Giudizi in corso e intervento legislativo. Dalla Consulta un altro arresto
di Tiziana Orrù
Il contenzioso sul trattamento economico del personale dell’Amministrazione affari esteri nei periodi di servizio in territori stranieri è l’occasione per la Corte costituzionale per rimettere un punto fermo sulla possibile interferenza della legge, giustificata da ragioni finanziarie, nell’attività giurisdizionale. Si rinnova così il dialogo con la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina: le indennità dovute al dipendente pubblico per il servizio all’estero – 3. Alcune travagliate vicende giurisprudenziali – 4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione – 5. Le valutazioni giuridiche espresse dalla Consulta – 6. Conclusioni: c’è un giudice anche a Strasburgo.
1. Premessa
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 145 depositata il 13 giugno 2022 (relatrice prof.ssa Sciarra) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito con modificazioni nella l. 14 settembre 2011, n. 148, nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione.
La decisione (allegata alla presente nota) ha ad oggetto il pagamento dell'indennità di amministrazione in favore del personale all'estero e pone termine ad un contenzioso “seriale” di ampia portata, che si è sviluppato in primo e secondo grado, circa la natura dell’art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 che, interpretando l’art. 170 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), ha escluso l'indennità di amministrazione dal trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti del Ministero degli Affari Esteri in servizio all'estero.
La sentenza della Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità di tale interpretazione autentica limitatamente alle fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore per contrasto, tra l’altro, con l’art. 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 6 della CEDU.
La decisione desta un certo interesse non solo per il definitivo accertamento della natura innovativa del citato art. 1-bis, ma anche per il percorso argomentativo della Corte Costituzionale nella ricostruzione dei rapporti tra la normativa nazionale e quella sovranazionale soprattutto con riferimento all’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali.
La Corte Costituzionale, valorizzando la conoscenza delle reciproche aree di intervento, perfeziona e sviluppa un dialogo con la Corte EDU fondato su una reciproca opera di costruttiva cooperazione riaffermando con forza il principio
2. La disciplina: le indennità dovute al dipendente pubblico per il servizio all’estero.
Il d.lgs. n. 165 del 24 marzo 2001, testo unico sul lavoro pubblico, disciplina i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e detta norme di carattere generale sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici.
Coerentemente con la natura di disciplina organica e tendenzialmente completa del testo unico, il citato decreto legislativo classifica, fin dai primi articoli, le varie categorie di dipendenti pubblici, distinguendo tra personale in regime di diritto pubblico (i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia e altre puntuali specificazioni) e personale privatizzato, i cui rapporti di lavoro sono regolati con contratti individuali, disciplinati dalle disposizioni contenute nel codice civile (capo I, titolo II, libro V) e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa. Successivamente è intervenuta la c.d. riforma Brunetta, codificata con il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, recante norme sull’attuazione della l. 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, che ha introdotto una riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, di cui all'art. 2, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Il medesimo d.lgs. n. 165 del 2001, all’art. 45, comma 1 dispone che il trattamento economico fondamentale ed accessorio, fatte salve alcune eccezioni, è definito dai contratti collettivi.[1]
Il successivo comma 5 prevede poi in particolare che le funzioni e i relativi trattamenti economici accessori del personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri, per i servizi che si prestano all'estero, sono disciplinati, limitatamente al periodo di servizio ivi prestato, dalle disposizioni del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 e successive modificazioni ed integrazioni nonché dalle altre pertinenti normative di settore del Ministero degli affari esteri.
L’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 dispone:
"Il personale dell'Amministrazione degli affari esteri, oltre allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, compresa l'eventuale indennità o retribuzione di posizione nella misura minima prevista dalle disposizioni applicabili, tranne che per tali assegni sia diversamente disposto, percepisce, quando è in servizio presso le rappresentanze diplomatiche e gli uffici consolari di prima categoria, l'indennità di servizio all'estero, stabilita per il posto di organico che occupa, nonché le altre competenze eventualmente spettanti in base alle disposizioni del presente decreto.
Nessun'altra indennità ordinaria e straordinaria può essere concessa, a qualsiasi titolo, al personale suddetto in relazione al servizio prestato all'estero in aggiunta al trattamento previsto dal presente decreto.
A norma dell'articolo 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 le disposizioni di cui all’art. 170 si interpretano nel senso che:
a) il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione degli affari esteri nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento a "stipendio" e "assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno", non include né l'indennità di amministrazione né l'indennità integrativa speciale;
b) durante il periodo di servizio all'estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18.
Al fine di una migliore comprensione della vicenda sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale giova premettere alcune considerazioni in merito agli istituti retributivi presi in considerazione dalle norme citate.
L’indennità di servizio all’estero disciplinata dall’art. 171 del d.P.R. n. 18 del 1967 non ha natura retributiva, essendo destinata a sopperire agli oneri derivanti dal servizio all'estero, ed è ad essi commisurata. Essa tiene conto della peculiarità della prestazione lavorativa all'estero, in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico-consolare; è onnicomprensiva; ha carattere di rimborso spese e, come tale, non è tassabile né pensionabile; ha carattere transitorio. È percepita, cioè, solo nei periodi in cui si permane all’estero (in tal senso Cass. 14112/2016; 6039/2018; 27345/2019).
L’indennità di amministrazione è stata istituita con il primo ccnl del Comparto Ministeri (1994/1997) in attuazione del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 72, comma 2 con la finalità di conservare nell'impiego privatizzato i trattamenti accessori corrisposti ai dipendenti ministeriali nel regime pubblicistico con carattere di generalità e continuità. Nei successivi rinnovi contrattuali gli importi previsti a titolo di indennità di amministrazione hanno tentato di agevolare il processo di perequazione delle retribuzioni complessivamente spettanti al personale del comparto ministeri. L'art. 17, comma 11, del ccnl integrativo del ccnl 1998/2001 ha poi specificamente previsto che l’indennità di amministrazione è corrisposta per dodici mensilità, ha carattere di generalità ed ha natura fissa e ricorrente.
In estrema sintesi può senz’altro essere affermato che l'indennità di amministrazione è una voce della retribuzione accessoria corrisposta continuativamente per dodici mensilità in tutte le amministrazioni dell'ex comparto Ministeri con importi diversi da amministrazione ad amministrazione, ma in misura fissa nell'ammontare in relazione a ciascuna posizione di inquadramento (in tal senso Cass. S.U. 13 luglio 2005 n. 14698 e successive conformi: Cass. 18196/2017; 22612/2015; 9313/2011; 11814/2008, 5118/2008, 2355/2007, 19564/2006).
L’indennità integrativa speciale (i.i.s.), istituita con l. n. 324 del 1959, a seguito di una costante evoluzione ad opera di numerosi interventi normativi e contrattuali collettivi (tra cui il ccnl di comparto del 24 luglio 2003 che ha previsto il c.d. conglobamento dell’indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare) ha perduto nel tempo la sua connotazione originaria, per assumere definitivamente un carattere retributivo; attualmente costituisce per il personale pubblico contrattualizzato un assegno mensile, calcolato in misura diversa per le differenti Aree/posizioni economiche, avente lo scopo di adeguare le retribuzioni al costo della vita e viene corrisposto per tredici mensilità.
Tuttavia l’i.i.s., in considerazione delle diversità di regime normativo previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, non ha un’applicazione uniforme per tutti i dipendenti pubblici in servizio all’estero.[2]
3. Alcune travagliate vicende giurisprudenziali.
La ricostruzione della diversità di natura e funzione delle voci retributive riconosciute al personale dipendente del MAECI in servizio all’estero ha determinato la composizione di un cospicuo contenzioso di natura seriale presente su tutto il territorio nazionale che spesso si è intersecato con il distinto contenzioso del personale scolastico in servizio all’estero.[3]
La giurisprudenza di merito e di legittimità ha, ad esempio, affermato la diversa natura dell’assegno di sede estera percepito dal personale scolastico in servizio all’estero rispetto alle speciali indennità previste dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 per il personale dell’Amministrazione degli Affari Esteri.
La scelta ermeneutica ormai consolidata[4] si fonda sulla differente denominazione e struttura delle indennità riconosciute dall'art. 27 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 (assegno di sede) per i dipendenti del Ministero dell'istruzione, ai quali non si applica il coefficiente di maggiorazione di sede stabilito dall'art. 5 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 per il personale del servizio diplomatico consolare del Ministero degli esteri, al quale invece spetta una indennità di servizio estero quantificata in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico consolare in considerazione del tenore di vita e del decoro specificamente connessi agli "obblighi derivanti dalle funzioni esercitate”.
Corollario di tale interpretazione è che il richiamato art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011 (oggetto della pronuncia della Corte Costituzionale in commento) non si applica ai docenti che prestano servizio all’estero, in quanto la disposizione si riferisce esplicitamente all’indennità di servizio estero prevista per il personale dell’Amministrazione degli Affari Esteri, che è analoga ma non coincidente, neppure negli importi, con l’assegno di sede percepito dagli insegnanti.
Altra questione correlata al tema in discussione ha ad oggetto il pagamento dell'indennità integrativa speciale non corrisposta dall'Amministrazione degli Affari Esteri sullo stipendio percepito durante il periodo di servizio svolto all'estero, stante la pretesa non cumulabilità di quell'indennità con l'indennità di servizio all'estero erogata.
Il contenzioso ha trovato definitiva conferma dell’applicabilità alla fattispecie della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138,[5] ritenuta costituzionalmente legittima.
La diversa opzione circa il sindacato di legittimità costituzionale della norma rispetto al cumulo tra indennità di amministrazione e indennità di sede estera (oggetto della decisione in commento) risiede nella natura e nella funzione degli emolumenti (i.i.s. e i.s.e.), entrambi corrisposti per sopperire ad esigenze correlate al costo della vita.
La giustificazione si rinviene nel fatto che la determinazione dei coefficienti di sede necessari per il calcolo dell’i.s.e. tiene conto delle variazioni del costo della vita, del corso dei cambi, dei disagi eventuali della sede, nonché dei costi per gli alloggi e per il personale domestico, indici tutti equivalenti all'indice del costo della vita, posto a base dell'aggiornamento annuale dell'indennità integrativa speciale.[6]
Lo stesso legislatore, nel ribadire la vigenza dell’indennità integrativa speciale con il d.lgs. n. 179 del 2009 (n. 1628 dell'allegato 1), all'art. 1, dopo aver indicato le modalità di calcolo della i.i.s., alla lettera d) del comma 2 ha stabilito che detta indennità “non è dovuta al personale civile e militare in servizio all'estero fornito dell'assegno di sede previsto dalla L. 4 gennaio 1951 n. 13 o da disposizioni analoghe”.
Differentemente per il personale scolastico (dipendente dal MIUR) che presta servizio nelle istituzioni estere la questione relativa alla compatibilità tra assegno di sede e indennità integrativa speciale è stata risolta sulla base della diversa disciplina che regola il rapporto di lavoro, sul presupposto che la norma di interpretazione autentica abbia riguardo al solo personale del MAECI, come chiaramente espresso dalla lettera b) dello stesso art. 1-bis, che prevede che durante il periodo di servizio all’estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18.
Coerentemente, ed in ragione del ruolo attribuito alle parti sociali attraverso la contrattazione collettiva in relazione alla determinazione del trattamento economico dei dipendenti pubblici (d.lgs. n. 165 del 2001, art. 45), la clausola di cui alla nota a verbale dell'art. 76 del c.c.n.l. del comparto scuola del 24 luglio 2003 ha previsto specificamente che la ritenuta relativa all'indennità integrativa speciale sullo stipendio, ivi stabilita per il personale in servizio all'estero, non è applicabile a decorrere dal successivo c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007, ove non è stata reiterata la relativa previsione, avendo detta indennità perso la sua iniziale funzione di adeguamento al costo della vita e concorrendo, ormai, a formare lo stipendio tabellare.[7]
Il contenzioso di cui si è invece occupata la Corte Costituzionale con la decisione in commento ha ad oggetto la cumulabilità, per i periodi di servizio all’estero, dell’indennità di sede estera con l’indennità di amministrazione.
4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione.
Alcuni dipendenti del MAECI (già Ministero degli Affari Esteri - MAE) avevano presentato ricorso al giudice del lavoro chiedendo una pronuncia di accertamento del loro diritto a percepire, durante il periodo di servizio all’estero, l’indennità di amministrazione unitamente all’indennità di servizio estero prevista dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, con conseguente richiesta di condanna al pagamento delle somme dovute a titolo di indennità di amministrazione durante il periodo di servizio all’estero.
In sintesi, nel giudizio di fronte alla Corte di Cassazione contestavano l’illegittimità della mancata corresponsione dell’indennità di amministrazione prevista dalla contrattazione collettiva sulla base della non cumulabilità di tale emolumento con l’indennità di servizio estero prevista dall’art. 170 d.P.R. n. 18 del 1967 così come disposto art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011 n. 138, convertito, con modificazioni, in l. 14 settembre 2011 n. 148.
Specificavano che fino all’entrata in vigore della norma censurata la giurisprudenza di merito si era orientata prevalentemente a favore della tesi della cumulabilità, in coerenza con la natura retributiva e non compensativa dell’indennità di amministrazione, che la rendeva assimilabile agli “assegni a carattere fisso e continuativo”.
Assumevano la natura innovativa della disposizione del suddetto art. 1-bis e, dunque, la sua inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie di causa e chiedevano, ove la Corte avesse invece ritenuto la norma di interpretazione autentica, di rimettere la questione alla Corte Costituzionale - per contrasto: con l'art. 6 della CEDU in relazione all'art. 10 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 1; con l'art. 1 del protocollo I addizionale alla CEDU, sempre in relazione all'art. 10 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 1; con gli artt. 101, 102, 104 Cost.; con gli artt. 3 e 36 Cost.
La Corte di Cassazione con ordinanza del 27/11/2020 n. 27174, previa declaratoria di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, ha rimesso il giudizio alla Corte Costituzionale sul presupposto che l’efficacia retroattiva della norma (chiaramente espressa nel testo) entrerebbe in contrasto sul piano della ragionevolezza con molteplici valori costituzionalmente tutelati.[8]
L’esito del contenzioso sorto in epoca antecedente all’emanazione dell’art. 1-bis citato riteneva legittimo il cumulo dell’indennità di amministrazione e dell’indennità di sede estera in considerazione della natura e della funzione dei due emolumenti[9], che pertanto dovevano essere erogati a tutto il personale in servizio all’estero.
Il primo dubbio di legittimità costituzionale del d.l. n. 138 del 2011, art. 1-bis, attiene, secondo l’ordinanza di rimessione, alla violazione del parametro della ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., comma 1: la diversità tra la disciplina originaria e quella sopravvenuta, che presenta un insopprimibile elemento di novità nella indennità oggetto della interpretazione; qualifica l’art. 1-bis in termini di norma innovativa con efficacia retroattiva… che può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata.
Il secondo e terzo dubbio di legittimità costituzionale attengono alla violazione degli artt. 24 comma 1, 101, 102 e 104 Cost., sotto il profilo della compromissione dell’effettività della tutela giurisdizionale in quanto la norma è dichiaratamente finalizzata ad incidere su concrete fattispecie sub iudice.[10]
Il quarto profilo di contrasto con la Carta costituzionale è ravvisato nei confronti degli artt. 111 e 117, comma 1 Cost., - quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle Libertà Fondamentali - poiché la norma censurata, nel predeterminare l’esito dei giudizi in favore dell’amministrazione statale, si porrebbe in contrasto con il principio della parità delle parti, con il diritto a un equo processo e con la tutela dell’affidamento.[11]
L’ultimo sospetto di illegittimità costituzionale si configura, secondo l’ordinanza di rimessione, in riferimento all'art. 39 Cost., comma 1, in quanto l’intervento legislativo retroattivo operato sull’assetto del trattamento economico complessivo dei dipendenti del MAECI avrebbe leso l’autonomia delle parti sociali nella sede negoziale collettiva.
5. Le valutazioni giuridiche espresse dalla Consulta.
A seguito dell’udienza di discussione del 10 maggio 2022 la Corte Costituzionale ha depositato in data 13 Giugno 2022 la sentenza n. 145 con la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione.
La Corte, nel confermare la natura giuridica e la funzione dell’indennità di amministrazione e dell’indennità di sede estera così come ricostruite dalla giurisprudenza di legittimità, ha rilevato che l’efficacia retroattiva della legge deve trovare adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.
La Corte Costituzionale richiama in apertura della motivazione la sentenza della medesima Corte n. 133 del 2020, in cui si ribadisce che una norma può essere qualificata di interpretazione autentica solo se esprime, anche nella sostanza, un significato appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata, secondo gli ordinari criteri di interpretazione della legge, e che il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni, anche in mancanza di contrasti giurisprudenziali, purché la scelta imposta dalla legge interpretativa rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario.
Nel caso di specie esclude che l’art. 1-bis costituisca una norma di interpretazione autentica quanto piuttosto una norma innovativa con efficacia retroattiva, precisando che l’efficacia retroattiva della legge deve trovare un’adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.[12]
Prosegue specificando che nella relazione tecnica all’emendamento 1.0.35 presentato al Senato della Repubblica in sede di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. n. 138 del 2011, si dava atto che il contenzioso riferito all’indennità di amministrazione constava di trentadue ricorsi, per un numero complessivo di 1131 dipendenti, dei quali 454 avevano ottenuto sentenza favorevole; che le sentenze di primo grado già emesse erano otto, ed altrettante erano le sentenze che avevano deciso in senso sfavorevole per l’Amministrazione. Si stimava inoltre il presumibile impatto economico di tale contenzioso nei successivi cinque anni.
La ratio della norma oggetto di emendamento era espressamente individuata nell’esigenza di chiarire la portata dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, per porre termine al contenzioso «seriale», riferito sia all’indennità di amministrazione, sia all’indennità integrativa speciale, dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica.
Rileva la Corte che i soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso.
L’efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare l’interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso, si pone in evidente e aperta frizione con il principio di parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria.
Le leggi retroattive o di interpretazione autentica che intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato è parte, in modo tale da influenzarne l’esito, comportano un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 CEDU.
Conclusivamente la Corte Costituzionale ha evidenziato, sempre con riguardo alla norma censurata, che lo scopo dichiarato di porre fine al contenzioso «seriale», che aveva visto l’Amministrazione soccombente, non consente di invocare motivi imperativi di interesse generale, non esplicitati nei lavori preparatori e neppure ricavabili dall’esame del quadro normativo, in quanto le pretese delle parti coinvolte nel contenzioso risultano incardinate nelle fattispecie sorte prima dell’entrata in vigore della disposizione con efficacia retroattiva, proprio perché volte a preservare la corrispettività fra prestazioni svolte all’estero e trattamento retributivo complessivo.
6. Conclusioni: c’è un giudice anche a Strasburgo
La decisione in commento conferma le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza costituzionale rispetto al ruolo da riconoscersi alla giurisprudenza europea, quale espressione di una costruttiva cooperazione nell’ambito di complesse dinamiche interistituzionali.
Una questione centrale e continuamente ricorrente è quella relativa al ruolo da attribuire alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Non è questa la sede adatta per dilungarsi sul punto, tuttavia è bene ricordare che il problema del rispetto della giurisprudenza di Strasburgo è emerso con forza con le “sentenze gemelle” del 2007 n. 348 e n. 349, nelle quali la Corte Costituzionale ha affermato che la CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, rappresenta, per effetto del rinvio mobile previsto dall’art. 117, primo comma, Cost., una fonte di rango sub-costituzionale attraverso la quale ricercare il più ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, comma 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale ha consentito di rafforzare il principio secondo il quale l’enucleazione dalle pronunce di Strasburgo di norme da porre a base del controllo di costituzionalità è possibile a condizione che esse riflettano uno stato consolidato di quella giurisprudenza, ovvero il suo diritto vivente, e che da esse derivi un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali.
La Corte Costituzionale ha in più occasioni favorito l’integrazione dell’ordinamento interno con i livelli sovranazionali di protezione dei diritti, accogliendo le interpretazioni fornite dalla Corte di Strasburgo che assicuravano un livello di tutela dei diritti più ampio di quello garantito dalle norme nazionali.[13]
Al contrario, ribadendo il suo ruolo di garante ultima delle libertà fondamentali consacrate dalla Carta costituzionale, la Corte ha negato l’integrazione del diritto nazionale alla giurisprudenza CEDU che non riconosceva adeguati standard di tutela.[14]
Mentre, infatti, la Corte EDU pronuncia con effetti limitati al caso concreto, la Corte Costituzionale è chiamata ad apprestare una tutela dei diritti sistemica e non frazionata, inquadrandoli nella cornice pluralistica della Costituzione.
Facendo applicazione di quanto sopra, anche nel caso in commento la Corte Costituzionale ha fatto propri i principi e le regole del diritto ultranazionale dei diritti umani, trasfondendoli nel diritto nazionale.
L’arresto della Corte Costituzionale ha, infatti, l’indubbio merito di consolidare il principio più volte espresso dalla giurisprudenza della Corte EDU[15] secondo il quale le considerazioni di natura finanziaria non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie, né consentire la retroattività di una norma. L’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia può essere giustificata solo per imperative ragioni di interesse generale.
[1] In sintesi la contrattazione collettiva è considerata come una fonte eteronoma di livello nazionale che determina il trattamento economico dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Questo è costituito dai compensi di natura fissa e continuativa (trattamento fondamentale) e da indennità di varia natura; alcune di esse concorrono con lo stipendio a formare il trattamento economico fondamentale, altre costituiscono il trattamento accessorio, ossia la componente variabile dello stipendio.
[4] Cfr. per tutte Cass. 30 ottobre 2014, n. 23058 e Cass. 16 novembre 2017, n. 27219.
[5] Cass. 17/12/2019, n. 33395 e successive conformi, tra le quali da ultimo Cass. 05/05/2021, n. 11759, per la quale la norma si è limitata ad enucleare una delle possibili opzioni ermeneutiche dell'originario testo normativo, alla quale si sarebbe comunque pervenuti per la natura e la funzione degli emolumenti: la chiara natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, poiché si è limitata a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi (v. ex plurimis, Corte Cost. n. 274 del 2006; n. 282 del 2005; n. 15 del 2005; n. 240 del 2007), definendo e delimitando la fattispecie normativa proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico (v. Corte Cost. n. 209 del 2010), così da non vulnerare le attribuzioni del potere giudiziario e non incorrere in alcuna violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone al legislatore di conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e così a quello inerente al principio di preminenza del diritto ed a quello del processo equo, consacrati nell'art. 6 della CEDU, mentre, anche in considerazione delle interpretazioni rese plausibili dalla norma interpretata, difetta ogni elemento per potere desumere che sia stata diretta ad incidere sui giudizi in corso, per determinarne gli esiti (Corte Cost. n. 15 del 1995; n. 397 del 1994).
[6] La giurisprudenza amministrativa ha sempre evidenziato l’identità di funzione delle due indennità (v. Cons. Stato 25 maggio 2012, n. 3088; Consiglio di Stato 24 febbraio 2011, n. 1223.
[7] In tal senso Cass. n. 17134 del 2013, confermata da Cass., ord., 18/10/2019, n. 26617 che ha sottolineato il tema della non facile conciliabilità tra il disposto conglobamento della misura della indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare e la natura non retributiva legislativamente qualificata - del d.lgs. n. 297 del 1994, art. 658 e successive modificazioni - dell’assegno di sede, con conseguente non agevole equiparabilità, sotto il profilo funzionale, dell’indennità integrativa speciale quale componente dello stipendio tabellare e l’assegno stesso.
[8] La Corte di Cassazione dubita che la norma sia sostenuta da adeguati motivi di interesse generale, sì da rappresentare un puntuale bilanciamento tra le ragioni della sua emanazione ed i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall'efficacia a ritroso della norma adottata.
[9] V. infra § -1-
[10] L’Avvocatura dello Stato, nella memoria depositata per l’udienza pubblica del 4 marzo 2020, ha specificato che la ratio della norma risiede nella necessità "di fornire l'esatta interpretazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 170, al fine di porre termine al contenzioso seriale, riferito sia all'indennità di amministrazione sia all'indennità integrativa speciale, instauratosi nei confronti del MAE, dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica".
[11] La Corte di Cassazione richiama sia la giurisprudenza costante della Corte EDU, secondo cui è precluso
al legislatore di interferire sulle controversie in atto, salvo che ricorrano impellenti motivi di interesse generale, sia la giurisprudenza costituzionale che, in armonia con la giurisprudenza convenzionale, attribuisce rilievo, tra gli elementi sintomatici di un uso distorto della funzione legislativa, al metodo e alla tempistica dell’intervento del legislatore (sono richiamate le sentenze della Corte Costituzionale n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) sottolineando che i «motivi finanziari», esplicitati nella relazione tecnica dei lavori preparatori della norma censurata, non sarebbero sufficienti a giustificare l’intervento del legislatore
sul contenzioso in atto, né vi sarebbe stata l’esigenza di porre rimedio a imperfezioni del testo normativo
originario.
[12] In uno scrutinio stretto di costituzionalità, che si impone in questo caso, poiché serve riscontrare non “la mera assenza di scelte normative manifestamente irragionevoli, ma l’effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell’intervento legislativo” (ex plurimis, sentenze n. 108 del 2019 e n. 173 del 2016), occorre verificare se le giustificazioni, poste alla base dell’intervento legislativo a carattere retroattivo, prevalgano rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi da tale efficacia a ritroso. Tali valori sono individuati nel legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, nel principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, nel giusto processo e nelle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ex plurimis, sentenze n. 104 e n. 61 del 2022, n. 210 del 2021, n. 133 del 2020 e n. 73 del 2017).
[13] Ciò è avvenuto, ad esempio, con le sentenze in materia di risarcimento del danno derivante da appropriazione acquisitiva della pubblica amministrazione, meglio nota come “accessione invertita” (sentenza n. 349 del 2007); di computo del giusto indennizzo espropriativo (sentenza n. 338 del 2011); con la sentenza sulla revisione del processo penale per l’ipotesi in cui la sentenza di condanna sia stata resa in un giudizio che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia considerato non equo per violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (sentenza n. 113 del 2011).
[14] Ciò è avvenuto con la sentenza n. 264 del 2012, relativa alla disciplina dei contributi previdenziali versati in Svizzera da lavoratori italiani. Al riguardo, la Corte di Strasburgo aveva ritenuto che contrastasse con la CEDU una legge italiana che modificava retroattivamente i trattamenti pensionistici di quei lavoratori. La Corte Costituzionale non si è allineata a tale pronuncia, considerando pienamente giustificata la disciplina retroattiva alla luce dei principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà, non valutati dalla Corte di Strasburgo in sede di bilanciamento. La Corte italiana ha quindi ribattuto che, nel caso di specie, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretata dalla Corte EDU, non poteva integrare l’ordinamento interno.
[15] Ex plurimis, sentenze 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 132; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 47; 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, paragrafo 39.