ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa introduttiva e delimitazione dell’ambito dell’indagine. – 2. I principi (generali e non) del diritto dei contratti pubblici prima dell’ultima codificazione: linee di sviluppo. – 3. Il ruolo dei principi nell’attività contrattuale della pubblica amministrazione ed il loro difficile bilanciamento. – 4. I principi generali nel decreto legislativo n. 36 del 2023: conferme e novità. – 5. Segue: in particolare, i tre principi cardine (risultato, fiducia ed accesso al mercato) e la loro funzione di criteri interpretativi ed applicativi. – 6. Conclusioni (inevitabilmente problematiche): può davvero parlarsi di un «cambio di paradigma»?
1. Premessa introduttiva e delimitazione dell’ambito dell’indagine
Com’è stato notato da acuta dottrina, con riguardo alla formulazione dei principi, sin dai primi anni di questo secolo si è registrata un’inversione di tendenza nel rapporto tra legislatore, da un lato, e giurisprudenza e (seppure con un apporto limitato rispetto al passato) dottrina[1]. Taluno ha ritenuto «un atto di orgoglio» l’enunciazione, da parte del legislatore, dei principi, che in fondo «costituiscono il tentativo di positivizzare quel che [per lungo tempo] si era considerato appannaggio del diritto naturale»[2]; tal’altro, l’ha definito, invece, «un atto di umiltà» compiuto dal «vecchio sovrano esautorato – in parte – dalla stessa dinamica storica» come «eloquente atto di abdicazione da parte del legislatore alla propria – fino a ieri orgogliosa - autosufficienza»[3].
Si può convenire con l’una o con l’altra affermazione, così com’è del tutto legittimo chiedersi se con quest’opera di positivizzazione davvero «si riequilibra in modo irreversibile il rapporto tra diritto scritto e diritto giurisprudenziale»[4].
Ai fini della presente indagine, tuttavia, è più utile notare come l’opera legislativa di catalogazione dei principi sia avvenuta su due piani: uno generale, come nella legge sul procedimento amministrativo o nel codice del processo amministrativo, ed uno settoriale, come nei codici dell’ambiente, dell’amministrazione digitale e, appunto, dei contratti pubblici[5]. Ed osservare, subito dopo, come sia inevitabile che i principi “catalogati” dalla normativa settoriale entrino in contatto con altri principi generali dell’azione amministrativa, costringendo spesso il giudice a stabilire l’esito di tale confronto, che finisce evidentemente per condizionare o integrare l’applicazione degli stessi principi di settore[6]. Per restare alla materia dei contratti pubblici, basti pensare a come il principio di certezza del diritto, considerato una sorta di “superprincipio” e comunque un principio generale del diritto dell’Unione, sia stato talora ritenuto cedevole dai giudici europei[7] e come financo il principio di concorrenza, per lungo tempo vero e proprio totem del diritto europeo degli appalti, abbia subito – come dirò meglio a breve – un deciso ridimensionamento a causa dell’emersione di altri valori.
Si tratta di spunti che cercherò di riprendere compatibilmente con il tempo assegnatomi per la mia relazione, che, ovviamente, non potrà occuparsi che dei principi generali contenuti nei primi dodici articoli – in sostanza, il Titolo I della Parte I del Libro I – del nuovo codice (com’è noto, nonostante la Commissione ambisse alla massima concentrazione, principi affiorano anche in altri punti dell’articolato normativo), soffermandosi soltanto su quelli “cardine”, a cui sono dedicati i primi tre articoli.
2. I principi (generali e non) del diritto dei contratti pubblici prima dell’ultima codificazione: linee di sviluppo
Com’è a tutti noto, originariamente l’interesse pubblico che orientava l’attività contrattuale della pubblica amministrazione era spendere meno possibile e farlo nel migliore dei modi, tant’è che la disciplina di tale attività, considerata una branca della contabilità pubblica, era contenuta nella legge di contabilità del 1923 e nel relativo regolamento di attuazione[8].
Anche se il definitivo superamento della c.d. concezione contabilistica non si è avuto nemmeno con l’attuazione delle direttive comunitarie cc.dd. di prima generazione[9], ma soltanto grazie al primo codice dei contratti pubblici del 2006[10], già a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, con il progressivo aumento dell’influenza comunitaria sui sistemi nazionali, il principio di libera concorrenza, che per lungo tempo era stato strumentale all’interesse finanziario delle stazioni appaltanti, ha iniziato a rappresentare anche un presidio dell’interesse dei singoli operatori economici a competere in condizioni di parità[11].
Da allora in poi, per almeno tre generazioni di direttive, la libera concorrenza, unitamente agli altri principi “mercatisti” ad essa strumentali (come quelli di economicità, efficienza, parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità, flessibilità e semplificazione), è stata tutelata sempre più intensamente dall’Unione europea, assumendo un ruolo pervasivo, come «principio generale che va a caratterizzare tutte le politiche economiche degli stati membri»[12] ed a «plasma[re] tutte le regole dei contratti pubblici»[13]. Ciò fino a quando, a seguito della recessione economica mondiale conseguente alla crisi finanziaria del 2007/2008, tutte le contraddizioni del modello economico dominante a livello globale sono venute a galla, inducendo il legislatore europeo a rivedere il catalogo delle sue priorità[14]. Da qui il deciso ridimensionamento del dogma della tutela della concorrenza e la collocazione della contrattualistica pubblica in un contesto multivaloriale che la vede ormai funzionalizzata al perseguimento di obiettivi una volta ritenuti esterni rispetto alla disciplina di settore, come il sostegno all’occupazione, la riduzione della povertà, l’efficientamento energetico, e via dicendo[15]. Secondo una condivisibile lettura di tale evoluzione normativa, l’art. 18 della direttiva 2014/24/UE, rubricato «Principi per l’aggiudicazione degli appalti» e poi trasposto nell’art. 30 del codice dei contratti pubblici del 2016, ha dato vita ad un contesto nel quale il principio di concorrenza svolge «una funzione meramente evocativa», consistente nel richiamare sinteticamente gli altri principi ispiratori senza aggiungere loro alcuna ulteriore valenza prescrittiva: in sostanza, la concorrenza non è altro che «la ricaduta pratica dell’applicazione dei principi di imparzialità e di parità di trattamento, di pubblicità e di trasparenza al singolo atto di scambio»[16].
Il suddescritto arretramento della tutela della concorrenza e del mercato nella gerarchia dei valori perseguito dalla disciplina – europea e, quindi, nazionale – della contrattualistica pubblica, l’affiancamento alla tradizionale anima “mercatista” di ulteriori, sempre più rilevanti, esigenze[17], tra cui di recente anche la prevenzione della corruzione, ci ha consegnato un codice – quello attualmente vigente, anche se per un solo trimestre ancora – sviluppato fra tre «poli concettuali», cioè tre esigenze diverse: tutela del mercato, salvaguardia della finanza pubblica e soddisfacimento delle istanze di matrice ambientale e sociale[18]. Un codice nel quale, non a caso, il principio di libera concorrenza non è messo al primo posto dall’art. 30 (che sostanzialmente conferma l’elencazione dei principi contenuta nell’art. 2 del codice del 2006, aggiungendo alcune prescrizioni intese a dar attuazione alle direttive di ultima generazione[19]), ma – in coerenza con l’art. 18 della direttiva europea - «relegato tra quei principi che le stazioni appaltanti devono “altresì” rispettare, quasi che il legislatore intendesse evidenziarne la minore pregnanza rispetto ai principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza»[20]. Coglie probabilmente nel segno, allora, la dottrina che, muovendo dalla premessa che elementi di contaminazione tra regole pro-concorrenziali e obiettivi di politiche pubbliche o di bilanciamento si rinvengono ormai da tempo nel diritto europeo (basti pensare alla rilevanza del criterio di aggiudicazione fondato sul miglior rapporto qualità-prezzo, dichiaratamente inteso ad privilegiare la qualità degli appalti pubblici), afferma che «il codice del 2016 sembra in realtà tenere in conto soprattutto la “sana” concorrenza, quella cioè che risulta inverata proprio attraverso i molteplici profili sotto i quali è trattata dal codice stesso la qualità delle prestazioni all’interno di relazioni contrattuali affidabili e sostenibili»[21].
Non mancano, peraltro, letture marcatamente critiche di un fenomeno significativamente definito di «sovraccaricamento assiologico», consistente nel fatto che, con le direttive di ultima generazione, le esigenze sociali, ambientali, di sviluppo sostenibile e di tutela della legalità hanno assunto un ruolo centrale, finendo per rendere la materia dei contratti pubblici «ricca, forse addirittura strabordante, di principi»[22].
I bilanci proveremo a farli alla fine; per il momento, come premessa dell’analisi del nuovo codice, ci limitiamo a constatare che il precedente aveva innegabilmente previsto, come quello del 2006, un significativo – probabilmente, financo eccessivo[23] e, sotto certi aspetti, controproducente[24] – ricorso ai principi (generali e non[25]), affidandone la definizione all’A.N.AC.[26].
3. Il ruolo dei principi nell’attività contrattuale della pubblica amministrazione ed il loro difficile bilanciamento
La relazione al nuovo Codice evidenzia che «[i] principi generali di un settore esprimono […] valori e criteri di valutazione immanenti all'ordine giuridico, che hanno una “memoria del tutto” che le singole e specifiche disposizioni non possono avere, pur essendo ad esso riconducibili. I principi sono, inoltre, caratterizzati da una prevalenza di contenuto deontologico in confronto con le singole norme, anche ricostruite nel loro sistema, con la conseguenza che essi, quali criteri di valutazione che costituiscono il fondamento giuridico della disciplina considerata, hanno anche una funzione genetica (“nomogenetica”) rispetto alle singole norme. Il ricorso ai principi assolve, inoltre, a una funzione di completezza dell’ordinamento giuridico e di garanzia della tutela di interessi che altrimenti non troverebbero adeguata sistemazione nelle singole disposizioni».
Nell’ambito della contrattualistica pubblica, i principi hanno invero svolto molteplici ruoli, sui quali in questa sede non è possibile dilungarsi. Ci si limita, pertanto, a ricordare che, a parte la funzione stabilizzatrice che, rimanendo immutati pur al verificarsi di un eccesso di normazione, essi possono svolgere[27], i principi, grazie alla loro «forza espansiva», hanno, innanzitutto, contribuito a far sì che l’ordinamento sovranazionale, pur in mancanza di disposizioni specificamente rivolte al diritto dei contratti pubblici nei Trattati, avesse una forte incidenza sulla materia, “europeizzandola” intensamente[28].
Ai fini della nostra indagine, preme piuttosto evidenziare come i principi, che dovrebbero ordinare la materia[29] e «costituire il faro nella nebbia se c’è incertezza»[30] e per questo vengono sovente preferiti dai giudici all’interpretazione sistematica, siano sovente in potenziale conflitto tra loro, tanto da indurre la dottrina, anche recente, ad auspicare una loro gerarchizzazione ad opera del legislatore[31]. Da qui l’inevitabile ricorso a tecniche di bilanciamento, con tutti i problemi che ne derivano[32].
Un’esigenza di bilanciamento si può porre, in primis, all’interno degli stessi principi catalogati nel codice dei contratti pubblici. Ciò è costantemente accaduto, ad es., quando la stazione appaltante ha dovuto scegliere tra l’applicazione delle prescrizioni che prescrivono adempimenti formali a carico dei partecipanti alla gara, a garanzia della par condicio tra gli stessi, e del principio di massima partecipazione. In siffatte ipotesi, la prevalenza di un principio rispetto ad un altro con esso incompatibile è stata valutata in ragione della portata e della rilevanza che ciascuno di essi assume nel caso concreto, verificando, inoltre, se taluno dei principi in contrasto risulti rafforzato nell’applicazione da altro principio in materia[33]. Ad esempio, a fronte della violazione di oneri formali imposti a pena di esclusione dalla lex specialis, il giudice amministrativo ha affermato la prevalenza del principio di formalità, in quanto accompagnato dalla garanzia della par condicio, su quello del favor partecipationis[34]. In altri casi, lo stesso giudice amministrativo ha fatto prevalere il principio della massima partecipazione su quello di parità di trattamento, privilegiando la soluzione favorevole all’ammissione alla gara in luogo di quella che tende all’esclusione di un concorrente: ciò, ad esempio, in presenza di una clausola di gara ambigua, incerta o comunque non univoca[35] o nel caso in cui la violazione delle singole clausole che comminano l’esclusione non comporti la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante[36]. E’ il principio di proporzionalità, in definitiva, a costituire il parametro di riferimento per operare un bilanciamento tra le esigenze di massima partecipazione, da un lato, e quelle di par condicio, dall’altro, consentendo di «garantire l’effettiva concorrenza nel caso di specie, ossia la contendibilità dell’appalto non in astratto, ma in concreto, ossia con riguardo agli operatori economici del settore che, per un verso siano in grado di offrire i beni richiesti dalla stazione appaltante e, per altro verso, siano in possesso dei requisiti necessari alla partecipazione alla procedura»[37].
Analoghi problemi di bilanciamento si pongono sovente con il vigente art. 30 del decreto legislativo n. 50 del 2016: si pensi al criterio privilegiato di aggiudicazione dei contratti sopra-soglia, cioè l’offerta economicamente più vantaggiosa, che vede i principi di economicità e di efficienza potenzialmente sacrificati alla qualità ed all’efficacia (anche sociale) dell’intervento, in una tensione dialettica che viene sciolta nella scelta di aggiudicazione attraverso, appunto, l’intermediazione del rispetto dei principi di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione, dalla cui applicazione vengono tratte una serie di regole più dettagliate in ordine alle relative modalità organizzative e funzionali, come ad es. quelle sulla commissione di gara e sui criteri di valutazione delle offerte[38].
La tensione fra principi è palpabile, in particolare, laddove l’economicità si confronta con le esigenze sociali ed altri interessi collettivi assunti come obiettivi di politiche pubbliche, condizionando il rispetto del principio di concorrenza. Si pensi al campo degli appalti e delle concessioni dei servizi sociali, dov’è evidente la difficoltà di comporre elementi inerenti ad un’ispirazione solidaristico-fiduciaria con elementi inerenti ad una logica economico-concorrenziale[39].
È inevitabile, poi, che principi settoriali, id est specificamente contemplati dalla normativa in materia di appalti pubblici, entrino in contatto con altri principi generali dell’attività amministrativa, che ne possano condizionare ovvero integrare l’applicazione: si pensi, ad es., al principio del contraddittorio in sede di formulazione del giudizio di anomalia delle offerte[40].
Un problema di bilanciamento (rectius: gradualità), infine, può venire in rilievo persino nell’applicazione dello stesso principio: si pensi, ad es., al principio di trasparenza-concorrenza, la cui generalizzata applicazione, avvalorata dalla sua dimensione costituzionale, può incentivare il fenomeno della collusione tacita tra gli operatori economici, ciò che ha indotto taluno a ritenere opportuno calibrare i livelli di trasparenza sulle caratteristiche del mercato rilevante nel quale si colloca il contratto[41].
4. I principi generali nel decreto legislativo n. 36 del 2023: conferme e novità
Vedremo poi se a torto o a ragione, la Parte I, dedicata ai principi generali, è ritenuta, pressochè unanimemente, la novità più significativa del nuovo Codice, che dichiaratamente ambisce ad enunciare principi guida per l’interpretazione ed applicazione degli istituti. Nella relazione, il legislatore assume che, «nella consapevolezza dei rischi che sono talvolta correlati a un uso inappropriato dei principi generali (e in particolare alla frequente commistione tra principi e regole), ha inteso affidare alla Parte I del Libro I il compito di codificare solo principi con funzione ordinante e nomofilattica», dando «un contenuto concreto e operativo a clausole generali altrimenti eccessivamente elastiche» oppure utilizzando «la norma-principio per risolvere incertezze interpretative […] o per recepire indirizzi giurisprudenziali ormai divenuti “diritto vivente”». Attraverso la codificazione dei principi, il nuovo Codice mira dichiaratamente a «favorire una più ampia libertà di iniziativa e di auto-responsabilità delle stazioni appaltanti, valorizzandone autonomia e discrezionalità (amministrativa e tecnica) in un settore in cui spesso la presenza di una disciplina rigida e dettagliata ha creato incertezze, ritardi, inefficienze». L’idea sarebbe «quella non tanto di richiamare i principi “generalissimi” dell’azione amministrativa (già desumibili dalla Costituzione e dalla legge n. 241/1990), ma di fornire una più puntuale base normativa anche a una serie di principi “precettivi”, dotati di immediata valenza operativa», al fine di «realizzare, fra gli altri, i seguenti obiettivi: a) ribadire che la concorrenza è uno strumento il cui fine è realizzare al meglio l’obiettivo di un appalto aggiudicato ed eseguito in funzione del preminente interesse della committenza (e della collettività) (cfr. art. 1, comma 2); b) accentuare e incoraggiare lo spazio valutativo e i poteri di iniziativa delle stazioni appaltanti, per contrastare, in un quadro di rinnovata fiducia verso l’azione dell’amministrazione, il fenomeno della cd. “burocrazia difensiva”, che può generare ritardi o inefficienze nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti (cfr. art. 2, comma 2)».
Principi generali, dunque, intesi «non solo come affermazioni generali e astratte, ma come indicazioni concrete per gli esecutori, per gli operatori, per gli interpreti»[42], il cui pregio – secondo uno dei primi commentatori – non sarebbe soltanto quello di «dare ordine ed equilibrio ad una disciplina ricca di tensioni significative all’interno dei singoli istituti», ma anche quello di «colloca[re] opportunamente il contratto pubblico nella teoria generale del contratto in generale, mettendo a disposizione dell’applicazione e dell’interpretazione sistematica altri sistemi di principi – quelli del contratto – destinati – pur nella loro applicabilità solo parziale – a tracciare con ancora maggiore certezza le linee di un discorso sistematico»[43].
Già nel commentare lo schema di codice, si è parlato di radicale innovazione dell’impostazione di fondo della contrattualistica pubblica, di «sistema ispirato a principi nuovi» e, con specifico riguardo ai principi generali contenuti nei primi dodici articoli, si è detto che «[s]ono tutti principi importantissimi e palesemente innovativi»[44].
Sia consentito un garbato, parziale dissenso.
Indubbiamente, la funzione dei principi in esame – come descritta nella relazione – appare diversa da quella dei principi dei precedenti codici, che in sostanza «servivano a perimetrare l’ambito di applicazione del testo normativo e le definizioni dei lemmi utilizzati nel testo» stesso[45].
Parimenti innovativa è l’ambizione del nuovo Codice – che in tal senso è andato ben oltre la stessa legge delega, che chiedeva al legislatore semplicemente di recepire i più recenti approdi giurisprudenziali in tema di contratti pubblici – di dettare «una sorta di scala assiologica» idonea a generare principi giuridici ed indirizzi ermeneutici in materia[46].
Coerenti con tale ambizioso proposito sono la collocazione e la consistenza dei principi generali del nuovo Codice, che testimoniano l’importanza che viene ad essi riconnessa dal legislatore[47].
Quanto al primo profilo, la scelta è stata significativamente diversa da quella fatta dal codice vigente – nel quale, come si è detto, i principi sono enunciati nell’art. 30 – e più simile a quella del primo codice, in cui i principi erano pure posti all’inizio (art. 2); quanto al secondo aspetto, il Codice che esaminiamo oggi si distingue da entrambi i precedenti perché dedica ai soli principi generali (altri principi s’incontrano in diverse parti del testo, come ad es. quello di digitalizzazione, al quale verrà dedicata la prossima relazione[48]) ben dodici articoli, peraltro composti da più commi contenenti indicazioni oltremodo dettagliate[49].
Andando ai singoli principi, tuttavia, è probabilmente un’esagerazione dire che siano tutti «palesemente innovativi»: tali – a nostro avviso – possono ritenersi soltanto alcuni di essi, che in certa misura indirizzano l’impostazione di fondo del nuovo Codice (e verranno perciò esaminati separatamente[50]), mentre molti altri – tra i quali quelli che possono definirsi «nuovi» soltanto perché non comparivano tra i principi dei precedenti codici – si limitano in realtà a recepire espressamente nello specifico ambito della contrattualistica pubblica, magari declinandoli in modo più esaustivo,principi generali dell’attività amministrativa o principi individuati dalla giurisprudenza in materia di contratti pubblici già applicabili a tale ambito[51]. Si pensi, ad es., ai principi di buona fede e di tutela dell’affidamento (art. 5), già recepiti dalla legge sul procedimento (art. 1, comma 2-bis)[52] e, non certo da ultimo[53], dalla giurisprudenza amministrativa e da tempo immemorabile applicati all’attività contrattuale della pubblica amministrazione e, segnatamente, alle gare d’appalto[54].
5. Segue: in particolare, i tre principi cardine (risultato, fiducia ed accesso al mercato) e la loro funzione di criteri interpretativi ed applicativi
La relazione al Codice non esita a definire «[f]ondamentale, in questo rinnovato quadro normativo, […] l’innovativa introduzione dei principi del risultato, della fiducia e dell’accesso al mercato (la cui pregnanza è corroborata dalla stessa scelta sistematica di collocarli all’inizio dell’articolato) i quali, oltre a cercare un cambio di passo rispetto al passato, vengono espressamente richiamati come criteri di interpretazione delle altre norme del codice e sono ulteriormente declinati in specifiche disposizioni di dettaglio (ad esempio, in tema di assicurazioni)».
In considerazione di ciò, nel ristretto tempo a disposizione, mi soffermerò esclusivamente su questi tre principi cardine e sulla funzione loro attribuita dall’art. 4.
Il principio del risultato, enunciato all’art. 1, comma 1, è definito nella relazione «l’interesse pubblico primario del codice», la «finalità principale che stazioni appaltanti ed enti concedenti devono sempre assumere nell’esercizio delle loro attività», e sintetizzato nel-«l’affidamento del contratto e la sua esecuzione con la massima tempestività e il miglior rapporto possibile tra qualità e prezzo, sempre nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza».
Esso rappresenta, dunque, «una sorta di grundnorm di tutto il Titolo I»[55], la «stella polare» che deve guidare l’interprete nella lettura del nuovo Codice[56], il quale – secondo un’accreditata opinione – deve ritenersi fondato sulla dichiarata priorità del c.d. «principio realizzativo», che in tal modo finisce per rappresentare «il fine (pubblico) per il quale l’amministrazione contrae», a cui tutti i restanti profili di pubblico interesse (dalla trasparenza alla concorrenza, passando financo per la legalità) sono da ritenere subordinati[57].
Secondo una condivisibile lettura, il riconoscimento del necessario primato logico della funzione di committenza pubblica insito nell’affermazione del principio del risultato determina un ribaltamento della gerarchia degli interessi affermatasi negli ultimi quindici anni a causa del recepimento del diritto europeo, interessato a tutelare la concorrenza e le libertà di circolazione e per nulla al buon andamento delle pubbliche amministrazioni nazionali: sembra che il nostro legislatore si sia finalmente reso conto che «la gara, per quanto doverosa per il diritto europeo e quindi italiano, è un mezzo, non un fine e che lo Stato banditore dovrebbe operare al servizio dello Stato committente»[58]. Già prima dell’avvento del nuovo Codice, del resto, avveduta dottrina aveva sostenuto con dovizia di argomentazioni che tutela della concorrenza e prevenzione della corruzione non possono sacrificare l’interesse principale: quello di eseguire gli appalti[59]. Oggi, in tempi di P.N.R.R., il mercato dei contratti pubblici e tutta l’azione che lo contorna dev’essere a fortiori necessariamente goal-oriented, dovendo il risultato rappresentare lo scopo primario dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione, «parte della legittimità stessa dell’atto amministrativo»[60]. Assai opportunamente, pertanto, «si vuole adesso ricordare ai destinatari del codice che questo non è uno strumento per assicurare il trasparente gioco della concorrenza nelle gare d’appalto, ma per fare in modo che queste rendano possibile la realizzazione delle opere e l’acquisizione di beni e servizi nel più breve tempo, con il miglior rapporto qualità e prezzo, rispettando la legge nonché gli stessi principi della libera concorrenza e della trasparenza»: in pratica, il codice «esiste per declinare i precetti costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione – non a caso richiamati nel successivo terzo comma dell’articolo – quale fonte di legittimazione del principio del risultato adesso reso esplicito»[61].
Discutendo di questo principio, riecheggiano inevitabilmente i dibattiti sulla c.d. amministrazione «di risultato», anche se la configurazione concreta del risultato in termini di interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, all’espletamento del servizio e/o al conseguimento della fornitura, unitamente alla precisazione che lo stesso dev’essere conseguito «con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo» (art. 1, comma 1), contribuiscono a dare un contorno ben definito al principio stesso[62]. La disposizione codicistica, in altri termini, identifica il risultato in un quid ben preciso, facendogli assumere il significato di «efficienza economica»[63].
Come evidenziato nella relazione, il risultato dev’essere pur sempre conseguito «nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza».
Il ruolo svolto in questo contesto dal principio di legalità ha invero suscitato talune perplessità, nella misura in cui esso avrebbe meritato un richiamo più evidente anzichè essere pariordinato ai principi di trasparenza e concorrenza quale mero parametro da rispettare per raggiungere il risultato[64]: in tal modo, da un lato, si corre il rischio di «porre il tema della legalità, sia pure nell’accezione formale, in contrapposizione a quello del risultato»; dall’altro, si trascura di considerare che trasparenza e concorrenza sono a loro volta strumentali alla legalità e «serventi rispetto alla democraticità, all’imparzialità e all’efficienza dell’amministrazione»[65].
Sul principio di trasparenza c’è poco da dire, essendo evidente che lo stesso è uno strumento fondamentale per garantire procedure conoscibili ed accessibili, ergo scongiurare rischi di favoritismi ed arbitri da parte delle stazioni appaltanti[66]. Quanto alla concorrenza, è parimenti palese che essa, per quanto subordinata e funzionale al risultato, mantiene con esso un forte legame: se il primo – come si è detto – rappresenta l’obiettivo primario, la seconda costituisce pur sempre il metodo per conseguirlo, rilevando quindi il risultato «virtuoso», cioè che accresca la qualità, diminuisca i costi, aumenti la produttività, ma sempre nel rispetto delle regole concorrenziali[67]. La concorrenza, in sostanza, dev’essere rispettata in quanto è funzionale al conseguimento del miglior risultato possibile nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti: essa, infatti, aumenta, da un lato, la possibilità di ottenere la migliore prestazione al miglior prezzo e, dall’altro, il numero degli operatori economici ai quali è consentito partecipare alle gare, quindi aggiudicarsi l’appalto[68].
Nonostante sia ormai pacifico che essa non è più un principio “tiranno”, potendo in alcuni casi risultare recessiva rispetto ad altri principi e valori, la concorrenza finisce comunque per risultare rafforzata dal nuovo Codice, che innovativamente la presenta nella veste di principio giuridico e ne specifica connotati e funzioni[69].
Al comma 3, dopo una menzione «del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità», dei quali il principio del risultato costituisce attuazione, si aggiunge che quest’ultimo «è perseguito nell’interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione europea», introducendo in tal modo un ulteriore temperamento al principio in esame, che – com’è stato segnalato sin dai primissimi commenti – andrà tenuto presente anche nella lettura del comma 4, che stabilisce che «[i]l principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale»[70]. Sotto quest’ultimo aspetto, il risultato assume anche il valore di fine e di principio: il riferimento alla comunità ed all’Unione europea, intesi come ordinamenti originari e non particolari, potrebbe voler dire che il risultato è «il valore che viene alla comunità dalla scelta del miglior contraente, quello idoneo a garantire il miglior lavoro o servizio in termini di fruibilità collettiva»[71].
Come già riferito[72], l’introduzione dei principi generali in esame mira, tra l’altro, ad «accentuare e incoraggiare lo spazio valutativo e i poteri di iniziativa delle stazioni appaltanti, per contrastare, in un quadro di rinnovata fiducia verso l’azione dell’amministrazione, il fenomeno della cd. “burocrazia difensiva”, che può generare ritardi o inefficienze nell’affidamento e nell’esecuzione dei contratti»[73].
A tale obiettivo tende, in particolare, il principio di fiducia, da intendersi come «reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici» (art. 2, comma 1); correttezza che, d’altronde, costituisce da sempre la “stella polare” dell’azione amministrativa, specie in materia di appalti[74].
La relazione parla al riguardo di «un segno di svolta rispetto alla logica fondata sulla sfiducia (se non sul “sospetto”) per l’azione dei pubblici funzionari, che si è sviluppata negli ultimi anni […] e che si è caratterizzata da un lato per una normazione di estremo dettaglio, che mortificava l’esercizio della discrezionalità, dall’altro per il crescente rischio di avvio automatico di procedure di accertamento di responsabilità amministrative, civili, contabili e penali che potevano alla fine rivelarsi prive di effettivo fondamento», le quali hanno generato «“paura della firma” e “burocrazia difensiva”», a loro volta «fonte di inefficienza e immobilismo e, quindi, un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente».
Si tratta di un fenomeno ben noto, ampiamente analizzato in dottrina[75], al quale – stando sempre alla relazione – il nuovo Codice vorrebbe porre rimedio dando, «sin dalle sue disposizioni di principio, il segnale di un cambiamento profondo, che – fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità – miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici, introducendo una “rete di protezione” rispetto all’alto rischio che accompagna il loro operato».
Il principio è strettamente correlato a quanto detto dal comma 4 dell’art. 1 in ordine al principio del risultato quale «criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto»[76].
Significativa mi pare l’espressa connotazione in termini di reciprocità della fiducia, che conferma quello che, a nostro avviso, costituisce un corollario del procedimento amministrativo «paritario» agognato da Feliciano Benvenuti[77]: la reciprocità degli obblighi procedimentali gravanti su amministrazione e cittadino. Ed infatti, come in passato abbiamo cercato di dimostrare, ad un’amministrazione trasparente e corretta deve rapportarsi un cittadino – nella specie, un operatore economico – altrettanto trasparente e corretto[78]. A nostro avviso, non è accettabile che il privato possa invocare la parità delle armi solo quando gli fa comodo, pretendendo l’applicazione unilaterale del principio di buona fede/correttezza nei rapporti giuridici esclusivamente a suo favore[79]. Trattasi di un’impostazione condivisa sia dalla dottrina – che ha in più occasioni evidenziato che la costruzione di un rapporto di cittadinanza impone il comune impegno e le reciproche responsabilità del cittadino e delle istituzioni[80], sicchè i doveri di correttezza e di buona fede nello svolgimento del procedimento gravano non solo sulla pubblica amministrazione, ma anche sul cittadino[81] – che dalla giurisprudenza, secondo cui la relazione che si instaura tra amministrazione e privato non può essere fonte in via esclusiva della tutela dell’affidamento di quest’ultimo, ma «deve produrre necessariamente effetti su di un piano di reciprocità»[82].
Definito il principio della reciproca fiducia e chiaritane la funzione, i successivi commi 3 e 4 dell’art. 2, onde evitare che quanto affermato «abbia valore puramente ottativo o inutilmente retorico»[83], quasi a volere «tranquillizzare gli animi», dettano, rispettivamente, ulteriori criteri di valutazione della responsabilità e regole per la promozione della fiducia nell’azione legittima: la prima disposizione, in particolare, mira a «rasserenare coloro che, all’interno delle pubbliche amministrazioni, per necessità spesso si trovano, soprattutto nelle realtà meno strutturate, a dover svolgere compiti oggettivamente superiori alle proprie competenze, dall’altro ricordare comunque la regola del “caso concreto” che sempre deve guidare ogni valutazione del comportamento tenuto dall’agente»[84].
Poche righe sono dedicate dall’art. 3 al principio dell’accesso al mercato, che del resto svolge una funzione complementare rispetto agli altri principi cardine: lo stesso utilizzo del verbo «favoriscono» in luogo di altri maggiormente assertivi è indicativo del ruolo ancillare del principio in esame, che – come quello di concorrenza[85] – rappresenta uno strumento per raggiungere il miglior risultato possibile e non un valore in sé[86]. Invero, ancorchè sia indubbio che l’accesso alle gare del maggior numero di imprese in condizioni di parità non può che favorire la selezione della migliore offerta per la realizzazione dell’opera o per l’espletamento del servizio o della fornitura[87], il legislatore italiano avrebbe, forse, dovuto valorizzare maggiormente il principio in esame, non foss’altro perché lo stesso diritto primario dell’Unione europea prevede che devono essere assicurate alle PMI tutte le potenzialità del mercato unico, tra cui espressamente «l’apertura degli appalti pubblici nazionali» (art. 179, comma 2, T.F.U.E.)[88].
Trattasi, sostanzialmente, della funzionalizzazione dei principi classici di concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità e trasparenza, proporzionalità enumerati dalla stessa disposizione codicistica, tant’è che nella relazione si afferma chiaramente che «il principio dell’accesso al mercato rappresenta a sua volta un risultato che le stazioni appaltanti e gli enti concedenti devono perseguire attraverso la funzionalizzazione dei principi più generali richiamati».
Detto questo dei singoli principi cardine, va dedicato un cenno all’art. 4, che codifica la «forza ordinante dei principi» e, secondo un avveduto commentatore, rappresenta la novità positiva del nuovo Codice[89].
Si tratta di una disposizione sicuramente rilevante nella sistematica codicistica, nella misura in cui evidenzia le aspettative di rinnovamento radicale sottese al nuovo articolato normativo, anche se la scelta di non elevare a criteri interpretativi ed applicativi anche i principi enunciati nei successivi articoli dello stesso Titolo I al fine di evidenziare maggiormente i tre principi fondanti non è stata unanimemente condivisa[90].
Ciò premesso, è solo per esemplificare che si segnalano alcune disposizioni codicistiche che in futuro dovrebbero essere lette attraverso la lente dei principi anzidetti.
Tra i singoli istituti che, d’ora in poi, andranno interpretati ed applicati in base al principio del risultato (ed al correlato principio di economicità) può annoverarsi il soccorso istruttorio, che svolge una vera e propria funzione economica e va considerato, pertanto, «entro una logica proattiva rispetto alla necessità del perseguimento di quello che è qualificabile in termini di risultato economico “migliore”»[91]. Recente giurisprudenza ha, infatti, riconosciuto che, nelle procedure ad evidenza pubblica, tale istituto è strumentale alla realizzazione del principio di massima partecipazione (ora consacrato nell’art. 10 del nuovo Codice), che costituisce una precondizione necessaria per assicurare alla stazione appaltante la più ampia concorrenza tra imprese, cioè appunto «il miglior risultato economico»[92], inteso come «miglior risultato sostanziale» dell’operazione contrattuale[93].
Soccorso istruttorio la cui interpretazione, peraltro, potrà essere orientata anche dal principio della fiducia, a conferma delle persistenti, ineliminabili esigenze di bilanciamento tra i vari principi generali.
Il principio della fiducia, poi, potrà a sua volta fungere da criterio interpretativo ed applicativo anche di altri istituti chiave, come il conflitto di interessi, le cause di esclusione e – perché no? – il contratto di avvalimento. Nell’ottica della fiducia riposta dalla stazione appaltante nell’azione degli operatori economici, infatti, può essere letta – a nostro avviso – la recente affermazione giurisprudenziale secondo cui ««[l]a certificazione di qualità, in quanto finalizzata ad assicurare l'espletamento del servizio o della fornitura da una impresa secondo il livello qualitativo accertato dall’apposito organismo e sulla base di parametri rigorosi delineati a livello internazionale – che danno rilievo all'organizzazione complessiva della relativa attività ed all'intero svolgimento delle diverse fasi di lavoro –, non può essere oggetto di avvalimento senza la messa a disposizione di tutto o di quella parte del complesso aziendale del soggetto al quale è stato riconosciuto il sistema di qualità, occorrente per l’effettuazione del servizio o della fornitura. Occorre infatti che il requisito di ammissione dimostrato dall'impresa partecipante mediante l’avvalimento rassicuri la stazione appaltante circa l'affidabilità della futura offerta allo stesso modo in cui ciò avverrebbe se il requisito fosse posseduto in via diretta dalla partecipante alla gara»[94].
Quanto, infine, al principio dell’accesso al mercato, la sua funzione di criterio interpretativo ed applicativo si concretizzerà attraverso i principi classici che dovranno essere rispettati per favorirlo, tra cui in particolare il principio di proporzionalità, che – come rimarcato dalla relazione - «obbliga le stazioni appaltanti e gli enti concedenti a predisporre la documentazione di gara in modo tale da permettere la maggiore partecipazione possibile tra gli operatori economici, soprattutto di piccola e media dimensione». Esso orienterà quindi, soprattutto, l’interpretazione e l’applicazione della lex specialis di gara.
6. Conclusioni (inevitabilmente problematiche): può davvero parlarsi di un «cambio di paradigma»?
Solo una decina di giorni fa, in un convegno dell’A.I.D.U. dedicato, tra l’altro, al governo del territorio tra Stato e regioni, un collega lamentava la mancanza di una puntuale fissazione, da parte del testo unico dell’edilizia, dei principi fondamentali della materia. Omissione che, in quell’ambito, ha costretto la Corte costituzionale ad intervenire frequentemente per garantire uniformità di disciplina su tutto il territorio nazionale in alcuni profili specifici dell’attività edilizia: in primis, i titoli abilitativi ed il regime a cui assoggettare i singoli interventi edilizi.
Non è, dunque, in discussione l’utilità della fissazione, in un codice di settore (nella specie, dei contratti pubblici), dei principi generali della materia, ma tutt’al più, nel merito, l’individuazione dei singoli principi, la loro effettiva natura di principi generali[95], la gerarchia fra essi e – se si vuole – la loro portata più o meno innovativa.
Il poco tempo a disposizione impedisce di rispondere a tutti gli interrogativi, ma non possiamo far a meno di dubitare dell’utilità stessa di alcuni principi.
Mentre può convenirsi, ad es., sull’utilità dell’art. 7, che se non altro serve a «riequilibrare il peso del principio di auto-organizzazione delle pp.aa. rispetto a quello della tutela della concorrenza»[96], e dell’art. 9, che nel sancire il «diritto alla rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali» sembra aprire «la breccia di una giustizia contrattuale solidale»[97], vien da chiedersi: l’art. 6 era proprio necessario? In presenza di un quadro normativo ed interpretativo reso finalmente chiaro dal legislatore e dalla giurisprudenza costituzionale[98], c’era davvero bisogno di ribadire che i rapporti giuridici tra pubbliche amministrazioni e soggetti non lucrativi si possono fondare anche sui modelli non concorrenziali, peraltro anche creando confusione in ordine ai casi («attività a spiccata valenza sociale», concetto giuridico oltremodo indeterminato) in cui si dovrebbe applicare il codice del Terzo settore?
Come si è visto, quasi tutti i primi commentatori del nuovo Codice hanno definito fortemente innovativa l’introduzione, all’inizio dello stesso, di numerosi principi generali ed in un recente convegno sul tema si è parlato di «cambio di paradigma».
Per quanto concerne il primo aspetto, ho già detto che – a mio avviso – buona parte dei principi generali (ad es., buona fede e tutela dell’affidamento, tassatività delle cause di esclusione, massima partecipazione) non possono ritenersi effettivamente innovativi e non manca chi dubita che siano tali anche i cc.dd. principi cardine.
Andando a ritroso, a dubitare dell’innovatività del principio dell’accesso al mercato è, innanzitutto, chi vi parla.
L’art. 3, infatti, non fa altro che compendiare sotto tale onnicomprensiva locuzione alcuni dei fondamentali principi della materia dei contratti pubblici (concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità e trasparenza, proporzionalità) che il nostro ordinamento, anche sulla spinta del diritto europeo, ha da tempo recepito. La stessa relazione – laddove afferma che «[i]l principio in questione risponde all’esigenza di garantire la conservazione e l'implementazione di un mercato concorrenziale, idoneo ad assicurare agli operatori economici pari opportunità di partecipazione e, quindi, di accesso alle procedure ad evidenza pubblica destinate all’affidamento di contratti pubblici» - conferma che non s’introduce nulla di veramente nuovo.
Induce a dubitare della portata innovativa del principio della fiducia la condivisibile osservazione che una sua declinazione si trova già nell’art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, che menziona la buona fede quale principio cui devono essere improntati i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione[99].
La medesima dottrina, infine, ha osservato che lo stesso principio del risultato – che a detta di tutti è quello che dovrebbe rappresentare la “svolta”, la «nuova principale bussola della disciplina dei contratti pubblici» – è in fondo espressione della c.d. amministrazione «di risultato», che non rappresenta certo una novità per il diritto amministrativo, al pari dei correlati criteri dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità, di cui parlavano già i precedenti codici dei contratti pubblici e, prim’ancora, la legge n. 241 del 1990: tale principio poteva, pertanto, già ritenersi implicitamente sotteso alla disciplina della contrattualistica pubblica[100]. In definitiva, salvo che non si voglia pensare – come maliziosamente adombrato, ma immediatamente escluso, da Giuliano Grüner giovedì scorso[101] – che la norma intenda dire più di quello che dice[102], cioè che in nome del risultato verrà esercitato un sindacato giurisdizionale più flebile nei confronti dell’operato delle stazioni appaltanti che abbiano comunque “portato a casa” il c.d. «risultato», l’art. 1 non fa altro che ribadire che concorrenza e legalità non bastano perchè si possa parlare di «buona amministrazione».
Anche quest’ultima osservazione è di per sé esatta, ma la novità – quella sì innegabile – non sta tanto nel principio di risultato astrattamente considerato, quanto nella priorità allo stesso attribuita rispetto alla garanzia delle procedure: in quella nuova gerarchia tra principi che – come ha ben notato Giulio Napolitano[103] – emerge chiaramente dalla formula «criterio prioritario» contenuta nel comma 4 dell’art. 1, è stata salutata con favore, per non dire con entusiasmo, da Luca Perfetti, non riscontrata, invece, dalla dottrina appena citata[104] e che noi auspichiamo trovi concreta applicazione nel convincimento che essa valga a limitare la discrezionalità degli interpreti delle disposizioni codistiche. Com’è stato recentemente ribadito, infatti, «[f]ino a quando non si chiarirà a quale principio è necessario dare prevalenza, se non ci sarà, in sostanza un ordine di priorità dei principi da perseguire e applicare, nell’impianto normativo ci saranno sempre zone d’ombra, contraddizioni e complicazioni conseguenza non dell’incapacità del legislatore di fare chiarezza, bensì della necessità di far convivere aspetti non sempre coniugabili e dunque “semplificabili” dalla normativa»[105].
Per quanto concerne il cambio di paradigma, infine, è ancora troppo presto per dire se ci sarà davvero.
A prescindere dall’autentica originalità ed innovatività di alcuni principi generali, è, infatti, di tutta evidenza che, per renderci conto della loro effettiva portata applicativa, cioè di quanto riescano ad incidere sull’interpretazione ed applicazione delle disposizioni codicistiche, dovremo attendere un po’[106].
Non dimentichiamo, in primo luogo, che nel 2024 verranno pubblicate le nuove direttive europee in materia di appalti, che dovranno essere recepite anche in Italia e potranno incidere sul nuovo Codice, che siamo stati costretti ad approvare prima per rispettare gli impegni assunti all’atto di presentazione del P.N.R.R..
A prescindere da questo, per un vero cambio di passo occorre ben altro che il semplice «orientamento al risultato». Ne è perfettamente consapevole lo stesso legislatore, che nella relazione ricorda che «la legge, anche se riordinata e semplificata grazie a un codice, è un elemento necessario ma non sufficiente per una riforma di successo, giacché tutte le riforme iniziano “dopo” la loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e si realizzano soltanto se le norme sono effettivamente attuate “in concreto”. Emblematico in questa prospettiva è il caso dei contratti pubblici, per la cui reale riforma occorre avverare, attraverso una intensa attività operativa, almeno tre condizioni essenziali “non legislative”, che costituiscono peraltro l’oggetto di impegni in sede di PNRR: i) una adeguata formazione dei funzionari pubblici che saranno chiamati ad applicare il nuovo codice; ii) una selettiva riqualificazione delle stazioni appaltanti; iii) l’effettiva attuazione della digitalizzazione, consentendo, pur nel rispetto di tutte le regole di sicurezza, una piena interoperabilità delle banche dati pubbliche»[107].
Solo in presenza di queste ulteriori condizioni il rafforzato ruolo dei principi in materia di contratti pubblici, attraverso l’equilibrata interpretazione giurisprudenziale[108], potrà favorire la piena attuazione del principio di buon andamento e condurre verso un’amministrazione moderna, la cui compiuta realizzazione non può essere affidata – com’è ormai da tempo evidente – ad un ordinamento fatto di sole regole, frammentate e dettagliate[109].
*(Relazione al Seminario di studi su: «Il diritto dei contratti pubblici alla luce del nuovo Codice» - Cosenza, 16 maggio 2023).
[1] A. Massera, I principi generali, in Dir. amm., 2017, 438.
[2] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 155.
[3] P. Grossi, Sull’odierna ‘incertezza’ del diritto, in Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Annuario 2014, Napoli, 2015, 21.
[4] M.P. Chiti, I principi, in M.A. Sandulli – R. De Nictolis (diretto da), Trattato sui contratti pubblici, Milano, 2019, I, 290.
[5] A. Massera, ibidem.
[6] A. Massera, op. cit., 440.
[7] Corte giust. UE, Sez. X, 14 novembre 2013, in causa C-221/12, Belgacom NV, in https://eur-lex.europa.eu.
[8] A. Barettoni Arleri, Linee evolutive della contabilità dello Stato e degli enti pubblici, Milano, 1980, 177: «i contratti, per la connessa erogazione di spesa e acquisizione di entrate che necessariamente comportano – donde la loro classificazione nell’ordinamento contabile in contratti passivi ed attivi – rilevano per la consistenza del patrimonio dei soggetti pubblici e, quindi, trovano la loro corretta disciplina in quel settore dell’ordinamento positivo che delinea il regime giuridico della gestione finanziaria e patrimoniale pubblica».
[9] Per intendersi, quelle recepite in Italia dalla l. n. 584/1977.
[10] F. Mastragostino – E. Trenti, La disciplina dei contratti pubblici fra diritto interno e normativa comunitaria, in F. Mastragostino (a cura di), Diritto dei contratti pubblici, 3ª ed., Torino, 2021, 3.
[11] M. Giustiniani, Art. 30, in Codice dei contratti pubblici, diretto da F. Caringella, Milano, 2022, 260.
[12] G. Morbidelli, Il project financing: considerazioni introduttive, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2005, 1795.
[13] A. Bartolini, I contratti pubblici nel pensiero di Giuseppe Morbidelli, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2019, 164. Il principio di concorrenza è stato, peraltro, interpretato in chiave accrescitiva degli obblighi di carattere formale della pubblica amministrazione, nell’ottica di prevenzione di possibili distorsioni ed abusi e di controllo della discrezionalità amministrativa (c.d. spill over effect): D.U. Galetta, Il diritto ad una buona amministrazione europea come fonte di essenziali garanzie procedimentali nei confronti della pubblica amministrazione, ivi, 2004, 851 ss.
[14] M. Giustiniani, ibidem.
[15] M. Giustiniani, op. cit., 261.
[16] M. Clarich, Contratti pubblici e concorrenza (Relazione al 61° Convegno di Studi amministrativi su: «La nuova disciplina dei contratti pubblici fra esigenze di semplificazione, rilancio dell’economia e contrasto alla corruzione» - Varenna, 17-19 settembre 2015), in www.astrid-online.it, n. 19/2015, 12-13.
[17] M. Cafagno – A. Farì, I principi e il complesso ruolo dell’amministrazione nella disciplina dei contratti per il perseguimento degli interessi pubblici (artt. 29, 30, 34, 50, 51), in M. Clarich (a cura di), Commentario al codice dei contratti pubblici, 2ª ed., Torino, 2019, 202.
[18] M. Giustiniani, op. cit., 262.
[19] Anche se, incomprensibilmente, non menziona il principio di parità di trattamento: S. Dettori, Art. 30, in Codice dei contratti pubblici commentato, a cura di L.R. Perfetti, 2ª ed., Milano, 2017, 293, il quale, tuttavia, osserva che tale principio «rimane comunque immanente nella materia degli appalti pubblici, sia in quanto immediatamente discendente dal principio di concorrenza, di cui è corollario, sia in quanto comunque esso si ritrova in una serie di ulteriori disposizioni del Codice relative sia all’affidamento sia all’esecuzione dell’appalto».
[20] M. Giustiniani, ibidem; in termini analoghi, M.P. Chiti, op. cit., 312, ad avviso del quale una delle maggiori svolte delle ultime direttive consiste proprio nel fatto che «la concorrenza diviene uno degli interessi che le amministrazioni aggiudicatrici devono difendere, non l’unico e neanche quello in posizione di primazia rispetto agli altri».
[21] A. Massera, Principi procedimentali, in M.A. Sandulli – R. De Nictolis (diretto da), op. cit., 341.
[22] D. Capotorto, Lo Stato “consumatore” e la ricerca dei suoi principi, in Dir. amm., 2021, 161-167.
[23] S. Dettori, Il ruolo dei principi nella disciplina dei contratti pubblici, in Nuove autonomie, 2012, 89 ss.
[24] Nella misura in cui, «[a] fronte di previsioni legislative che tendono alla litania ritualistica, con elencazione – talora disordinata – di molti principi, si è tentati di non prenderle molto sul serio. In tal modo, si rischia di perdere l’impatto a tutto spettro dei principi, dato che non sempre la normativa di settore li riprende direttamente»: M.P. Chiti, op. cit., 289.
[25] Come ben notato da M.P. Chiti, op. cit., 287, «[i]l termine “principi” è polisemico anche nel linguaggio giuridico e variamente utilizzato nella normativa e nella giurisprudenza. Per di più, è usato senza particolare precisione e talora con l’aggettivo qualificativo “generale/i”». Ad es., l’art. 1 l. n. 241/1990 è rubricato «Principi generali dell’attività amministrativa», mentre l’art. 2 d.lgs. n. 163/2006 è rubricato «Principi».
[26] Linee Guida n. 4, approvate con delib. 26 ottobre 2016, n. 1097, in www.anticorruzione.it.
[27] G. De Vinci, I principi, in Appalti e contratti pubblici. Commentario sistematico, a cura di F. Saitta, Milano, 2016 (e-book), cap. III, § 2.
[28] A. Massera, Principi, cit., 331, che nel prosieguo osserva che soltanto i principi di non discriminazione (sulla base della nazionalità) e di proporzionalità trovano posto nei Trattati e si connotano, quindi, come veri e propri principi fondamentali del diritto europeo, mentre altri principi – come, in particolare, quelli di parità di trattamento e di trasparenza – hanno origine nel diritto derivato e si connotano, quindi, come principi generali del diritto amministrativo (ivi, 345).
[29] La «forza ordinante del principio sulla materia codificata», la quale viene da quella forza non soltanto determinata, ma spiegata ed orientata nei suoi sviluppi successivi, quanto a validità ed interpretazione, è stata recentemente posta in risalto da A. Cioffi, Prima lettura del nuovo Codice dei contratti e dei suoi tre principi fondamentali, in www.apertacontrada.it, 16 gennaio 2023, § 1.
[30] L. Carbone, La scommessa del “Codice dei contratti pubblici” e il suo futuro (Relazione al Convegno su: «Il nuovo codice degli appalti – La scommessa di un cambio di paradigma: dal codice guardiano al codice volano?» - Roma, 27 gennaio 2023), in www.giustizia-amministrativa.it, 12.
[31] L.R. Perfetti, Sul nuovo Codice dei contratti pubblici. In principio, in Urb. e app., 2023, 5 ss.
[32] Il tema è immenso e non può essere qui nemmeno accennato; per più puntuali indicazioni, sia consentito rinviare a F. Saitta, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023, 97 ss.
[33] G. De Vinci, ibidem, che segnala a tal proposito un’autorevole pronuncia che, dovendo decidere in merito al rinnovo degli atti di gara nelle procedure da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, a fronte della giurisprudenza prevalente che, per tali procedure, riteneva necessaria la rinnovazione della gara a partire dalla ripresentazione delle offerte, a garanzia del rispetto dei principi di segretezza e di imparzialità nella valutazione delle offerte medesime, ha ritenuto, invece, che, anche per tale categoria di procedure, il rinnovo degli atti debba limitarsi alla sola valutazione dell’offerta illegittimamente pretermessa, da effettuarsi ad opera della medesima commissione preposta alla gara (Cons. Stato, Ad. plen., 26 luglio 2012, n. 31, in www.giustizia-amministrativa.it). Secondo tale decisione, «a tale conclusione […] si perviene non in base ad una valutazione di prevalenza dell’uno o l’altro dei principi ricordati, valutazione che non si sottrae comunque ad una certa opinabilità, bensì alla stregua dei principi di fondo, espressione del “giusto processo”, nella giustizia amministrativa»; principi che vengono individuati nella rilevanza della situazione soggettiva azionata, che racchiude la pretesa di concorrere a quella specifica gara, e nell’effettività della tutela che dev’essere garantita. Appare, dunque, evidente l’intento del giudice amministrativo di risolvere il conflitto tra due principi (quello della segretezza, dunque dell’imparzialità, e quello dell’economicità e dell’efficienza, declinato nel senso della conservazione degli atti giuridici) attraverso il ricorso ad un terzo principio (quello del giusto processo), declinato in modo da risultare prevalente rispetto a quelli in conflitto.
[34] Anche prima della positivizzazione (ad opera del d.l. n. 70/2011, convertito con l. n. 106/2011, c.d. «Decreto Sviluppo») del principio di tassatività delle clausole di esclusione nell’ambito delle pubbliche gare, la giurisprudenza ha fissato il principio secondo cui le clausole della lex specialis, ancorché contenenti comminatorie di esclusione, non possono essere applicate meccanicamente, ma secondo il principio di ragionevolezza, e devono essere valutate alla stregua dell’interesse che la norma violata è destinata a presidiare, per cui, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, dev’essere accordata la preferenza al favor partecipationis (in tal senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2012, n. 5389, in www.lexitalia.it, n. 10/2012).
[35] T.A.R. Toscana, Sez. I, 3 febbraio 2010, n. 184, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio-Roma, Sez. I, 1 febbraio 2007, n. 763, ibidem; Cons. Stato, Sez. V, 18 gennaio 2006, n. 127, ibidem.
[36] T.A.R. Campania-Napoli, Sez. V, 15 maggio 2008, n. 4511, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio-Roma, Sez. I, 27 luglio 2006, n. 6583, ibidem; Cons. Stato, Sez. V, 10 novembre 2003, n. 7134, ibidem.
[37] S. Dettori, Art. 30, cit., 298.
[38] A. Massera, op. ult. cit., 382-385.
[39] A. Massera, op. ult. cit., 343; amplius, D. Caldirola, Stato, mercato e Terzo settore nel decreto legislativo n. 117/2017: per una nuova governance della solidarietà, in www.federalismi.it, n. 3/2018; Id., Servizi sociali, riforma del Terzo settore e nuova disciplina degli appalti, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 733 ss.
[40] A. Massera, op. ult. cit., 347 ss., con interessanti indicazioni di pertinenti pronunce del giudice europeo.
[41] R. Caranta, Transparence et concurrence, in Comparative Law on Public Contracts, a cura di R. Noguellou e U. Stelkens, Bruxelles, 2010, 145 ss.
[42] L. Carbone, ibidem.
[43] L.R. Perfetti, op. cit., 9.
[44] Così S. Perongini, Il principio del risultato e il principio di concorrenza nello schema definitivo di codice dei contratti pubblici, in www.lamministrativista.it, 2 gennaio 2013, § 1.
[45] A. Saitta, I criteri interpretativi: risultato, fiducia e accesso al mercato (scritto in corso di pubblicazione in un commentario al nuovo Codice a cura de Il Sole 24 Ore, gentilmente concessomi in visione dall’A.).
[46] A. Saitta, op. cit.. Si allude qui, in particolare, ai primi tre articoli, letti alla luce del quarto, su cui v. infra, § 5.
[47] A.M. Chiariello, Una nuova cornice di principi per i contratti pubblici, in Dir. econ., 2023, 144.
[48] Come riferito nella relazione, «[p]iù nel dettaglio, la codificazione dei principi si articola in due titoli distinti: il Titolo I, dedicato ai principi generali veri e propri (risultato, fiducia, accesso al mercato, buona fede e tutela dell’affidamento, solidarietà e sussidiarietà orizzontale, auto-organizzazione amministrativa, autonomia negoziale, conservazione dell’equilibrio contrattuale, tassatività delle cause di esclusione, applicazione dei contratti collettivi di lavoro), e il Titolo II, che invece codifica principi comuni a tutti i Libri del codice in materia di campo di applicazione, di responsabile unico dell’intervento e di fasi della procedura di affidamento».
[49] La differenza d’impostazione è evidenziata da G. Carlotti, I principi nel Codice dei contratti pubblici: la digitalizzazione(Relazione al Convegno su: «I principi nel Codice dei contratti pubblici» - Firenze, 14 aprile 2023), in www.giustizia-amministrativa.it, 1-2, il quale peraltro, pur ritenendo «adeguate» la collocazione e la rilevanza date ai principi nel disegno codicistico, reputa maggiormente significativa la circostanza «che ai principi stessi sia stata assegnata la finalità di esprimere, con potenti valenze nomogenetiche, i fondamentali valori giuridici della specifica disciplina di settore».
[50] Infra, § 5.
[51] A.M. Chiariello, ibidem.
[52] Cfr. G. Tulumello, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, in www.giustamm.it, n. 5/2022.
[53] Non bisogna attendere, infatti, Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 21, in www.giustiziainsieme.it, 17 marzo 2022, con nota di M. Baldari, Ultimi approdi in materia di responsabilità precontrattuale della p.a. (Nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 21); l’affermazione che i canoni della buona fede e dell’affidamento non risultano confinati ai soli rapporti tra privati, ma assurgono a vero e proprio principio dell’ordinamento, è ben più risalente (già T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 26 luglio 1999, n. 903, in Trib. amm. reg., 1999, I, 3943).
[54] A. Crosetti, Principio di buona fede e contrattazione pubblica, in Studi in onore di C.E. Gallo, a cura di M. Andreis, G. Crepaldi, S. Foà, R. Morzenti Pellegrini e M. Ricciardo Calderaro, Torino, 2023, I, 246 ss.
[55] A. Saitta, op. cit.
[56] S. Perongini, ibidem.
[57] Così L.R. Perfetti, op. cit., passim, ma spec. 11.
[58] G. Napolitano, Committenza pubblica e principio del risultato (Relazione al Convegno su: «Il nuovo codice degli appalti – La scommessa di un cambio di paradigma: dal codice guardiano al codice volano?» - Roma, 27 gennaio 2023), in www.astrid-online.it, § 2, il quale osserva come ciò sia, invece, da tempo ben presente al legislatore francese, che nel 2019 ha recepito la normativa europea in un articolato normativo significativamente intitolato Code de la commande publique (su cui N. Gabayet, Les principles du droit des contrats publics en France, in www.ius-publicum.com, 2019).
[59] F. Cintioli, Per qualche gara in più. Il labirinto degli appalti pubblici e la ripresa economica, Soveria Mannelli, 2020.
[60] L. Carbone, op. cit., 13.
[61] A. Saitta, op. cit.. Principio di buon andamento di cui del resto – come evidenziato nella relazione – «il “principio del risultato” rappresenta una derivazione “evoluta”».
[62] S. Perongini, op. cit., §§ 4 e 5, al quale si rinvia per l’indicazione della copiosissima letteratura sull’amministrazione «di risultato».
[63] A. Cioffi, op. cit., § 2.1.
[64] Non solo. A ben guardare, mentre in relazione alla trasparenza ed alla concorrenza il comma 2 dell’art. 1 chiarisce per quali moitivi essi siano necessari ai fini della piena soddisfazione del principio del risultato, analoga esplicazione non viene fatta per il principio di legalità: secondo A.M. Chiariello, op. cit., 148, «perché troppo ovvio».
[65] A. Saitta, op. cit.. Di diverso avviso è S. Perongini, op. cit., § 7, ad avviso del quale, avendo l’art. 1 del nuovo Codice «inglobato nel perimetro della legalità il risultato amministrativo», l’antinomia tra i due principi viene risolta dalla legge.
[66] A.M. Chiariello, op. cit., 149.
[67] F. Vetrò – G. Lombardo – M. Petrachi, L’avvio del nuovo Codice tra concorrenza, legalità e istanze di semplificazione: l’equilibrio instabile dei contratti pubblici, in Dir. econ., 2023, 55.
[68] A.M. Chiariello, op. cit., 148.
[69] S. Perongini, op. cit., § 8.
[70] M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in www.giustiziainsieme.it, 21 dicembre 2022, § 2.
[71] A. Cioffi, op. cit., § 2.1.
[72] Retro, § 4.
[73] Così, testualmente, nella relazione.
[74] Da ultimo, T.A.R. Liguria, Sez. I, 3 marzo 2023, n. 280, in www.giustamm.it, n. 3/2023.
[75] Ex plurimis, M. Dell’Atti, La burocrazia difensiva: fenomeno astratto o minaccia concreta? Cosa ne pensano gli operatori economici e le stazioni appaltanti, in A. La Spina – B.G. Mattarella (a cura di), Il codice dei contratti pubblici secondo gli operatori. Un’indagine sul campo, Roma, 2022, 73 ss.; A. Battaglia – S. Battini – A. Blasini – V. Bontempi – M.P. Chiti – F. Decarolis – S. Mento – A. Pincini – A. Pirri Valentini – G. Sabato, «Burocrazia difensiva»: cause, indicatori e rimedi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2021, 1295 ss.; M. Cafagno, Risorse decisionali e amministrazione difensiva. Il caso delle procedure contrattuali, in Dir. amm., 2020, 35 ss.; G. Bottino, La burocrazia «difensiva» e la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti pubblici, in Analisi giur. econ., n. 1/2020, 117 ss.; S. Battini – F. Decarolis, Indagine sull’amministrazione difensiva, in Riv. it. public management, n. 2/2020, 342 ss.
[76] A. Saitta, op. cit.
[77] Cfr. si vis, F. Saitta, Il procedimento amministrativo «paritario» nel pensiero di Feliciano Benvenuti, in Amministrare, 2011, 466-468.
[78] F. Saitta, Del dovere del cittadino di informare la pubblica amministrazione e delle sue possibili implicazioni, in F. Manganaro – A. Romano Tassone (a cura di), I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d’informazione (Atti del Convegno di Copanello, 25-26 giugno 2004), Torino, 2005, 111 ss..
[79] Sul carattere bilaterale del principio di leale collaborazione tra cittadino e pubblica amministrazione, cfr. G. Taccogna, Il principio di leale collaborazione nella recente giurisprudenza amministrativa, in Foro amm. – CdS, 2008, 1313 ss.
[80] V. Antonelli, Contatto e rapporto nell’agire amministrativo, Padova, 2007, 235.
[81] S. Confortin, Principio di completezza dell’istruttoria ed onere di cooperazione privata nel procedimento amministrativo, in Foro amm. – TAR, 2007, 459 ss.; S. Tarullo, Il principio di collaborazione procedimentale. Solidarietà e correttezza nella dinamica del potere amministrativo, Torino, 2008, spec. 510-523; M. Monteduro, Sul processo come schema di interpretazione del procedimento: l’obbligo di provvedere su domande «inammissibili» o «manifestamente infondate» (Intervento al Convegno su: «Procedura, procedimento e processo» - Urbino, 15 giugno 2007), in Dir. amm., 2010, 176-179.
[82] T.A.R. Puglia-Bari, Sez. II, 1 luglio 2010, n. 2817, in Foro amm. – TAR, 2010, 2610.
[83] A. Saitta, op. cit.
[84] P. Conio, Codice dei contratti pubblici: i nuovi principi del procurement, in www.forumpa.it, 14 aprile 2023, la quale, peraltro, non può far a meno di notare che le parole utilizzate sembrano presentare imperfezioni linguistiche – non essendo chiaro a quale tipo di norma si contrapponga la norma «di diritto» (norma tecnica? norma di rango secondario?) né a quali «auto-vincoli amministrativi» si faccia riferimento (quelli nei bandi di gara?) – che potrebbero generare criticità applicative.
[85] A. Cioffi, ibidem, ad avviso del quale, peraltro, sarebbe necessario un coordinamento tra l’art. 3 e l’art. 1, comma 2, che, così come sono formulati, sono fonte di potenziali contrasti e antinomie in quanto, ai sensi del successivo art. 4, fungono entrambi da criteri interpretativi ed applicativi.
[86] P. Conio, op. cit.
[87] A. Saitta, op. cit.
[88] In argomento, amplius, A. Coiante, L’accesso delle PMI al mercato dei contratti pubblici tra la concorrenza per il mercato e la discrezionalità amministrativa: lo strumento della suddivisione in lotti quale “chiave di volta” che non risolve, in Dir. e soc., 2021, 795 ss.
[89] Così A. Cioffi, op. cit., § 3.
[90] Cfr., ad es., A. Saitta, op. cit., e A.M. Chiariello, op. cit., 159-160.
[91] E. Frediani, Il soccorso della stazione appaltante tra fairness contrattuale e logica del risultato economico, in Dir. amm., 2018, 627.
[92] Cons. Stato, Sez. V, 24 luglio 2017, n. 3641, in www.giustizia-amministrativa.it.
[93] Cons. Stato, Sez. V, 11 settembre 2015, n. 4249, in www.giustizia-amministrativa.it.
[94] Cons. Stato, Sez. IV, 16 gennaio 2023, n. 502, in www.giustizia-amministrativa.it.
[95] Come ha opportunamente ricordato M.P. Chiti, op. cit., 327, se «i principi sono diffusi, puntuali e di carattere non omogeneo, viene meno la loro funzione caratterizzante […] di “aliquid a quo aliud sequitur”».
[96] Così, nel commentare recente giurisprudenza formatasi prima dell’avvento del nuovo Codice, C.P. Guarini, Il principio eurounitario di «libera amministrazione delle autorità pubbliche» nelle direttive UE nn. 23 e 24 del 2014 su contratti e appalti pubblici e l’impatto sulla normativa interna di recepimento in tema di in house providing, in Euro-Balkan Law and Economics Review, n. 1/2019, 78 ss.
[97] A. Giordano, In tema di rinegoziazione delle concessioni pubbliche. Profili giuscontabili nel prisma dello schema di codice dei contratti pubblici, in Riv. C. conti, 2023, 1, 97.
[98] In argomento, da ultimo, M. Carrer, Terzo settore e principio di sussidiarietà. Profili problematici nella sistematizzazione costituzionale, in Società e diritti, 15 (2023), 30 ss.; A.I. Arena, Su alcuni aspetti dell’autonomia del Terzo settore. Controllo, promozione, modelli di relazione con il potere pubblico, in Riv. AIC, n. 3/2022, 36 ss.
[99] A.M. Chiariello, op. cit., 155; contra, A. Cioffi, op. cit., § 2, secondo cui «[i]l principio è nuovo».
[100] A.M. Chiariello, op. cit., 152.
[101] I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici (Relazione alla Giornata di studi su: «Il nuovo codice degli appalti» - Roma, 11 maggio 2023).
[102] M. Sbisà, Detto non detto. Le forme della comunicazione implicita, Roma-Bari (2007), rist. 2010.
[103] Op. cit., § 3.
[104] Secondo A.M. Chiariello, op. cit., 160, il nuovo Codice, infatti, «non appare necessariamente affermare una gerarchia tra i principi. […] non indica una maggiore dignità di taluni principi rispetto ad altri, ma esplicita meramente, con riferimento a taluni, la natura di criteri interpretativi e applicativi del Codice per rimarcare come le norme di questo devono in ogni caso essere infine ricondotte ai principi di cui agli artt. 1, 2 e 3. […] Sembrebbe dunque che – non diversamente da quanto accaduto fino a ora nelle esperienze delle precedenti edizioni del Codice, in cui tra i principi non vi è gerarchia – possa spettare all’eventuale interprete desumere la maggiore dignità di uno o di un altro principio a seconda dei casi, sulla base di una valutazione in concreto, che tenga in considerazione anche la fonte di provenienza nazionale o comunitaria dei principi da applicare».
[105] F.F. Guzzi, Il regime delle esclusioni non automatiche alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, in www.ambientediritto.it, n. 2/2023, 17.
[106] A.M. Chiariello, op. cit., 160.
[107] Sul punto si è recentemente soffermato G. Montedoro, Intervento dello Stato e trasformazioni dell’amministrazione, in www.giustiziainsieme.it, 4 maggio 2023.
[108] A. Saitta, op. cit.
[109] L. Torchia, La nuova direttiva europea in materia di appalti servizi e forniture nei settori ordinari (Relazione al 61° Convegno di Studi amministrativi su: «La nuova disciplina dei contratti pubblici fra esigenze di semplificazione, rilancio dell’economia e contrasto alla corruzione» - Varenna, 17-19 settembre 2015), in www.astrid-online.it.
La Corte di Giustizia, con la sentenza del 5 giugno 2023, nella causa C-204/21 - Commissione c. Polonia, ha deciso un ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione europea nei confronti della Polonia avente ad oggetto l’ultima riforma della giustizia polacca adottata nel dicembre 2019.
Aderendo alla prospettazione della Commissione ed ai propri precedenti, il giudice europeo ha ritenuto in primo luogo che la verifica sul rispetto da parte di uno Stato membro del principio dello Stato di diritto, all’interno del quale rientra l’effettività della tutela giurisdizionale e l’indipendenza della magistratura, ricada nella competenza della Corte. In un sistema a competenze attribuite quale l’Unione europea, gli Stati membri sono tenuti a conformarsi agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione ed evitare regressioni nella garanzia dell’indipendenza della magistratura e, più in generale, della rule of law. Il principio dello Stato di diritto, infatti, costituisce parte dell’identità stessa dell’Unione europea come ordinamento giuridico e gli Stati membri non si possono sottrarre al rispetto di tale principio neppure in virtù di disposizioni
costituzionali.
Riguardo al merito delle misure, la Corte ha ribadito che la sezione disciplinare istituita presso la Corte Suprema polacca non soddisfa i requisiti di imparzialità e indipendenza della magistratura. In particolare, nel prevedere la possibilità dei giudici nazionali di essere sottoposti a un procedimento penale ovvero soffrire ripercussioni in relazione al proprio regime di lavoro e previdenza in caso di applicazione del diritto eurounitario, il diritto nazionale determina un pregiudizio all’indipendenza dei magistrati polacchi.
Sotto altro profilo, la Polonia ha ulteriormente pregiudicato l’indipendenza dei magistrati adottando e mantenendo in vigore disposizioni che vietano ai giudici nazionali di verificare il rispetto dei requisiti stabiliti dal diritto unionale per garantire la tutela giurisdizionale effettiva da parte di un tribunale indipendente e imparziale precostituito per legge, anche previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Da ultimo, la Corte ha censurato le disposizioni polacche che richiedono ai giudici nazionali di dichiarare la propria eventuale appartenenza ad associazioni o partiti e prevedono la pubblicazione di tali informazioni on-line. Tali previsioni si sostanziano infatti in una violazione della disciplina in materia di protezione dei dati di cui al Regolamento 678/2016 UE e del diritto al rispetto della vita privata, tutelato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Cedu.
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il carattere necessario della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza. – 3. La motivazione del preavviso di rigetto. -– 4. La mancata comunicazione del preavviso di rigetto ed il suo carattere lesivo. – 5. La novità del d.l. Semplificazioni 2020: il preavviso di rigetto adesso sospende i termini del procedimento. – 6. Osservazioni conclusive sull’orientamento del Consiglio di Stato.
1. Il caso di specie.
La sentenza che si annota è stata pronunziata dal Consiglio di Stato in relazione all’appello presentato avverso la sentenza n. 1288 del 2020, con cui il T.A.R. Campania, Napoli, ha rigettato il ricorso di primo grado, diretto ad ottenere l’annullamento del diniego di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/01 opposto dal Comune di Napoli e riferito ad un intervento di manutenzione straordinaria (realizzazione di una scala in cemento armato) relativo ad un immobile di proprietà della ricorrente.
La ricorrente, difatti, aveva presentato un’istanza di accertamento di conformità, in relazione alla quale il Comune aveva comunicato i motivi ostativi all’accoglimento, riferiti essenzialmente alla mancata dimostrazione della legittimità dell’immobile nella sua modificata consistenza, che, malgrado le osservazioni per controdedurre presentate dalla ricorrente ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, erano stato seguiti dall’adozione del formale diniego del richiesto provvedimento di sanatoria.
Avverso questo provvedimento la ricorrente ha presentato ricorso al T.A.R. Campania, Napoli, deducendo due motivi di censura, riferiti alla violazione dell’art. 10 bis l. n. 241 del 1990, per non avere l’Amministrazione statuito sulle osservazioni fornite in riscontro al preavviso di rigetto, e al difetto di motivazione e istruttoria non avendo l’Amministrazione valutato la ricorrenza del requisito della doppia conformità ed essendosi limitata a valorizzare due ragioni illegittime.
Il giudice amministrativo di primo grado, però, ha recisamente rigettato il ricorso, ritenendo assorbente la legittimità della ratio decidendi, alla base del diniego, riferita all’emersione di un vano insuscettibile di essere qualificato in termini di vano tecnico in ragione delle relative dimensioni e delle possibilità di autonomo utilizzo.
La ricorrente, pertanto, ha impugnato la pronunzia dinnanzi al Consiglio di Stato riproponendo le censure svolte in prime cure non esaminate dal T.A.R., incentrate, in particolar modo, sulla violazione dell’art. 10 bis, avendo l’Amministrazione omesso di rappresentare le ragioni per le quali le puntuali osservazioni svolte dalla parte privata in riscontro al preavviso di rigetto non potessero essere favorevolmente apprezzate, in tale modo rendendo in tal modo, a suo giudizio, l’istituto del preavviso di rigetto un inutile e sterile adempimento formale, invece che uno dei cardini del contraddittorio procedimentale.
Proprio dalla centralità di questo istituto nel complesso prisma delle garanzie procedimentali di cui il privato è titolare nel rapporto con l’Amministrazione occorre partire per compiere alcune riflessioni.
2. Il carattere necessario della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Si è visto come il legislatore della legge n. 241 del 1990 abbia voluto, quantomeno in potenza, porre le basi per una decisione amministrativa che sia il più possibile, se non condivisa, perché gli interessi perseguiti dall’Amministrazione possono essere eterogenei rispetto a quelli dei privati interessati dal procedimento, “partecipata” tra tutte le parti coinvolte.
In quest’ottica si è certamente mossa la novella legislativa del 2005[1] che ha introdotto nel corpo della legge fondamentale sul procedimento amministrativo, all’art. 10-bis, la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, c.d. preavviso di rigetto.
La disposizione in questione dispone anzitutto che “nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti”.
La norma vuole certamente rafforzare le garanzie difensive del cittadino nei confronti dell’Amministrazione, nell’ottica di realizzare due obiettivi principali che sono stati evidenziati dalla dottrina sin dalla sua introduzione nella legge n. 241 del 1990[2].
Da un lato, è stato correttamente osservato che l'art. 10-bis si pone nell'ottica della realizzazione di un contraddittorio endoprocedimentale necessario e rafforzato[3], che tende in quanto tale al superamento delle asimmetrie che scaturiscono dall'impianto della originaria legge n. 241 del 1990.
Si vorrebbe, quindi, raggiungere non una posizione di piena parità tra cittadino ed Amministrazione nell’assunzione della decisione, perché è inevitabile che questa, pur tenendo conto di tutti gli interessi nella comparazione che compie, scelga unilateralmente la soluzione migliore per il perseguimento dell’interesse pubblico. D’altronde, questa è una delle caratteristiche proprie del provvedimento amministrativo, che, come si sa, non necessita del consenso dell’altra parte per la sua adozione.
Tuttavia, in ogni caso, si vuole che il cittadino sia informato e sia posto effettivamente nella posizione di contraddire con l’Amministrazione, a vantaggio anche di una scelta pubblica che sia la migliore possibile tra tutte quelle astrattamente perseguibili[4].
Da qui il secondo obiettivo del legislatore: la configurazione della decisione amministrativa come “frutto di una dialettica tra le parti interessate”[5].
Si rende in tal modo più pervasivo il dialogo tra Amministrazione e cittadino con conseguente individuazione del proprium del procedimento amministrativo in una relazione di tipo comunicativo fondata sull'idea di uno scambio multipolare di informazioni “contraddistinto dai caratteri della completezza e della continuità”[6].
La grande novità dell’art. 10-bis può essere pertanto rintracciata nell’aver positivizzato un principio di bidirezionalità comunicativa (interno-esterno) all'interno dello schema partecipativo tradizionale, di “visione” e “voce”[7], contenuto e disciplinato dall'art. 10 della l. n. 241 del 1990[8].
Il legislatore è andato oltre alla semplice possibilità per il cittadino di accedere ai documenti amministrativi del procedimento che lo interessano con la conseguente facoltà di presentare memorie al riguardo, prevedendo che l’Amministrazione, laddove sia intenzionata a determinarsi negativamente sull’istanza presentata, sia obbligata, precedentemente all’adozione formale del provvedimento di rigetto, a comunicare quali siano i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, consentendo così al privato di attivarsi affinché l’Amministrazione cambi eventualmente la sua determinazione in senso a lui favorevole.
Certamente, non è stata una novità di poco conto se si riflette sulle difficoltà che si sono avute solo per giungere ad una disciplina generale sul procedimento amministrativo[9].
La previsione astratta del legislatore è importante, se non fondamentale; occorre, però, al fine di comprendere appieno la portata di questa disposizione, verificare la sua applicazione da parte del giudice amministrativo.
L'art. 10 bis, l. n. 241/1990 stabilisce, a carico dell'Amministrazione, un onere procedimentale, propedeutico all'adozione di ogni provvedimento finale reiettivo dell'istanza del privato, allo scopo di consentire allo stesso di dedurre tempestivamente nel procedimento eventuali circostanze idonee ad influire sul contenuto dell'atto finale, così anticipando e prevenendo il contenzioso che potrebbe verificarsi in sede giurisdizionale[10].
La giurisprudenza amministrativa ha dovuto anzitutto chiarire l’ambito di applicazione del c.d. preavviso di rigetto.
L'adempimento partecipativo in questione, difatti, secondo quanto stabilito dall'art. 10 bis, l. n. 241/1990, non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.
Tale esclusione non riguarda, però, i procedimenti sorti a seguito dell'istanza del funzionario finalizzata al riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di determinate infermità, in quanto gli stessi non hanno natura previdenziale ma indennitaria e, comunque, non sono gestiti da enti previdenziali ma dall'Amministrazione datrice di lavoro[11].
L'istituto, poi, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non è stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui all'art. 10-bis, l. n. 241/1990 in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e, dunque, della possibilità di un apporto collaborativo, capace di condurre a una diversa conclusione della vicenda[12].
Analogo discorso vale per il procedimento attivato per il rilascio del permesso di soggiorno, che, malgrado la particolarità della materia, è pur sempre un procedimento ad istanza di parte[13], nonché per il procedimento, regolato dall'art. 87 del d. lgs. n. 259 del 2003, volto all'esame delle domande di autorizzazione alla installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica, sebbene si sia in presenza di una disciplina speciale tesa a consentire una decisione in tempi certi e rapidi[14].
Vi sono dei casi, invece, ulteriori rispetto a quelli predeterminati dal legislatore all’art. 10-bis, in cui la giurisprudenza amministrativa esclude l’applicazione dell’istituto.
Si tratta dei procedimenti amministrativi in materia di antimafia, in quanto intrinsecamente caratterizzati da profili del tutto specifici connessi ad attività di indagine, oltre che da finalità, da destinatari e da presupposti incompatibili con le procedure partecipative, nonché da oggettive e intrinseche ragioni di urgenza[15]; delle fasi di screening ambientali quali passaggi intermedi verso la Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.)[16]; dei procedimenti riguardanti il riconoscimento della causa di servizio, in quanto l'eventuale apporto partecipativo dell'interessato non produrrebbe effetti sul contenuto della determinazione assunta[17]; dei procedimenti selettivi, volti ad individuare il candidato o i candidati che hanno titolo per transitare in una diversa Amministrazione[18]; dei procedimenti che si concludono con un ordine di demolizione di opere edilizie abusive, data la natura vincolante del provvedimento[19]; dei procedimenti ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione dei contratti di appalto pubblico[20]; dei provvedimenti di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, disposta a’ sensi dell’art. 159, cod. dei beni culturali, in quanto costituiscono esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che intercorre nell'ambito di un rapporto tra Autorità Pubbliche[21]; dei procedimenti di ammissione a finanziamenti pubblici[22].
Occorre, poi, chiarire i rapporti tra la garanzia partecipativa del c.d. preavviso di rigetto e la segnalazione certificata di inizio attività.
La natura giuridica della SCIA — che non è una vera e propria istanza di parte per l'avvio di un procedimento amministrativo che si conclude in forma tacita, bensì una dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge[23] — induce ad escludere che l'autorità procedente debba comunicare al segnalante l'avvio del procedimento o il preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 prima dell'esercizio dei relativi poteri di controllo e inibitori[24].
Il denunciante, infatti, in questo caso è titolare di una posizione soggettiva originaria che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge che non ha bisogno di alcun consenso dell’Amministrazione e, pertanto, la segnalazione di inizio attività non instaura alcun procedimento autorizzatorio destinato a culminare in un atto finale di assenso, espresso o tacito, da parte dell'Amministrazione; in assenza di procedimento, non c'è spazio per la comunicazione di avvio, per il preavviso di rigetto o per atti sospensivi da parte dell'Amministrazione[25].
Chiarito l’ambito di applicazione del preavviso di rigetto, per comprendere come in concreto si atteggia il suo carattere necessario occorre soffermarsi su due profili.
Si tratta della motivazione del provvedimento finale di diniego in relazione alle osservazioni presentate dal cittadino a seguito della comunicazione dei motivi ostativi, nonché dell’eventuale sanabilità del provvedimento per la mancanza di questa comunicazione in virtù della dequotazione degli errori formali ovvero dell’eventuale immediata lesività del preavviso di rigetto.
3. La motivazione del preavviso di rigetto.
Si parta dall’aspetto concernente la motivazione.
La giurisprudenza amministrativa si è oramai consolidata nell’affermare che l'Amministrazione non è tenuta a svolgere una puntuale ed analitica confutazione delle singole deduzioni introdotte dai cittadini ai sensi dell'art. 10-bis, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso[26].
La norma prevede che, entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione dei motivi ostativi, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti.
Il d.l. Semplificazioni del 2020 ha modificato la tipologia di risposta che deve essere fornita dall’Amministrazione[27].
Nel testo originario del 2005, difatti, si prevedeva semplicemente che “dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale”.
Si trattava di una formulazione assolutamente sintetica, la cui conseguenza era che l’Amministrazione poteva limitarsi ad una stringata motivazione, anche di poche parole, delle ragioni sottostanti il mancato accoglimento delle osservazioni presentate dal cittadino, persistendo la volontà di determinarsi negativamente sull’istanza che ha dato avvio al procedimento.
Questa prassi, patologica e certamente non tale da implementare il contraddittorio dialogico nel rapporto tra l’Amministrazione ed il cittadino, ha comportato la necessità di un ripensamento nella formulazione della disposizione.
Così, con le modifiche intervenute nel 2020, si dispone ora che, “qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l'autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni”.
La motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno del provvedimento di diniego[28] richiesta dalla giurisprudenza si riempie finalmente di un contenuto pregnante.
Il mancato accoglimento delle osservazioni non può essere motivato sulla base degli stessi motivi ostativi che stavano alla base del c.d. preavviso di rigetto, ma occorre indicare quali sono i motivi ostativi ulteriori che impediscono alle osservazioni presentate dai privati di superare la determinazione negativa dell’Amministrazione in merito all’istanza che ha dato impulso al procedimento[29].
Se il legislatore, nell’ottica di una partecipazione fattiva nel procedimento amministrativo, ha ritenuto che un provvedimento di diniego debba essere “preannunciato” dai motivi che non consentono l’accoglimento dell’istanza, è evidente che l’Amministrazione debba tenere in considerazione le osservazioni ulteriori presentate dal privato, non necessariamente con una motivazione del provvedimento finale di diniego che argomenti singolarmente sulle specifiche osservazioni presentate[30], ma fornendo comunque una valida ragione della determinazione negativa con l’indicazione degli ulteriori motivi ostativi[31].
Questa novità è da accogliere favorevolmente guardando sia nella prospettiva dei cittadini nel loro rapporto con l’Amministrazione sia con specifico riferimento a quest’ultima: da un lato, difatti, si incrementa l’effettività della partecipazione procedimentale, non fine pertanto a se stessa e coerente con i principi di efficacia e celerità procedimentale[32], dall’altro la stessa attività dell’Amministrazione trova una maggiore tutela in quanto, così operando, si riduce il rischio che il provvedimento finale possa essere illegittimo per difetto o insufficienza della motivazione[33].
Ciò non vuol dire, ovviamente, che deve sussistere un rapporto di perfetta identità tra il preavviso di rigetto e l'atto conclusivo del procedimento[34], né una corrispondenza piena tra i due atti, ben potendo l’Amministrazione meglio precisare nel provvedimento la propria determinazione, sempreché il contenuto del diniego si inscriva nello stesso schema delineato dalla comunicazione ai sensi dell'art. 10-bis[35].
4. La mancata comunicazione del preavviso di rigetto ed il suo carattere lesivo.
Quanto detto ora consente di passare al secondo profilo, ovvero quello concernente l’eventuale illegittimità del provvedimento finale ove sia mancata la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda.
L’orientamento giurisprudenziale maggioritario, oramai consolidato sul punto, ritiene che la mancata comunicazione dei motivi ostativi di cui all'art. 10-bis non determina l'automatica illegittimità del provvedimento finale qualora possa trova applicazione l'art. 21-octies della stessa l. n. 241/1990.
Attraverso la dequotazione dei vizi formali dell'atto[36], la disposizione appena richiamata mira a garantire una maggiore efficienza all'azione amministrativa, risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all'attribuzione del bene della vita richiesto dall'interessato[37].
L'art. 10-bis ha la funzione di assicurare un'effettiva partecipazione dell'istante all'esercizio del potere amministrativo, sollecitando un contraddittorio procedimentale in funzione collaborativa e difensiva.
In questo modo, da un lato, si garantisce un apporto collaborativo del privato mediante l'introduzione di elementi istruttori o deduttivi suscettibile di apprezzamento da parte dell'organo procedente, dall'altro si consente l'anticipata acquisizione in sede procedimentale di contestazioni (di natura difensiva) suscettibili di evidenziare eventuali profili di illegittimità delle ragioni ostative preannunciate dall'Amministrazione[38].
L'istituto del c.d. preavviso di rigetto, quindi, ha lo scopo di far conoscere all'Amministrazione procedente le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco; tuttavia, tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l'annullamento del provvedimento nei casi in cui il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia stata raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità[39].
In altri termini, leggendo l'art. 10-bis in combinato disposto con l’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, così come deve essere fatto per le altre norme in materia di partecipazione procedimentale[40], si deve giungere ad una sua interpretazione non in senso formalistico, ma avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza ha causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con l’Amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto non comporta l'automatica illegittimità del provvedimento finale[41], allorquando, in ipotesi, possa trovare applicazione l'art. 21-octies della stessa legge, secondo il quale il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[42].
Le garanzie procedimentali, difatti, sono dettate a tutela di interessi concreti, hanno carattere sostanziale e non devono risolversi in inutili aggravi procedimentali, in contraddizione con i fondamentali canoni di efficienza e speditezza del procedimento amministrativo[43].
Ne consegue, pertanto, che la violazione della garanzia partecipativa dell’art. 10-bis assume rilievo solamente ove la mancata partecipazione del privato abbia impedito al medesimo di apportare utili elementi di valutazione da sottoporre alla valutazione dell'Amministrazione interessata[44].
Occorre segnalare, al riguardo, una novità apportata alla disposizione dell’art. 21-octies dal d.l. semplificazioni del 2020[45].
Si precisa, difatti, che per il provvedimento adottato in violazione dell’art. 10-bis non può trovare applicazione la norma secondo cui “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Si tratta, come può essere facilmente desunto, di una precisazione non necessaria, perché, se si afferma che la mancanza del c.d. preavviso di rigetto determina l’illegittimità del provvedimento finale solo ove questo abbia precluso una partecipazione attiva del privato all’attività amministrativa, ciò comporta che, in questi casi, possa trovare applicazione solamente il primo periodo del co. 2, art. 21-octies, legge n. 241 del 1990 secondo cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”[46].
La conseguenza della dequotazione dei vizi formali è che solamente la violazione sostanziale delle garanzie partecipative può determinare l’annullabilità del provvedimento amministrativo[47].
Quanto detto sinora sulla natura del c.d. preavviso di rigetto permette un approdo sicuro in relazione alla sua lesività ed alla conseguente impugnabilità.
Difatti, si può pervenire alla conclusione che il preavviso di rigetto è un atto endoprocedimentale, privo, per sua stessa natura, di potenzialità lesiva, avente lo scopo di consentire all'interessato di instaurare un vero e proprio contraddittorio con l'Amministrazione, mediante la presentazione delle proprie osservazioni o integrazioni documentali, al fine di aumentare così la possibilità di far modificare la determinazione dell’Amministrazione e ottenere il soddisfacimento dei suoi interessi.
Sulla base delle osservazioni presentate dal soggetto interessato, l’Amministrazione può addivenire ad una conclusione del procedimento diversa rispetto a quella prospettata nel preavviso di rigetto ovvero può confermare la propria posizione nell'atto di diniego che è il solo atto definitivo e, quindi, lesivo della sfera giuridica del destinatario[48].
L’atto impugnabile, in caso di illegittimità, è solo il provvedimento finale di diniego.
5. La novità del d.l. Semplificazioni 2020: il preavviso di rigetto adesso sospende i termini del procedimento.
Uno dei profili più interessanti della previsione dell’art. 10-bis è quello relativo alle conseguenze che la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda produce sui termini di conclusione del procedimento.
Termini che, come noto, sono ordinariamente fissati dall’art. 2 della medesima legge n. 241 del 1990 in trenta giorni o per le Amministrazioni statali in novanta giorni (che in alcuni casi particolari possono giungere sino ad un massimo di centottanta giorni).
Nella previsione originaria del 2005, si prevedeva che la comunicazione del preavviso di rigetto “interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo”, ovvero i dieci giorni successivi alla comunicazione concessi per la presentazione delle osservazioni[49].
La prima conseguenza dell’interruzione dei termini è che la comunicazione dei motivi ostativi rende irrilevante la precedente inerzia dell'Amministrazione e comporta il decorso di un nuovo termine di conclusione del procedimento, alla cui eventuale infruttuosa scadenza maturerà un silenzio assenso o diniego nei casi espressamente previsti dalla legge[50].
La seconda è che la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento di una domanda interrompe anche i termini per la formazione di un eventuale silenzio assenso, in quei casi in cui l'ordinamento ha inteso assegnare al silenzio serbato dall'Amministrazione su un'istanza il valore di assenso alla richiesta[51].
Del resto, non potrebbe ritenersi logica la formazione di un provvedimento tacito di assenso quando la stessa Amministrazione, sia pure in modo ancora non definitivo, abbia chiaramente indicato (nel preavviso di diniego) le ragioni per le quali la domanda proposta non può essere accolta[52].
Deve essere rilevato che l’interruzione dei termini, dal punto di vista processuale, comporta l'impossibilità di attivazione dei rimedi contro l'inerzia – che non vi è – in caso di mancato invio di osservazioni.
Il richiedente che riceva la comunicazione e decida di non inviare osservazioni riservandosi l'impugnazione diretta del provvedimento finale, si trova senza tutela nel periodo intercorrente fra la riattivazione del termine procedimentale – 10 giorni dalla ricezione della comunicazione ex art. 10-bis — e l'adozione di detto provvedimento finale, non potendo invocare l'inerzia non formatasi per effetto del nuovo termine procedimentale che l'Amministrazione, in virtù della comunicazione, si è auto assegnata (né potendo impugnare il preavviso di diniego per il suo pacifico carattere di atto endoprocedimentale).
Tuttavia, la significativa modifica dell'art. 31 cod. proc. amm. dedicato al giudizio avverso il silenzio inadempimento, intervenuta con il primo correttivo al Codice[53], ha introdotto la locuzione "e negli altri casi previsti dalla legge", cosicché può affermarsi che nell'ipotesi di cui all'art. 10-bis al soggetto destinatario della comunicazione di motivi ostativi spetta quantomeno l'azione volta all'accertamento della fondatezza della pretesa[54], e ciò senza l'intermediazione dell'atto finale[55].
L’interruzione dei termini determinata ad istruttoria conclusa[56], secondo la previsione originaria dell’art. 10-bis, dalla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza comportava necessariamente, con il nuovo decorso del termine, un allungamento dei tempi procedimentali, anche per quanto concerne, come si è poc’anzi visto, la formazione di un eventuale silenzio amministrativo, allungamento che si poteva ritenere controbilanciato dalla garanzia procedimentale prevista in favore del privato di presentare deduzioni rispetto alla determinazione dell’Amministrazione al fine di conseguire una determinata utilità[57].
Lo svantaggio che si determinava per il privato era però in ogni caso evidente e così il d.l. semplificazioni del 2020[58]è intervenuto anche su questa previsione dell’art. 10-bis.
L’interruzione non è più prevista e, difatti, nella nuova formulazione si prevede che “la comunicazione di cui al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo”.
La novella non è di poco conto perché la comunicazione dei motivi ostativi non interrompe più il termine di conclusione del procedimento ma lo sospende solamente facendolo riprendere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni.
La conseguenza è lampante: i tempi procedimentali si possono allungare anche con la sospensione del termine, ma non certamente come nel caso dell’interruzione, ove il termine decorreva nuovamente dall’inizio[59].
È una novità da accogliere con favore perché anche il termine di conclusione del procedimento, alla stessa stregua del c.d. preavviso di rigetto, è una garanzia procedimentale per il privato, nonché un incentivo all’efficacia dell’azione amministrativa[60].
6. Osservazioni conclusive sull’orientamento del Consiglio di Stato.
Dato conto dell’imprescindibile ruolo del preavviso di rigetto nel rendere effettive le garanzie partecipative del cittadino nel rapporto con l’Amministrazione, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello, riformando la sentenza di primo grado ed annullando quindi il provvedimento di diniego per violazione dell’art. 10 bis, in virtù della mancata considerazione delle osservazioni comunicate dall’istante in riscontro al preavviso di rigetto, avendo l’Amministrazione assunto il provvedimento di diniego sulla base degli stessi rilievi riportati nella comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis legge n. 241/90, senza indicare in alcun modo le ragioni per cui le specifiche osservazioni formulate dall’istante, incidenti tanto sulla ricostruzione dei fatti di causa (in specie, in ordine all’esistenza, anziché di un locale tecnico, di un’intercapedine tombata) quanto sulla qualificazione delle opere in contestazione (se collegate o meno ad opere abusive e se qualificabili come volume tecnico), non potessero essere accolte.
Il Consiglio di Stato ha correttamente raggiunto questa conclusione ricordando, sulla base peraltro di orientamenti consolidati, che l'istituto del preavviso di rigetto, attesa la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui all’art. 10 bis, in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda[61].
La lesione del contraddittorio procedimentale, difatti, è idonea ad inficiare la legittimità del provvedimento anche nei procedimenti vincolati, quale quello di sanatoria, allorquando il contraddittorio procedimentale con il privato interessato avrebbe potuto fornire all'Amministrazione elementi utili, se non imprescindibili, ai fini della decisione, ad esempio in ordine alla ricostruzione dei fatti o all'esatta interpretazione delle norme da applicare[62].
Perché la violazione dell'art. 10 bis possa comportare l'illegittimità del provvedimento impugnato, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle proprie garanzie partecipative, ma è tenuto anche ad indicare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento, rendendolo diverso[63].
Ne deriva che la violazione di questa norma è idonea a determinare l’annullamento del diniego di sanatoria, qualora, alla stregua degli elementi deduttivi e istruttori forniti dal cittadino, vi sia il dubbio che, in caso in osservanza delle disposizioni procedimentali in concreto violate, il contenuto dispositivo dell’atto sarebbe stato identico a quello in concreto assunto.
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato ha statuito che non soltanto ricorre la violazione dell’art. 10 bis, ma non può ritenersi neppure con certezza che, in caso di corretta applicazione di questa norma, l’Amministrazione sarebbe comunque pervenuta al medesimo esito, di diniego dell’istanza di parte.
In particolare, si deve osservare che un'applicazione corretta dell'art.10 bis comporta, non solo che l'Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella determinazione conclusiva, se ancora negativa, con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall'interessato nell'ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall'adempimento procedurale in questione[64].
Solamente perseguendo questa traiettoria è possibile assicurare un effettivo ed utile confronto dialogico con l'interessato prima della formalizzazione dell'atto negativo, evitando che il preavviso di rigetto si traduca in un inutile adempimento formale[65], circostanza che le novità apportate dal d.l. Semplificazioni vogliono assolutamente evitare e che pertanto debbono trovare una piena implementazione[66], anche al fine di una maggiore trasparenza dell’azione amministrativa[67].
[1] Sulle novità introdotte dalla legge n. 15 del 2005 e su come questa abbia, in realtà, alterato la filosofia complessiva della legge n. 241 soprattutto nella parte in cui ha introdotto uno statuto formale del provvedimento cfr. M. Ramajoli, Lo statuto del provvedimento amministrativo a vent’anni dall’approvazione della legge n. 241/90, ovvero del nesso di strumentalità triangolare tra procedimento, atto e processo, in Dir. proc. amm., 2010, 459 ss.
[2] Tra i primi commenti successivi all’introduzione dell’istituto del preavviso di rigetto cfr. L. Ferrara, La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza (art. 10 bis, legge n. 241/1990) nel riformato quadro delle garanzie procedimentali, in Aa. Vv., Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, Cedam, 2007, vol. II, 83 ss.; A. Rallo, Comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis l. 241/90 e partecipazione post-decisionale: dal contraddittorio oppositivo al dialogo sul possibile, in Aa. Vv., Scritti in onore di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 2007, II, 1080 ss.; F. Saitta, Preavviso di rigetto ed atti di conferma: l’errore sta nella premessa, in Foro amm. TAR, 2008, 3235 ss.; D. Vaiano, Preavviso di rigetto e principio del contraddittorio nel procedimento amministrativo, in L.R. Perfetti (a cura di), Le riforme della l. 7 agosto 1990 n. 241 tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, Cedam, 2008, 47 ss.
[3] Sul punto v. S. Tarullo, L'art. 10-bis della legge n. 241/1990: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in GiustAmm.
[4] In letteratura è stato rilevato come il passaggio “da un tipo di amministrazione ancora tradizionalmente “separata ed autoritaria” ad un'amministrazione di tipo nuovo, colloquiale e, dunque, “relazionale” sia idonea a determinare un vero e proprio “cambio di paradigma” nell’attività e nell’organizzazione di quest'ultima: così G. Azzariti, Introduzione: la comunicazione come funzione, in G. Arena (a cura di), La funzione di comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, Rimini, 2001, 15 ss.
[5] Cfr. V. Cerulli Irelli, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell'azione amministrativa (un primo commento alla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990 n. 241»), in Astrid Rassegna, n. 4 del 2005.
[6] La definizione è ancora di S. Tarullo, L'art. 10-bis della legge n. 241/1990: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, cit.
[7] Queste espressioni sono da ricondurre a M. D’Alberti, La “visione” e la “voce”: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, 22 ss.
[8] In tema cfr. E. Frediani, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al “preavviso di rigetto”, in Dir. amm., 2005, 1003 ss.
[9] Cfr., ad esempio, S. Licciardello, Diritto amministrativo, Milano, Le Monnier, 2020, 181 ss.
[10] Sul punto v. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VI, 1° giugno 2020, n. 2093, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui “l'introduzione nell'ordinamento, con legge 11 febbraio 2005 n. 15, del preavviso di rigetto ha segnato l'ingresso di una modalità di partecipazione al procedimento, con la quale si è voluta "anticipare" l'esplicitazione delle ragioni del provvedimento sfavorevole alla fase endoprocedimentale, allo scopo di consentire una difesa ancora migliore all'interessato, mirata a rendere possibile il confronto con l'amministrazione sulle ragioni da essa ritenute ostative all'accoglimento della sua istanza, ancor prima della decisione finale”.
[11] Sul punto cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 1° settembre 2020, n. 1628, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 8 ottobre 2020, n. 1067, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Così Cons. Stato, Sez. III, 5 dicembre 2019, n. 8341, in www.giustizia-amministrativa.it; in ultimo ribadito da T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VI, 4 febbraio 2021, n. 777, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] In materia Cons. Stato, Sez. VI, 10 febbraio 2020, n. 1001, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 7 ottobre 2016, n. 2463, in Foro amm., 2016, 2528 ss.
[15] Ad esempio, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 1° aprile 2021, n. 2230, in www.giustizia-amministrativa.it; id., 10 febbraio 2020, n. 625, in Foro amm., 2020, 338 ss.
[16] Sul punto Cons. Stato, Sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379, in www.giustizia-amministrativa.it, da ultimo, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 9 febbraio 2021, n. 840, in Foro amm., 2021, 317 ss.
[17] T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 2 novembre 2020, n. 695, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 febbraio 2020, n. 2257, ivi; analogo discorso vale per il procedimento volto al riconoscimento dell’equo indennizzo per infermità dipendente da causa di servizio: T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. III, 25 settembre 2020, n. 2301, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] Ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 1° giugno 2020, n. 5841, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Così T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VI, 10 marzo 2020, n. 1100, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] In questo senso T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 3 marzo 2020, n. 2752, in l’Amministrativista, 2020.
[21] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 8 gennaio 2020, n. 131, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] T.A.R. Umbria, Sez. I, 3 gennaio 2020, n. 18, in www.giustizia-amministrativa.it, in quanto rientranti, seppur in termini generali, nella categoria dei procedimenti concorsuali, già espressamente esclusi dall’ambito di applicazione dell’istituto dallo stesso art. 10-bis.
[23] Sui problemi applicativi di questa dichiarazione cfr. L. Bertonazzi, Scia e tutela del terzo nella sentenza della Corte costituzionale n. 45/2019, in Dir. proc. amm., 2019, 711 ss.; E. Frediani, Scia, tutela del terzo ed esigenze di coerenza, in Giorn. dir. amm., 2019, 579 ss.; G. Greco, SCIA e tutela del terzo al vaglio della Corte costituzionale: è troppo auspicare un ritorno al passato (o quasi), in GiustAmm, 2018; W. Giulietti, A. Giusti, Tutela del terzo nella scia e principio di effettività, ricercando un’interpretazione costituzionalmente conforme del c. 6 ter dell’art. 19 l. proc., in GiustAmm, 2018; E. Boscolo, La SCIA dopo la legge Madia e i decreti attuativi, in Giur. it., 2016, 2799 ss.; P.M. Vipiana, I poteri amministrativi a seguito di SCIA al vaglio della Consulta, in Giur. it., 2016, 2234 ss.; D. Vese, La segnalazione certificata di inizio attività come modello di semplificazione procedimentale, Pisa, Pacini, 2016; F. Volpe, L’annullamento del silenzio assenso e della s.ci.a. Riflessioni di teoria generale a seguito dell’abrogazione dell’art. 21, comma 2, legge 7 agosto 1990, n. 241, in GiustAmm, 2015; G. Greco, Ancora sulla Scia: silenzio e tutela del terzo (alla luce del comma 6-ter dell’art. 19 l. 241/90), in Dir. proc. amm., 2014, 645 ss.; F. Saitta, S.c.i.a. ed autotutela, tra contraddizioni legislative e…giurisprudenza creativa, in GiustAmm, 2014; G. Crepaldi, Le prospettive di tutela del terzo nell’ambito della Scia, in Dir. econ., 2013, 279 ss.; R. Ferrara, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2012, 172 ss.; M. Ramajoli, La S.c.i.a. e la tutela del terzo, in Dir. proc. amm., 2012, 329 ss.; E. Zampetti, D.i.a. e S.c.i.a. dopo l’adunanza plenaria n. 15/2011: la difficile composizione del modello sostanziale con il modello processuale, in Dir. amm., 2011, 811 ss.; M.A. Sandulli, Dalla d.i.a. alla s.c.i.a.: una liberalizzazione “a rischio”, in Riv. giur. edil., 2010, 465 ss.; B.G. Mattarella, La scia, ovvero dell’ostinazione del legislatore pigro, in Giorn. dir. amm., 2010, 1328 ss.
[24] Da ultimo, in questo senso, cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 3 dicembre 2021, n. 7787, in www.giustizia-amministrativa.it; id., Sez. IV, 3 dicembre 2021, n. 7772, ivi.
[25] Così concorde, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 18 febbraio 2019, n. 1111, in Foro amm., 2019, 227 ss.; T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 28 ottobre 2019, n. 256, in Foro amm., 2019, 1730 ss.
[26] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 4 novembre 2020, n. 6815, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Valle d’Aosta, Sez. I, 15 marzo 2021, n. 17, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 15 febbraio 2021, n. 1808, in www.giustizia-amministrativa.it.
[27] Per una più ampia trattazione si consenta il rinvio a M. Ricciardo Calderaro, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, in Federalismi, n. 11-2022, 126 ss.
[28] Sul punto v. anche T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 2 marzo 2020, n. 947, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui è legittimo il provvedimento sorretto da una motivazione esaustiva e logica, tale da evidenziare inequivocabilmente le ragioni delle diverse conclusioni raggiunte.
[29] È interessante notare come in alcune pronunzie minoritarie (ad esempio, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, 9 marzo 2020, n. 1041 e T.A.R. Veneto, Sez. III, 21 gennaio 2019, n. 72, in www.giustizia-amministrativa.it), il giudice amministrativo affermi che “non deve sussistere un rapporto di identità, tra il preavviso di rigetto e la determinazione conclusiva del procedimento, né una corrispondenza puntuale e di dettaglio tra il contenuto dei due atti, ben potendo la pubblica amministrazione ritenere, nel provvedimento finale, di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche, sempre che il contenuto sostanziale del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dalla comunicazione resa ai sensi dell'art. 10- bis l. n. 241/1990, esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove”.
[30] Così anche T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 18 dicembre 2020, n. 6255, in www.giustizia-amministrativa.it; da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2022, n. 158, ivi, secondo cui l'onere dell'Amministrazione di illustrare le ragioni per le quali non abbia tenuto conto delle osservazioni dei privati, presentate ai sensi dell'art. 10-bis l. n. 241/1990, non deve essere inteso in senso formalistico.
[31] È evidente che, laddove il provvedimento finale non tenesse conto in alcun modo dell’apporto partecipativo del privato, questo risulterebbe illegittimo per violazione di legge, ed in particolare dell’art. 10-bis, legge n. 241 del 1990: in questo senso T.A.R. Sardegna, Sez. II, 2 luglio 2020, n. 367, in www.giustizia-amministrativa.it.
[32] Secondo, ad esempio, il T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 4 agosto 2020, n. 3500, in www.giustizia-amministrativa.it, le garanzie partecipative e gli obblighi motivazionali ex artt. 3 e 10 bis, l. n. 241/1990 non possono tradursi - a discapito dei principi procedimentali di efficacia e celerità - in un interminabile confronto dialettico con l'interessato e in un'analitica replica agli argomenti da quest'ultimo propugnati, essendo sufficienti, per la loro osservanza, il compiuto apprezzamento e la perspicua esplicazione dei presupposti fattuali e delle ragioni giuridiche che, in positivo, ossia in logica ed insuperata antitesi alle anzidette deduzioni, hanno giustificato la preannunciata determinazione sfavorevole.
[33] In tema, tra gli ultimi scritti, si rinvia a G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm., 2017, 1235 ss.
[34] Tenendo in considerazione, però, che il preavviso di rigetto è un adempimento che “va preso sul serio”: così M. Brocca, Il preavviso di diniego e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130), in Giustiziainsieme, 25 febbraio 2021.
[35] Sul punto, da ultimo, v. T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 4 giugno 2021, n. 973, in www.giustizia-amministrativa.it; ma già Cons. Stato, Sez. IV, 10 dicembre 2007, n. 6325, in Foro amm. CdS, 2007, 3389.
[36] Secondo M.C. Cavallaro, Attività vincolata dell’amministrazione e sindacato giurisdizionale, in Il processo, 2020, 1 ss., “la legge n. 241 del 1990 rappresenta in un certo senso la sintesi delle due visioni contrapposte, dal momento che in essa è possibile cogliere quei profili più garantisti delle tutele del privato, maggiormente legati allo spirito della legalità formale, che si accompagnano alle esigenze di semplificazione ed efficienza dell'azione amministrativa, le quali idealmente rispondono alle istanze della legalità sostanziale o di risultato”.
[37] Così, tra le ultime pronunzie, Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, sez. giurisd., 27 ottobre 2020, n. 996, in www.giustizia-amministrativa.it.
[38] Cons. Stato, Sez. VI, 10 febbraio 2020, n. 1001, in www.giustizia-amministrativa.it.
[39] È conforme all’orientamento del giudice amministrazione anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione: in questo senso, ad esempio, Cass. civ., Sez. I, 10 giugno 2020, n. 11083, in Guida dir., 2020, 46, 57 ss.
[40] Qui si deve richiamare quanto scritto da F. Fracchia, M. Occhiena, Teoria dell'invalidità dell'atto amministrativo e art. 21-octies, l. 241/1990: quando il legislatore non può e non deve, in Giustamm, 2005.
[41] Così Cons. Stato, Sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 1144, in www.giustizia-amministrativa.it.
[42] In questi termini Cons. Stato, Sez. II, 12 febbraio 2020, n. 1081, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. III, 19 febbraio 2019, n. 1156, in www.giustizia-amministrativa.it; id., Sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 256, in Foro amm., 2019, 62 ss.
[43] Sul punto, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 28 marzo 2019, n. 2052, in www.giustizia-amministrativa.it.
[44] In giurisprudenza v., ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 11 febbraio 2020, n. 1805, in Foro amm., 2020, 305 ss.
[45] Su cui si v. R. Fusco, Il necessario contraddittorio col privato nell’esercizio dei poteri discrezionali: l’efficacia invalidante del preavviso di rigetto (nota a Cons. St., Sez. II, 14 marzo 2022, n. 1790), in GiustiziaInsieme, 6 luglio 2022.
[46] Così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. II, 2 agosto 2021, n. 5676, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. II, 22 dicembre 2020, n. 8230, ivi.
[47] Riprendendo le parole di A. Falzea, Forma e sostanza nel sistema culturale del diritto, in Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, vol. I, Milano, 1999, 178, “la condizione ottimale di ogni società giuridicamente organizzata sta nell'equilibrata presenza e nel corretto temperamento della componente sostanziale e della componente formale del diritto”.
[48] Così, ad esempio, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 17 marzo 2020, n. 1173, in www.giustizia-amministrativa.it; ma già Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2005, n. 3043, in Foro amm. CdS, 2005, 1833 ss.
[49] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 9 maggio 2012, n. 2137, in Riv. giur. edil., 2012, 822 ss.
[50] Sul punto v., ad esempio, T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. II, 8 agosto 2019, n. 2074, in www.giustizia-amministrativa.it.
[51] La bibliografia in tema di silenzio dell’Amministrazione è molto vasta. Al riguardo, tra i tanti, cfr. M. Andreis, La conclusione inespressa del procedimento, Milano, Giuffrè, 2006; B. Tonoletti, Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., 1999, p. 179 ss.; V. Parisio, I silenzi della pubblica amministrazione. La rinuncia alla garanzia dell’atto scritto, Milano, Giuffrè, 1996; Id., Il silenzio della pubblica amministrazione tra prospettive attizie e fattuali, alla luce delle novità introdotte dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, in Foro amm. TAR, 2006, 2798 ss.; A. Cioffi, Dovere di provvedere e silenzio-assenso della pubblica amministrazione dopo la legge 14 maggio 2005, n. 80, in Dir. amm., 2006, 99 ss.; C.E. Gallo, Silenzio e comportamento della p.a. tra giudice amministrativo e giudice ordinario, in Urb. e app., 2005, 171 ss.; A. Romeo, Brevi note in tema di silenzio della p.a. e obbligo di provvedere, in Foro amm. CdS, 2003, 3481 ss.; C.E. Gallo, Il silenzio della p.a.: profili sostanziali e processuali, in S. Raimondi, R. Ursi (a cura di), La riforma della giustizia amministrativa in Italia ed in Spagna: atti del convegno di studi italo-spagnolo (Palermo, 19-23 marzo 2001), Torino, Giappichelli, 2002, 85 ss.; F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002, 261 ss.; A. Travi, Silenzio-assenso, denuncia di inizio attività e tutela dei terzi controinteressati, in Dir. proc. amm., 2002, 16 ss.; G.B. Garrone, Silenzio della p.a. (Ricorso giurisd. amm.), in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1999, vol. XIV, 191 ss.; F.G. Scoca, M. D’Orsogna, Silenzio, clamori di novità, in Dir. proc. amm., 1995, 393 ss.; A. Travi, Silenzio assenso ed esercizio della funzione amministrativa, Padova, Cedam, 1985; A.M. Sandulli, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali, in Dir. e soc., 1982, p. 715 ss.; F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè, 1971; dal punto di vista processuale, in particolare, v. A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, in Dir. proc. amm., 2017, 450 ss.; M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, 709 ss.; C. Benetazzo, Il potere del giudice amministrativo di “conoscere della fondatezza dell’istanza” nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto della P.A., in Foro amm. TAR, 2010, 501 ss.; più di recente, ancora sull’istituto del silenzio, cfr. M.A. Sandulli, Silenzio assenso e termine a provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il processo, 2022, 11 ss.; M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, n. 10-2020, 21 ss.; P. Otranto, Silenzio e interesse pubblico nell’attività amministrativa, Bari, Cacucci, 2018.
[52] In tema v. T.A.R. Valle d’Aosta, Sez. I, 11 giugno 2015, n. 41, in Foro amm., 2015, 1735 ss.
[53] Su cui v., ad esempio, C.E. Gallo, Il decreto correttivo al codice del processo amministrativo, in Urb. e app., 2012, 23 ss.
[54] Ovviamente, come ricordato ad esempio da T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 22 febbraio 2021, n. 2173, in www.giustizia-amministrativa.it, il giudice, a’ sensi dell'art. 31, co. 3, in caso di ricorso avverso il silenzio-inadempimento della Amministrazione, può pronunciare sulla fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio solamente nel caso in cui si tratti di attività vincolata, oppure quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori da parte dell'Amministrazione.
[55] Sul punto v. T.A.R. Veneto, Sez. III, 28 marzo 2012, n. 426, in Foro amm. TAR, 2012, 745 ss.
[56] T.A.R. Veneto, Sez. III, 24 aprile 2007, n. 1299, in Foro amm. TAR, 2007, 1280 ss.
[57] Così T.A.R. Veneto, Sez. III, 7 maggio 2008, n. 1256, in Foro amm. TAR, 2008, 1248 ss.
[58] Su cui in generale v. il volume di S. Foà, A. Camaiani (a cura di), Gestione nazionale della pandemia, misure giuridiche tra Costituzione e Cedu. Profili critici, Torino, Giappichelli, 2022.
[59] In realtà, come osservato da G. Crepaldi, La sospensione del termine per la conclusione del procedimento amministrativo, in Foro amm. CdS, 2007, 108 ss., la disposizione originaria, pur parlando espressamente di interruzione del termine, si prestava ad interpretazioni equivoche, che potevano far ritenere che il legislatore si riferisse alla mera sospensione del termine; sul punto v. altresì C. Videtta, Note a margine del nuovo art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, in Foro amm. Tar, 2006, 837 ss.; G. Bottino, La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di parte: considerazioni su di una prima applicazione giurisprudenziale del nuovo art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, nota a Tar Lazio, sez. II, 18 maggio 2005 n. 3921, in Foro amm. Tar, 2005, 1554 ss.
[60] Al riguardo, per esemplificare il ritmo sollecito che deve scandire il procedimento amministrativo, si può richiamare l’efficace espressione “ansia di provvedere” di E. Casetta, La difficoltà di semplificare, in Dir. amm., 1998, 345; in tempi più recenti v. anche F. Fracchia, P. Pantalone, La fatica di semplificare: procedimenti a geometria variabile, amministrazione difensiva, contratti pubblici ed esigenze di collaborazione del privato “responsabilizzato”, in Federalismi, fasc. n. 36-2020, 33 ss.
[61] In tema v., ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5537, in www.giustizia-amministrativa.it.
[62] Cons. Stato, Sez. VI, 1° marzo 2018, n. 1269, in Riv. giur. edil., 2018, 3, I, 752 ss.
[63] Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 2022, n. 8043, in www.giustizia-amministrativa.it.
[64] Cons. Stato, Sez. VI, 27 settembre 2018, n. 5557, in Foro amm., 2018, 1469 ss.
[65] V. al riguardo le riflessioni di A. Cauduro, Gli obblighi dell’amministrazione pubblica per la partecipazione procedimentale, Napoli, Jovene, 2023, spec. 122 ss.
[66] Concorde è la posizione di M.R. Spasiano, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, in M. Andreis, G. Crepaldi, S. Foà, R. Morzenti Pellegrini, M. Ricciardo Calderaro (a cura di), Studi in onore di Carlo Emanuele Gallo, Torino, Giappichelli, 2023, Vol. I, 523 ss.
[67] Su cui v. S. Foà, La nuova trasparenza amministrativa, in Dir. amm., 2017, 65 ss.
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’applicabilità del rinvio pregiudiziale nel processo tributario. - 3. Il rinvio pregiudiziale e la questione di giurisdizione. - 4. Conclusioni.
1. Premessa.
L’ordinanza n. 428 del 31 marzo 2023 della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Agrigento e il successivo provvedimento della Prima Presidente della Corte di Cassazione del 18 aprile 2023 offrono l’opportunità di soffermarsi sul rinvio pregiudiziale alla Corte Suprema nel giudizio tributario.
Al riguardo, il disegno di legge governativo n. 2636 del 1° giugno 2022, che ha condotto alla L. n. 130/2022 sulla riforma del processo tributario, prevedeva (all’art. 2, comma 1) l’introduzione nel c.p.c. dell’art. 363-bis, che avrebbe contemplato la richiesta da parte del Procuratore Generale presso la Cassazione dell’enunciazione, ad opera della Suprema Corte, del principio di diritto in materia tributaria, nonché [all’art. 2, comma 2, lett. g)] l’inserimento nel D.L.vo n. 546/1992 dell’art. 62-ter sul rinvio pregiudiziale alla Cassazione da parte dei giudici tributari di merito.
Come noto, queste disposizioni non sono state approvate dal Parlamento.
Pertanto, può farsi solo riferimento alle norme, per così dire, “generali” contenute nel c.p.c., ossia agli artt. 363 e 363-bis[1].
Mentre l’applicabilità dell’art. 363 in ambito tributario non ha sollevato particolari dubbi[2], una parte della dottrina ha avanzato delle perplessità sulla possibilità per i giudici tributari di avvalersi del rinvio pregiudiziale[3].
La Corte agrigentina – che per prima si è avvalsa dell’art. 363-bis in materia tributaria – sostiene, invece, che detto rinvio possa operare nel giudizio tributario e ne ha chiesto conferma alla Corte Suprema proprio avvalendosi del relativo istituto.
La Prima Presidente, ritenuta la questione ammissibile poiché controversa e suscettibile di ripetersi in una pluralità di giudizi tributari, ha rimesso la decisione in proposito alle Sezioni Unite della Cassazione, unitamente a quella sull’altro profilo evocato nell’ordinanza di rimessione, riguardante una questione giuridica in tema di giurisdizione, su cui mi soffermerò in seguito.
2. L’applicabilità del rinvio pregiudiziale nel processo tributario.
Viene in rilievo, anzitutto, l’utilizzabilità nel processo tributario del rinvio pregiudiziale.
Il convincimento espresso dalla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Agrigento è pienamente condivisibile ed è perciò auspicabile che le Sezioni Unite della Cassazione lo confermino quanto prima poiché l’art. 363-bis può operare nel giudizio tributario grazie alla clausola generale di applicabilità delle norme del c.p.c., in quanto compatibili, recata dall’art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 546[4].
Non v’è dubbio, infatti, sulla compatibilità dell’art. 363-bis con la disciplina del processo tributario.
In particolare, non è di ostacolo il fatto che l’art. 363-bis, comma 1, n. 1) prescriva che la questione sia necessaria alla definizione “anche parziale” della lite.
Vero è che in materia tributaria non sono ammesse sentenze parziali (dall’art. 35, comma 3, del D.L.vo n. 546), ma ben può porsi la necessità di risolvere – attraverso il rinvio pregiudiziale – una questione di diritto occorrente per decidere una delle molteplici domande avanzate dalle parti al giudice tributario.
Né crea ostacoli l’espressione “giudice di merito”, che si rinviene nell’art. 363-bis, comma 1: ad essa non può assegnarsi il significato di “giudice ordinario di merito”, sì da escluderne la riferibilità ai giudici tributari. Il legislatore ha solo inteso prevedere che di questo istituto possano avvalersi i giudici – “di merito” appunto – diversi dalla Cassazione, ma da ciò non può desumersi l’inibizione al relativo impiego per i giudici speciali, quali quelli tributari, che ordinariamente applicano le norme del c.p.c. nell’espletamento della loro funzione giurisdizionale, per quanto non disposto dal D.L.vo n. 546 e con esso compatibili.
D’altronde, opinando diversamente, si verrebbe a legittimare una disparità di regime assolutamente irragionevole in quanto i giudici tributari, pur facendo impiego delle norme sul processo civile e vedendo impugnate le loro pronunce di appello dinanzi alla Cassazione civile, non potrebbero invocare l’intervento della Corte Suprema per dirimere i dubbi sussistenti su questioni esclusivamente di diritto. Regime vieppiù irragionevole, oltretutto, se si considera quanto è cospicua la mole delle cause fiscali pendenti di fronte alla Cassazione e come il rinvio possa concorrere a ridurla.
Per altro verso, non rileva che, secondo l’art. 363-bis, ultimo comma, il principio di diritto enunciato dalla Corte Suprema mantenga la propria efficacia vincolante, in caso di estinzione del giudizio, “anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti”.
La circostanza per cui l’estinzione del processo tributario sorto a seguito dell’impugnazione di un atto impositivo ne determini l’irretrattabilità e inibisca la riproposizione delle domande svolte nel giudizio estinto non può addursi per escludere l’operatività del rinvio pregiudiziale dinanzi alle Corti di Giustizia Tributaria.
Il precetto recato nell’ultimo comma dell’art. 363-bis può comunque spiegare effetti nel giudizio tributario di rimborso: la relativa estinzione non preclude la riproposizione della stessa domanda nei confronti della medesima parte, nel rispetto del termine di prescrizione del diritto di restituzione azionato.
Ancora, l’art. 363-bis, comma 2 prevede che “Il procedimento è sospeso dal giorno in cui è depositata l’ordinanza, salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”.
Anche questo precetto non contraddice l’assetto del processo tributario. A seguito del rinvio pregiudiziale, la riscossione provvisoria della pretesa impositiva e/o sanzionatoria si presta comunque a essere inibita – pur essendo il giudizio sospeso – poiché il comma 2 in esame rende esperibile, da parte del giudice a quo, la tutela cautelare, riconducibile com’è alla nozione degli “atti urgenti” ivi menzionati.
Non si vedono, dunque, ragioni per negare la compatibilità dell’art. 363-bis con il regime processualtributario.
Ma quel che più conta, come anticipato, è che il rinvio pregiudiziale può assolvere una funzione tanto rilevante quanto positiva nel giudizio tributario.
Sebbene sia innegabile che in ambito tributario più che in altri comparti dell’ordinamento la questione giuridica risulti spesso strettamente connessa a quella fattuale, sì da renderne difficile l’enucleazione, è parimenti incontestabile la ricorrenza di casi nei quali a lungo si discute, con alterne vicende, nelle fasi di merito di temi prettamente giuridici senza che sussista alcun contrasto fra le parti sulla ricostruzione dei fatti di causa, che si presentano perfettamente analoghi in ciascuna controversia.
Si pensi, per esempio, all’applicazione della cosiddetta “cedolare secca”[5] ai contratti di locazione di immobili a uso abitativo a imprese che li mettono a disposizione dei propri dipendenti. Sul punto, in presenza di dati fattuali del tutto pacifici, si registrano prese di posizioni contraddittorie nella giurisprudenza di merito[6]. Oppure si considerino le recenti rimessioni alle Sezioni Unite sul diritto a detrarre l’IVA assolta su immobili di proprietà di terzi dei quali si abbia la detenzione[7] o sulla distinzione fra le nozioni di crediti d’imposta non spettanti e crediti d’imposta inesistenti (cui si correla un diverso termine decadenziale di recupero e un diverso regime sanzionatorio, sia amministrativo che penale)[8], che ben avrebbero potuto formare oggetto di rinvio pregiudiziale.
Sono consapevole che non saranno numerosi i casi nei quali, a fronte di una ricostruzione incontrovertibile dei fatti, emerga “una questione esclusivamente di diritto” controversa.
Però, quando ciò accada, il rinvio pregiudiziale può consentire la formazione in tempi più rapidi rispetto al passato dell’orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità. Ed è ragionevole immaginare che ne possa discendere una significativa riduzione del contenzioso sia nelle fasi di merito che dinanzi alla Corte Suprema, soprattutto ove si tenga presente la spiccata serialità di molte controversie tributarie.
Fra l’altro, l’Agenzia delle Entrate non potrà sottrarsi dal favorire detto rinvio, in ragione della funzione che essa assolve, ex art. 5, comma 1, della L. n. 212/2000, di diffondere la corretta conoscenza delle norme tributarie, al fine di agevolarne il rispetto da parte dei contribuenti. Anzi, è lecito aspettarsi che sia proprio l’Amministrazione finanziaria a promuovere il rinvio pregiudiziale allo scopo di pervenire sollecitamente alla soluzione di questioni giuridiche che la vedono contrapposta ai privati.
Nulla, invero, vieta che siano le parti a chiedere al giudice di ricorrere all’istituto in esame, pur restando poi rimessa solamente all’organo giudicante la determinazione se disporre o meno il rinvio pregiudiziale.
Inoltre, come giustamente evidenzia l’ordinanza della Corte agrigentina, l’istituzionalizzazione normativa, grazie all’art. 3, comma 1, della L. n. 130/2022, della sezione tributaria presso la Corte di Cassazione ne ribadisce e rafforza il fine di assicurare l’uniformità interpretativa del diritto tributario, in attuazione dell’art. 65, comma 1, del R.D. n. 12/1941. Talché il rinvio pregiudiziale rappresenta uno strumento per garantire “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”, come appunto prescrive l’art. 65, comma 1, di cui sarebbe davvero irragionevole negare la fruizione ai giudici tributari.
Tutto induce, quindi, a ritenere operante l’art. 363-bis nel giudizio tributario, sì che non v’è da dolersi della mancata approvazione di una norma ad hoc caratterizzata da diversi presupposti applicativi, così come prospettata nel disegno di legge n. 2636, anche perché il processo civile dinanzi alla Cassazione non può che essere unitario e non v’è alcuna necessità di un regime “speciale” per la materia tributaria[9]. Ed è stata probabilmente quest’ultima, corretta, valutazione che ha spinto il legislatore a stralciare la norma sul rinvio pregiudiziale contenuta nel disegno di legge n. 2636. Difatti, l’imminente introduzione dell’art. 363-bis, con il D.L.vo n. 149/2022 in attuazione della L. n. 206/2021 sulla riforma del processo civile (sviluppatasi parallelamente a quella sul giudizio tributario), l’avrebbe resa del tutto inutile e distonica, ben potendo i giudici tributari avvalersi della disposizione processualcivilistica.
3. Il rinvio pregiudiziale e la questione di giurisdizione.
Come accennato, l’ordinanza della Corte di Agrigento pone alla Cassazione un’ulteriore questione oltre a quella attinente all’applicabilità del rinvio pregiudiziale nel giudizio tributario.
Essa scaturisce da un contrasto di indirizzi interpretativi dei giudici tributari circa la sussistenza o meno della giurisdizione delle Corti di Giustizia Tributaria per le cause nascenti dall’impugnazione degli atti di scarto telematici del contributo a fondo perduto contemplato dall’art. 25 del D.L. n. 34/2020, poi convertito dalla L. n. 77/2020, tra le misure di sostegno all’economia introdotte nell’ambito dell’emergenza pandemica.
Il punto controverso è rappresentato dal comma 12 dell’art. 25, secondo cui, per un verso, l’Agenzia delle Entrate recupera il contributo non spettante, irrogando le sanzioni previste dall’art. 13, comma 5, del D.L.vo n. 471/1997, e, per l’altro, per “le controversie relative all’atto di recupero si applicano le disposizioni previste da decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546”.
Ci si può, pertanto, chiedere se anche le cause – qual è quella interessata dall’ordinanza della Corte agrigentina – aventi ad oggetto (non l’atto di recupero, ma) l’accertamento del diritto del privato a ottenere il contributo possano rientrare nella giurisdizione tributaria.
Non solo, come correttamente segnala la Corte remittente, si pone addirittura il dubbio se il contributo controverso abbia natura tributaria, ossia se possa considerarsi alla stregua di un credito d’imposta, e quindi se possa ritenersi lecitamente individuata dal legislatore la giurisdizione tributaria per le cause relative all’atto di recupero o se, invece, sussista in ogni caso la giurisdizione del giudice ordinario allorché una lite verta sul menzionato contributo.
Peraltro, v’è ancor prima da chiedersi “se l’art. 363-bis c.p.c. vada inteso nel senso che il sindacato riservato alla Corte in sede di esame della questione di diritto che concerne l’individuazione della giurisdizione rispetto alla controversia pendente sia o non compatibile con la richiesta adottata in sede di rinvio pregiudiziale”, come si legge nell’ordinanza.
Anche in questo caso, il convincimento espresso dai giudici agrigentini è condivisibile.
Sebbene sia indubbio che – come riconosce la giurisprudenza ricordata dalla Corte di Agrigento[10] e il successivo provvedimento della Prima Presidente della Cassazione – le Sezioni Unite, quando sono chiamate a individuare la giurisdizione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, possono e devono esaminare i fatti di causa, ciò non esclude che il rinvio pregiudiziale possa essere impiegato per risolvere la questione, “esclusivamente di diritto”, concernente la giurisdizione, quando – come nel caso – occorra solamente interpretare una norma, non essendovi controversia sui profili fattuali.
D’altronde, né il regolamento preventivo di giurisdizione rimesso all’esclusiva iniziativa delle parti, né la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione con l’indicazione del giudice munito di giurisdizione, né il potere di quest’ultimo di sollevare il conflitto di giurisdizione possono indurre a negare il ricorso al rinvio pregiudiziale per chiarire la questione di giurisdizione.
Infatti, indipendentemente dai ricordati strumenti che l’ordinamento processuale pone a disposizione delle parti e del giudice per sollevare e risolvere le questioni di giurisdizione, nulla impedisce che – quando i fatti siano pacifici e debba solo interpretarsi una norma che potrebbe porsi in numerosi altri casi – l’organo giudicante possa, grazie al rinvio pregiudiziale, chiedere l’intervento chiarificatore della Corte Suprema per stabilire quale sia il giudice tenuto ad attribuire il torto e la ragione.
Del resto, ciò non collide con la disciplina contenuta nell’art. 59 della L. n. 69/2009, rammentata nel provvedimento della Prima Presidente della Cassazione.
Ivi si evidenzia, giustamente, che la norma testé indicata “tende ad evitare soluzioni di continuità nel processo” e la “finalità acceleratoria si completa con il formarsi del cd. giudicato implicito sulla giurisdizione ove il potere officioso non sia esercitato entro il primo grado di giudizio e non vi sia impugnazione sul punto”.
Tuttavia, il rinvio pregiudiziale ben può contemperarsi con tale disposizione.
Infatti, ne è senz’altro precluso l’impiego laddove il giudice sia convinto del proprio difetto di giurisdizione o, al contrario, non abbia dubbi in proposito e si pronunci in primo grado sul merito della causa.
Ma qualora, come nella vicenda che ci occupa, il giudice – in presenza di un quadro fattuale non controverso – abbia un dubbio, destinato a ripresentarsi in altre controversie, corroborato da contrastanti prese di posizione da parte della giurisprudenza di merito o della dottrina perché non dovrebbe avvalersi del rinvio pregiudiziale per risolvere la questione di giurisdizione?
Così, può ottenersi più rapidamente certezza sulla questione di giurisdizione rispetto al caso in cui il giudice la neghi e altrettanto faccia il giudice dal primo indicato.
Vero è che il rinvio pregiudiziale determina la sospensione del processo, come precisa il provvedimento della Prima Presidente della Corte Suprema, ma altrettanto accade se le parti accedono al regolamento preventivo di giurisdizione (a meno che il giudice ritenga l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata, come stabilisce l’art. 367, comma 1, c.p.c.) o se il secondo giudice solleva il conflitto di giurisdizione.
In sintesi, il rinvio pregiudiziale può attivare l’intervento delle Sezioni Unite in termini anticipati rispetto a quanto potrebbero fare le parti o il secondo giudice, consentendo di risolvere più celermente la questione di giurisdizione.
Inoltre, anche la perplessità enunciata nel provvedimento della Prima Presidente in ordine al fatto che gli “effetti della pronuncia sul rinvio pregiudiziale sul giudizio a quo possono non essere rilevanti se sganciati dal collegamento con la fattispecie concreta” si presta ad essere superata.
Il rinvio pregiudiziale può legittimamente essere avviato solo quando il giudice si è reso conto che i profili fattuali non sono controversi o sono già stati accertati.
Cosicché se ne può prospettare l’impiego per risolvere la questione di giurisdizione solo quando “non verrebbe in alcun modo rimessa alla Corte” di Cassazione “alcuna questione di fatto, ma unicamente l’interpretazione della regola astratta di diritto ai fatti come rappresentati dal giudice a quo”, come ben ha evidenziato la Corte di Agrigento.
Ancora, è convincente l’argomento impiegato dall’ordinanza di rimessione sulla irragionevolezza che si registrerebbe qualora si negasse al giudice di fruire del rinvio pregiudiziale sulla questione di giurisdizione quando costui può, d’ufficio, affermare il proprio difetto di giurisdizione. Detto altrimenti, se il giudice può negare la propria giurisdizione, perché non può – in un’ipotesi dubbia e in presenza di tutti i requisiti posti dall’art. 363-bis – chiedere l’intervento della Cassazione per risolvere la relativa questione?
Prima di terminare sul punto, sia concesso a chi scrive esprimere la propria impressione sulla sussistenza o meno nella specie della giurisdizione tributaria.
Come hanno osservato i giudici agrigentini, l’unico collegamento fra il contributo regolato dall’art. 25 e la materia tributaria è rappresentato dal criterio per la relativa quantificazione, ancorato com’è alla redditività del richiedente. A ciò possono aggiungersi le circostanze che i beneficiari sono individuati rinviando alla disciplina fiscale degli esercenti le attività d’impresa e professionali e l’organo preposto all’erogazione del contributo e al controllo circa la relativa spettanza è l’Agenzia delle Entrate.
Questi elementi, però, non consentono di conferire natura tributaria alla prestazione.
Difatti, non siamo in presenza di un credito tributario, utilizzabile in compensazione a fronte delle imposte dovute, ma di un “contributo a fondo perduto” corrisposto dall’Agenzia delle Entrate “mediante accreditamento diretto in conto corrente bancario o postale intestato al soggetto beneficiario”, come si legge nell’art. 25, comma 11. Siamo, cioè, dinanzi a un’erogazione straordinaria volta a compensare i minori ricavi o proventi degli esercenti le attività indicate nell’art. 25, comma 1, che nulla ha a che vedere con le obbligazioni d’imposta gravanti su costoro.
Viene, perciò, da pensare che ci si trovi al cospetto di una fattispecie assimilabile a quella dell’attribuzione ai giudici tributari della giurisdizione sulle liti riguardanti violazioni di natura non tributaria, ancorché le correlate sanzioni fossero inflitte dall’Agenzia delle Entrate. E, come sempre osservano i giudici di Agrigento, la Corte Costituzionale – con la sentenza n. 130 del 14 maggio 2008 – ha riconosciuto l’illegittimità dell’art. 2, comma 1, del D.L.vo n. 546 nella parte in cui prevedeva la giurisdizione tributaria per siffatte controversie.
In conclusione, è ragionevole ritenere che competano al giudice ordinario le cause relative al contributo in discussione, stante la sua natura “non tributaria” e l’assenza di ogni profilo di discrezionalità nella relativa erogazione. Aspetto, quest’ultimo, che consente di escludere la giurisdizione del giudice amministrativo, come correttamente afferma l’ordinanza in commento.
4. Conclusioni.
Le considerazioni che precedono evidenziano quanta fiducia merita riporre nel rinvio pregiudiziale, quale utile strumento per ridurre il contenzioso tributario.
Peraltro, nella nostra materia, l’art. 363-bis non risponde alla sola finalità, costituzionalmente garantita dall’art. 111, comma 2, di assicurare la ragionevole durata del processo, ma può anche rappresentare un decisivo stimolo per gli Enti impositori all’esercizio dell’autotutela, dando attuazione al principio di buon andamento ex art. 97, comma 2, Cost. Infatti, allorché il principio di diritto enunciato a seguito di rinvio smentisca l’interpretazione fatta valere a conforto delle pretese impositive e/o sanzionatorie, queste ultime potranno essere ritirate, con evidente beneficio per i contribuenti e consentendo altresì agli Enti suddetti di evitare la soccombenza in giudizio.
Si aggiunga che il rinvio pregiudiziale è rispettoso del principio del contraddittorio perché le parti devono essere sentite prima che il giudice disponga il rinvio e possono presentare “brevi memorie” prima della pubblica udienza dinanzi alla Cassazione ex art. 363-bis, comma 4.
Né appare violato l’art. 101, comma 2 Cost. poiché il vincolo per il giudice di merito è analogo a quello che discende dall’enunciazione del principio di diritto in caso di cassazione della sentenza con rinvio ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.[11] o a quello che discende, per il giudice che ha promosso il rinvio pregiudiziale, dall’interpretazione di una norma unionale affermata dalla Corte di Giustizia Europea.
Anzi, è proprio alla prospettiva del “dialogo fra le Corti”, cui fa riferimento pure l’ordinanza della Corte agrigentina, che in ultima istanza si ispira l’art. 363-bis, che evidentemente si fonda sulla cooperazione e sulla reciproca fiducia che deve contraddistinguere le relazioni fra i giudici di merito e di legittimità.
Si è sostenuto, peraltro, che l’istituto “più che volto a rispettare un principio di nomofilachia, … sembra finalizzato ad introdurre surrettiziamente un principio di vincolatività dei precedenti”[12].
Non penso, però, che questa prospettiva possa realizzarsi, essenzialmente perché il giudice di merito non vincolato dal principio di diritto si uniformerà ad esso solo se troverà convincente la pronuncia della Cassazione che lo ha enunciato. Ciò in termini analoghi a quel che da sempre accade quando tale giudice decide se condividere o meno l’indirizzo interpretativo espresso dalla Corte Suprema.
Né mi sembra concretamente prospettabile l’eventualità che il rinvio pregiudiziale permetta al giudice di merito di sottrarsi dal decidere la questione di diritto sottopostagli dai contraddittori.
Quello in esame è, comunque, un istituto “eccezionale”, cui può ricorrersi soltanto quando i profili fattuali non siano controversi o siano stati già accertati ed emergano “gravi difficoltà interpretative”, che – di regola – possono verificarsi quando vi è un contrasto nella giurisprudenza di merito o, per quanto in specie attiene all’ambito tributario, fra la giurisprudenza di merito e la consolidata prassi amministrativa: tant’è vero che il giudice remittente deve specificamente indicare le “diverse interpretazioni possibili”.
Non solo, occorre anche che la questione sia “suscettibile di porsi in numerosi giudizi”, di modo che il giudice, al cospetto di una quaestio iuris complessa ma presumibilmente non ricorrente, è tenuto a deciderla.
Parimenti, il rinvio pregiudiziale non è ammesso laddove esista anche un solo precedente della Cassazione sulla questione giuridica sollevata: ne discende che questo istituto non può impiegarsi per invocare la revisione dell’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, non condivisa dal giudice di merito.
In ogni caso, non v’è da dubitare che il Primo Presidente della Cassazione eserciterà un adeguato “filtro” delle questioni oggetto di rinvio pregiudiziale, come previsto dall’art. 363-bis, comma 3, sanzionando come inammissibili quelle che non rispettino le condizioni enunciate dal precedente comma 1.
Da un altro punto di vista, non mi pare che si possa addurre l’eventuale scarso ricorso all’istituto per criticarne l’introduzione. Se la Cassazione risolvesse anche poche questioni giuridiche controverse in materia tributaria, l’innovazione avrebbe comunque conseguito un effetto decisamente positivo, concorrendo a rafforzare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici in una materia di così significativa rilevanza economica e sociale qual è quella tributaria, evitando i relativi contenziosi e consentendo risparmi di denari e risorse sia per gli Enti impositori che per i privati. Ciò, essenzialmente, in ragione della ricordata spiccata serialità delle cause fiscali.
Insomma, va espresso il fermo auspicio che le Sezioni Unite confermino l’operatività del rinvio pregiudiziale nel processo tributario e ne riconoscano altresì l’applicabilità alle questioni di giurisdizione.
Ne risulterà valorizzata la funzione nomofilattica, consentendone una maggiore tempestività – grazie anche al celere procedimento disciplinato dall’art. 363-bis, comma 3[13] – e quindi una più significativa incidenza, da cui potrà discendere la riduzione del contenzioso di merito e anche di quello (decisamente eccessivo) pendente dinanzi alla Suprema Corte[14].
Attualmente, possono occorrere vari anni perché le cause fiscali vengano decise dal giudice di legittimità e si formino quindi gli indirizzi interpretativi suscettibili di orientare le condotte degli Enti impositori e dei contribuenti, nonché le decisioni dei giudici di merito.
Il ritardo con cui si pronuncia la Cassazione si riverbera così sul processo di merito, finendo per incentivarne l’introduzione o la prosecuzione.
L’enunciazione del principio di diritto a seguito del rinvio pregiudiziale potrà, pertanto, assolvere un utile ruolo deflattivo sul contenzioso tributario, forse consentendo anche di evitare il troppo frequente ricorso a misure normative di definizione agevolata delle liti tributarie pendenti cui abbiamo assistito negli ultimi anni.
[1] L’art. 363-bis è stato inserito nel c.p.c. dal D.L.vo n. 149/2022.
[2] In tal senso, v. L. Salvato, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso nell’interesse della legge, in Giustizia Insieme, 19 luglio 2021, par. 4. Con ogni probabilità, l’intento del disegno di legge n. 2636, nel prospettare una norma ad hoc sull’iniziativa del Procuratore Generale per conseguire il principio di diritto in materia tributaria, era quello di favorirne e incrementarne la concreta operatività. Comunque, ben ha fatto il legislatore a non ratificare sul punto il disegno di legge. Difatti, sarebbero risultate innovate rispetto all’art. 363 le condizioni di ammissibilità del cosiddetto “ricorso nell’interesse della legge” e ciò avrebbe creato una discutibile disparità di regime fra la materia civile e quella tributaria.
[3] Cfr., in particolare, C. Glendi, Rinvio pregiudiziale nel processo tributario? Antinomie ai vertici, da risolvere presto e bene, in Dir. prat. trib., n. 6/2022, pp. 2196 ss.
[4] Analogamente, v. R. D’Angiolella, Riflessioni sulla riforma del processo tributario in Cassazione. La nuova Sezione Tributaria della Cassazione, la pace fiscale ed il rinvio pregiudiziale, in Giustizia Insieme, 15 dicembre 2022, par. 3. Così si è espresso, seppure in termini dubitativi, anche l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Cassazione nella relazione n. 96 del 6 ottobre 2022.
[5] Disciplinata dall’art. 3 del D.L.vo n. 23/2011, secondo cui il locatore dell’immobile ad uso abitativo può optare, in luogo dell’ordinario regime impositivo, per un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali e delle imposte di registro e di bollo sul contratto di locazione.
[6] V., per tutte, Comm. Trib. Reg. Toscana, sez. 1, 13 giugno 2022, n. 791 (per la tesi contraria all’operatività del regime della “cedolare secca” nel caso descritto nel testo) e Corte Giust. Trib. II grado Veneto, sez. 5, 16 gennaio 2023, n. 53 (per l’impostazione opposta).
[7] V. Cass., sez. trib., 29 maggio 2023, n. 14975.
[8] V. Cass., sez. trib., 8 febbraio 2023, n. 3784.
[9] Nello stesso senso, v. E. Manzon, La Cassazione civile-tributaria alla sfida del PNRR, in sintesi ed in prospettiva, in Giustizia Insieme, 23 novembre 2022, par. 3, nonché R. D’Angiolella, Riflessioni sulla riforma del processo tributario, cit., par. 3.
[10] V., ad esempio, Cass., sez. un., 9 gennaio 2020, n. 156.
[11] Di contrario avviso è G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, in Giustizia Insieme, 5 luglio 2021, par. 8, che evidenzia come “giudice del merito e giudice del rinvio non possono essere messi sullo stesso piano, poiché mentre il giudice del rinvio opera quale giudice che completa, in fase rescissoria, la stessa impugnazione rescindente affidata alla Corte di cassazione, il giudice del merito non ha questo legame con la cassazione, non è giudice dell’impugnazione, ed opera in un processo che è aperto a tutte le novità che non siano già precluse dallo stato di avanzamento del processo stesso”. Sebbene sia fuor di dubbio la diversità delle funzioni assolte del giudice nei due casi in esame, sembra del tutto ragionevole che il principio di diritto enunciato dalla Cassazione sia sempre vincolante perché, nella prima ipotesi, discende dal naturale svolgimento dell’impugnazione per cassazione della sentenza e dalla separazione fra la fase rescindente e quella rescissoria e, nell’altra, dalla responsabilità che il giudice di merito assume, in piena libertà e in spirito di cooperazione con la Corte Suprema, quando ritiene di rivolgersi a quest’ultima per risolvere una quaestio iuris.
[12] Cfr. G. Scarselli, I punti salienti dell’attuazione della riforma del processo civile di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, in Giustizia Insieme, 15 novembre 2022, par. 6.
[13] Secondo l’art. 363-bis, comma 3, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, ricevuta l’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale e ravvisate le condizioni di ammissibilità dettate dal precedente comma 1, “entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l’enunciazione del principio di diritto”.
[14] Pure E. Manzon, La Cassazione civile-tributaria alla sfida del PNRR, cit., par. 3 si esprime in termini analoghi. Meno ottimistiche, invece, sono le previsioni di successo del rinvio pregiudiziale espresse da R. D’Angiolella, Riflessioni sulla riforma del processo tributario, cit., par. 3. Sull’argomento, v. anche A.-M. Perrino, Il giudizio di legittimità in materia tributaria, in AA.VV., Il giudizio tributario, a cura di C. Consolo, G. Melis, A.-M. Perrino, Milano, 2022, pp. 544 ss., secondo cui – a seguito dell’introduzione del rinvio pregiudiziale (della cui operatività in materia tributaria, peraltro, l’Autrice non dubita) – prevalgono le considerazioni negative rispetto a quelle positive.
Sommario: 1. L’integrazione tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale e il rapporto tra gli artt. 10 e 117 Cost. – 2. L’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa. – 3. L’efficacia generale per il diritto nazionale dei principi affermati nelle “sentenze-pilota” della Corte EDU. – 4. Il “Caso Contrada contro Italia” e l’efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa. – 4.1. L’inapplicabilità dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia” al di fuori degli obblighi di cui all’art. 46 CEDU e la “Sentenza Genco”. – 5. Il “Caso Scoppola contro Italia” e l’efficacia generale per il diritto nazionale delle “sentenze-pilota” della Corte EDU. – 6. Il tertium genus: l’interpretazione adeguatrice, il dialogo tra la CEDU e la Corte di cassazione in materia di tutela dei diritti dei detenuti e la “Sentenza Commisso”. – 7. Le decisioni della CEDU e il ruolo di supporto ermeneutico svolto dalla Corte costituzionale: la costituzione di un sistema normativo integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone.
1. L’integrazione tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale e il rapporto tra gli artt. 10 e 117 Cost.
Per affrontare i problemi ermeneutici oggetto del mio intervento, occorre muovere dalle previsioni costituzionali degli artt. 10 e 117 Cost., che si pongono in stretta correlazione tra loro, la cui portata sistematica, in conseguenza dei rapporti sempre più intensi tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, ha assunto una crescente importanza nel sistema costituzionale, assumendo connotazioni assolutamente pregnanti.
Di queste peculiari connotazioni sistematiche ci si occuperà nel corso di questo intervento, che si concentrerà soprattutto sull’influenza che l’applicazione di tali disposizioni costituzionali comporta nei rapporti tra la Convenzione EDU e il sistema penale italiano, i cui sviluppi sono fortemente caratterizzati dalle correlazioni ermeneutiche esistenti tra le norme convenzionali e gli artt. 10 e 117 Cost., che sono stati chiariti da alcuni mirabili decisioni della Corte costituzionali, su cui ci si soffermerà nella parte conclusiva di questa relazione[1].
Com’è noto, la Convenzione EDU è un trattato internazionale, sottoscritto in seno al Consiglio d’Europa, a Roma, il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, che mira a tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali nei paesi che compongono il Consiglio d’Europa, una parte dei quali sono membri dell’Unione Europea. Per raggiungere questi obiettivi la Convenzione ha istituito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, volta a tutelare la persona dalla violazione dei diritti umani.
In questa cornice, occorre richiamare preliminarmente la disciplina dell’art. 10 Cost., dalla quale deriva la necessità di adeguare l’ordinamento giuridico interno all’ordinamento sovranazionale, che, nella materia penale, assume un rilievo decisivo nel regolamentare i rapporti tra il sistema nazionale italiano e quello prefigurato dalla Convenzione EDU.
Dispone, in particolare, il primo comma dell’art. 10 Cost., che è la norma di cui ci si occuperà nel prosieguo dell’esposizione: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Tale disposizione si integra con il secondo comma della stessa norma, a tenore della quale: «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali».
A tale previsione, quindi, si collega il terzo comma dell’art. 10 Cost., secondo cui: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Infine, la disposizione dell’art. 10 Cost. si completa con la previsione contenuta nel suo quarto comma, che recita: «Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici».
Come si è evidenziato in apertura di questo paragrafo, per ricostruire il sistema integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone realizzato nel nostro ordinamento, la norma costituzionale dell’art. 10 Cost., nei quattro commi che la compongono, deve essere correlata alla previsione dell’art. 117 Cost., del quale, ai presenti fini, assumono rilievo solo il primo e il terzo comma di tale disposizione.
Della norma costituzionale dell’art. 117 Cost., innanzitutto, occorre richiamare, nella sua interezza, il primo comma, che recita: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
La disposizione del primo comma dell’art. 117 Cost., a sua volta, deve essere correlata al terzo comma della stessa norma, laddove afferma che sono sono materie di legislazione concorrente quelle relative a «rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni […]».
2. L’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa
Dopo esserci soffermati brevemente sulla rilevanza sistematica dell’art. 10 Cost., occorre affrontare la questione dell’obbligo del giudice italiano di conformarsi alle decisioni della Corte EDU previsto dall’art. 46 CEDU, che è collegata al tema dell’applicazione dei principi affermati dalle pronunzie sovranazionali nel diritto interno.
Alla prima questione, che sarà esaminata in questo paragrafo, relativa alla sussistenza di un obbligo dei giudici italiani di conformarsi alle decisioni della Corte EDU, relativamente alla vicenda processuale oggetto di vaglio, occorre fornire risposta positiva.
Occorre, innanzitutto, evidenziare che costituisce dato ermeneutico ormai definitivamente consolidato[2] quello dell’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU, nonostante a tali disposizioni non possa direttamente riconoscersi rango costituzionale, come è stato, più volte, ribadito dalla Corte costituzionale[3].
Sul piano applicativo, l’efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è garantita dalla previsione dell’art. 19 del testo convenzionale che prevede l’istituzione della Corte EDU, allo scopo di «assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli […]», riconoscendo a tale organo sovranazionale una competenza estesa a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della predetta normativa.
In questo contesto sistematico, si inserisce la previsione dell’art. 46 CEDU, secondo il cui primo paragrafo le «Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti».
La stessa disposizione precisa, nel suo secondo paragrafo, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione».
L’obbligo del giudice italiano di conformarsi alle sentenze della Corte EDU limitatamente al caso controverso, è ulteriormente ribadito dal terzo paragrafo dell’art. 46 CEDU, a tenore del quale se «il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione […]».
Né il singolo Stato membro può sottrarsi ai doveri di conformazione, atteso quanto espressamente previsto dal quarto paragrafo dell’art. 46 CEDU, secondo cui laddove «un’Alta Parte contraente rifiuti di attenersi ad una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte, esso può, dopo aver messo in mora questa Parte […], investire la Corte della questione dell’osservanza di questa Parte degli obblighi relativi al paragrafo 1».
L’obbligo previsto dall’art. 46 CEDU, dunque, non può essere messo in discussione e ogni opzione ermeneutica di segno contrario non può essere in alcun modo condivisa.
Tale assunto, infatti, presuppone un margine di discrezionalità nell’esecuzione delle decisioni della Corte EDU che – limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi, per i quali occorre verificare se la pronunzia sovranazionale possa ritenersi una “sentenza-pilota”[4] – non può essere riconosciuto al giudice nazionale per effetto della previsione dell’art. 46 CEDU.
Basti, in proposito, richiamare ulteriormente l’orientamento ermeneutico[5] secondo cui le decisioni della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle parti in causa, con la conseguenza che lo Stato è tenuto a conformarsi a tali pronunzie e a eliminare, fin dove è possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata.
Ne deriva che la previsione dell’art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice italiano, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato.
Ne discende, ulteriormente, che, a norma dell’art. 46 CEDU, gli Stati membri si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte EDU nelle controversie nelle quali sono coinvolte, la cui osservanza e affidata al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, al quale è assegnato il compito di vigilare sull’esecuzione delle pronunzie sovranazionali. Da questo obbligo di conformazione discende che lo Stato convenuto ha il dovere di adottare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure, generali e individuali, indispensabili per porre fine alla violazione di norme convenzionali, eliminandone le conseguenze e scongiurando ulteriori pregiudizi dei diritti umani.
3. L’efficacia generale per il diritto nazionale dei principi affermati nelle “sentenze-pilota” della Corte EDU
Sgomberato il campo da ogni possibile equivoco in ordine all’efficacia precettiva delle norme CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, e chiarito quali effetti vincolanti discendano, per l’ordinamento interno, in relazione allo specifico caso esaminato, dalle decisioni con cui lo Stato italiano viene condannato per la violazione di norme convenzionali, occorre affrontare l’ulteriore questione, concernente l’applicazione dei principi affermati dalle pronunzie sovranazionali nel diritto interno.
In questa cornice, occorre affrontare la questione, correlata a quella esaminata nel paragrafo precedente, della rilevanza che nell’ordinamento giuridico italiano assumono, anche in deroga a eventuali giudicati, le violazioni accertate dalla Corte EDU, riguardanti le norme del testo convenzionale.
Per inquadrare tale questione, occorre richiamare ulteriormente l’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, dal quale discende che lo Stato convenuto, ferma restando l’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa, ha il dovere giuridico di adottare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure, generali e individuali, indispensabili per porre fine alla violazione di norme convenzionali, eliminandone le conseguenze e scongiurando ulteriori pregiudizi.
Pertanto, quando la Corte EDU, alla quale è affidato il compito istituzionale di interpretare e applicare il Testo convenzionale, ai sensi dell’art. 32 CEDU, accerta la commissione di violazioni dei diritti umani connesse a disfunzioni, sistematiche o strutturali, dell’ordinamento nazionale, attiva un meccanismo procedurale che – mediante le “sentenze-pilota” – si propone di aiutare gli Stati membri a risolvere a livello interno le discrasie normative rilevate. Attraverso questo meccanismo nomofilattico, la Corte EDU riconosce alle persone interessate, che versano nella stessa condizione del soggetto il cui caso è stato risolto positivamente, la tutela degli stessi diritti umani e delle stesse libertà convenzionali, in linea con quanto affermato dall’art. 1 CEDU, offrendo la soluzione applicativa più efficiente e alleggerendo, al contempo, il carico della Corte di Strasburgo, che, diversamente, si troverebbe costretta a esaminare inutilmente ricorsi con un contenuto similare o addirittura processualmente sovrapponibile[6].
Si impone, a questo punto, una precisazione, evidenziando che la giurisprudenza della CEDU, originariamente indirizzata alla risoluzione di controversie specifiche, relative a casi concreti, si è andata sempre più caratterizzando, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, per la valorizzazione di una funzione paracostituzionale – o, meglio, costituzionale sovranazionale – di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto oggettivo. Di questa, inarrestabile, evoluzione sistematica costituiscono una dimostrazione esemplare i rapporti tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, modellato attorno alla Convenzione EDU., in materia di diritto penitenziario, dalla quale è derivata la costituzione di un vero e proprio sistema integrato, finalizzato alla tutela dei diritti dei detenuti garantita dall’art. 3 del Testo convenzionale, che, com’è noto, recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»[7].
Infatti, sempre più frequentemente, le pronunzie della CEDU, nel rilevare la contrarietà alle norme convenzionali di situazioni interne di portata generale, forniscono allo Stato responsabile della violazione, attraverso lo strumento delle “sentenze-pilota”, indicazioni sui rimedi da adottare per rimuovere la disfunzione sistematica rilevata nel proprio ordinamento interno. Lo strumento delle “sentenze-pilota”, peraltro, dapprima affidata alla prassi, in difetto di un’esplicita piattaforma normativa, è stata definitivamente formalizzata nel regolamento di procedura della CEDU, che, dopo essere stato emendato, è entrato in vigore il 10 aprile 2011.
L’effettività dell’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, inoltre, è stata accresciuta, sul piano convenzionale, dall’approvazione del Protocollo n. 14 della Corte EDU, reso esecutivo con la legge 15 dicembre 2005, n. 280, che, novellando l’art. 46 del Testo convenzionale, ha introdotto una procedura di infrazione, che giurisdizionalizza il meccanismo di controllo sull’attuazione delle decisioni sovranazionali, attivabile anche nel caso di inosservanza di una “sentenza-pilota”.
Si consideri, infine, che la necessità degli ordinamenti interni di assicurare, anche a prescindere da un intervento della Corte di Strasburgo sul caso concreto, il rispetto degli obblighi convenzionali, così come prefigurati dalla Convenzione EDU, allo scopo di porre fine a persistenti violazioni, prevenendo ulteriori trasgressioni, pone delicati problemi giuridici sulla tenuta di situazioni già definite con sentenze passate in giudicato, ma in palese contrasto con i diritti fondamentali tutelati convenzionalmente.
4. Il “Caso Contrada contro Italia” e l’efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa
Nella cornice ermeneutica che si è descritta nei paragrafi precedenti, occorre passare in rassegna un’ipotesi esemplare di efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa, rappresentata dalla sentenza con cui veniva concluso nel nostro ordinamento il “Caso Contrada contro Italia”.
Il “Caso Contrada contro Italia”, ai presenti fini, traeva origine, dal passaggio in giudicato della sentenza emessa il 25 febbraio 2006, con cui la Corte di appello di Palermo confermava la decisione del Tribunale di Palermo del Tribunale di Palermo, deliberata il 5 aprile 1996, con cui Bruno Contrada era stato condannato alla pena di dieci anni di reclusione per il reato di cui agli artt. 110, 416 e 416-bis cod. pen. Il passaggio in giudicato, in particolare, derivava dalla sentenza emessa dalla Corte di cassazione il 10 maggio 2007, con la quale il ricorso proposto dall’imputato veniva rigettato.
Dopo il passaggio in giudicato della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, Contrada adiva la Corte EDU, dando origine al ricorso che si concludeva con la decisione emessa il 14 aprile 2015[8], della cui rilevanza nell’ordinamento italiano si controverte in questa sede.
La Corte EDU, in particolare, condannava lo Stato italiano per violazione dell’art. 7 CEDU, ritenendo che la fattispecie del concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso fosse chiara e prevedibile solo a partire dal 1994 – ovvero dal momento in cui interveniva la prima delle sentenze chiarificatrici deliberate delle Sezioni Unite in questo contesto ermeneutico[9] – riconoscendo, per il periodo successivo, la corretta configurazione dell’istituto in questione, così come elaborata dalle Sezioni Unite[10].
In particolare, la Corte EDU censurava la condanna emessa nei confronti di Contrada esclusivamente sotto il profilo della conoscibilità temporale del reato per il quale l’imputato era stato condannato, osservando, nel paragrafo 72 della sentenza, che la Corte di appello di Palermo «pronunciandosi sull’applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze Demitry […], Carnevale […], Mannino […], tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente»[11].
Dopo la decisione della Corte EDU, da ultimo richiamata, Bruno Contrada proponeva un incidente di esecuzione dinanzi alla Corte di appello di Palermo, che si concludeva con l’ordinanza emessa l’11 ottobre 2016, avverso la quale veniva proposto ricorso per cassazione, che, a sua volta, veniva deciso dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione il 6 luglio 2017. Con tale ultima pronunzia veniva dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti del ricorrente dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007.
Occorre, a questo punto, precisare che davanti alla Corte di cassazione, investita della decisione sull’incidente di esecuzione proposto da Contrada dopo la pronunzia della Corte EDU, veniva posta una questione centrale, riguardante la verifica del rispetto da parte del giudice dell’esecuzione – rappresentato, in quel caso, dalla Corte di appello di Palermo – dell’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU.
A tale quesito ermeneutico la Corte di cassazione forniva una risposta negativa[12].
Quanto agli strumenti processuali con cui dare esecuzione all’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, la Corte di legittimità, citando la giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite[13], li individuava negli ampi poteri di intervento sul giudicato penale, che venivano riconosciuti al giudice dell’esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen.
Si evidenziava, in proposito, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 9 della decisione in esame, che l’ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva trovava il proprio fondamento nei poteri di cui agli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., che erano stati riconosciuti dalla Corte costituzionale nella sentenza 18 luglio 2013, n. 210[14], secondo cui il giudice dell’esecuzione «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso […]»[15].
Questa opzione ermeneutica, del resto, era già stata recepita nell’intervento delle Sezioni Unite, da ultimo richiamato, in cui si era affermato che al giudice dell’esecuzione deve essere riconosciuto un ampio potere di intervento sul giudicato, atteso che lo strumento previsto dall’art. 670 cod. proc. pen. è un mezzo per far valere tutte le questioni relative all’esecutività e all’eseguibilità del titolo[16].
Sulla scorta di tale percorso argomentativo, la Corte di cassazione annullava senza rinvio l’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Palermo l’11 ottobre 2016 e dichiarava ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007.
4.1. L’inapplicabilità dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia” al di fuori degli obblighi di cui all’art. 46 CEDU e la “Sentenza Genco”
Dopo la decisione della Corte di cassazione esaminata nel paragrafo precedente, si è posto, fin da subito, il problema dell’applicazione dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia”, sul piano della configurazione del concorso esterno in associazione mafiosa, al di fuori degli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU.
Per risolvere tale questione occorre muovere dalla definizione di fattispecie di “creazione giurisprudenziale” del concorso esterno in associazione mafiosa, utilizzata dalla Corte EDU nel paragrafo 57 della decisione in argomento, in cui si evidenziava che «il concorso esterno in associazione di tipo mafioso è una creazione della giurisprudenza avviata in decisioni che risalgono alla fine degli anni ottanta, ossia posteriore ai fatti per i quali il ricorrente è stato condannato e che si è consolidata con la sentenza della Corte di cassazione Demitry […]»[17].
Deve, in proposito, rilevarsi che, fermi restando gli obblighi di conformazione previsti di cui si è già detto, l’affermazione della Corte EDU si pone in termini alquanto problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “creazione giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e di tassatività.
Questi profili di problematicità appaiono ulteriormente accentuati dal fatto che il modello di punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa prefigurato dalle Sezioni Unite[18], più volte, anche se non del tutto propriamente, richiamato dalla Corte EDU, non consente alcun equivoco interpretativo sulle ragioni che legittimano nel nostro ordinamento l’applicazione dell’istituto concorsuale alla fattispecie prevista dall’art. 416-bis cod. pen.
Si consideri che le Sezioni Unite[19] non hanno dato vita a una nuova fattispecie incriminatrice, ma si sono limitate a fornire una ricostruzione sistematica armonica con il nostro ordinamento, ribadendo che la responsabilità penale per il contributo fornito dal concorrente esterno a un’associazione mafiosa trae origine dalla sua consapevolezza di contribuire con il suo apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui il soggetto attivo del reato conosce gli obiettivi generali e la struttura consortile, pur senza aderirvi. Ne consegue che, attraverso la clausola prevista dell’art. 110 cod. pen., si attribuisce alle fattispecie associative una responsabilità di carattere generale per l’apporto concorsuale che l’agente fornisce al gruppo criminale, senza esserne affiliato e nella consapevolezza di tale estraneità.
Ne discende che, ferma restando l’assenza di discrezionalità del giudice dell’esecuzione nel conformarsi alle decisioni della Corte EDU imposta dalla Convenzione CEDU per le parti in causa, tali richiami, come detto impropri, non possono essere utilizzati – quantomeno in una prospettiva de jure condito – e non risultano esportabili nell’ordinamento italiano, il quale non contempla la possibilità di fattispecie di “creazione giurisprudenziale”.
A conferma di quanto si sta affermando, si ritiene utile richiamare il passaggio della decisione di legittimità, esaminata nel paragrafo 4, in cui si affermava che «il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici […]»[20].
Deve, infine, rilevarsi che l’orientamento ermeneutico consolidatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità[21], che escludeva l’estensibilità dei principi affermati dalla Corte EDU nella decisione del “Caso Contrada contro Italia”, veniva definitivamente ribadito dalle Sezioni Unite, che evidenziavano come le statuizioni contenute in tale pronuncia non potevano essere estese a casi analoghi a quelli esaminati dalla Corte sovranazionale[22].
Le Sezioni Unite, in particolare, chiamate a verificare la possibilità di estendere i principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada”, risolvevano negativamente il quesito sottoposto al suo vaglio, affermando il seguente principio di diritto: «In tema di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, i principi enunciati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono a coloro che, pur trovandosi nella medesima posizione, non abbiano proposto ricorso in sede europea, in quanto la richiamata decisione del giudice sovranazionale non è una sentenza pilota e non può neppure ritenersi espressione di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea»[23].
5. Il “Caso Scoppola contro Italia” e l’efficacia generale per il diritto nazionale delle “sentenze-pilota” della Corte EDU
Il sistema normativo integrato che si sta considerando, sul piano dei principi generali, ha subito un impulso decisivo con la sentenza pronunziata dalla CEDU nel “Caso Scoppola contro Italia” del 17 settembre 2009, che interveniva in materia di conversione della pena dell’ergastolo in quella di trent’anni di reclusione[24].
Questa pronunzia, infatti, presenta i connotati tipici di una “sentenza-pilota”, atteso che la Corte EDU, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenziava l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di una discrasia normativa dovuta alla difformità rispetto alle norme convenzionali dell’art. 7 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4.
In questo contesto, la Corte EDU evidenziava che, in forza dell’art. 46 CEDU, gli Stati membri si impegnano a rispettare le sentenze definitive della Corte di Strasburgo nelle ipotesi in cui sono direttamente coinvolte. Ne consegue che, come evidenziato dalle Sezioni Unite penali, chiamate a pronunciarsi sull’estensibilità dei principi affermati nella decisione del “Caso Scoppola contro Italia”, una pronunzia nella quale la Corte EDU ha individuato una violazione delle norme convenzionali impone allo Stato membro resistente di individuare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, le misure, generali e individuali, da adottare nell’ordinamento giuridico interno, per «porre fine alla violazione accertata dalla Corte e per eliminare per quanto possibile gli effetti […]»[25].
Ne deriva ulteriormente che eventuali effetti sistematici, perduranti nel tempo dell’accertata violazione, determinati da un’illegittima applicazione di una norma del diritto interno, laddove interpretata in senso non convenzionalmente conforme, devono essere immediatamente rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso davanti alla Corte EDU, si trovano in una situazione identica – ovvero processualmente sovrapponibile – a quella oggetto della decisione adottata dal Giudice strasburghese nel “Caso Scoppola contro Italia”.
Occorre, a questo punto, precisare che l’intervento della Corte EDU nel “Caso Scoppola contro Italia” era giustificato dal fatto che, nel caso in esame, si erano succedute tre diverse disposizioni, che, in materia di accesso al giudizio abbreviato per gli imputati di delitti punibili con la pena dell’ergastolo, avevano dato vita a un sistema normativo stratificato.
Ci si riferisce, innanzitutto, all’art. 30, comma 1, lett. b), della legge 16 dicembre 1999, n. 479, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, che, novellando l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., introduceva, nelle ipotesi di giudizio abbreviato, la previsione della sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione di trent’anni.
Ci si riferisce, inoltre, all’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, che, in via di interpretazione autentica, stabiliva: «Nell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno»; aggiungendo, in chiusura del comma 2, il periodo: «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
Ci si riferisce, infine, all’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, così come sostituito in sede di conversione, che, in via transitoria, consentiva ai soggetti che avevano formulato istanza di giudizio abbreviato nella vigenza della legge n. 479 del 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2020, di revocare «la richiesta nel termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore […]» dello stesso decreto-legge, che scadeva il 28 dicembre 2020.
In questo, stratificato, quadro normativo, la Corte EDU, escludeva il carattere di norma interpretativa dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 e riteneva che gli imputati che erano stato ammessi al rito abbreviato nel vigore dell’art. 30, comma 1, lett. b), della legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell’art. 7 CEDU, di vedersi inflitta la pena di trent’anni di reclusione – più mite rispetto alla pena dell’ergastolo quella prevista dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., novellato dal decreto-legge n. 341 del 2000 –, prevista dalla stessa legge n. 479, fino a quando tale normativa era stata vigente.
In altri termini, la Corte EDU, censurando il meccanismo processuale con il quale si attribuiva efficacia retroattiva all’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 – che veniva qualificato come norma d’interpretazione autentica dal testo dell’art. 442 cod. proc. pen., così come novellato dalla legge n. 479 del 1999 – enunciava, in linea di principio, una regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, era astrattamente applicabile a tutte le fattispecie identiche a quella esaminata[26].
Ne discende conclusivamente che, per effetto della decisione della Corte EDU nel “Caso Scoppola contro Italia”, che, come detto costituisce una “sentenza-pilota”, la conversione della pena dell’ergastolo in quella di trent’anni di reclusione – conseguente alle modifiche dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., che si sono richiamate – veniva ammessa quando il rito abbreviato era stato chiesto e ammesso nell’arco temporale compreso tra il 2 gennaio 2000 e il 24 novembre 2000, nella vigenza dell’art. 30, comma 1, lett. b), della legge n. 479 del 1999, prima della sua modifica da parte dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000[27].
6. Il tertium genus: l’interpretazione adeguatrice, il dialogo tra la CEDU e la Corte di cassazione in materia di tutela dei diritti dei detenuti e la “Sentenza Commisso”
Occorre, a questo punto, introdurre un ulteriore elemento di riflessione, evidenziando che, negli ultimi anni, la giurisprudenza di legittimità ha rappresentato il terminale insostituibile del dialogo tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale in materia di tutela dei diritti dei detenuti, intervenendo con alcune importanti pronunzie in tema di trattamenti inumani e degradanti, sanzionati ex art. 3 CEDU. L’ultima di queste pronunzie è rappresentata dalla sentenza delle Sezioni Unite penali pronunciata nel “Caso Commisso”[28], che costituisce, almeno a fino a questo momento, la punta più avanzata di questo complesso confronto ermeneutico.
Con la pronuncia in esame le Sezioni Unite penali intervenivano sul tema del trattamento penitenziario inumano o degradante, inquadrato nell’art. 3 CEDU, che, in termini generali, deve essere definito alla luce della giurisprudenza sovranazionale consolidatasi sulla base delle decisioni del “Caso Torreggiani contro Italia”[29] e del “Caso Mursic contro Croazia”[30]. Queste pronunzie, a loro volta, si inserivano in un più ampio contesto ermeneutico, la cui elaborazione consentiva di individuare i parametri necessari per ritenere il trattamento penitenziario patito dal detenuto rispettoso dei canoni di umanità stabiliti dall’art. 3 CEDU[31].
Le Sezioni Unite penali, in particolare, chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto sui criteri ai quali attenersi per determinare lo spazio minimo individuale di cui deve potere usufruire il detenuto nelle ipotesi di allocazione con più soggetti all’interno di una stessa cella, affermavano che, ferma restando la misura di tre metri quadrati, per la relativa valutazione si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento dei soggetti ristretti, indispensabile per garantire un trattamento penitenziario rispettoso dei parametri umanitari stabiliti dall’art. 3 CEDU[32].
Ne discende che, nella determinazione di tale spazio minimo individuale, allo scopo di garantire al detenuto un trattamento penitenziario rispettoso dei canoni di umanità della pena, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento del detenuto, con la conseguenza di dovere detrarre da tale computo gli arredi tendenzialmente fissi al suolo della cella.
Occorre, al contempo, fare integrativamente riferimento al complesso dei fattori, positivi e negativi, che connotano l’offerta trattamentale censurata dal detenuto con il rimedio previsto dall’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), tenendo conto della necessità di garantire, per quanto possibile, una condizione di vivibilità carceraria dignitosa del detenuto, nel rispetto dei parametri affermati dall’art. 3 CEDU.
Ne deriva ulteriormente che il riconoscimento di trattamenti disumani e degradanti, rilevanti ex art. 3 CEDU, laddove sollecitato con il rimedio giurisdizionale previsto dall’art. 35-ter Ord. pen., costituisce la conseguenza di una valutazione multifattoriale dell’offerta trattamentale proposta al singolo detenuto. Di conseguenza, nel caso di restrizione del condannato in una cella collettiva in cui lo spazio è superiore a tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati, occorre tenere necessariamente conto di tutti i fattori idonei a qualificare le condizioni di detenzione e funzionali a esprimere un giudizio positivo o negativo sul trattamento carcerario patito[33].
In questa cornice, deve osservarsi che, su questo tema, i rapporti tra la giurisprudenza nazionale e quella strasburghese costituiscono una rappresentazione esemplare del sistema stratificato di fonti normative, che discende dall’inserimento del nostro Paese nella comunità sovranazionale e che in materia di diritto penitenziario assume connotazioni peculiari. Questa stratificazione assume un rilievo peculiare nella materia della tutela dei diritti del detenuto, rilevanti ex art. 3 CEDU, che è la conseguenza dell’impianto dogmatico “flessibile” del diritto penitenziario[34] – collocato in un ambito sistematico ancipite, che lambisce sia le scienze criminali sia il diritto amministrativo –, che lo rende, probabilmente meno lineare sul piano dei principi, ma certamente più adattabile alla soddisfazione delle istanze di garanzia provenienti da aree del continente, geografiche e culturali, molto diverse.
Sotto questo aspetto, tra i molteplici profili di interesse che la “Sentenza Commisso” presenta, nell’ottica del riferimento ai parametri giurisprudenziali europei e nel più ampio contesto del dialogo tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, non può non rilevarsi che la decisione di legittimità che si commenta rappresenta uno sforzo, riuscito, di coniugare le istanze di garanzia dei diritti del detenuto provenienti dalla Corte EDU con la situazione di grave sovraffollamento che il sistema penitenziario italiano presenta[35].
Tali questioni ermeneutiche, nel nostro ordinamento giuridico, sono state eminentemente affrontate in relazione all’applicazione del rimedio riparatorio previsto dall’art. 35-ter Ord. pen., su cui la giurisprudenza di legittimità si è confrontata a partire dalla decisione del “Caso Torreggiani contro Italia”, in alcuni interventi chiarificatori che costituiscono la piattaforma ermeneutica su cui la “Sentenza Commisso” si è innestata[36].
Le Sezioni Unite penali, dunque, si sono mosse su una base interpretativa già fortemente avvertita dei ripetuti richiami della CEDU, nella piena consapevolezza dell’imprescindibilità del dialogo ermeneutico tra i due organismi giurisdizionali nella materia penitenziaria, che costituisce una rappresentazione esemplare del sistema integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone di cui ci stiamo occupando.
Pertanto, nelle ipotesi in cui lo spazio individuale della cella sia inferiore alla misura di tre metri quadrati – misura che la CEDU non ritiene ex se sufficiente a garantire adeguati livelli di vivibilità carceraria –, si è confermato, anche alla luce della “Sentenza Commisso”, che ci si trova di fronte a un’elevata presunzione di violazione dei parametri dell’art. 3 CEDU, superabile solo attraverso l’accertamento di adeguati fattori compensativi. Questi fattori, a loro volta, devono essere valutati attraverso una verifica concreta, di natura multifattoriale, delle condizioni detentive patite dal soggetto ristretto all’interno dell’istituto penitenziario, su cui si devono incentrare le doglianze proposte ai sensi dell’art. 35-ter Ord. pen.
Si è ribadito, in questo modo, che le decisioni sovranazionali intervenute nel “Caso Torreggiani contro Italia” e nel “Caso Mursic contro Croazia”, nel cui solco si sono mosse le Sezioni Unite penali, rappresentano il punto di riferimento convenzionale indispensabile per inquadrare le ipotesi di trattamenti penitenziari degradanti, atteso che, prima di esse, la Corte EDU non aveva fornito indicazioni univoche per definire le violazioni dell’art. 3 CEDU, con specifico riferimento allo spazio minimo individuale di cui i detenuti devono usufruire durante la loro carcerazione.
A questi parametri ermeneutici, dunque, la giurisprudenza nazionale, ulteriormente ribadita con l’intervento della “Sentenza Commisso”, si è conformata, elaborando criteri articolati e correlando tali indici alle condizioni complessive di vivibilità della struttura penitenziaria di volta in volta esaminata, allo scopo di verificare la possibilità di applicare fattori compensativi che consentono di ritenere il trattamento penitenziario rispettoso della previsione dell’art. 3 CEDU[37].
7. Le decisioni della CEDU e il ruolo di supporto ermeneutico svolto dalla Corte costituzionale: la costituzione di un sistema normativo integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone
Nella cornice descritta nei paragrafi precedenti, infine, si ritiene utile esaminare l’impulso decisivo alla costituzione di un sistema integrato tra ordinamento nazionale e ordinamento sovranazionale fornito dalla Corte costituzionale, che è intervenuta ripetutamente sul tema dei rapporti tra le due fonti normative, dapprima, con le sentenze 3 luglio 2007, n. 348 e 3 luglio 2007, n. 349[38]; successivamente, con le sentenze 3 novembre 2009, n. 311 e 3 novembre 2009, n. 317[39]; infine, con le sentenze 25 gennaio 2011, n. 80 e 9 febbraio 2011, n. 113[40].
Attraverso queste pronunzie, che si sviluppavano lungo un arco pluriennale, la Corte costituzionale ha chiarito quali sono gli effetti prodotti dalle decisioni del giudice sovranazionale nel nostro ordinamento giuridico, affermando la maggiore resistenza delle norme della Corte EDU rispetto alle leggi ordinarie interne, che devono essere interpretate, laddove possibile, in modo conforme alle norme extranazionali, rispetto alle quali si pongono in una condizione ermeneutica recessiva.
Secondo la Corte costituzionale, di fronte a eventuali violazioni di norme convenzionali, oggettive e generali, censurate in sede sovranazionale, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU e l’assenza, nel caso concreto, di una decisione della Corte EDU alla quale dare esecuzione non possono essere di ostacolo a un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso i rimedi giurisdizionali ordinari[41].
L’intervento di adeguamento interno dell’ordinamento giuridico, quindi, è insostituibile, se necessario per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, per la quale è possibile sacrificare il valore della certezza del giudicato, che deve ritenersi recessivo rispetto a possibili pregiudizi di diritti fondamentali della persona.
La giurisprudenza costituzionale, dunque, a partire dalle richiamate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – che sono le prime a essere intervenute sul tema in questione –, ha costantemente affermato che le norme della Convenzione EDU, nel significato loro attribuito dalla Corte di Strasburgo, specificamente istituita per dare corretta applicazione a tali disposizioni, integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espressamente previsto dal combinato disposto degli artt. 10 e 117 Cost.; tale ultima disposizione, a sua volta, impone la conformazione della legislazione nazionale ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, rendendo evidente, sotto tale profilo, il percorso che deve essere seguito per dare concreta attuazione ai principi convenzionali nell’ordinamento giuridico italiano[42].
La Corte costituzionale ha anche chiarito che «l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. […]»[43]. Interpretata in questo modo, la norma dell’art. 117, primo comma, Cost. ha finto per «colmare la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.»[44].
In altri termini, nelle ipotesi di contrasto tra una norma interna e una norma convenzionale, afferente alla tutela dei diritti fondamentali della persona, contemplati dalla Convenzione EDU, il giudice nazionale deve verificare preventivamente la possibilità di un’interpretazione della disposizione interna conforme al sistema sovranazionale, ricorrendo a tutti gli strumenti ordinari di ermeneutica giuridica[45].
Pertanto, l’esito negativo di tale verifica preliminare e il contrasto non componibile in via interpretativa della vicenda giurisdizionale sottoposta al suo vaglio impongono al giudice ordinario di sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., attraverso un rinvio pregiudiziale.
Ne consegue che l’operatività della norma convenzionale, così come interpretata dalla Corte EDU, deve necessariamente passare attraverso una declaratoria di incostituzionalità della normativa interna di riferimento o, eventualmente, attraverso l’adozione di una sentenza interpretativa o additiva della Corte costituzionale.
* Questo intervento, con alcune integrazioni, costituisce la rielaborazione della relazione svolta l’1 febbraio 2023, nell’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci, dal 30 gennaio all’1 febbraio 2023, intitolato “Il ruolo della giurisprudenza e il principio di legalità”.
[1] Su questi temi si rinvia al successivo paragrafo 7.
[2] Si veda Cass. pen., Sez. I, 1 febbraio 2006, Dorigo, n. 2800, in Cass. C.E.D., n. 235447-01; sulla stessa linea interpretativa si colloca la più recente Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, in Cass. C.E.D., n. 273906-01.
[3] Si vedano C. cost., 12 gennaio 1993, n. 10; C. cost., 13 ottobre 1999, n. 388 del 1999.
[4] Si rinvia al successivo paragrafo 3.
[5] Si vedano Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.; Cass. pen., Sez. I, 1 febbraio 2006, Dorigo, n. 2800, cit.
[6] Si veda Corte EDU, G.C., 22 giugno 2004, Broniowski c. Polonia, n. 31443/96.
[7] In questa direzione ermeneutica, soprattutto, si vedano Corte EDU, G.C., 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, n. 7334/13; Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, n. 43517/09.
Su questi temi si rinvia al successivo paragrafo 5.1.
[8] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, n. 66655/13; su questa pronuncia si veda il commento di F. Palazzo, La sentenza “Contrada” e i cortocircuiti della legalità, in Dir. pen. proc., 2015, 9, pp. 1061 ss.
[9] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 5 ottobre 1994, Demitry, n. 16, in Cass. C.E.D., n. 199386-01; su questa sentenza si veda il commento di F.M. Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen., 1995, 4, pp. 842 ss.
[10] Si veda, soprattutto, Cass. pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33478, in Cass. C.E.D., n. 231671-01; per un commento a questa pronuncia si rinvia a P. Morosini, La difficile tipizzazione giurisprudenziale del “concorso esterno” in associazione, in Dir. pen. proc., 2006, 5, pp. 585 ss.
[11] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, cit.
[12] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[13] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014, Gatto, n. 42858, in Cass. C.E.D., n. 260700-01.
[14] Si veda C. cost. 18 luglio 2013, n. 210.
[15] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[16] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014, Gatto, cit.
[17] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, cit.
[18] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33478, cit.
[19] Ibidem.
[20] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[21] Nella stessa linea ermeneutica della sentenza Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit., in particolare, si collocano Cass. pen., Sez. I, 10 aprile 2019, Marino, 26686, in Cass. C.E.D., n. 273615-01; Cass. pen., Sez. I, 12 gennaio 2018, Esti, n. 8661, in Cass. C.E.D., n. 272797-01.
[22] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2020, Genco, n. 8544, in Cass. C.E.D., n. 278054-01.
[23] Ibidem.
[24] Si veda Corte EDU, G.C., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, n. 10249/03; per un commento a questa pronuncia si rinvia a F. Viganò, Una prima pronuncia delle Sezioni Unite sui “fratelli minori” di Scoppola: resta fermo l’ergastolo per chi abbia chiesto il rito abbreviato dopo il 24 novembre 2000, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10 settembre 2012, pp. 1 ss.
[25] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, Ercolano, n. 34472, in Cass. C.E.D., n. 252933-01; per un commento alla pronuncia in questione si rinvia a M. Gambardella-C. Musio, Ovverruling favorevole della Corte Europea e revoca del giudicato di condanna: a proposito dei casi analoghi alla sentenza “Scoppola”, in Cass. pen., 2012, 12, pp. 1125 ss.
[26] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, Ercolano, n. 34472, cit.
[27] Ibidem.
[28] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 21 settembre 2020, Commisso, n. 6551; su questa pronuncia si vedano i commenti di C. Cattaneo, Le Sezioni unite si pronunciano sui criteri di calcolo dello “spazio minimo disponibile’ per ciascun detenuto e sul ruolo dei fattori compensativi nell’escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, in www.sistemapenale.it, 23 marzo 2021, pp. 1 ss.; A. Centonze, Le Sezioni unite penali intervengono sui criteri di calcolo dello spazio individuale minimo del detenuto e sulla rilevanza dei fattori compensativi dell’offerta trattamentale, in IDV, 2021, 1, pp. 96 ss.
[29] Si veda Corte EDU, G.C., 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, cit.
[30] Si veda Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, n. 43517/09.
[31] Sul punto, si vedano Corte EDU, 20 ottobre 2020, Badulescu c. Portogallo, n. 33729/18; Corte EDU, 16 luglio 2019, Sulejmanovic c. Italia, n. 22635/03; Corte EDU, 15 luglio 2002, 21 Kalachnikov c. Russia, n. 47095/99; Corte EDU, G.C., 15 luglio 2002, Scadi c. Italia, n. 47095/99; Corte EDU, 21 febbraio 1975, Golder c. Regno Unito, n. 4451/70.
[32] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 21 settembre 2020, Commisso, n. 6551, cit.
[33] Ibidem.
[34] Sulla natura dogmatica “flessibile” del diritto penitenziario, si rinvia a F. Fiorentin, Il vaso di Pandora scoperchiato: la violazione dell’art. 3 CEDU per (mal)trattamenti detentivi tra accertamento “multifattoriale” e giurisprudenza europea. Appunti a margine della sentenza Corte EDU, 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, in Arch. Pen., n. 3/2015; F. Gianfilippi, La fase decisionale, in La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, a cura di F. Fiorentin, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 483 ss.; G. Giostra, Art. 35-ter ord. pen., in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di F. Della Casa e G. Giostra, CEDAM, Padova, VI ed., 2019, pp. 489 ss.
[35] Si veda A. Centonze, Le Sezioni unite penale intervengono sui criteri di calcolo dello spazio individuale minimo del detenuto e sulla rilevanza dei fattori compensativi dell’offerta trattamentale, cit., pp. 101-102.
[36] Sul punto, si vedano Cass. pen., Sez., Sez. I, 11 settembre 2020, Adinolfi, n. 30030, in Cass. C.E.D., n. 279793-01; Cass. pen., Sez. I, 23 giugno 2020, Biondino, n. 20985, in Cass. C.E.D., n. 279220-01; Cass. pen., Sez. I, 26 maggio 2017, Gobbi, n. 41211, in Cass. C.E.D.. n. 271087-01.
[37] Sul punto, si vedano Cass. pen., Sez. I, 9 settembre 2016, Sciuto, n. 52819, in Cass. C.E.D., n. 268831-01; Cass. pen., Sez. I, 17 novembre 2016, Morello, n. 13124, in Cass. C.E.D., n. 269514-01; Cass. pen., Sez. I, 19 dicembre 2013, Berni, n. 5728, in Cass. C.E.D., n. 257924-01.
[38] Si vedano C. cost. 3 luglio 2007, n. 348; C. cost. 3 luglio 2007, n. 349.
[39] Si vedano C. cost. 3 novembre 2009, n. 311; C. cost. 3 novembre 2009, n. 317.
[40] Si vedano C. cost. 25 gennaio 2011, n. 80; C. cost. 9 febbraio 2011, n. 113.
[41] Si vedano C. cost. 3 novembre 2009, n. 311, cit.; C. cost. 3 novembre 2009, n. 317, cit.
[42] Sul punto, si vedano C. cost. 3 luglio 2007, n. 348, cit.; C. cost. 3 luglio 2007, n. 349, cit.
[43] Si veda C. cost. 3 novembre 2009, n. 311, cit.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.
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