raffinati processi di espansione speculativa. Giovanni Falcone diceva dei mafiosi che “avranno sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”. Un modo semplice per indicare un dato assai più complesso, che attiene alla capacità delle organizzazioni criminali di agire nel mercato, di immettere nel mercato la loro intelligenza, la loro conoscenza della modernità e delle sue tecnologie, il loro spirito di intraprendenza e la loro spregiudicata capacità di cogliere ogni opportunità di profitto, governando il ciclo continuo della trasformazione della violenza in ricchezza.
Le mafie non sono questioni solo italiane e tanto meno solo del Mezzogiorno d’Italia. Sono questioni europee e internazionali, che investono le responsabilità di tutti gli Stati e della comunità internazionale. A questa idea è indissolubilmente legato anche il destino dei processi di integrazione europea. Basterebbe pensare a cosa accadrebbe se si diffondesse la sola percezione che le risorse del PNRR fossero disperse, perché intercettate e sottratte ai loro fini da imprese mafiose o disperse nei mille rivoli di abusi e ruberie che crescono esponenzialmente all’ombra dei condizionamenti mafiosi.
Su questi terreni si misura tutta la necessità di non rimediare alla debolezza delle funzioni di regolazione amministrativa e politica dei processi economici e delle dinamiche sociali continuando ad indebolire la capacità di azione repressiva.
Non è l’ennesimo passo indietro su questo terreno che serve, in omaggio al pendolo che regola le stagioni legislative.
Quel che serve è una incessante serie di passi in avanti sul terreno della ricostruzione della autorevolezza ed insieme della trasparenza e della controllabilità delle complessive funzioni dello Stato.
Ma di tutto questo non vi è traccia in un libro che, infine, sembra meritare la nemesi inscritta nel suo titolo, perché di un tentativo di inganno si tratta.
Ordito con sapienza ed abilità narrativa, ma che contribuisce ad erodere la speranza riposta nell’invito che fu rivolto da Zeus ad Ermes a non dimenticare, nel ripartire la giustizia fra gli uomini in parti uguali, di donare loro innanzitutto il rispetto: quel sentimento reciproco essenziale a preservare la convivenza civile e, in questo caso, la credibilità di un sistema giudiziario sempre più segnato dal vizio letale della perenne contrapposizione polemica e ideologica.
*Testo revisionato dell’intervento svolto da Giovanni Melillo alla presentazione del libro di Alessandro Barbano “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene” (Roma, 1 dicembre 2022)
Comunicazione all’interessato ed onere di motivazione nei procedimenti per il rilascio di interdittive antimafia (nota a T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, sent. 14 settembre 2022, n. 1518)
di Silia Gardini*
Sommario: 1. Inquadramento della vicenda giuridica – 2. La (ri)nascita dell’istruttoria procedimentale: l’art. 92, comma 2-bis del d.lgs. n. 159/2011 – 3. La decisione del T.A.R. Calabria – 4. Notazioni conclusive
1. Inquadramento della vicenda giuridica
La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso ha conquistato, negli ultimi decenni, spazi sempre più ampi anche sul versante del diritto amministrativo, laddove il pericolo di inquinamento criminoso ha indotto il legislatore a predisporre un sistema di accertamento preventivo volto ad arrestare “a monte” i contatti della pubblica amministrazione con soggetti potenzialmente sottoposti ad infiltrazioni mafiose, anche indirette[i].
La sentenza annotata offre l’occasione per affrontare il tema, assolutamente centrale ed ampiamente dibattuto, relativo alla partecipazione dei privati ai procedimenti amministrativi preordinati all’emanazione di provvedimenti interdittivi antimafia. Il caso sottoposto alla cognizione del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria trae origine dall’emissione di un’informativa interdittiva a carico del titolare di uno stabilimento balneare, dalla quale erano derivati – a cascata – la revoca della concessione demaniale marittima da parte del Comune ed il “rigetto” della SCIA per l’esercizio delle attività del bar annesso allo stabilimento. Il provvedimento de quo, fondato sull’esistenza di diversi precedenti penali e di polizia per reati, anche di tipo mafioso, in capo ai familiari del destinatario, era stato tuttavia emanato in assenza di comunicazione di avvio del procedimento, escludendo dunque – a monte – la partecipazione dell’interessato.
Prima di esaminare più nel dettaglio la questione giuridica e la decisione assunta a riguardo dal Giudice amministrativo, appare opportuno richiamare brevemente la disciplina sostanziale sulla quale essa si è incardinata e, in particolare, soffermarsi sulla particolare natura degli interessi coinvolti nel procedimento interdittivo, da cui discende la rilevanza della stessa vicenda processuale[ii].
L’informazione interdittiva antimafia è, com’è noto, un provvedimento di natura cautelare e preventiva che determina in capo al soggetto destinatario una particolare forma di incapacità giuridica nei rapporti con la pubblica amministrazione. Quel che vale a connotare spiccatamente tali provvedimenti è il fatto che essi si fondano su un giudizio di mera eventualità, che si esprime in un ampio grado di discrezionalità in merito a valutazioni fisiologicamente opinabili, poiché attinenti all’apprezzamento – avendo riguardo ad elementi sintomatici e indiziari – del rischio di ingerenza mafiosa e non all’accertamento della effettiva sussistenza del fatto[iii]. La valutazione è condotta, dunque, secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere ad un livello di certezza oltre “ogni ragionevole dubbio”, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa[iv].
In tale contesto, la declinazione del principio di legalità presenta una forma atipica, poiché l’esercizio del potere amministrativo non si esprime semplicemente attraverso la riconduzione del fatto ad una fattispecie normativa astratta, ma contempla la preventiva espressione di un’apposita valutazione – che definiamo “giudizio di eventualità” – sul potenziale sviluppo del fatto in questione, ai fini della sua attinenza alla fattispecie stessa.
L’estensione della normativa antimafia al sistema amministrativo presenta, invero, un tema di fondo che si sostanzia nella propensione legislativa a massimizzare l’interesse pubblico primario ad essa sotteso. Il difficile bilanciamento tra la “ragion pubblica” e le garanzie dei cittadini dinnanzi al potere viene, infatti, radicalmente operato in favore della prima. Così, l’istituto dell’informativa antimafia è passato dall’essere un elemento necessario soltanto nei casi in cui un operatore economico intendesse stipulare contratti con la pubblica amministrazione, ricevere da essa sovvenzioni o sfruttare economicamente beni pubblici, al diventare un fattore preclusivo all’emanazione di qualsivoglia provvedimento autorizzatorio da parte dell’amministrazione stessa a favore di soggetti ritenuti potenzialmenteinfluenzati da sistemi di natura mafiosa, determinando, di fatto, l’insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di tutte quelle situazioni giuridiche soggettive che determinino rapporti giuridici con la Pubblica amministrazione[v].
Emerge, allora, in tutta evidenza, la centralità e l’importanza della sottoposizione del potere prefettizio ad una attenta procedimentalizzazione, che, soprattutto attraverso l’accorta estrinsecazione della fase istruttoria, rappresenta il più importante – forse l’unico – elemento di garanzia per i cittadini, da far valere anche nella eventuale successiva sede giudiziaria.
2. La (ri)nascita dell’istruttoria procedimentale: l’art. 92, comma 2-bis del d.lgs. n. 159/2011
Il procedimento di rilascio dell’informazione antimafia è disciplinato dagli artt. 90 ss. del d.lgs. 159/2011. La vera e propria istruttoria procedimentale si apre, ai sensi dell’art. 92, laddove in sede di consultazione della Banca dati unica presso il Ministero dell’Interno si registrino profili indizianti astrattamente ostativi al rilascio dell’informazione liberatoria e si estrinseca in una serie non tipizzata di accertamenti riservati al Prefetto.
Tradizionalmente, in tali procedimenti il contraddittorio partecipativo era escluso o confinato ad ipotesi eventuali e non vincolanti[vi], come quella[vii] prevista dall’art. 93, comma 7, a ragione della particolare connotazione del provvedimento emanato e delle (presuntivamente) intrinseche necessità di celerità e segretezza.
Com’è noto, è la stessa legge n. 241/1990 a contemplare quelli in dottrina sono stati denominati “atti necessitati”[viii], ovvero provvedimenti amministrativi in cui l’urgenza di agire giustifica «modificazioni strutturali derivate»[ix] dell’atto ai fini della tutela dell’interesse pubblico[x]. Tipico esempio è la deroga all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento previsto in via generale dall’art. 7 nei casi in cui emergano «particolari esigenze di celerità» ed al fine di evitare il protrarsi di situazioni antigiuridiche[xi]. Tuttavia, in materia di informative antimafia, la giurisprudenza amministrativa era giunta a qualificare l’urgenza alla stregua di un ineliminabile presupposto di fatto dell’atto, tale da giustificare la totale assenza di qualsivoglia comunicazione all’interessato, suscitando in dottrina dubbi in merito alla stessa compatibilità dell’istituto con i principi, anche costituzionali, dell’azione amministrativa[xii].
A seguito dell’importante modifica al Codice antimafia introdotta dal d.l. n. 152/2021, lo scenario pare parzialmente differente. Il nuovo comma 2-bis dell’art. 91 prevede infatti che, laddove in sede di primo accertamento si riscontrino elementi indiziari tali da giustificare la possibile emanazione di un provvedimento interdittivo – ossia la sussistenza di cause di decadenza, sospensione o di divieto di cui all’art. 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84, comma 4 – il Prefetto debba darne tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa. Con tale comunicazione è, poi, assegnato al privato un termine non superiore a venti giorni per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere audizione dinnanzi all’autorità prefettizia, secondo le modalità già previste dall’art. 93.
L’istituto appare come una sorta di comunicazione “tardiva” di avvio del procedimento, sicuramente atipica, poiché di natura eventuale e collocata in una fase procedimentale già avanzata. La circolare del Ministero dell’Interno n. 77635/2021 l’ha qualificata come “preavviso di interdittiva”, accostandola alla ratio del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della l. n. 241/1990, del quale non può tuttavia essere considerata una species, non collocandosi nell’ambito di procedimenti ad istanza di parte.
Come opportunamente rilevato[xiii], peraltro, la previsione rischia di perdere nella prassi la sua effettività, a causa dell’ampio margine di discrezionalità che ne determina l’applicazione e che si traduce in un duplice limite. Il primo è rappresentato dalla valutazione delle «particolari esigenze di celerità del procedimento»; l’altro riguarda l’esclusione della comunicazione di «elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l’esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose». Di talché, ogni qual volta l’Amministrazione prefettizia ritenga sussistente una motivata urgenza di provvedere ovvero valuti gli elementi istruttori interamente (o quasi) non disvelabili, la comunicazione diverrebbe, rispettivamente, preclusa o inutile.
Malgrado tali limitazioni, non può non rilevarsi come l’evidente capovolgimento prospettico della norma operato dalla riforma del 2021, imponga ora che l’eventuale provvedimento adottato de plano illustri – con un’adeguata motivazione – le ragioni per cui l’adempimento dell’obbligo comunicativo avrebbe potuto compromettere il soddisfacimento dell’interesse pubblico cui il provvedimento è rivolto[xiv]. In sostanza, se prima l’assenza di contraddittorio era la regola, ora è la stessa assenza a dover essere giustificata, seppur con l’agevole ricorso ad ampie fattispecie di esclusione.
3. La decisione del T.A.R. Calabria
La sentenza in commento – che interviene proprio sull’adeguatezza della motivazione in merito all’esclusione delle garanzie partecipative previste dall’art. 92, comma 2-bis del Codice antimafia – coglie perfettamente la ratio di rinnovamento della riforma legislativa sopra richiamata. Dopo aver accolto la domanda di tutela cautelare monocratica ai sensi dell’art. 56 c.p.a., il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria ha adottato la decisione con sentenza breve, ex art. 60 c.p.a., considerando assorbente e dirimente la vicenda in esame.
Nel caso di specie, infatti, le «particolari esigenze di celerità del procedimento» previste dalla norma erano state genericamente motivate dalla Prefettura di Catanzaro facendo riferimento alla necessità di interrompere tutti i rapporti tra la società destinataria del provvedimento e la pubblica Amministrazione, sulla scorta dei rapporti, anche familiari, intrecciati con ambienti malavitosi locali, nonché all’opportunità di revocare la concessione demaniale marittima di cui la stessa è titolare prima della fine del periodo estivo.
Il Giudice amministrativo ha considerato tale motivazione insufficiente ed in contrasto con la nuova disciplina normativa alla luce di due considerazioni.
La prima attiene agli elementi di “collegamento” mafioso rilevati dall’amministrazione, che pur potendo costituire la ragione per l’emissione del provvedimento interdittivo alla chiusura del procedimento, non sono ritenuti in grado di giustificare ex se le esigenze di celerità e, dunque, l’esclusione del contraddittorio. L’onere di motivazione, sotto tale punto di vista, avrebbe dovuto, diversamente, esprimersi in una “urgenza qualificata”, congruamente rappresentata con riguardo alle concrete esigenze di soddisfacimento del pubblico interesse cui il provvedimento è proteso. D’altro canto, ragionando diversamente, si finirebbe per svuotare di significato la stessa novella legislativa dell’art. 92, poiché l’istruttoria – finalizzata all’acquisizione di ulteriori rilevanti elementi conoscitivi da parte dell’Amministrazione – verrebbe assorbita a monte dai profili indiziari riscontrati in prima analisi.
La seconda argomentazione di lega alla possibile applicazione delle c.d. misure amministrative di prevenzione collaborativa, pure introdotte dalla riforma del 2021. Si tratta, com’è noto, di disposizioni volte ad evitare il pesante effetto interdittivo ed adottabili laddove in fase istruttoria emergano ipotesi di agevolazione mafiosa meramente occasionale. Tali misure consentono dunque – a fronte del carattere meramente occasionale dei tentativi di infiltrazione e coerentemente con la volontà legislativa di diversificare le azioni amministrative di prevenzione – di anticipare nella fase amministrativa le misure di self cleaning previste per il controllo giudiziario, aprendo la via ad una collaborazione tra imprese ed amministrazione[xv].
Secondo la ricostruzione del Giudice amministrativo, l’amministrazione prefettizia avrebbe dovuto, anche in questo caso, motivare adeguatamente l’impossibilità di neutralizzare il rischio di infiltrazione attraverso l’applicazione dell’art. 94-bis, facendo applicazione del principio di proporzionalità amministrativa[xvi].
4. Notazioni conclusive
La pronuncia annotata si inserisce in un filone giurisprudenziale che manifesta apprezzabili aperture verso le garanzie partecipative nell’ambito dei procedimenti amministrativi interdittivi[xvii], seppur con i temperamenti dovuti alla particolarità degli interessi coinvolti ed alla natura del provvedimento adottato. All’amministrazione prefettizia non si chiede più soltanto di rappresentare il pericolo di infiltrazione come elemento giustificativo della “specialità” della vicenda procedimentale, ma anche di adempiere correttamente agli oneri istruttori e motivazionali, giustificando espressamente il mancato coinvolgimento del privato interessato.
La strada verso la realizzazione di un contraddittorio effettivo appare, tuttavia, lunga e la “ragion pubblica preventiva” risulta ancora assolutamente prevalente nel bilanciamento con gli interessi delle imprese. Basti pensare che il termine di venti giorni previsto dall’art. 92, comma 2-bis per la presentazione di osservazioni e documenti è inferiore a quello di trenta giorni previsto dalla legge generale sul procedimento per la formazione del silenzio rigetto sull’istanza di accesso agli atti. Ciò vuol dire che, in caso di tardiva (o tacitamente negata) ostensione dei documenti da parte dell’Amministrazione, la partecipazione dell’interessato potrebbe svolgersi in assenza di elementi conoscitivi anche importanti e senza la possibilità di adire il Giudice amministrativo.
Si tratta di distorsioni che andrebbero corrette dal legislatore, soprattutto nell’ottica del necessario “recupero” dell’impresa, che dovrebbe essere connaturata a misure – quali sono quelle antimafia – di natura preventiva e non sanzionatoria[xviii]. In tale prospettiva, la valorizzazione del dialogo con il privato destinatario del provvedimento, anziché rappresentare un fattore di rallentamento o di pregiudizio dell’azione amministrativa, potrebbe determinarne invece un proficuo rafforzamento[xix].
*Ricercatore di Diritto amministrativo, Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro.
[i] Sul punto si veda, ex multis, AA.VV., Diritto amministrativo e criminalità, Atti del XVIII Convegno di Copanello, 28-29 giugno 2013, a cura di F. Manganaro, A. Romano Tassone, F. Saitta, Milano, 2013, passim.
[ii] Per un approfondimento, si rinvia a F. Figorilli e V. Giulietti, Contributo allo studio della documentazione antimafia: aspetti sostanziali e di tutela giurisdizionale, in Federalismi.it, n. 14/2021; M. Mazzamuto, Pil salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, in Sistema penale, 2020; F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e costituzionalità della lotta «anticipata» alla criminalità organizzata, in Giustamm, 2018.
[iii] Cfr., ex multis, da ultimo Cons. St., sez. III, 21.06.2022, n. 5086, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iv] Cfr., per tutte, Cons. St., sez. III, 30.012019, n. 758; Cons. St., sez. III, 3.05.2016, n. 1743, e la giurisprudenza successiva, tutta conforme, da considerarsi qui richiamata, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina: F. Fracchia-M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico, in Il dir. dell’econ., 3/2018, 1125 ss.
[v] Cfr., Consiglio di Stato Ad. Plen., 6.04.2018, n. 3, in www.giustizia-amministrativa.it.
[vi] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 7 dicembre 2021, n. 8178, in www.giustizia-amministrativa.it. La giurisprudenza non mancava, tuttavia, di auspicare «un quantomeno parziale recupero delle garanzie procedimentali (…) in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale»: così, Cons. Stato, Sez. III, 30 luglio 2020, n. 4979, in www.giustizia-amministrativa.it.
[vii] L’art. 93, comma 7 del Codice antimafia, nella formulazione precedente alla riforma del 2021, riconosceva al Prefetto, ove ritenuto opportuno, la facoltà di invitare, ove lo ritenesse utile, «i soggetti interessati a produrre» documenti ed informazioni.
[viii] M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur compl. Cass. sez. civ., XXVII, I quadr., 1948, ora in Scritti, vol. II, 1939-1948, Giuffrè, Milano, 949 ss.
[ix] M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, cit., 952.
[x] Per un approfondimento sul tema, sia consentito il rinvio a S. Gardini, Note sui poteri amministrativi straordinari, in Il Diritto dell’economia, 2/2020.
[xi] Per un preciso inquadramento dottrinale dell’art. 7 della l. 241, si rinvia a R. Proietti, La partecipazione al procedimento amministrativo, Commento agli artt. 7-8, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M. A. Sandulli, Giuffrè, Milano, 2017, 566 ss. e, più in generale, a E. M. Marenghi, I confini del diritto alla partecipazione, Giuffrè, Milano, 2013, passim.
[xii] Cfr., F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza, cit..
[xiii] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio nel procedimento di rilascio d’informazione antimafia, intervento svolto al convegno “Il nuovo volto delle interdittive antimafia alla luce del P.N.R.R.”, T.A.R. Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria, 8 aprile 2022. Sul punto, anche M. Cocconi, Il perimetro del diritto al contraddittorio nelle informazioni interdittive antimafia, in Federalismi.it, 2022.
[xiv] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio, cit.
[xv] Cfr., M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in questa Rivista, 2022.
[xvi] La norma prevede, in particolare, che il Prefetto, quando accerti che i tentativi di infiltrazione mafiosa sono riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, prescriva all’impresa, società o associazione interessata l’osservanza, per un periodo compreso tra sei e dodici mesi, di una o più misure tra: l’adozione e l’efficace attuazione di misure organizzative, anche ai sensi del d. lgs. 231/2001, per rimuovere e prevenire le cause di agevolazione; la comunicazione al gruppo interforze di una serie di atti (di disposizione, acquisto, pagamento effettuati, di pagamenti ricevuti, di incarichi professionali conferiti e di amministrazione e gestione fiduciaria ricevuti), di valore non inferiore a 5.000 euro (o valore superiore definito dal prefetto), entro quindici giorni dal loro compimento; la comunicazione al gruppo interforze, da parte di società di persone o capitali, dei finanziamenti in qualsiasi forma erogati da parte di soci o di terzi; la comunicazione al gruppo interforze dei contratti di associazione in partecipazione stipulati; l’utilizzo di un conto corrente dedicato, per pagamenti, riscossioni e finanziamenti elencati (cfr., art. 94-bis, Cod. ant.).
[xvii] Si vedano, a riguardo, i contributi di R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020); R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979); Id., Brevi note sul riformato contraddittorio procedimentale in tema di interdittiva antimafia (nota a T.A.R. Lecce, sez. III, 116/2022) e la giurisprudenza ivi citata, tutti in questa Rivista, a cui si rinvia per ulteriore approfondimento.
[xviii] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio, cit.
[xix] Cfr., M. Cocconi, Il perimetro del diritto al contraddittorio, cit.
Scheda n. 14 - Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (Art. 131-bis c.p.)
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’art. 1 comma 1 lett. c) d. lgs. 150/2022 modifica parzialmente la disciplina dell’art. 131-bis c.p. al fine di ampliare l’ambito di operatività dell’istituto in ottica di deflazione del sistema penale.
CATEGORIE DI REATI PER I QUALI È APPLICABILE L’ART. 131-BIS C.P.
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 131-bis. Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. 1. Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. 2. L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. L'offesa non può inoltre essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 558-bis, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583, secondo comma, 583-bis, 593-ter, 600-bis, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-undecies, 612-bis, 612-ter, nonché dall’articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194, ovvero per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ovvero nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell'esercizio delle proprie funzioni, e nell'ipotesi di cui all'articolo 343. L’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 391-bis, 423, 423-bis, 600-ter, primo comma, 613-bis, 628, terzo comma, 629, 644, 648-bis, 648-ter, nonché per i delitti di cui agli articoli 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo, e 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. 3. Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. 4. Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69. 5. La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. |
Il nuovo art. 131-bis c.p. prevede l’applicabilità generalizzata dell’art. 131-bis c.p. a tutti i reati puniti con pena minima pari o inferiore a due anni.
Cade, invece, il riferimento al limite massimo di pena, cosicché tale causa di esclusione della punibilità potrà essere applicata anche a reati con pena edittale massima superiore a cinque anni di reclusione.
Conseguenze sul piano applicativo
Il nuovo istituto potrà applicarsi a un più ampio novero di fattispecie, tra cui, a titolo d’esempio, il delitto di falso di cui all’art. 495 c.p., la rapina tentata di cui al comma 1 dell’art. 628 c.p., il furto nelle ipotesi aggravate di cui all’art. 625, comma 1, c.p.
Le eccezioni
Il comma 4 dell’art. 131-bis introduce delle eccezioni espresse alla regola generale, avendo il legislatore ritenuto che, in relazione a determinati reati, l’offesa non possa mai essere considerata di speciale tenuità. Si tratta delle seguenti categorie di reati:
a) delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, quando sono commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;
b) delitti di violenza e minaccia al pubblico ufficiale, resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio a pubblico ufficiale (quando il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni), nonché per il delitto di oltraggio a magistrato in udienza;
c) la maggior parte dei delitti, consumati o tentati, contro la Pubblica Amministrazione, segnatamente, il peculato di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., la concussione, le varie fattispecie di corruzione e l’indebita induzione a dare o promettere utilità;
d) incendio colposo e incendio boschivo;
e) costrizione o induzione al matrimonio;
f) lesioni personali nelle ipotesi aggravate:
- di cui agli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1 (quindi nei casi di lesioni commesse in occasione dei delitti di cui all’art. 612-bis, 572, 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p.)
- di cui all’art. 577, primo comma, numero 1, e secondo comma (quindi nei casi di lesioni ai danni di ascendente, discendente, coniuge – separato o divorziato – persona stabilmente convivente o legata al colpevole da relazione affettiva, fratello o sorella, affine in linea retta);
- di cui all’art. 583, secondo comma (lesioni personali gravissime);
g) altri reati contro la persona quali pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, interruzione colposa di gravidanza, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minore, corruzione di minorenne, adescamento di minori, atti persecutori, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, tortura;
h) alcuni reati contro il patrimonio tra cui rapina nelle sole ipotesi aggravate di cui all’art. 628, terzo comma, estorsione, usura, riciclaggio e impiego di denaro o beni o utilità di provenienza illecita;
i) delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194 (interruzione volontaria di gravidanza effettuata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge);
l) reati in materia di sostanze stupefacenti di cui al d.P.R. 309/1990, fatta eccezione per le ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5;
m) reati di abuso o comunicazione illecita di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato (artt. 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58).
CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA SPECIALE TENUITÀ |
Nel comma secondo del nuovo art. 131-bis c.p. si specifica che, per stabilire se l’offesa sia di particolare tenuità, può prendersi in considerazione anche la «condotta susseguente al reato».
Con tale specificazione si chiarisce che il giudice, ai fini della valutazione del carattere di tenuità dell’offesa, può valorizzare le condotte risarcitorie o riparatorie poste in essere successivamente al fatto di reato: in tal modo il legislatore delegato pone fine alle incertezze applicative insorte in ordine alla possibilità di valutare anche tale profilo ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p.
DISCIPLINA TRANSITORIA
La norma è applicabile – a seguito della modifica introdotta dall’art. 6 d.l. 31 ottobre 2022 n. 162 che ha posticipato l’entrata in vigore della riforma introducendo il nuovo art. 99-bis – a partire dal 30 dicembre 2022.
Secondo una parte della dottrina, invece, il nuovo art. 131-bis c.p., essendo norma sostanziale più favorevole rispetto alla vecchia formulazione, potrebbe trovare applicazione anche nel periodo di prolungata vacatio legis, quindi già a partire dal 2 novembre 2022: tale opzione interpretativa si fonda sull’assunto secondo cui la ratio di garanzia della conoscibilità della legge penale, connessa al termine di vacatio legis, è un indispensabile presupposto per l’applicazione di norme penali sfavorevoli, non anche di norme penali favorevoli all’agente[1].
In ogni caso il nuovo art. 131-bis c.p. sarà applicabile anche ai fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, in ossequio alla regola generale di cui all’art. 2, comma 4, c.p., proprio perché si tratta di norma più favorevole rispetto a quella previgente.
[1] cfr. G.L. Gatta “Rinvio della riforma Cartabia: una scelta discutibile e di dubbia legittimità costituzionale. E l’Europa?” in www.sistemapenale.it
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