ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: prima di tutto solo cose inutili, greco, latino, matematica pura e filosofia,………….col sapere utile si possono fare solo piccole cose”. Agnes Heller (1929 – 2019), Solo se sono libera
Sommario: 1. Il Piano Scuola 4.0. e la necessità che i giuristi vi prestino attenzione. - 2. I dubbi di legittimità costituzionale di tale rivoluzione scolastica posta in essere con un semplice allegato ad un decreto del Ministero dell’Istruzione. - 3. Le incostituzionalità sostanziali per contrarietà del Piano alla libertà di insegnamento e al diritto degli alunni di ricevere dalla scuola pubblica quella formazione necessaria a renderli cittadini critici di una società democratica. - 4. Qualche riflessioni conclusiva in difesa della scuola pubblica e della sua funzione costituzionale.
1. Il Ministero dell’Istruzione, con il decreto n. 161 del 14 giugno 2022, ha adottato il c.d. “Piano Scuola 4.0.”
Il progetto è previsto dal PNRR per accompagnare le linee di investimento nel campo della didattica digitale (ben 2,1 miliardi di euro).
Il regolamento, “Considerato che il Piano Scuola 4.0. intende favorire la transizione digitale del sistema scolastico italiano con la trasformazione di almeno 100.000 aule della scuole primarie e secondarie in ambienti di apprendimento innovativi adattivi e flessibili, connessi e integrati con tecnologie digitali, fisiche e virtuali, e la creazione di laboratori per le nuove professioni digitali in tutte le scuole superiori, interconnessioni con le imprese e le start-up innovative per la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore delle nuove professioni digitali (come l’intelligenza artificiale, la robotica, la cybersecurity, ecc….)” decreta, all’art. 1, l’adozione di detto Piano Scuola 4.0. “di cui all’allegato 1 al presente decreto, che ne costituisce parte integrante e sostanziale”.
1.2. L’allegato è poi un testo di 24 pagine, nel quale si asserisce che il Piano Scuola 4.0. è diviso in quattro sezioni: la prima sezione Bachground, definisce il contesto dell’intervento; la seconda e la terza, Framework, hanno ad oggetto la progettazione degli ambienti di apprendimento innovativi (Next Generation Classrooms) e dei lavoratori per le professioni digitali del futuro (Next Generation Labs); infine la quarta Roadmap, illustra e sintetizza gli step di attuazione della linea di investimento.
Quanto alle aule, il progetto Next Generation Classrooms intende adattare centomila aule scolastiche ai nuovi “ecosistemi di apprendimento”, ovvero avvalersi “delle pedagogie innovative quali apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamificatione” e ciò lungo tutto il corso dell’anno scolastico “trasformando la classe in un ecosistema di interazione, condivisione, cooperazione, capace di integrare l’utilizzo proattivo delle tecnologie per il miglioramento dell’efficacia didattica e dei risultati di apprendimento”.
Quanto, inoltre, ai laboratori per le professioni digitali del futuro, le scuole devono dotarsi di spazi espressamente dedicati a: “robotica e automazione; intelligenza artificiale; cloud computing; cybersicurezza; internet delle cose; making e modellazione e stampa 3D/4D; creazione di prodotti e servizi digitali; creazione e fruizione di servizi in realtà virtuale; comunicazione digitale; elaborazione, analisi e studio dei big data; economia digitale e-commerce e blockchain”.
Si avranno così esperienze di job shadowing, con approccio work based learning, in grado di valorizzare il project based learning; tali spazi dovranno essere disegnati “come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro”.
Infine, alla luce del principio della Didattica digitale, i docenti dovranno essere divisi in sei livelli di competenza digitale: “A1 Novizio; A2 Esploratore; B1 Sperimentatore; B2 Esperto; C1 Leader; C2 Pioniere”.
Si afferma che “La formazione della didattica digitale de docenti è uno dei pilastri del PNRR e rappresenta una misura fondamentale per l’utilizzo efficace e completo degli ambienti di apprendimento innovativi realizzati nell’ambito di Scuola 4.0…..Un forte impulso alla formazione dei docenti per l’innovazione didattica e digitale sarà prodotto, altresì, dalla riforma 2.2. con l’istituzione della Scuola di Alta formazione e l’adozione di modalità di erogazione della formazione obbligatoria per dirigenti scolastici, docenti e personale tecnico-amministrativo”.
1.3. Ora, io credo che una rivoluzione della nostra scuola così forte e bizzarra non possa essere cosa alla quale i giuristi non prestino attenzione.
La scuola non è questione che riguarda solo i ragazzi, riguarda tutti noi, poiché, ovviamente, il grado di civiltà della nostra società dipende proprio, e in primo luogo, dal grado di civiltà della nostra scuola.
Come già disse Piero Calamandrei l’11 febbraio 1950 al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale: “La scuola, come la vedo io, è un organo costituzionale, è un organo vitale della democrazia”.
Se noi, così, provvediamo a modificare l’assetto della nostra scuola, noi parimenti e inevitabilmente rischiamo di modificare anche l’assetto intero della nostra società.
La scuola, per usare ancora le parole di Piero Calamandrei: “corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue. La scuola ha questo alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere”.
Quindi ritengo che il Piano Scuola 4.0. debba essere oggetto di attenta analisi.
E poiché io trovo che una cosa sia consentire che anche all’interno della scuola possano adoperarsi talune nuove tecnologie per lo svolgimento della didattica, altra cosa sia viceversa la realizzazione di questo (a mio avviso devastante) Piano Scuola 4.0., le riflessioni che seguono mi paiono doverose e necessarie.
2. I dubbi di legittimità costituzionale di tale rivoluzione scolastica posta in essere con un semplice allegato ad un decreto del Ministero dell’Istruzione.
In primo luogo ritengo che il Piano Scuola 4.0. presenti più di un dubbio di legittimità costituzionale.
2.1. Valgano, intanto, queste osservazioni:
a) il D.M. 16 aprile 2022 n. 161 è espressamente indicato come “emanato in attuazione della linea di investimento 3.2, Scuola 4.0: scuole innovative”,
In verità, però, esso non pare proprio emanato in attuazione della linea di investimento, poiché il decreto in questione, per il suo contenuto, ha sostanzialmente dato nuovo volto e nuova dimensione alla scuola e non si è affatto limitato ad attuare aspetti di mero investimento.
Si fosse trattato, che so, di comprare dei nuovi banchi o computers, verniciare i muri o rifare gli infissi degli edifici scolastici, lì è evidente che anche solo un decreto ministeriale sarebbe stato sufficiente.
Ma se, al contrario, si provvede ad una digitalizzazione della scuola nella dimensione estesa e massiva sopra richiamata, allora par chiaro che una simile trasformazione non può assimilarsi ad una mera operazione pratica di investimenti, in quanto travolge la scuola nei suoi valori e principi primi, e dunque l’attuazione del PNRR andava data con una fonte normativa primaria, e non con un regolamento ministeriale.
Dunque, la prima illegittimità (costituzionale) del D.M. 16 aprile 2022 n. 161 pare essere questa: esso contrasta con lo stesso PNRR e con la stessa decisione di esecuzione del Consiglio dell’Unione Europea del 13 luglio 2021 che ha approvato il PNRR, poiché entrambi demandavano al Ministero dell’Istruzione solo l’attuazione degli investimenti e il compimento di quelle attività strumentali e/o materiali relative a ciò, mentre il decreto in questione è andato evidentemente oltre, e ha provveduto a dettare la disciplina della nuova scuola, così eccedendo i limiti di un decreto ministeriale.
b) In ogni caso il D.M. 16 aprile 2022 n. 161 appare altresì emanato in violazione dell’art. 117 Cost., poiché in forza del comma 1, lettera n) di tale disposizione costituzionale le “norme generali sull’istruzione” devono essere date dallo Stato con legge, e non con un decreto ministeriale.
c) Ancora, il testo unico in materia di scuola, d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297, individua espressamente, anche ai sensi dell’art. 17, commi 3 e 4, della legge 23 agosto 1988 n. 400, cosa possa esser dato per regolamento ministeriale e cosa no. E l’art. 205 di detto testo unico prevede che il Ministro della pubblica istruzione possa emanare “uno o più regolamenti per l'esecuzione delle disposizioni relative agli scrutini ed agli esami”, e, di concerto con il Ministro del tesoro, altresì la determinazione delle “materie di insegnamento”; non altro.
Quindi le novità introdotte dal “Piano Scuola 4.0.”, che fuoriescono da questi ambiti, sembrano, anche sotto questo profilo, illegittime.
d) Aggiungo, infine, che non manca chi abbia sottolineato come il PNRR trovi un suo possibile precedente solo nella programmazione economica generale voluta dal Governo di allora e fatta negli anni ’60 in attuazione degli artt. 39 e 41 comma 3, Cost.: anche in quel caso, però, la programmazione veniva adottata per legge, ovvero con la l. 27 luglio 1967, n. 675[1].
2.2. In ogni caso, e quindi anche nell’ipotesi si dovessero ritenere infondate queste mie osservazioni, il PNRR, e i suoi piani di attuazione, devono comunque rispettare i principi costituzionali e le leggi ordinarie esistenti in materia che richiamano quei principi.
Direi che si tratta di un dato non discutibile, e sotto questo profilo mi sia consentito il parallelo con la giustizia.
In tema di riforma della giustizia l’obiettivo del PNRR è stato quello della riduzione dei suoi tempi (v. pag. 63 e ss. del PNRR); tuttavia nessuno ha pensato che per ridurre i tempi della giustizia, ad esempio, potevano comprimersi o annullarsi i diritti costituzionali della tutela dei diritti, quali il diritto all’azione e al contraddittorio, la terzietà del giudice, il diritto alle prove, il diritto alle impugnazioni, ecc…..ne’ chi ha attuato detta riforma ha mai pensato di poter fare una cosa del genere, ne’, ancora, il decreto legislativo di attuazione di riforma del processo civile 10 ottobre 2022 n. 149 ha portato deroga a questo limite, e anzi ha cercato di fare il tutto nell’osservanza dei principi costituzionali del processo.
Ebbene, non vi sono ragioni perché questa regola non viga anche con riferimento alla scuola, ed anzi, direi, addirittura, che il PNRR non fa venir meno nemmeno la forza dell’art. 4 delle preleggi secondo il quale: “I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge”, e a maggior ragione, aggiungerei, alle disposizioni costituzionali.
Ora, se il diritto al contraddittorio e alla terzietà del giudice sono i principi costituzionali cardine della tutela dei diritti, possiamo dire che il diritto alla libertà d’insegnamento e il diritto dei ragazzi a ricevere una educazione culturale ed umana che consenta loro di essere un domani cittadini liberi e dignitosi di una società democratica e pluralista, sono i principi cardini costituzionali in materia di scuola.
Credo sia pacifico che la nostra carta costituzionale, e le disposizioni normative specifiche sulla scuola, quale il testo unico d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297 e il DPR 8 marzo 1999 n. 275 assicurino questi diritti.
Esattamente:
a) quanto alla libertà di insegnamento esso risulta espressamente dall’art. 33, 1° comma, Cost.: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Se non bastasse questa chiara dizione della carta costituzionale, il principio è inoltre ribadito dall’art. 1 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297, il quale recita che: “ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”. Parimenti l’art. 1 del DPR 8 marzo 1999 n. 275, statuisce che: “Le istituzioni scolastiche sono espressioni di autonomia funzionale…..L'autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale”[2].
b) Egualmente è fuori da ogni seria discussione che la finalità della scuola, e la sua obbligatorietà fino ad una certa età, sono finalizzate allo sviluppo della persona umana, e tendono alla formazione culturale, libera, civile e responsabile degli allievi.
Ciò lo si ricava non solo dall’art. 34 Cost., in base al quale “La scuola è aperta a tutti”, bensì, di nuovo, da precise disposizioni di legge primaria: l’art. 1 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297 ancora afferma che la libertà di insegnamento “è diretta a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”; poi il concetto è ribadito per tutti i gradi di insegnamento: art. 99: “La scuola materna statale si propone fini di educazione, di sviluppo della personalità infantile”; art. 118: “La scuola elementare, nell'ambito dell'istruzione obbligatoria, concorre alla formazione dell'uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, sociali e culturali”.; art. 161: “La scuola media concorre a promuovere la formazione dell'uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione”; infine l’art. 197: “L'esame di maturità ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato, considerata con riguardo anche ai suoi orientamenti”.
Il diritto individuale all’istruzione è dunque un valore costituzionale: esso va ricondotto al pieno sviluppo della personalità umana[3] che costituisce la base di uno stato democratico[4], in quanto si collega al diritto di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, 2° comma Cost.[5]
Tuttavia, per quanto si dirà, il decreto ministeriale in commento non sembra aver rispettato ne’ il principio costituzionale della libertà di insegnamento, ne’ quello relativo al diritto dei nostri giovani di avere una formazione culturale libera, critica e indipendente.
Da ciò, a mio parere, la sua incostituzionalità.
2.3. V’è, infine, tra il serio e il faceto, una ultima problematica relativa all’uso della lingua, considerato che l’allegato 1 al decreto ministeriale sopra citato, seppur sia scritto in italiano, in ogni sua parte essenziale utilizza al contrario termini inglesi.
Bachground, Framework, Roadmap, e poi Next Generation Classrooms, Next Generation Labs, cloud computing, cybersicurezza, making e-commerce, blockchain, job shadowing, work based learning, project based learning, multiliteracies e debate, gamificatione, peer learning, problem solving, e così di seguito.
Credo sia la prima volta che in argomento assistiamo addirittura all’intervento dell’Accademia della Crusca, la quale, con nota firmata dai linguisti del Gruppo Incipit, ha chiesto di tradurre in italiano le parole straniere del Piano Scuola 4.0., o meglio fornirne una versione semplificata priva degli anglismi che contiene, o almeno di accompagnarla con un glossario (v.
In proposito ricordo che ogni norma avente effetti in Italia non può che essere scritta in italiano, e il dato, del tutto è evidente, è stato confermato da tempo dalla stessa nostra Corte Costituzionale, che con la sentenza 11 febbraio 1982 n. 28 ha già avuto modo di statuire che “Il riconoscimento della lingua italiana come unica lingua da usare obbligatoriamente nell’esercizio delle attribuzioni dei pubblici uffici, salve le deroghe disposte a tutela dei gruppi linguistici minoritari, è confermato per implicito dalla Costituzione”.
Dunque, finché il Ministero dell’Istruzione non provvederà a tradurre in italiano l’allegato 1 del decreto n. 161 del 14 giugno 2022, il c.d. Piano Scuola 4.0. a mio parere presenta profili di incostituzionalità anche solo per questa ragione.
E sia consentito aggiungere qui che di fronte a questioni di questo genere l’ilarità non può essere impedita: sinceramente, in alcuni momenti, forse l’uso dell’inglese sarebbe stato preferibile a quello della lingua italiana.
Ad esempio si riesce a leggere nell’allegato del Piano Scuola 4.0. che esso intende: “promuovere lo sviluppo di un ecosistema altamente efficiente di istruzione digitale”; che: “Il concetto di ambiente è connesso all’idea di ecosistema di apprendimento”; v’è poi “l’educazione civica quale insegnamento trasversale che ha favorito lo sviluppo di percorsi curricolari di educazione alla cittadinanza digitale”; fino ad arrivare a l’OCSE che “ha definito, nel suo specifico manuale, l’ambiente di apprendimento innovativo quale un insieme organico che abbraccia l’esperienza di apprendimento organizzato per determinati gruppi di studenti intorno ad un singolo nucleo pedagogico che va oltre una classe o un programma predefinito e include le attività e i risultati di apprendimento”.
E qui, sinceramente, non può non venire alla mente il conte Lello Mascetti, che senz’altro avrebbe aggiunto: “A destra, per due, come fosse Antani”.
3. Le incostituzionalità sostanziali per contrarietà del Piano alla libertà di insegnamento e al diritto degli alunni di ricevere dalla scuola pubblica quella formazione necessaria a renderli cittadini critici di una società democratica.
Ma, tornati seri, e abbandonata l’ilarità, la questione principale è che il Piano Scuola 4.0. non rispetta, come abbiamo anticipato, ne’ il principio della libertà di insegnamento, ne’ il diritto degli alunni a ricevere una formazione culturale ed umana libera.
Vediamo separatamente questi aspetti.
3.1. Sulla libertà di insegnamento, si consideri quanto segue secondo il Piano Scuola 4.0.
a) Gli insegnati, intanto, sono sostanzialmente obbligati a condividere questo piano, a ritenere sia la cosa migliore per la scuola del futuro.
Il Piano è chiaro sul punto: “Ciascuna istituzione scolastica adotta il documento Strategia Scuola 4.0., che declina il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, le innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento Dig.Comp 2.2., l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale, sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR”.
Dunque, l’istituzione scolastica non ha più il potere/dovere di autodeterminarsi, e sembra del tutto superato lo stesso art. 7 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297 in base al quale spetta al collegio dei docenti il “potere deliberante in materia di funzionamento didattico” e di curare la “programmazione dell'azione educativa”.
Qui l’istituzione scolastica si trasformerà in mera esecutrice del format del PNRR, ed è tenuta semplicemente ad adottare il documento della Strategia Scuola 4.0, e ad attenersi al quadro di riferimento Dig.Comp 2.2.
Ci saranno misure di accompagnamento dei docenti, e, interessante per noi giuristi, esisterà addirittura una educazione civica digitale, che, chissà, a breve, magari, si pretenderà di insegnare anche nelle Università, insieme al diritto amministrativo o a quello costituzionale.
In un contesto del genere, quindi, non pare proprio che gli insegnanti possano dissentire dal programma e avere posizioni discordi; e quindi, sia consentito, non vediamo come si possa negare che il Piano Scuola 4.0. si ponga in contrasto con l’art. 33 Cost., e poi con gli artt. 1 e 7 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297, e ancora con l’art. 1 del DPR 8 marzo 1999 n. 275, visto che la libertà di insegnamento comprende al suo seno l’autonomia didattica, ovvero la libertà del docente di determinare le modalità dell’insegnamento.
b) Inoltre, difficilmente gli insegnanti potranno sottrarsi all’obbligo di seguire i corsi formativi della c.d. didattica digitale, visto che il Piano Scuola 4.0. espressamente prevede la: “erogazione della formazione obbligatoria per dirigenti scolastici, docenti e personale tecnico-amministrativo”.
Il Piano Scuola 4.0, infatti: “dovrà inserire, tra le priorità nazionali, l’approccio agli apprendimenti della programmazione informatica e della didattica digitale”; e la formazione continua rappresenterà “la prima azione di supporto, con la partecipazione dei docenti alle iniziative formative rese disponibili dal Ministero dell’istruzione sulla piattaforma Scuola futura”, in quanto “la formazione della didattica digitale dei docenti è uno dei pilastri del PNRR Istruzione e rappresenta una misura fondamentale per l’utilizzo efficace e completo degli ambienti di apprendimento innovativi realizzati nell’ambito di Scuola 4.0.”; ed in quanto “è necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento”.
c) Ancora, è previsto che, con la didattica digitale, vi sia la figura del docente leader, ovvero di un capo, contro il principio della pari dignità di ogni insegnante.
Ed infatti si dice che la pedagogia innovativa (apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, ecc…): “deve essere progettata contestualmente agli spazi, grazie a una leadership pedagogica che possa incoraggiare una cultura dell’apprendimento e dell’innovazione in tutta la scuola”; e che: “questo processo trasformativo implica che le scuole diventino organizzazioni formative con una leadership formativa”. “Sono principalmente i docenti ad avere, poi, la responsabilità e il compito di allineare lo spazio e le tecnologie alla pedagogia”; Ed in più, a completamento di questo quadro, avremo addirittura la figura “dell’animatore digitale”, che potenzierà “la partecipazione dei docenti a esperienze di mobilità internazionale anche attraverso il programma Erasmus+”.
E, udite, i docenti potranno svolgere “un’autoriflessione, utilizzando la piattaforma della Commissione europea SELFIE for teachers”.
d) Infine, il Piano Scuola 4.0. appare di nuovo in contrasto con la libertà d’insegnamento e la pari dignità dei docenti ove fa proprie le competenze digitali dei docenti di DigCompEdu, con i suoi “livelli di ingresso necessari”, ovvero la classificazione degli stessi in “A1 Novizio; A2 Esploratore; B1 Sperimentatore; B2 Esperto; C1 Leader; C2 Pioniere”.
Classificare e dare un ordine di scala ai docenti è una novità, diremmo, di nuovo in contrasto con i principi che regolano l’insegnamento nella scuola pubblica.
L’idea, poi, fa un po’ sorridere, e forse non a torto Susanna Tamaro, in un intervento sul Corriere della Sera del 20 dicembre 2022, sottolineava come questa cosa apparisse tristemente muoversi tra il Manuale delle Giovani Marmotte e il Piccolo Chimico.
Chissà: un ottimo insegnante di lettere, da tutti riconosciuto tale, potrebbe essere solo un “novizio” perché digiuno o refrattario a questo nuovo mondo digitale, mentre un collega conosciuto nel mondo della scuola fino a quel momento solo per la sua ignoranza può diventare il suo “leader” perché la sera si diletta con il computer.
3.2. Ma, soprattutto, il Piano Scuola 4.0. si pone obiettivi che sono in contrasto con il diritto costituzionale dei nostri ragazzi a ricevere dalla scuola pubblica lo sviluppo della persona umana, attraverso una libera e ragionata formazione culturale.
Si consideri, anche sotto questo profilo, quanto di seguito.
a) L’obiettivo del Piano Scuola 4.0. è precisamente descritto: “affrontando le sfide e le opportunità messe in luce dalla pandemia di COVID 19…….sottolinea l’esigenza di una migliore qualità e una maggiore quantità dell’insegnamento relativo alle tecnologie digitali, il sostegno alla digitalizzazione dei metodi di insegnamento e la messa a disposizione delle infrastrutture necessarie per un apprendimento a distanza inclusivo e resiliente”.
Dunque, il discorso è fin troppo evidente: l’idea è quella di rendere norma i metodi di insegnamento emergenziali avutisi nel periodo della pandemia.
L’insegnamento a distanza dovrà aumentare quantitativamente e l’uso di nuove tecnologie e di infrastrutture idonee dovranno consentire la realizzazione di questo obiettivo: “la possibile fruizione a distanza di tutte le attività didattiche, una connettività completa alla rete”.
E quando l’insegnamento non sarà a distanza, esso si svilupperà comunque in aule virtuali, in una: “relazione fra spazio, pedagogia e tecnologia…..caratterizzati da arredi mobili, modulari e scrivibili, che permettono un maggior grado di flessibilità per consentire una rapida riconfigurazione dell’aula nella quale sono presenti monitor interattivi intelligenti, dispositivi digitali per gli studenti con connessione wifi, piattaforme cloud”.
In questa esperienza immersiva, così come viene definita, non si capisce in che modo gli studenti potranno continuare ad avere contatti fisici tra loro, ed anzi tutto è pensato per evitare ogni contatto, per soffocare quella dimensione umana che fino ad oggi è stata al contrario il momento centrale dell’esperienza scolastica.
Queste le aule: “con dispositivi per la comunicazione digitale, per la promozione della scrittura e della lettura con le tecnologie digitali, per lo studio delle STEM, per la creatività digitale, per l’apprendimento del pensiero computazionale, dell’intelligenza artificiale e della robotica, per la fruizione di contenuti attraverso la realtà virtuale e aumentata”.
Questi i laboratori: “robotica e automazione; intelligenza artificiale; cloud computing; cybersicurezza; internet delle cose; making e modellazione e stampa 3D/4D; creazione di prodotti e servizi digitali; creazione e fruizione di servizi in realtà virtuale; comunicazione digitale; elaborazione, analisi e studio dei big data; economia digitale e-commerce e blockchain”.
La relazione personale e umana è defunta in una scuola così organizzata.
b) V’è poi un altro aspetto, di nuovo in contrasto con la funzione della scuola pubblica, ed è quello che la digitalizzazione della scuola avrà come obiettivo non tanto di sviluppare il senso critico degli allievi quanto quello di prepararli al lavoro e al disbrigo di attività meramente pratiche.
Lo dice lo stesso D.M. 14 giugno 2022 n. 161 che il tutto è finalizzato: “per la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore delle nuove professioni digitali (come l’intelligenza artificiale, la robotica, la cybersecurity, ecc….)”; e il concetto è poi ribadito nell’allegato al decreto: “Le competenze digitali di base per tutti i cittadini e l’opportunità di acquisire nuove competenze digitali specialistiche per la forza lavoro sono un prerequisito per partecipare attivamente al decennio digitale. Le competenze digitali avanzate, fornite dalla formazione e dall’istruzione in campo digitale, dovrebbero sostenere la forza lavoro, consentendo alle persone di acquisire competenze digitali specialistiche con l’obiettivo di ottenere posti di lavoro di qualità”.
Si dovranno infatti “acquisire competenze orientate al futuro, fondamentali per la cittadinanza e il lavoro”; ed ancora: “Le competenze digitali avanzate dovrebbero sostenere la forza lavoro, consentendo alle persone di acquisire competenze digitali specifiche con l’obiettivo di ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti”.
c) E poi, ancora, con un digitalizzazione massiva quale quella immaginata dal Piano Scuola 4.0., la scuola rischia di insegnare da domani ai ragazzi non tanto a ragionare con la propria testa, quanto a ragionare con quella del robot.
Questo il piano: “Ad un livello più avanzato gli arredi possono diventare trasformabili e riposti fino a liberare l’ambiente, con tecnologie che favoriscono l’esperienza immersiva, più superfici di proiezione, un forte collegamento con gli ambienti virtuali”. Ed ancora: “Occorre, quindi, innovare il nucleo pedagogico dell’ambiente di apprendimento”; “Fondamentale è il ruolo dei dirigenti scolastici nell’introdurre il cambiamento nell’ambiente esistente per consentire ai docenti di organizzare il loro insegnamento in modo diverso, prototipare e sperimentare nuove disposizioni spaziali della classe e nuove metodologie didattiche".
A questo punto, direi, le assemblee studentesche, disciplinate dall’art. 13 del testo unico del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297, finalizzate a costituire “occasione di partecipazione democratica per l'approfondimento dei problemi della scuola e della società in funzione della formazione culturale e civile degli studenti”, resteranno solo un momento romantico di un passato del quale la nuova digitalizzazione pretende che nessuno ne abbia nostalgia.
4. Qualche riflessioni conclusiva in difesa della scuola pubblica e della sua funzione costituzionale.
Dunque: cos’è la digitalizzazione?
È la sostituzione della macchina all’uomo, è il far sì che una certa cosa possa realizzarsi in via informatica e telematica, a distanza, senza alcun contatto tra persona e persona.
Che cos’è la scuola?
È il luogo dove si incontrano bambini e ragazzi affinché insieme, e che l’ausilio degli insegnanti, acquisiscano gli strumenti necessari per crescere culturalmente, psicologicamente e socialmente, al fine di rendersi per il futuro cittadini partecipi della vita democratica del paese.
Cos’è dunque la digitalizzazione della scuola?
È, sostanzialmente, la sua distruzione, poiché nella misura in cui essa sostituisce l’insegnante con una macchina, evita che un bambino si dimensioni personalmente con un suo simile, e trasforma un luogo reale in un altro virtuale, la digitalizzazione cancella i nostri due valori costituzionali irrinunciabili, quali, di nuovo, la formazione critica dei giovani e la libertà di insegnamento.
La digitalizzazione comunica che è assurdo sforzarsi a pensare, poiché abbiamo una macchina che può farlo per noi; è assurdo avere una cultura, perché abbiamo una macchina che può darci ogni genere di informazione; è assurdo stare insieme tra noi e scambiarci delle esperienze, perché abbiamo una macchina che ricrea virtualmente ogni tipo di contatto e di scambio.
La digitalizzazione della scuola è così la più grave tra tutte le digitalizzazione immaginabili: più grave della digitalizzazione della pubblica amministrazione, più grave della digitalizzazione della giustizia, più grave della digitalizzazione del sistema produttivo, o del turismo, o della sanità.
La digitalizzazione della scuola non solo cancellerà, o fortemente ridurrà, i contatti e gli scambi umani tra alunni ed alunni, ma imporrà su tutto la logica del rigore, dove 2 + 2 fa 4, e 4 + 4 fa 8; e questo rigore, col tempo, soffocherà ogni libertà di pensiero, soffocherà il senso critico, emarginerà gli spiriti più estrosi in favore di quelli più portati alla sottomissione e/o alla mera ripetizione e/o riproduzione di dati.
La scuola, viceversa, ha il dovere di preservare lo spirito libero dei nostri figli, la scuola ha il dovere di spiegare perché 2 + 2 fa 4, e deve altresì consentire a qualcuno di poter sostenere che 2 + 2 fa 5, oppure 3, e a qualcun altro di sostenere che non è possibile stabilire con rigore quanto faccia 2 + 2, e ad altri ancora di consentire di chiedere ad un ipotetico interlocutore quanto vuole che faccia 2 + 2.
È un paradosso, ma è il valore della libertà di crescita dei nostri ragazzi, che deve essere fortemente difesa.
È necessario che i nostri giovani studino, e continuino a studiare, anche quello che, apparentemente, e secondo la logica della nuova digitalizzazione, non serve a nulla, e lo studino personalmente, con un insegnante in carne ed ossa.
È necessario continuare a leggere libri di carta, è necessario che Sofocle e Aristotele, Cicerone e Seneca, Galileo e Kant, Dante Alighieri e Leopardi restino ben presenti nelle nostre scuole, e non siano invece considerati personaggi del passato all’interno di aule dedicate a: “robotica e automazione; intelligenza artificiale; cloud computing; cybersicurezza; internet delle cose”, ecc……..
I giuristi devono occuparsi di questi mutamenti, devono sollecitare il dibattito su essi, devono porsi dinanzi a queste novità con riflessione critica; altrimenti siamo noi i primi a dimostrare che oggi, ormai, la riflessione critica non serve più a niente, e non può più essere data.
Con la stessa forza con la quale cercheremo di impedire che la robotica e la digitalizzazione delle attività processuali possano impedire l’indipendenza del giudice nell’esercitare la funzione giurisdizionale e il libero esercizio del diritto di azione ai cittadini, noi parimenti abbiamo il dovere di cercare di impedire che la digitalizzazione della didattica distrugga la scuola dei nostri ragazzi, e quindi la loro e la nostra organizzazione sociale, la loro e la nostra libertà di pensiero.
È un dovere farlo, non possiamo sottrarci.
*Lo scritto è dedicato a mia figlia Camilla, ai suoi compagni del liceo Galileo di Firenze, e a tutti i giovani che, come loro, si impegnano e si sacrificano nello studio. Grazie poi all’amico dr. Niccolò Ludovici, sostituto procuratore della Repubblica a Siena; confrontarmi con lui mi è sempre utile.
[1] V. infatti CLARICH, Il piano nazionale di ripresa e resilienza tra diritto europeo e nazionale: un tentativo di inquadramento giuridico, Corr. Giuridico, 2021, 1025.
[2] Sulla libertà di insegnamento v. anche CALCERANO – MARTINEZ Y CABRERA, Scuola, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1989, XLI, 858.
[3] V. ZANGARA, I diritti di libertà della scuola, in Rass. dir. pubbl., 1959, 68 ss.; MANZIN MAESTRELLI, Istruzione dell’obbligo, in Digesto pubbl., IX, 4ª ed., Torino, 1994, 1.
[4] ROLLA, La tutela costituzionale dei diritti, III, Milano, 2003, 148; POTOTSCHNIG , Istruzione (diritto alla), in Enc. Dir., XXIII, Milano, 1973, 98.
[5] MASTROPASQUA, Cultura e scuola nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1980, 117.
1. Lo scambio bilaterale in genere
Nel novero degli scambi di breve durata delle Rete europea dei magistrati (dove si includono quelli “generali” e “specializzati”) quello bilaterale si presenta – di certo – meno accessibile, imponendosi agli applicants di essere parte attiva.
Si richiede, infatti:
- la ricerca di un contatto presso l’istituzione ospitante, così da poter far siglare l’hosting agreement al dirigente dell’ufficio. Ciò rappresenta, probabilmente, lo scoglio più grande, poiché non tutti gli emuli della Scuola Superiore della Magistratura partecipano ai bilaterali (il Portogallo, per esempio, non lo fa) e raccogliere la disponibilità di un tribunale o di una procura senza che vi sia una pregressa conoscenza richiede un fitto scambio di posta elettronica;
- di scegliere la lingua veicolo (inglese o francese);
- la presentazione di un progetto che, seppur in linee generali o talvolta generalissime, deve render conto del senso della reciproca visita;
- la formazione di una compagine di magistrati o di personale amministrativo, nel numero massimo di 5 per istituzione, che prenda parte allo scambio;
- la individuazione di un richiedente che sia referente del gruppo, per EJTN e per i futuri ospiti.
Ad ogni buon conto, completato il dossier, tutti i dettagli del programma verranno definiti solo una volta approvato il progetto (con elevata probabilità di successo, stante il numero di domande normalmente inferiori ai fondi stanziati), quando potrà individuarsi il periodo esatto in cui si andrà e quello in cui si verrà ricevuti.
Per i dettagli, consiglio la consultazione del sito EJTN[1] dove sono esplicitate anche le condizioni economiche sottese allo scambio.
È, certamente, buona lena cercare un contatto anche prima della pubblicazione, giacché sul sito dal portale EJTN è possibile trovare la lista coi contatti dei Paesi aderenti.
2. Il nostro scambio in particolare
Bene, dopo una doverosa premessa fra il burocratico e il didattico, dismetto (quasi) ogni formalità e vi racconto com’è stato – in concreto – il nostro scambio.
Per farlo, parto col dire che mentre scrivo (siamo a gennaio 2023), il gruppo WhatsApp dello scambio è in pieno fermento.
Si parla di quando e dove riunirsi e l’intenzione è di farlo al più presto.
Ciò perché è indubbio che le due settimane trascorse insieme siano state particolarmente significative e qualificanti, tanto da un punto di vista professionale quanto da uno personale.
E allora, lo scambio è cominciato con l’arrivo a Palermo, dal 13 al 17 giugno 2022, dei colleghi dell’Audiencia Provincial de Girona e della relativa Fiscalìa.
Si tratta di un Tribunale ordinario, che alterna le funzioni di primo grado con quelle di appello, sia in materia civile che penale, presso il quale insiste il locale ufficio di Procura.
Entrambe le compagini erano invero miste (con magistrati con funzioni giudicanti e inquirenti) e centrali sono stati i procedimenti da “codice rosso” – come modificati e in parte introdotti dalla l. 69/2019, “Disposizioni in tema di violenza, domestica e di genere”[2] – inseriti in una prospettiva comparatistica generale fra i due codici di rito.
Quali istituzioni ospitanti, ci siamo concentrati sul dare ai colleghi spagnoli il più caloroso benvenuto possibile, alternando seminari in materia di diritto penale e procedura penale che fornissero loro le nozioni di base (per lo più condivise) dell’ordinamento per dar loro la possibilità di partecipare scientemente alle attività pratiche.
Oltre alle udienze di convalida dell’arresto, a quelle preliminari e a quelle dibattimentali, come anticipato, particolare attenzione è stata dedicata al tema della violenza di genere e ai reati da c.d. “codice rosso”.
Significative poi le visite ai luoghi del Maxiprocesso di Palermo a “cosa nostra” (segnatamente, l’aula bunker dell’Ucciardone e le strutture annesse, comprese le celle dove risiedevano i collaboratori di giustizia), dove è stato anche proiettato un documentario sul tema, e all’Assemblea Regionale Siciliana, dove si è discusso dell’autonomia regionale.
In questo contesto, non sono mancate visite ad alcuni dei luoghi simbolo della città (dall’itinerario arabo-normanno a quello barocco).
Dal 4 all’8 luglio 2022, poi, la delegazione palermitana si è recata a Girona.
Le attività, lì, sono state programmate di modo speculare a quanto fatto a Palermo, avendo noi stessi partecipato a seminari sul diritto penale sostanziale e processuale, assistendo – all’esito degli incontri – a udienze di primo e secondo grado.
Anche in questo caso, il tema dei delitti da “codice rosso” ha assunto una particolare centralità, diventando oggetto di approfondita comparazione.
La Spagna, infatti, è intervenuta con anticipo sul tema, con la “Ley Orgánica 1/2004, de 28 de diciembre, de Medidas de Protección Integral contra la Violencia de Género”[3], una legge “rafforzata” (che non trova corrispondenti nel nostro ordinamento) mossa da un obiettivo ben chiaro sin dal preambolo:
«la violenza di genere non è un problema che riguarda l’àmbito privato. Al contrario, rappresenta il simbolo più brutale della disuguaglianza esistente nella nostra società. Si tratta di una violenza che si direziona sulle donne per il fatto stesso di essere tali, essendo considerata – dagli aggressori – prive dei diritti minimi di libertà, rispetto e capacità decisionale[4]».
Al di là delle rationes della Ley organica, nella pratica giudiziaria – ben più consolidata per il solo fatto del ben più risalente tempo di vigenza – ci è sembrato particolarmente significativo il dato della presenza di spazi dedicati per le denunce e l’audizione delle persone offese, all’uopo create e contraddistinte dalla presenza di esperti a disposizione delle corti.
Va detto che, in generale, come si evince dal testo normativo, quella in commento offre un approccio pubblico fisiologicamente orientato alla formazione di una società che superi le discriminazioni basate sul genere, attraverso la predisposizione di percorsi formativi, di canoni chiari in materia di comunicazione nonché di presidi sanitari dedicati.
Ciò si colloca su un piano ben distante, dunque, dal reato di genere e dal procedimento penale.
Particolarmente interessante è stata poi la visita al centro di detenzione di “Puig De Les Basses”[5], nota quale modello virtuoso di rieducazione e reinserimento sociale, dove detenute e detenuti partecipano attivamente ai programmi della struttura, specchio di un sistema penitenziario con ottimi risultati in fatto di non recidivanza[6].
Anche durante la settimana gironense, in ogni caso, non sono mancate scoperte di piccoli ma meravigliosi villaggi (La Perà, Púbol, Cadaqués, etc.) o altri luoghi straordinari, dentro e fuori Girona, dove mai ci siamo stancati delle chiacchiere e della incredibile compagnia.
Forse dovrei concludere tracciando un bilancio (che dire positivo, come si evince da quanto vi ho finora raccontato, sarebbe davvero riduttivo).
Concludo, per non essere ridondante, che l’organizzazione della nostra reunión continua, a pieno ritmo, per maggio o giugno 2023.
Ciò testimonia come non possa esserci modo migliore per costruire una comune cultura della giurisdizione, all’interno dei Paesi dell’Unione Europea (e della Rete), già accomunati da solide radici teoriche in fatto di diritto penale e processuale penale, in cui le somiglianze sono ben più consistenti e significative delle differenze.
[1] Per prenderne diretta visione: https://ejtn.eu/activity/exchanges/.
[2]Qui il testo dell’intervento normativo:
[3] (qui il testo https://www.boe.es/buscar/act.php?id=BOE-A-2004-21760.
[4] Traduzione mia, l’originale qui: «La violencia de género no es un problema que afecte al ámbito privado. Al contrario, se manifiesta como el símbolo más brutal de la desigualdad existente en nuestra sociedad. Se trata de una violencia que se dirige sobre las mujeres por el hecho mismo de serlo, por ser consideradas, por sus agresores, carentes de los derechos mínimos de libertad, respeto y capacidad de decisión».
[5] https://justicia.gencat.cat/ca/departament/infraestructures/centres_penitenciaris/cp_puig_basses/.
[6] Qui un rapporto del Ministero dell’interno spagnolo https://www.interior.gob.es/opencms/pdf/archivos-y-documentacion/documentacion-y-publicaciones/publicaciones-descargables/instituciones-penitenciarias/La_estancia_en_prision_126170566_web.pdf.
Nel proseguire l’approccio multidisciplinare al tema della violenza di genere, la Rivista oggi propone la recensione di Donatella Palumbo del romanzo “Il mio nome è Aoise” scritto da Marta Correggia, attualmente giudice del lavoro presso il Tribunale di Napoli.
Recensione al romanzo “Il mio nome è Aoise” di Marta Correggia
a cura di Donatella Palumbo
Sommario: 1. L’autrice – 2. I luoghi – 3. Il romanzo – 4. Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla.
1. L’autrice
Marta Correggia attualmente presta servizio presso il Tribunale di Napoli con le funzioni di giudice del lavoro. In precedenza, si è occupata per molto tempo di reati predatori e di sfruttamento della prostituzione in qualità di sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. L’esperienza di quegli anni ha messo in contatto l’autrice con la realtà della prostituzione vissuta nelle periferie, con il suo carico di violenze e sopraffazioni. Da qui l’idea di scrivere un libro che, attraverso la forma del romanzo, potesse restituire un’anima e un’identità a quei “corpi da marciapiede”. Del resto, se è vero che il mestiere del magistrato è analizzare vicende, studiarle ed esprimere giudizi, allo stesso tempo un magistrato non può non tenere conto dell’umanità nascosta dietro le carte e questa umanità porta inevitabilmente le sue vicende, anche infernali, chiede di essere ascoltata e vuole giustizia.
È l’inferno dei viventi de “Le città Invisibili” di Italo Calvino: “L’’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
L’autrice ha scelto il secondo modo. Così è nata Aoise, così è cresciuta Erabon.
La prefazione è di padre Alex Zanotelli.
2. I luoghi
Gli anni di lavoro come sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere hanno ispirato l’autrice per l’ambientazione del romanzo a Castel Volturno, in provincia di Caserta, uno dei luoghi chiave della tratta del sesso e scenario principale della narrazione dei fatti avvenuti in Italia. Ma, come precisa l’autrice, il romanzo potrebbe essere immaginato in ogni luogo poiché “la scelta è ricaduta su Castel Volturno in quanto parte di un territorio che conosco e che perciò avevo un certo agio a descrivere. Di fatto la città vera e propria non c’è, come non ci sono i suoi abitanti. Questo romanzo avrebbe potuto essere ambientato ovunque ci siano donne oggetto di tratta, ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi”. La protagonista si ritrova in una casa fatiscente a Castel Volturno “un posto nella terra dei bianchi ma popolato da neri che l’avevano occupata e se n’erano impossessati per farne la loro terra, con la complicità dei bianchi che quella terra l’avevano venduta e si servivano dei neri per i loro affari”.
Il degrado e la violenza dei luoghi riflettono così la condizione misera della protagonista, costretta a prostituirsi, senza alcuna possibilità di scelta. Il mondo fuori si dipana lungo dedali di strade, rifiuti, ruderi sgangherati privi di sistema fognario, buche e avvallamenti ovunque; eppure, in mezzo all’inferno, ad un tratto si diffonde la musica e una speranza emerge.
Il compito dell’autrice è stato, dunque dare voce a una coraggiosa ragazza nigeriana e concedere spazio a Castel Volturno, terra tanto bellissima quanto sfortunata.
3. Il romanzo
Il romanzo “Il mio nome è Aoise” è un’opera di fantasia che s’ispira, dunque, a storie vere, a situazioni reali, anche se non esattamente nel modo in cui sono state raccontate dall’autrice, la quale ha riadattato storie e personaggi tratti dalla propria esperienza e li ha resi puramente rappresentativi del complesso e variegato universo della prostituzione descritto come “un dissennato arcipelago di isole umane”.
Il romanzo si snoda alternando la dimensione del ricordo dell’infanzia e dell’adolescenza vissute dalla protagonista in Nigeria - ove prevalgono, nonostante la condizione di estrema povertà, immagini dolci e accoglienti di vita familiare felice e tenera con i fratellini e il padre Yusuf e immagini bucoliche del villaggio e del paesaggio africano - con la cruda realtà della schiavitù in Italia, che esplode con tutta la sua violenza anche linguistica. La lettura restituisce sensazioni di estrema dolcezza, legate al passato, e agghiaccianti momenti di brutalità legati al presente.
Perché partire? Di certo per il desiderio di una vita migliore. Le fanno credere che l’Italia è il paradiso e poi le ripetono di continuo: “Peggio di come stai, che ci può essere?”. Il padre e il nonno sono morti, la famiglia versa nel momento di maggior bisogno economico e, dunque, il fratello si mette in contatto con Nadir, un apparente intermediario che in realtà è un procacciatore di prostitute. Così, una volta scoperto l’inganno, la protagonista arriva a pensare che “era meglio morire di fame in Nigeria che diventare una schiava, un corpo a disposizione di tutti fuorché di sé stessa”.
Viene descritto in modo dettagliato il meccanismo della tratta delle donne africane - tema principale del romanzo - che, attingendo alle paure e alle credenze più recondite, è collegato in modo inscindibile al momento del giuramento con Priest Wami, eseguito prima di partire per l’Italia. Difatti il giuramento è dotato di una forza vincolante dirompente, radicata in modo profondo, risiedendo nella supposta esistenza di spiriti maligni che causano disgrazie irreversibili a coloro che ne violano i precetti, di talchè il terrore per gli effetti che ne conseguono riecheggia ogni volta nella mente della protagonista allorquando tenta di sottrarsi ai suoi aguzzini: “Se non adempi alla promessa fatta al mio santuario ci servirà il tuo sangue e quello dei tuoi cari. Posso usare il mio potere per distruggere qualunque cosa io voglia. Sono in grado di generare qualsiasi malattia in una persona. Se prometti, devi farlo, altrimenti il semidio Eshu manderà gli spiriti dei morti a uccidere te e la tua famiglia. Nel tempio di Eshu sono riposti i tuoi peli e le tue unghie, in questa scatola la tua biancheria intima, c’è il tuo nome, se non obbedirai agli ordini della madame verranno utilizzati per scatenare gli spiriti contro di te”.
L’assoluta mercificazione della donna, trattata solo come oggetto da cui gli aguzzini Sammy e Sonia pretendono denaro ogni settimana, esplode in tutta la sua crudeltà nel cambio di nome che viene imposto alla protagonista: Aoise diventando Erabon deve rinnegare il suo vissuto, le sue origini, il suo essere più profondo. Il denaro da versare periodicamente alla madame diventa più importante della vita umana.
Altri temi si stagliano sullo sfondo e si intrecciano con la storia della protagonista: l’aborto coatto (la gravidanza di Prudence costretta all’interruzione in modo clandestino nonostante il desiderio di tenere il figlio - “l’unica cosa mia” - che finirà per suicidarsi in quanto non sopravvissuta al dolore), storie di caporalato, il traffico di droga e di armi la cui scoperta viene punita con la violenza sessuale di Sammy ai danni della protagonista, il pregiudizio per il colore della pelle, la sparatoria a Castel Volturno che riecheggia la strage del 18 Settembre del 2008 (c.d. strage di Castel Volturno).
4. Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla
Tuttavia, anche nei luoghi più cupi, anche nell’inferno in cui sembra non ci sia alcuna via d’uscita, emergono sentimenti positivi che non possono essere soffocati dalla maman e dai suoi metodi violenti e che prima o poi, anzi, prendono il sopravvento.
Dapprima la solidarietà e l’amicizia tra le sisters, con momenti di convivialità e di leggerezza, che offrono al lettore una sensazione di apparente gioia, che svanisce quando la protagonista nutre sensi di colpa per la difficoltà di proteggere le ragazze più fragili, e poi l’amore, fino a quel momento solo idealizzato nelle favole raccontate dal nonno in Nigeria, assume il volto di Francis: “Erabon non aveva bisogno di complimenti, ma di un’amorevole forma di considerazione. La tenerezza dei corpi rimpiccioliva le difese e si vedevano per ciò che erano: due giovani ragazzi africani che si volevano bene”. L’amore, un sentimento così profondo che consente alla protagonista di riappropriarsi di sé stessa, del suo destino e, finalmente, del suo nome: “Fu in uno di questi momenti che lui prese a chiamarla Aoise”.
Dall’amore alla salvezza: Francis presenta ad Aoise Ciccio, un volontario del centro di accoglienza per migranti, per il tramite del quale la protagonista intravede spiragli di cambiamento nella propria vita attraverso la prospettata denuncia alle forze dell’ordine. Per la prima volta Aoise viene trattata come un essere umano e non viene vista come una “cosa”: “Non è colpa tua, tu sei solo una vittima… tutte quelle storie sul rito ju-ju e sugli spiriti dei morti sono storie inventate, credimi” e le strinse la mano ancora più forte. “Devi denunciarli, sarai protetta dalla polizia, ci sono molti posti dove accolgono le ragazze come te; sono gestiti da donne che hanno avuto la tua stessa esperienza di prostituzione, devi solo decidere. Ai tuoi parenti in Nigeria si può dire di andare via dalla città per un po’, una soluzione la si trova.”.
Chiaramente il percorso non è semplice e l’autrice offre al lettore tutta la confusione emotiva di Aoise, dilaniata da sentimenti contrastanti: da un lato il desiderio di andare via da quel posto infernale, dall’altro la paura che gli spiriti dei morti si vendichino sulla madre e sui fratelli, in virtù del giuramento officiato da Priest Wami. La protagonista è totalmente prigioniera delle sue credenze, terrorizzata, incapace di credere che possa esserci una vita migliore per lei e la sua famiglia, che la sua sorte possa essere volta al meglio. Aoise allora decide di svelare tutta la verità alla madre, la quale tuttavia resta silente al telefono: mancanza di comprensione nei confronti della figlia o totale consapevolezza della situazione? Per la prima volta la protagonista realizza che l’unica cosa che importava alla madre era il denaro mandato in Nigeria, indipendentemente da come lo guadagnasse.
Da questa amara scoperta la protagonista comincia a vincere le resistenze, a superare le paure, e finalmente a pianificare la fuga. “Ecco, io ci sono. Venite a prendermi, spiriti maligni. Forse esistete, o forse no, ma io non ne posso più!” E quando, in un antro limpido della sua mente, scandì queste parole, la paura divenne meno odiosa. Tirò fuori una voce immensa e gridò: «Basta!!!” (…) “In quel momento non si sentì sola, perché avvertiva la presenza dei suoi cari accanto a lei. E fu insieme a Prudence che salì sulla macchina di Ciccio, con i sedili bucati e la puzza di tabacco; fu insieme a papà Yusuf e a Daren che salutò Francis dal vetro posteriore della Fiat Punto, mentre la città di Castel Volturno, il mare, le case, i cumuli di rifiuti lungo le strade si dissolvevano esangui sotto il suo sguardo”.
Una volta al sicuro, sfuggita al controllo anche psicologico dei suoi aguzzini, decide di denunciare Sonia e Sammy, collaborando con le forze dell’ordine, trovando così il coraggio di diventare una donna finalmente libera: “Io non mi chiamo più Erabon, mi chiamo Aoise”.
L’accesso alla magistratura
Tra le riforme che hanno interessato a vario titolo il microcosmo in cui operano gli operatori del diritto negli ultimi mesi su impulso dell’ex Ministro della Giustizia Marta Cartabia, una delle più importanti riguarda la modifica delle norme sul concorso in magistratura (art. 33 decreto-legge 23 settembre 2022, n. 144, in attuazione della direttiva di cui all'art. 4 legge 17 giugno 2022 n. 71) tornato dopo un lungo periodo ad essere accessibile anche ai neolaureati.
La scelta di eliminare l’obbligo di frequentazione di tirocini o scuole specializzate, come è stato scritto recentemente, “corrisponde ad esigenze di maggiore equità sociale”[1].
Non può infatti trascurarsi che il tentativo di elevare la professionalità degli aspiranti magistrati imponendo loro una rilevante spendita di tempo, risorse e denaro, ha presentato criticità difficilmente superabili.
Il ritorno all’antico sistema del concorso di primo grado è immediatamente operativo mentre non altrettanto lo sono le previsioni “di sistema” che dovrebbero accompagnare questa importante modifica, lasciate per il momento ad una delega legislativa di ampio contenuto.
Per evitare ricadute negative occorrerà dunque considerare con attenzione lo stato attuale delle modalità di accesso al concorso, gli aspetti migliorabili del sistema e l’organizzazione del futuro assetto della selezione, tutti temi solo parzialmente abbozzati (o del tutto assenti) nel disegno di legge delega consegnato dal precedente Governo a quello attuale.
Giustizia Insieme intende pertanto dedicare al tema dell’accesso in magistratura una serie di approfondimenti che, dopo le testimonianze rese dai Presidenti di due delle ultime Commissioni di concorso sulla loro esperienza, prenderà in disamina in primo luogo i diversi canali di accesso al concorso.
In particolare, saranno oggetto di specifico approfondimento la formazione universitaria, il ruolo – passato e futuro - delle SSPLL e il tirocinio formativo ex art. 73; sarà poi pubblicato un monitoraggio statistico dei percorsi pre-concorsuali dei MOT (i Magistrati in tirocinio, ovvero i vincitori del concorso) per una verifica sul campo dei percorsi compiuti dai giovani neo-magistrati negli ultimi anni.
Dedicheremo poi ampio spazio alle esperienze comparate di accesso alla magistratura presso altri Stati europei e non, per concludere con un riflessione sul futuro ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, destinata dalla predetta legge delega ad affiancarsi o a sostituirsi ai corsi privati di preparazione al concorso.
Anche per questa iniziativa, come già accaduto in occasione di precedenti analoghi, ciascun approfondimento sarà numerato, preceduto da un’intestazione comune e accompagnato da un link ai precedenti articoli [2]
[1] A.COSTANZO, “Verso un nuovo concorso per la magistratura con una formazione comune dei giuristi forensi?”, Il Dubbio, 22.12.22.
[2] In tema di accesso, su questa rivista, v. Ritorno alle vecchie regole per il concorso in magistratura. Ma anche pensando al futuro? di Angelo Costanzo, in tema di concorso, su questa rivista, v. Concorso in magistratura: istruzioni per l’uso da una (ex) insider. Intervista di Enrico De Santis a Elisabetta Pierazzi
Errare è umano, travisare diabolico. Ovvero, di un problema (di nuovo) attuale della cassazione civile*
di Luigi Cavallaro
1. Desidero innanzi tutto ringraziare le colleghe e i colleghi della Formazione decentrata della Corte per aver pensato di dedicare un’occasione di studio a questo tema e ancor più per avermi invitato a prendere la parola nell’ambito di un consesso così autorevole: me ne sento davvero onorato.
Troppo onore, però, mi si fa quando si individua in una sentenza di cui sono stato estensore (menzionata perfino nella brochure di presentazione di questo incontro)[1] la capostipite di un orientamento dissonante rispetto alla tradizione della giurisprudenza di legittimità in materia di denunciabilità del travisamento della prova.
In effetti, leggendo la relazione sullo stato della giurisprudenza che il Massimario ha pubblicato sul nostro tema nello scorso mese di settembre[2], l’impressione che si ritrae è proprio questa: c’è un orientamento consolidato che, distinguendo fra travisamento del fatto e travisamento della prova, ritiene denunciabile per revocazione il primo e ricorribile per cassazione il secondo; improvvisamente, quasi un fulmine a ciel sereno, appare una sentenza della Sezione Lavoro della Corte che invece afferma tutt’altro, che il travisamento del fatto e il travisamento della prova non sono cose differenti, ma sono la stessa identica cosa, che dopo la novella dell’art. 360 n. 5 c.p.c. non è praticamente più censurabile per cassazione, nemmeno per violazione dell’art. 115 c.p.c., potendo se del caso dar luogo a revocazione; e c’è infine un riesame critico di questa voce dal sen fuggita, che – muovendo dal presupposto che essa condurrebbe al paradosso di confermare una sentenza di merito chiaramente illegittima – torna opportunamente a distinguere (come l’orientamento tradizionale) tra fatto e prova e, facendo leva sull’art. 115 c.p.c., giunge nuovamente a ritenere censurabile per cassazione la sentenza di merito che abbia ricostruito i fatti avvalendosi di informazioni probatorie che sia assolutamente impossibile ricondurre alle fonti o ai mezzi di prova a cui il giudice ha viceversa inteso riferirle.
Quest’impressione di cui vi dicevo, di un’improvvisa (e improvvida) deviazione dal corso delle cose, si accentua se – come siamo soliti fare nelle nostre ricerche – andiamo a verificare che seguito hanno avuto certe massime nelle massime successive: la massima elaborata sulla sentenza di cui sono stato estensore non indica alcun precedente conforme, ma solo successive difformi, mentre la massima elaborata sulla sentenza che avrebbe riportato la questione nel suo alveo naturale[3], oltre ad avere numerose precedenti dello stesso tenore, annovera già ben due successive conformi[4]. E difforme, naturalmente, nessuna.
Se le cose stessero così, questo nostro incontro di studio vedrebbe insomma “uno contro tutti”, come in alcune famose serate del “Maurizio Costanzo Show”: salvo che chi vi parla non è né Carmelo Bene né Aldo Busi (e nemmeno Pietro Taricone o Fabrizio Corona) e dunque non varrebbe la pena di perdere tempo ad ascoltarmi.
Ma le cose – giusto perché parliamo di travisamento – non è detto che stiano proprio così come sembrano. Ed è per ciò che, piuttosto che raccontarvi cosa c’è scritto nella sentenza di cui sono stato estensore, vorrei approfittare del breve spazio che mi è stato concesso per offrirvi un’altra versione dei fatti: se volete, un’altra storia, che riguarda ciò che ha preceduto e ciò che, sia pure silenziosamente, ha seguito la sentenza di cui sono stato estensore.
2. La storia della denunciabilità per cassazione del travisamento è in effetti una storia antica: le prime sentenze che ne ammettono la possibilità sono infatti della Cassazione di Torino, sul finire dell’Ottocento. A darle la stura, come ricorda Calamandrei, fu il tentativo di censurare in sede di legittimità l’erronea interpretazione dei negozi giuridici “compiuta dal giudice di merito coll’attribuire a una dichiarazione di volontà un significato palesemente contrario a quello resultante dalle parole di cui la dichiarazione stessa è composta”[5]: anche allora, infatti, si diceva che, se un errore del genere non rivestiva gli estremi della revocazione, la possibilità di un’impugnazione per cassazione doveva ritenersi circoscritta alla violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti oppure ad un errore sulla qualificazione giuridica del negozio, e anche allora, per sfuggire alla tagliola dell’inammissibilità del ricorso (ricordiamoci che la deducibilità del “vizio di motivazione” come censura rivolta giudizio di fatto era ancora piuttosto controversa), si era inventato un artificio per trasformare quel vizio, che atteneva chiaramente alla corretta ricostruzione del fatto, in un vizio di violazione di legge: siccome il contratto ha forza di legge tra le parti, si diceva, il travisamento della volontà delle parti equivale a travisamento della volontà della legge.
Che si trattasse di un paralogismo fu rilevato già da Mattirolo, nel suo Trattato[6]; e talmente isolata rimase la Cassazione torinese che, scrivendo nemmeno quindici anni dopo l’unificazione della Corte di cassazione, Guido Calogero poteva tranquillamente affermare che il travisamento (inteso come un’interpretazione “la cui erroneità è così manifesta, da presumere che essa possa essere rilevata anche da un organo giurisdizionale normalmente non deputato all’esame del fatto”)[7] non costituiva in alcun modo violazione di legge, né sostanziale né processuale, ma poteva semmai rientrare nel “controllo della logicità” della motivazione, cioè in quel vizio che di lì a poco, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile, sarebbe stato definito nel n. 5 dell’art. 360 c.p.c. E a sostegno di questa conclusione citava una decisione della Corte del 1934, dove leggiamo testualmente: “Questo S.C. ha tante volte riconosciuto che l’interpretazione degli atti della causa è compito insindacabile del giudice di merito, e che per tanto il travisamento del loro contenuto non può costituire motivo di ricorso per cassazione”[8].
Insomma, già a metà degli anni ’30 dello scorso secolo, la Cassazione era ben attestata sull’impossibilità di denunciare in sede di legittimità il “travisamento”, se non nei ristretti limiti del vizio di motivazione. E a sanzionare di correttezza questo orientamento, trent’anni dopo, fu nientemeno che Satta, nonostante la sua ben nota propensione ad allargare l’orbita del giudizio di legittimità fino a ricomprendervi il vizio plateale del giudizio di fatto: “il travisamento – scrisse nel Commentario – poggiava su un presupposto arbitrario, e cioè che esistano cose chiare, o che esista un fatto distinto dal giudizio di fatto, cioè fuori dalla sola interpretazione giuridicamente rilevante, quella del giudice”, e proprio per ciò doveva ormai considerarsi “un ricordo storico”[9]; l’unica possibilità di denunciarlo rimaneva quella scolpita nell’ennesima massima resa dalla Cassazione sull’argomento, citata adesivamente nel Commentario, secondo cui “il travisamento dei fatti può costituire motivo di ricorso per cassazione soltanto se si risolva in mancanza di motivazione su un punto decisivo della controversia, e cioè su un elemento della fattispecie che, se esaminato, avrebbe potuto determinare una diversa soluzione della causa”[10].
E siamo così agli anni ’60. Una banale ricerca su Italgiure, utilizzando come parole chiave “travisamento” e “cassazione”, evidenzia come la nostra Corte resti assolutamente ferma, per tutti i successivi cinquant’anni, nel negare che il travisamento sia denunciabile per cassazione se non nei limiti dell’art. 360 n. 5, non senza precisare, peraltro, che non c’è differenza alcuna fra travisamento del fatto e travisamento delle prove[11]; persino l’avere il giudice ritenuto come pacifico un fatto che invece si pretende essere stato contestato non può dar luogo a ricorso per cassazione, precisano le Sezioni Unite[12], perché se l’apprezzamento del giudice di merito è frutto di un travisamento di fatti soccorre comunque il rimedio della revocazione. E qui si capisce che, nell’opinione della Corte, delle due l’una: o il travisamento è frutto di una svista (di un “errore di percezione”, diremmo noi) e allora c’è solo la revocazione, o è frutto di un giudizio, sia pure viziato dalla distorsione della realtà processuale, e allora c’è solo lo strumento dell’art. 360 n. 5 c.p.c. Tertium non datur: nemmeno per violazione dell’art. 115 c.p.c., perché – precisa la Corte – il principio secondo cui il giudice deve decidere iuxta alligata et probata non può certo dirsi violato quando le prove siano state valutate in un modo piuttosto che in un altro[13].
3. Questa è dunque la situazione fino all’alba del nuovo millennio[14] e anzi fino a pochi, pochissimi anni fa: talmente consolidata che il Massimario nemmeno si preoccupa più di confezionare le massime delle sentenze conformi al trend, ma si limita a dichiarare la loro conformità a questo o quell’altro precedente (personalmente, ho censito almeno duecentocinquanta conformi tra il 1962 e il 2012). E così stando le cose, capirete bene che la modesta sentenza di cui sono stato estensore non può certo meritare quell’attributo di assoluta novità di cui l’ha insignita la Relazione del Massimario di cui vi ho detto prima[15]: perché non faceva altro che ripetere quello che da oltre un secolo la Cassazione ha sempre detto sulla possibilità di denunciare in sede di legittimità il “travisamento”, sia esso del fatto o della prova o di tutt’e due insieme!
Come nasce, allora, l’equivoco? Sospetto che la risposta vada cercata nella draconiana modifica che, nel 2012, subisce il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. La vicenda è nota: nel tentativo di arginare la marea di ricorsi per cassazione che si propongono in realtà di richiedere un riesame del fatto, il legislatore torna alla più restrittiva nozione del vizio che era stata formulata nella prima versione del codice di procedura del 1942, per di più introducendo, all’art. 348-ter c.p.c., la previsione secondo cui il vizio del n. 5 non è più deducibile in caso di doppia conforme di merito.
Per la possibilità di veicolare in sede di legittimità un qualche “travisamento”, sembra a quel punto suonare la campana a morto, specialmente quando le Sezioni Unite, con le notissime sentenze gemelle del 2014, chiudono ogni varco alla possibilità di denunciare per cassazione la semplice “insufficienza” della motivazione[16], che era poi il paravento dietro il quale, ad onta delle radicali affermazioni di principio, molte sentenze della Corte attingevano in realtà al fatto a piene mani: se la possibilità di censurare il giudizio di fatto deve reputarsi limitata al solo caso in cui il giudice di merito abbia omesso di esaminare un fatto decisivo, è evidente che il travisamento, che non è mai un “omesso esame” ma tutt’al più un “cattivo esame”, non può più essere denunciato per cassazione, ma può essere, se del caso, soltanto motivo di revocazione della sentenza di merito.
Ed ecco, allora, la reazione. Si comincia col riprendere un innocuo obiter di una sentenza del 2006, circa la possibilità di distinguere fra travisamento del fatto e travisamento della prova[17], e di bel nuovo, nonostante decine e decine di sentenze anteriori avessero detto il contrario, si torna a sostenere che quest’ultimo implicherebbe non già una “valutazione”, ma la “constatazione” che quella informazione probatoria utilizzata dalla sentenza è contraddetta da uno specifico atto processuale, e sarebbe dunque denunciabile per cassazione[18]. Poi si riesuma nuovamente l’art. 115 c.p.c. e, nonostante anche qui numerose sentenze anteriori di segno contrario, se ne “inventa” (ma lo diciamo senza offesa: à la Grossi, per capirci)[19] una interpretazione tale per cui esso consentirebbe di denunciare per cassazione l’errore di percezione compiuto dal giudice quando abbia avuto ad oggetto un fatto controverso[20]. E finalmente si chiude il cerchio, affermando che il divieto di ricorrere per cassazione ex art. 360 n. 5 in caso di doppia conforme non varrebbe quando si denunci un vizio di travisamento della prova[21].
Sono tentativi che ricevono grande attenzione dall’Ufficio del Massimario: che per di più, nel massimarli, dimentica completamente di segnalare all’ignaro utente le decine (anzi, centinaia) di precedenti di tenore assolutamente contrario. Un redivivo Hobsbawm certo sorriderebbe di fronte ad un caso così eclatante di “invenzione della tradizione”[22], ma di fatto è proprio ciò che accade: un secolo di giurisprudenza della Cassazione sul travisamento viene silenziosamente rimosso e si forma repentinamente una nuova tradizione, rispetto alla quale, ovviamente, chi si prova a ricordare ciò che la Corte ha affermato per decenni è semplicemente “difforme”.
Il problema è che ogni tradizione inventata deve soffrire, almeno fintanto che non si consolida, la concorrenza di quella più antica che intende soppiantare. Dopo la massimazione della sentenza di cui sono stato estensore, assistiamo perciò al dipanarsi di un contrasto latente tra il vecchio e il nuovo (e lascio a voi di stabilire quale sia l’uno e quale l’altro): da una parte, facendo leva sulla recente rivisitazione dell’istituto del travisamento, si continua a sostenere la possibilità di denunciarlo per cassazione sub specie di violazione dell’art. 115 c.p.c.[23]; dall’altra parte, si obietta che, a seguito della modifica dell’art. 360 n. 5 c.p.c. e del conseguente venir meno della possibilità di censurare l’insufficienza della motivazione, ogni possibilità di denunciare per cassazione un travisamento del fatto o della prova deve reputarsi venuta meno[24]. E sebbene del perdurare di questo contrasto nulla si legga nella Relazione del Massimario di cui più volte vi ho fatto cenno, la sua esistenza effettiva non è sfuggita alle colleghe e ai colleghi più attenti e almeno due ordinanze interlocutorie (una della Sezione Tributaria e una della Terza Civile)[25] lo hanno denunciato apertamente per giustificare la rimessione della causa alla pubblica udienza[26].
Questo, al momento, è lo stato dell’arte. Non mi resta, a questo punto, che dispormi insieme a voi all’ascolto degli illustri relatori e scusarmi per il tempo che vi ho sottratto: sono consapevole che, in coerenza con la tesi che ho sostenuto nella sentenza di cui sono stato estensore, la denuncia di questo travisamento dei fatti di cui vi ho raccontato non può che essere dichiarata inammissibile.
*Testo dell’intervento tenuto all’incontro di studi “Errare humanum… travisare diabolicum. La questione del travisamento nel ricorso per cassazione”, organizzato dalla Struttura di Formazione decentrata della Corte di cassazione (Roma, 14 marzo 2023).
[1] Cass. 3 novembre 2020, n. 24395.
[2] Corte di cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Relazione n. 93 del 28 settembre 2022.
[3] Si tratta di Cass. 26 aprile 2022, n. 12971, con cui si chiude la Relazione del Massimario cit. alla nota prec.
[4] Cass. 3 maggio 2022, n. 13918, nonché Cass. 21 dicembre 2022, n. 37382.
[5] Calamandrei, La Cassazione civile, Torino, Fratelli Bocca, 1920, II, p. 369.
[6] Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario italiano, Torino, Fratelli Bocca, 1902-1909, IV, § 1053.
[7] Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, Cedam, 1937 (rist. 1964), p. 259.
[8] Ibid., p. 217 (si tratta di Cass. 25 maggio 1934, n. 1781).
[9] Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, Vallardi, 1959-1962, II, 2, p. 202.
[10] Ibid. Si tratta di Cass. 6 febbraio 1962, n. 222 (erroneamente indicata con l’anno 1961, ma riportata nei suoi esatti estremi a p. 210).
[11] Così già Cass. 16 maggio 1968, n. 1536, e prima ancora, a proposito del travisamento del contenuto di un documento, Cass. 17 giugno 1964, n. 1767.
[12] Cass., S.U., 30 maggio 1966, n. 1412.
[13] Cass. 5 luglio 1971, n. 2093.
[14] Lo stato dell’arte viene così riassunto da Cass. 3 febbraio 2000, n. 1195, e da Cass. 1° agosto 2001, n. 10475: il ricorso per cassazione fondato sull’affermazione che il giudice del merito abbia erroneamente presupposto fatti inesistenti o comunque contrastanti con le risultanze testimoniali oppure abbia erroneamente ritenuto non contestata una circostanza di causa, è inammissibile, configurando ipotesi di travisamento dei fatti, contro cui è esperibile solo il rimedio della revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c.; e la denuncia di travisamento di fatto, quando attiene non alla motivazione della sentenza impugnata, ma ad un fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce motivo non di ricorso per cassazione ma di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., importando essa un accertamento di merito non consentito al giudice di legittimità. Ribadisce infatti una sentenza di pochi anni dopo che il vizio di motivazione denunziabile ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento, nel senso che, dopo aver percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo o lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico; se invece l’omessa valutazione dipende da una falsa percezione della realtà, nel senso che il giudice, per una svista, ritiene inesistente un fatto o un documento, la cui esistenza risulti incontestabilmente accertata dagli stessi atti di causa, è configurabile un errore di fatto deducibile esclusivamente con l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c. (Cass. 27 luglio 2005, n. 15672). In termini pressoché analoghi si era espressa, poco più di cinquant’anni prima, Cass. 24 giugno 1954, n. 2178, sulla cui motivazione (“nitida” e “da leggere con cura”) aveva richiamato l’attenzione Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, Jovene, 1956, II, p. 630.
[15] Cfr. supra, nota 3.
[16] Cfr. Cass., S.U., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054.
[17] Cass. 24 maggio 2006, n. 12362, la cui parte motiva, sul punto, vale la pena di riportare per intero: “sembra che, piuttosto che un travisamento delle prove, i ricorrenti vogliano sottolineare un travisamento del fatto, del quale, peraltro, non forniscono alcun elemento. In tal caso, comunque, la denuncia di travisamento del fatto sarebbe incompatibile con il giudizio di legittimità perché implica la valutazione di un complesso di circostanze del caso concreto che comportano il rischio di una rivalutazione del fatto. In ogni caso tale denuncia costituirebbe motivo, non di ricorso per Cassazione, ma di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c. […]. L’ipotesi apertamente formulata dai ricorrenti di travisamento delle prove, poi, è supportata da argomenti che riguardano la diversa ipotesi di mancata valutazione di elementi decisivi della controversia. In tale contesto deve, infatti, rilevarsi che il travisamento della prova implica non una valutazione, ma una constatazione od accertamento che quella specifica informazione probatoria utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale. Ciò che, nel caso di specie, non solo non è stato provato, ma non risulta neppure allegato”. Come si vede, non soltanto la sentenza esclude che si verta in specie in ipotesi di “travisamento delle prove”, ma nemmeno sostiene apertamente che codesto travisamento sarebbe denunciabile per cassazione.
[18] Cass. 25 maggio 2015, n. 10749, che tuttavia decide su un ricorso avverso una sentenza di merito del 2007, dunque nel vigore della formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. anteriore alla modifica apportata dall’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134).
[19] Cfr. Grossi, L’invenzione del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2017.
[20] Cass. 12 aprile 2017, n. 9356.
[21] Cass. 5 novembre 2018, n. 28174.
[22] Si allude ovviamente a Hobsbawm, Come si inventa una tradizione, in Hobsbawm e Granger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987, p. 3 ss. (ed. orig.: The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983).
[23] Alle sentenze già citate supra, note 4 e 5, adde, tra le più recenti, Cass. 7 luglio 2022, n. 21565, e Cass. 15 luglio 2022, n. 22352.
[24] Si vedano, tra le numerose, Cass. 15 novembre 2021, n. 34210, Cass. 17 maggio 2022, n. 15777, Cass. 29 dicembre 2022, n. 38014, e Cass. 6 febbraio 2023, n. 3581.
[25] Cfr. Cass. 17 maggio 2022, n. 15753, e Cass. 24 giugno 2022, n. 26207.
[26] Vale la pena aggiungere che, in occasione della udienza pubblica tenuta a seguito della rimessione disposta da Cass. n. 26207 del 2022, cit. alla nota prec., il Pubblico ministero aveva chiesto la rimessione della questione alle Sezioni Unite, ma la richiesta è stata disattesa dal Collegio decidente, che ha poi deciso la causa con sentenza n. 37382 del 2022, cit. supra, nota 5.
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