Sommario: 1. L’integrazione tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale e il rapporto tra gli artt. 10 e 117 Cost. – 2. L’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa. – 3. L’efficacia generale per il diritto nazionale dei principi affermati nelle “sentenze-pilota” della Corte EDU. – 4. Il “Caso Contrada contro Italia” e l’efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa. – 4.1. L’inapplicabilità dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia” al di fuori degli obblighi di cui all’art. 46 CEDU e la “Sentenza Genco”. – 5. Il “Caso Scoppola contro Italia” e l’efficacia generale per il diritto nazionale delle “sentenze-pilota” della Corte EDU. – 6. Il tertium genus: l’interpretazione adeguatrice, il dialogo tra la CEDU e la Corte di cassazione in materia di tutela dei diritti dei detenuti e la “Sentenza Commisso”. – 7. Le decisioni della CEDU e il ruolo di supporto ermeneutico svolto dalla Corte costituzionale: la costituzione di un sistema normativo integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone.
1. L’integrazione tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale e il rapporto tra gli artt. 10 e 117 Cost.
Per affrontare i problemi ermeneutici oggetto del mio intervento, occorre muovere dalle previsioni costituzionali degli artt. 10 e 117 Cost., che si pongono in stretta correlazione tra loro, la cui portata sistematica, in conseguenza dei rapporti sempre più intensi tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, ha assunto una crescente importanza nel sistema costituzionale, assumendo connotazioni assolutamente pregnanti.
Di queste peculiari connotazioni sistematiche ci si occuperà nel corso di questo intervento, che si concentrerà soprattutto sull’influenza che l’applicazione di tali disposizioni costituzionali comporta nei rapporti tra la Convenzione EDU e il sistema penale italiano, i cui sviluppi sono fortemente caratterizzati dalle correlazioni ermeneutiche esistenti tra le norme convenzionali e gli artt. 10 e 117 Cost., che sono stati chiariti da alcuni mirabili decisioni della Corte costituzionali, su cui ci si soffermerà nella parte conclusiva di questa relazione[1].
Com’è noto, la Convenzione EDU è un trattato internazionale, sottoscritto in seno al Consiglio d’Europa, a Roma, il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, che mira a tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali nei paesi che compongono il Consiglio d’Europa, una parte dei quali sono membri dell’Unione Europea. Per raggiungere questi obiettivi la Convenzione ha istituito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, volta a tutelare la persona dalla violazione dei diritti umani.
In questa cornice, occorre richiamare preliminarmente la disciplina dell’art. 10 Cost., dalla quale deriva la necessità di adeguare l’ordinamento giuridico interno all’ordinamento sovranazionale, che, nella materia penale, assume un rilievo decisivo nel regolamentare i rapporti tra il sistema nazionale italiano e quello prefigurato dalla Convenzione EDU.
Dispone, in particolare, il primo comma dell’art. 10 Cost., che è la norma di cui ci si occuperà nel prosieguo dell’esposizione: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Tale disposizione si integra con il secondo comma della stessa norma, a tenore della quale: «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali».
A tale previsione, quindi, si collega il terzo comma dell’art. 10 Cost., secondo cui: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Infine, la disposizione dell’art. 10 Cost. si completa con la previsione contenuta nel suo quarto comma, che recita: «Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici».
Come si è evidenziato in apertura di questo paragrafo, per ricostruire il sistema integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone realizzato nel nostro ordinamento, la norma costituzionale dell’art. 10 Cost., nei quattro commi che la compongono, deve essere correlata alla previsione dell’art. 117 Cost., del quale, ai presenti fini, assumono rilievo solo il primo e il terzo comma di tale disposizione.
Della norma costituzionale dell’art. 117 Cost., innanzitutto, occorre richiamare, nella sua interezza, il primo comma, che recita: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
La disposizione del primo comma dell’art. 117 Cost., a sua volta, deve essere correlata al terzo comma della stessa norma, laddove afferma che sono sono materie di legislazione concorrente quelle relative a «rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni […]».
2. L’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa
Dopo esserci soffermati brevemente sulla rilevanza sistematica dell’art. 10 Cost., occorre affrontare la questione dell’obbligo del giudice italiano di conformarsi alle decisioni della Corte EDU previsto dall’art. 46 CEDU, che è collegata al tema dell’applicazione dei principi affermati dalle pronunzie sovranazionali nel diritto interno.
Alla prima questione, che sarà esaminata in questo paragrafo, relativa alla sussistenza di un obbligo dei giudici italiani di conformarsi alle decisioni della Corte EDU, relativamente alla vicenda processuale oggetto di vaglio, occorre fornire risposta positiva.
Occorre, innanzitutto, evidenziare che costituisce dato ermeneutico ormai definitivamente consolidato[2] quello dell’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU, nonostante a tali disposizioni non possa direttamente riconoscersi rango costituzionale, come è stato, più volte, ribadito dalla Corte costituzionale[3].
Sul piano applicativo, l’efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è garantita dalla previsione dell’art. 19 del testo convenzionale che prevede l’istituzione della Corte EDU, allo scopo di «assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli […]», riconoscendo a tale organo sovranazionale una competenza estesa a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della predetta normativa.
In questo contesto sistematico, si inserisce la previsione dell’art. 46 CEDU, secondo il cui primo paragrafo le «Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti».
La stessa disposizione precisa, nel suo secondo paragrafo, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione».
L’obbligo del giudice italiano di conformarsi alle sentenze della Corte EDU limitatamente al caso controverso, è ulteriormente ribadito dal terzo paragrafo dell’art. 46 CEDU, a tenore del quale se «il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione […]».
Né il singolo Stato membro può sottrarsi ai doveri di conformazione, atteso quanto espressamente previsto dal quarto paragrafo dell’art. 46 CEDU, secondo cui laddove «un’Alta Parte contraente rifiuti di attenersi ad una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte, esso può, dopo aver messo in mora questa Parte […], investire la Corte della questione dell’osservanza di questa Parte degli obblighi relativi al paragrafo 1».
L’obbligo previsto dall’art. 46 CEDU, dunque, non può essere messo in discussione e ogni opzione ermeneutica di segno contrario non può essere in alcun modo condivisa.
Tale assunto, infatti, presuppone un margine di discrezionalità nell’esecuzione delle decisioni della Corte EDU che – limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi, per i quali occorre verificare se la pronunzia sovranazionale possa ritenersi una “sentenza-pilota”[4] – non può essere riconosciuto al giudice nazionale per effetto della previsione dell’art. 46 CEDU.
Basti, in proposito, richiamare ulteriormente l’orientamento ermeneutico[5] secondo cui le decisioni della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle parti in causa, con la conseguenza che lo Stato è tenuto a conformarsi a tali pronunzie e a eliminare, fin dove è possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata.
Ne deriva che la previsione dell’art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice italiano, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato.
Ne discende, ulteriormente, che, a norma dell’art. 46 CEDU, gli Stati membri si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte EDU nelle controversie nelle quali sono coinvolte, la cui osservanza e affidata al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, al quale è assegnato il compito di vigilare sull’esecuzione delle pronunzie sovranazionali. Da questo obbligo di conformazione discende che lo Stato convenuto ha il dovere di adottare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure, generali e individuali, indispensabili per porre fine alla violazione di norme convenzionali, eliminandone le conseguenze e scongiurando ulteriori pregiudizi dei diritti umani.
3. L’efficacia generale per il diritto nazionale dei principi affermati nelle “sentenze-pilota” della Corte EDU
Sgomberato il campo da ogni possibile equivoco in ordine all’efficacia precettiva delle norme CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, e chiarito quali effetti vincolanti discendano, per l’ordinamento interno, in relazione allo specifico caso esaminato, dalle decisioni con cui lo Stato italiano viene condannato per la violazione di norme convenzionali, occorre affrontare l’ulteriore questione, concernente l’applicazione dei principi affermati dalle pronunzie sovranazionali nel diritto interno.
In questa cornice, occorre affrontare la questione, correlata a quella esaminata nel paragrafo precedente, della rilevanza che nell’ordinamento giuridico italiano assumono, anche in deroga a eventuali giudicati, le violazioni accertate dalla Corte EDU, riguardanti le norme del testo convenzionale.
Per inquadrare tale questione, occorre richiamare ulteriormente l’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, dal quale discende che lo Stato convenuto, ferma restando l’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU nell’ordinamento italiano nei confronti delle parti in causa, ha il dovere giuridico di adottare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure, generali e individuali, indispensabili per porre fine alla violazione di norme convenzionali, eliminandone le conseguenze e scongiurando ulteriori pregiudizi.
Pertanto, quando la Corte EDU, alla quale è affidato il compito istituzionale di interpretare e applicare il Testo convenzionale, ai sensi dell’art. 32 CEDU, accerta la commissione di violazioni dei diritti umani connesse a disfunzioni, sistematiche o strutturali, dell’ordinamento nazionale, attiva un meccanismo procedurale che – mediante le “sentenze-pilota” – si propone di aiutare gli Stati membri a risolvere a livello interno le discrasie normative rilevate. Attraverso questo meccanismo nomofilattico, la Corte EDU riconosce alle persone interessate, che versano nella stessa condizione del soggetto il cui caso è stato risolto positivamente, la tutela degli stessi diritti umani e delle stesse libertà convenzionali, in linea con quanto affermato dall’art. 1 CEDU, offrendo la soluzione applicativa più efficiente e alleggerendo, al contempo, il carico della Corte di Strasburgo, che, diversamente, si troverebbe costretta a esaminare inutilmente ricorsi con un contenuto similare o addirittura processualmente sovrapponibile[6].
Si impone, a questo punto, una precisazione, evidenziando che la giurisprudenza della CEDU, originariamente indirizzata alla risoluzione di controversie specifiche, relative a casi concreti, si è andata sempre più caratterizzando, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, per la valorizzazione di una funzione paracostituzionale – o, meglio, costituzionale sovranazionale – di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto oggettivo. Di questa, inarrestabile, evoluzione sistematica costituiscono una dimostrazione esemplare i rapporti tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, modellato attorno alla Convenzione EDU., in materia di diritto penitenziario, dalla quale è derivata la costituzione di un vero e proprio sistema integrato, finalizzato alla tutela dei diritti dei detenuti garantita dall’art. 3 del Testo convenzionale, che, com’è noto, recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»[7].
Infatti, sempre più frequentemente, le pronunzie della CEDU, nel rilevare la contrarietà alle norme convenzionali di situazioni interne di portata generale, forniscono allo Stato responsabile della violazione, attraverso lo strumento delle “sentenze-pilota”, indicazioni sui rimedi da adottare per rimuovere la disfunzione sistematica rilevata nel proprio ordinamento interno. Lo strumento delle “sentenze-pilota”, peraltro, dapprima affidata alla prassi, in difetto di un’esplicita piattaforma normativa, è stata definitivamente formalizzata nel regolamento di procedura della CEDU, che, dopo essere stato emendato, è entrato in vigore il 10 aprile 2011.
L’effettività dell’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, inoltre, è stata accresciuta, sul piano convenzionale, dall’approvazione del Protocollo n. 14 della Corte EDU, reso esecutivo con la legge 15 dicembre 2005, n. 280, che, novellando l’art. 46 del Testo convenzionale, ha introdotto una procedura di infrazione, che giurisdizionalizza il meccanismo di controllo sull’attuazione delle decisioni sovranazionali, attivabile anche nel caso di inosservanza di una “sentenza-pilota”.
Si consideri, infine, che la necessità degli ordinamenti interni di assicurare, anche a prescindere da un intervento della Corte di Strasburgo sul caso concreto, il rispetto degli obblighi convenzionali, così come prefigurati dalla Convenzione EDU, allo scopo di porre fine a persistenti violazioni, prevenendo ulteriori trasgressioni, pone delicati problemi giuridici sulla tenuta di situazioni già definite con sentenze passate in giudicato, ma in palese contrasto con i diritti fondamentali tutelati convenzionalmente.
4. Il “Caso Contrada contro Italia” e l’efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa
Nella cornice ermeneutica che si è descritta nei paragrafi precedenti, occorre passare in rassegna un’ipotesi esemplare di efficacia immediatamente precettiva delle decisioni della Corte EDU nei confronti delle parti in causa, rappresentata dalla sentenza con cui veniva concluso nel nostro ordinamento il “Caso Contrada contro Italia”.
Il “Caso Contrada contro Italia”, ai presenti fini, traeva origine, dal passaggio in giudicato della sentenza emessa il 25 febbraio 2006, con cui la Corte di appello di Palermo confermava la decisione del Tribunale di Palermo del Tribunale di Palermo, deliberata il 5 aprile 1996, con cui Bruno Contrada era stato condannato alla pena di dieci anni di reclusione per il reato di cui agli artt. 110, 416 e 416-bis cod. pen. Il passaggio in giudicato, in particolare, derivava dalla sentenza emessa dalla Corte di cassazione il 10 maggio 2007, con la quale il ricorso proposto dall’imputato veniva rigettato.
Dopo il passaggio in giudicato della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, Contrada adiva la Corte EDU, dando origine al ricorso che si concludeva con la decisione emessa il 14 aprile 2015[8], della cui rilevanza nell’ordinamento italiano si controverte in questa sede.
La Corte EDU, in particolare, condannava lo Stato italiano per violazione dell’art. 7 CEDU, ritenendo che la fattispecie del concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso fosse chiara e prevedibile solo a partire dal 1994 – ovvero dal momento in cui interveniva la prima delle sentenze chiarificatrici deliberate delle Sezioni Unite in questo contesto ermeneutico[9] – riconoscendo, per il periodo successivo, la corretta configurazione dell’istituto in questione, così come elaborata dalle Sezioni Unite[10].
In particolare, la Corte EDU censurava la condanna emessa nei confronti di Contrada esclusivamente sotto il profilo della conoscibilità temporale del reato per il quale l’imputato era stato condannato, osservando, nel paragrafo 72 della sentenza, che la Corte di appello di Palermo «pronunciandosi sull’applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze Demitry […], Carnevale […], Mannino […], tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente»[11].
Dopo la decisione della Corte EDU, da ultimo richiamata, Bruno Contrada proponeva un incidente di esecuzione dinanzi alla Corte di appello di Palermo, che si concludeva con l’ordinanza emessa l’11 ottobre 2016, avverso la quale veniva proposto ricorso per cassazione, che, a sua volta, veniva deciso dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione il 6 luglio 2017. Con tale ultima pronunzia veniva dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti del ricorrente dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007.
Occorre, a questo punto, precisare che davanti alla Corte di cassazione, investita della decisione sull’incidente di esecuzione proposto da Contrada dopo la pronunzia della Corte EDU, veniva posta una questione centrale, riguardante la verifica del rispetto da parte del giudice dell’esecuzione – rappresentato, in quel caso, dalla Corte di appello di Palermo – dell’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU.
A tale quesito ermeneutico la Corte di cassazione forniva una risposta negativa[12].
Quanto agli strumenti processuali con cui dare esecuzione all’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, la Corte di legittimità, citando la giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite[13], li individuava negli ampi poteri di intervento sul giudicato penale, che venivano riconosciuti al giudice dell’esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen.
Si evidenziava, in proposito, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 9 della decisione in esame, che l’ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva trovava il proprio fondamento nei poteri di cui agli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., che erano stati riconosciuti dalla Corte costituzionale nella sentenza 18 luglio 2013, n. 210[14], secondo cui il giudice dell’esecuzione «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso […]»[15].
Questa opzione ermeneutica, del resto, era già stata recepita nell’intervento delle Sezioni Unite, da ultimo richiamato, in cui si era affermato che al giudice dell’esecuzione deve essere riconosciuto un ampio potere di intervento sul giudicato, atteso che lo strumento previsto dall’art. 670 cod. proc. pen. è un mezzo per far valere tutte le questioni relative all’esecutività e all’eseguibilità del titolo[16].
Sulla scorta di tale percorso argomentativo, la Corte di cassazione annullava senza rinvio l’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Palermo l’11 ottobre 2016 e dichiarava ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007.
4.1. L’inapplicabilità dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia” al di fuori degli obblighi di cui all’art. 46 CEDU e la “Sentenza Genco”
Dopo la decisione della Corte di cassazione esaminata nel paragrafo precedente, si è posto, fin da subito, il problema dell’applicazione dei principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada contro Italia”, sul piano della configurazione del concorso esterno in associazione mafiosa, al di fuori degli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU.
Per risolvere tale questione occorre muovere dalla definizione di fattispecie di “creazione giurisprudenziale” del concorso esterno in associazione mafiosa, utilizzata dalla Corte EDU nel paragrafo 57 della decisione in argomento, in cui si evidenziava che «il concorso esterno in associazione di tipo mafioso è una creazione della giurisprudenza avviata in decisioni che risalgono alla fine degli anni ottanta, ossia posteriore ai fatti per i quali il ricorrente è stato condannato e che si è consolidata con la sentenza della Corte di cassazione Demitry […]»[17].
Deve, in proposito, rilevarsi che, fermi restando gli obblighi di conformazione previsti di cui si è già detto, l’affermazione della Corte EDU si pone in termini alquanto problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “creazione giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e di tassatività.
Questi profili di problematicità appaiono ulteriormente accentuati dal fatto che il modello di punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa prefigurato dalle Sezioni Unite[18], più volte, anche se non del tutto propriamente, richiamato dalla Corte EDU, non consente alcun equivoco interpretativo sulle ragioni che legittimano nel nostro ordinamento l’applicazione dell’istituto concorsuale alla fattispecie prevista dall’art. 416-bis cod. pen.
Si consideri che le Sezioni Unite[19] non hanno dato vita a una nuova fattispecie incriminatrice, ma si sono limitate a fornire una ricostruzione sistematica armonica con il nostro ordinamento, ribadendo che la responsabilità penale per il contributo fornito dal concorrente esterno a un’associazione mafiosa trae origine dalla sua consapevolezza di contribuire con il suo apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui il soggetto attivo del reato conosce gli obiettivi generali e la struttura consortile, pur senza aderirvi. Ne consegue che, attraverso la clausola prevista dell’art. 110 cod. pen., si attribuisce alle fattispecie associative una responsabilità di carattere generale per l’apporto concorsuale che l’agente fornisce al gruppo criminale, senza esserne affiliato e nella consapevolezza di tale estraneità.
Ne discende che, ferma restando l’assenza di discrezionalità del giudice dell’esecuzione nel conformarsi alle decisioni della Corte EDU imposta dalla Convenzione CEDU per le parti in causa, tali richiami, come detto impropri, non possono essere utilizzati – quantomeno in una prospettiva de jure condito – e non risultano esportabili nell’ordinamento italiano, il quale non contempla la possibilità di fattispecie di “creazione giurisprudenziale”.
A conferma di quanto si sta affermando, si ritiene utile richiamare il passaggio della decisione di legittimità, esaminata nel paragrafo 4, in cui si affermava che «il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici […]»[20].
Deve, infine, rilevarsi che l’orientamento ermeneutico consolidatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità[21], che escludeva l’estensibilità dei principi affermati dalla Corte EDU nella decisione del “Caso Contrada contro Italia”, veniva definitivamente ribadito dalle Sezioni Unite, che evidenziavano come le statuizioni contenute in tale pronuncia non potevano essere estese a casi analoghi a quelli esaminati dalla Corte sovranazionale[22].
Le Sezioni Unite, in particolare, chiamate a verificare la possibilità di estendere i principi affermati dalla Corte EDU nel “Caso Contrada”, risolvevano negativamente il quesito sottoposto al suo vaglio, affermando il seguente principio di diritto: «In tema di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, i principi enunciati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono a coloro che, pur trovandosi nella medesima posizione, non abbiano proposto ricorso in sede europea, in quanto la richiamata decisione del giudice sovranazionale non è una sentenza pilota e non può neppure ritenersi espressione di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea»[23].
5. Il “Caso Scoppola contro Italia” e l’efficacia generale per il diritto nazionale delle “sentenze-pilota” della Corte EDU
Il sistema normativo integrato che si sta considerando, sul piano dei principi generali, ha subito un impulso decisivo con la sentenza pronunziata dalla CEDU nel “Caso Scoppola contro Italia” del 17 settembre 2009, che interveniva in materia di conversione della pena dell’ergastolo in quella di trent’anni di reclusione[24].
Questa pronunzia, infatti, presenta i connotati tipici di una “sentenza-pilota”, atteso che la Corte EDU, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenziava l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di una discrasia normativa dovuta alla difformità rispetto alle norme convenzionali dell’art. 7 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4.
In questo contesto, la Corte EDU evidenziava che, in forza dell’art. 46 CEDU, gli Stati membri si impegnano a rispettare le sentenze definitive della Corte di Strasburgo nelle ipotesi in cui sono direttamente coinvolte. Ne consegue che, come evidenziato dalle Sezioni Unite penali, chiamate a pronunciarsi sull’estensibilità dei principi affermati nella decisione del “Caso Scoppola contro Italia”, una pronunzia nella quale la Corte EDU ha individuato una violazione delle norme convenzionali impone allo Stato membro resistente di individuare, sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, le misure, generali e individuali, da adottare nell’ordinamento giuridico interno, per «porre fine alla violazione accertata dalla Corte e per eliminare per quanto possibile gli effetti […]»[25].
Ne deriva ulteriormente che eventuali effetti sistematici, perduranti nel tempo dell’accertata violazione, determinati da un’illegittima applicazione di una norma del diritto interno, laddove interpretata in senso non convenzionalmente conforme, devono essere immediatamente rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso davanti alla Corte EDU, si trovano in una situazione identica – ovvero processualmente sovrapponibile – a quella oggetto della decisione adottata dal Giudice strasburghese nel “Caso Scoppola contro Italia”.
Occorre, a questo punto, precisare che l’intervento della Corte EDU nel “Caso Scoppola contro Italia” era giustificato dal fatto che, nel caso in esame, si erano succedute tre diverse disposizioni, che, in materia di accesso al giudizio abbreviato per gli imputati di delitti punibili con la pena dell’ergastolo, avevano dato vita a un sistema normativo stratificato.
Ci si riferisce, innanzitutto, all’art. 30, comma 1, lett. b), della legge 16 dicembre 1999, n. 479, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, che, novellando l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., introduceva, nelle ipotesi di giudizio abbreviato, la previsione della sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione di trent’anni.
Ci si riferisce, inoltre, all’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, che, in via di interpretazione autentica, stabiliva: «Nell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno»; aggiungendo, in chiusura del comma 2, il periodo: «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
Ci si riferisce, infine, all’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, così come sostituito in sede di conversione, che, in via transitoria, consentiva ai soggetti che avevano formulato istanza di giudizio abbreviato nella vigenza della legge n. 479 del 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2020, di revocare «la richiesta nel termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore […]» dello stesso decreto-legge, che scadeva il 28 dicembre 2020.
In questo, stratificato, quadro normativo, la Corte EDU, escludeva il carattere di norma interpretativa dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 e riteneva che gli imputati che erano stato ammessi al rito abbreviato nel vigore dell’art. 30, comma 1, lett. b), della legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell’art. 7 CEDU, di vedersi inflitta la pena di trent’anni di reclusione – più mite rispetto alla pena dell’ergastolo quella prevista dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., novellato dal decreto-legge n. 341 del 2000 –, prevista dalla stessa legge n. 479, fino a quando tale normativa era stata vigente.
In altri termini, la Corte EDU, censurando il meccanismo processuale con il quale si attribuiva efficacia retroattiva all’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 – che veniva qualificato come norma d’interpretazione autentica dal testo dell’art. 442 cod. proc. pen., così come novellato dalla legge n. 479 del 1999 – enunciava, in linea di principio, una regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, era astrattamente applicabile a tutte le fattispecie identiche a quella esaminata[26].
Ne discende conclusivamente che, per effetto della decisione della Corte EDU nel “Caso Scoppola contro Italia”, che, come detto costituisce una “sentenza-pilota”, la conversione della pena dell’ergastolo in quella di trent’anni di reclusione – conseguente alle modifiche dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., che si sono richiamate – veniva ammessa quando il rito abbreviato era stato chiesto e ammesso nell’arco temporale compreso tra il 2 gennaio 2000 e il 24 novembre 2000, nella vigenza dell’art. 30, comma 1, lett. b), della legge n. 479 del 1999, prima della sua modifica da parte dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000[27].
6. Il tertium genus: l’interpretazione adeguatrice, il dialogo tra la CEDU e la Corte di cassazione in materia di tutela dei diritti dei detenuti e la “Sentenza Commisso”
Occorre, a questo punto, introdurre un ulteriore elemento di riflessione, evidenziando che, negli ultimi anni, la giurisprudenza di legittimità ha rappresentato il terminale insostituibile del dialogo tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale in materia di tutela dei diritti dei detenuti, intervenendo con alcune importanti pronunzie in tema di trattamenti inumani e degradanti, sanzionati ex art. 3 CEDU. L’ultima di queste pronunzie è rappresentata dalla sentenza delle Sezioni Unite penali pronunciata nel “Caso Commisso”[28], che costituisce, almeno a fino a questo momento, la punta più avanzata di questo complesso confronto ermeneutico.
Con la pronuncia in esame le Sezioni Unite penali intervenivano sul tema del trattamento penitenziario inumano o degradante, inquadrato nell’art. 3 CEDU, che, in termini generali, deve essere definito alla luce della giurisprudenza sovranazionale consolidatasi sulla base delle decisioni del “Caso Torreggiani contro Italia”[29] e del “Caso Mursic contro Croazia”[30]. Queste pronunzie, a loro volta, si inserivano in un più ampio contesto ermeneutico, la cui elaborazione consentiva di individuare i parametri necessari per ritenere il trattamento penitenziario patito dal detenuto rispettoso dei canoni di umanità stabiliti dall’art. 3 CEDU[31].
Le Sezioni Unite penali, in particolare, chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto sui criteri ai quali attenersi per determinare lo spazio minimo individuale di cui deve potere usufruire il detenuto nelle ipotesi di allocazione con più soggetti all’interno di una stessa cella, affermavano che, ferma restando la misura di tre metri quadrati, per la relativa valutazione si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento dei soggetti ristretti, indispensabile per garantire un trattamento penitenziario rispettoso dei parametri umanitari stabiliti dall’art. 3 CEDU[32].
Ne discende che, nella determinazione di tale spazio minimo individuale, allo scopo di garantire al detenuto un trattamento penitenziario rispettoso dei canoni di umanità della pena, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento del detenuto, con la conseguenza di dovere detrarre da tale computo gli arredi tendenzialmente fissi al suolo della cella.
Occorre, al contempo, fare integrativamente riferimento al complesso dei fattori, positivi e negativi, che connotano l’offerta trattamentale censurata dal detenuto con il rimedio previsto dall’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), tenendo conto della necessità di garantire, per quanto possibile, una condizione di vivibilità carceraria dignitosa del detenuto, nel rispetto dei parametri affermati dall’art. 3 CEDU.
Ne deriva ulteriormente che il riconoscimento di trattamenti disumani e degradanti, rilevanti ex art. 3 CEDU, laddove sollecitato con il rimedio giurisdizionale previsto dall’art. 35-ter Ord. pen., costituisce la conseguenza di una valutazione multifattoriale dell’offerta trattamentale proposta al singolo detenuto. Di conseguenza, nel caso di restrizione del condannato in una cella collettiva in cui lo spazio è superiore a tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati, occorre tenere necessariamente conto di tutti i fattori idonei a qualificare le condizioni di detenzione e funzionali a esprimere un giudizio positivo o negativo sul trattamento carcerario patito[33].
In questa cornice, deve osservarsi che, su questo tema, i rapporti tra la giurisprudenza nazionale e quella strasburghese costituiscono una rappresentazione esemplare del sistema stratificato di fonti normative, che discende dall’inserimento del nostro Paese nella comunità sovranazionale e che in materia di diritto penitenziario assume connotazioni peculiari. Questa stratificazione assume un rilievo peculiare nella materia della tutela dei diritti del detenuto, rilevanti ex art. 3 CEDU, che è la conseguenza dell’impianto dogmatico “flessibile” del diritto penitenziario[34] – collocato in un ambito sistematico ancipite, che lambisce sia le scienze criminali sia il diritto amministrativo –, che lo rende, probabilmente meno lineare sul piano dei principi, ma certamente più adattabile alla soddisfazione delle istanze di garanzia provenienti da aree del continente, geografiche e culturali, molto diverse.
Sotto questo aspetto, tra i molteplici profili di interesse che la “Sentenza Commisso” presenta, nell’ottica del riferimento ai parametri giurisprudenziali europei e nel più ampio contesto del dialogo tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, non può non rilevarsi che la decisione di legittimità che si commenta rappresenta uno sforzo, riuscito, di coniugare le istanze di garanzia dei diritti del detenuto provenienti dalla Corte EDU con la situazione di grave sovraffollamento che il sistema penitenziario italiano presenta[35].
Tali questioni ermeneutiche, nel nostro ordinamento giuridico, sono state eminentemente affrontate in relazione all’applicazione del rimedio riparatorio previsto dall’art. 35-ter Ord. pen., su cui la giurisprudenza di legittimità si è confrontata a partire dalla decisione del “Caso Torreggiani contro Italia”, in alcuni interventi chiarificatori che costituiscono la piattaforma ermeneutica su cui la “Sentenza Commisso” si è innestata[36].
Le Sezioni Unite penali, dunque, si sono mosse su una base interpretativa già fortemente avvertita dei ripetuti richiami della CEDU, nella piena consapevolezza dell’imprescindibilità del dialogo ermeneutico tra i due organismi giurisdizionali nella materia penitenziaria, che costituisce una rappresentazione esemplare del sistema integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone di cui ci stiamo occupando.
Pertanto, nelle ipotesi in cui lo spazio individuale della cella sia inferiore alla misura di tre metri quadrati – misura che la CEDU non ritiene ex se sufficiente a garantire adeguati livelli di vivibilità carceraria –, si è confermato, anche alla luce della “Sentenza Commisso”, che ci si trova di fronte a un’elevata presunzione di violazione dei parametri dell’art. 3 CEDU, superabile solo attraverso l’accertamento di adeguati fattori compensativi. Questi fattori, a loro volta, devono essere valutati attraverso una verifica concreta, di natura multifattoriale, delle condizioni detentive patite dal soggetto ristretto all’interno dell’istituto penitenziario, su cui si devono incentrare le doglianze proposte ai sensi dell’art. 35-ter Ord. pen.
Si è ribadito, in questo modo, che le decisioni sovranazionali intervenute nel “Caso Torreggiani contro Italia” e nel “Caso Mursic contro Croazia”, nel cui solco si sono mosse le Sezioni Unite penali, rappresentano il punto di riferimento convenzionale indispensabile per inquadrare le ipotesi di trattamenti penitenziari degradanti, atteso che, prima di esse, la Corte EDU non aveva fornito indicazioni univoche per definire le violazioni dell’art. 3 CEDU, con specifico riferimento allo spazio minimo individuale di cui i detenuti devono usufruire durante la loro carcerazione.
A questi parametri ermeneutici, dunque, la giurisprudenza nazionale, ulteriormente ribadita con l’intervento della “Sentenza Commisso”, si è conformata, elaborando criteri articolati e correlando tali indici alle condizioni complessive di vivibilità della struttura penitenziaria di volta in volta esaminata, allo scopo di verificare la possibilità di applicare fattori compensativi che consentono di ritenere il trattamento penitenziario rispettoso della previsione dell’art. 3 CEDU[37].
7. Le decisioni della CEDU e il ruolo di supporto ermeneutico svolto dalla Corte costituzionale: la costituzione di un sistema normativo integrato in materia di tutela dei diritti fondamentali delle persone
Nella cornice descritta nei paragrafi precedenti, infine, si ritiene utile esaminare l’impulso decisivo alla costituzione di un sistema integrato tra ordinamento nazionale e ordinamento sovranazionale fornito dalla Corte costituzionale, che è intervenuta ripetutamente sul tema dei rapporti tra le due fonti normative, dapprima, con le sentenze 3 luglio 2007, n. 348 e 3 luglio 2007, n. 349[38]; successivamente, con le sentenze 3 novembre 2009, n. 311 e 3 novembre 2009, n. 317[39]; infine, con le sentenze 25 gennaio 2011, n. 80 e 9 febbraio 2011, n. 113[40].
Attraverso queste pronunzie, che si sviluppavano lungo un arco pluriennale, la Corte costituzionale ha chiarito quali sono gli effetti prodotti dalle decisioni del giudice sovranazionale nel nostro ordinamento giuridico, affermando la maggiore resistenza delle norme della Corte EDU rispetto alle leggi ordinarie interne, che devono essere interpretate, laddove possibile, in modo conforme alle norme extranazionali, rispetto alle quali si pongono in una condizione ermeneutica recessiva.
Secondo la Corte costituzionale, di fronte a eventuali violazioni di norme convenzionali, oggettive e generali, censurate in sede sovranazionale, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU e l’assenza, nel caso concreto, di una decisione della Corte EDU alla quale dare esecuzione non possono essere di ostacolo a un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso i rimedi giurisdizionali ordinari[41].
L’intervento di adeguamento interno dell’ordinamento giuridico, quindi, è insostituibile, se necessario per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, per la quale è possibile sacrificare il valore della certezza del giudicato, che deve ritenersi recessivo rispetto a possibili pregiudizi di diritti fondamentali della persona.
La giurisprudenza costituzionale, dunque, a partire dalle richiamate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – che sono le prime a essere intervenute sul tema in questione –, ha costantemente affermato che le norme della Convenzione EDU, nel significato loro attribuito dalla Corte di Strasburgo, specificamente istituita per dare corretta applicazione a tali disposizioni, integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espressamente previsto dal combinato disposto degli artt. 10 e 117 Cost.; tale ultima disposizione, a sua volta, impone la conformazione della legislazione nazionale ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, rendendo evidente, sotto tale profilo, il percorso che deve essere seguito per dare concreta attuazione ai principi convenzionali nell’ordinamento giuridico italiano[42].
La Corte costituzionale ha anche chiarito che «l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. […]»[43]. Interpretata in questo modo, la norma dell’art. 117, primo comma, Cost. ha finto per «colmare la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.»[44].
In altri termini, nelle ipotesi di contrasto tra una norma interna e una norma convenzionale, afferente alla tutela dei diritti fondamentali della persona, contemplati dalla Convenzione EDU, il giudice nazionale deve verificare preventivamente la possibilità di un’interpretazione della disposizione interna conforme al sistema sovranazionale, ricorrendo a tutti gli strumenti ordinari di ermeneutica giuridica[45].
Pertanto, l’esito negativo di tale verifica preliminare e il contrasto non componibile in via interpretativa della vicenda giurisdizionale sottoposta al suo vaglio impongono al giudice ordinario di sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., attraverso un rinvio pregiudiziale.
Ne consegue che l’operatività della norma convenzionale, così come interpretata dalla Corte EDU, deve necessariamente passare attraverso una declaratoria di incostituzionalità della normativa interna di riferimento o, eventualmente, attraverso l’adozione di una sentenza interpretativa o additiva della Corte costituzionale.
* Questo intervento, con alcune integrazioni, costituisce la rielaborazione della relazione svolta l’1 febbraio 2023, nell’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci, dal 30 gennaio all’1 febbraio 2023, intitolato “Il ruolo della giurisprudenza e il principio di legalità”.
[1] Su questi temi si rinvia al successivo paragrafo 7.
[2] Si veda Cass. pen., Sez. I, 1 febbraio 2006, Dorigo, n. 2800, in Cass. C.E.D., n. 235447-01; sulla stessa linea interpretativa si colloca la più recente Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, in Cass. C.E.D., n. 273906-01.
[3] Si vedano C. cost., 12 gennaio 1993, n. 10; C. cost., 13 ottobre 1999, n. 388 del 1999.
[4] Si rinvia al successivo paragrafo 3.
[5] Si vedano Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.; Cass. pen., Sez. I, 1 febbraio 2006, Dorigo, n. 2800, cit.
[6] Si veda Corte EDU, G.C., 22 giugno 2004, Broniowski c. Polonia, n. 31443/96.
[7] In questa direzione ermeneutica, soprattutto, si vedano Corte EDU, G.C., 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, n. 7334/13; Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, n. 43517/09.
Su questi temi si rinvia al successivo paragrafo 5.1.
[8] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, n. 66655/13; su questa pronuncia si veda il commento di F. Palazzo, La sentenza “Contrada” e i cortocircuiti della legalità, in Dir. pen. proc., 2015, 9, pp. 1061 ss.
[9] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 5 ottobre 1994, Demitry, n. 16, in Cass. C.E.D., n. 199386-01; su questa sentenza si veda il commento di F.M. Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen., 1995, 4, pp. 842 ss.
[10] Si veda, soprattutto, Cass. pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33478, in Cass. C.E.D., n. 231671-01; per un commento a questa pronuncia si rinvia a P. Morosini, La difficile tipizzazione giurisprudenziale del “concorso esterno” in associazione, in Dir. pen. proc., 2006, 5, pp. 585 ss.
[11] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, cit.
[12] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[13] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014, Gatto, n. 42858, in Cass. C.E.D., n. 260700-01.
[14] Si veda C. cost. 18 luglio 2013, n. 210.
[15] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[16] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014, Gatto, cit.
[17] Si veda Corte EDU, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, cit.
[18] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33478, cit.
[19] Ibidem.
[20] Si veda Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit.
[21] Nella stessa linea ermeneutica della sentenza Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2017, Contrada, n. 43112, cit., in particolare, si collocano Cass. pen., Sez. I, 10 aprile 2019, Marino, 26686, in Cass. C.E.D., n. 273615-01; Cass. pen., Sez. I, 12 gennaio 2018, Esti, n. 8661, in Cass. C.E.D., n. 272797-01.
[22] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2020, Genco, n. 8544, in Cass. C.E.D., n. 278054-01.
[23] Ibidem.
[24] Si veda Corte EDU, G.C., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, n. 10249/03; per un commento a questa pronuncia si rinvia a F. Viganò, Una prima pronuncia delle Sezioni Unite sui “fratelli minori” di Scoppola: resta fermo l’ergastolo per chi abbia chiesto il rito abbreviato dopo il 24 novembre 2000, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10 settembre 2012, pp. 1 ss.
[25] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, Ercolano, n. 34472, in Cass. C.E.D., n. 252933-01; per un commento alla pronuncia in questione si rinvia a M. Gambardella-C. Musio, Ovverruling favorevole della Corte Europea e revoca del giudicato di condanna: a proposito dei casi analoghi alla sentenza “Scoppola”, in Cass. pen., 2012, 12, pp. 1125 ss.
[26] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, Ercolano, n. 34472, cit.
[27] Ibidem.
[28] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 21 settembre 2020, Commisso, n. 6551; su questa pronuncia si vedano i commenti di C. Cattaneo, Le Sezioni unite si pronunciano sui criteri di calcolo dello “spazio minimo disponibile’ per ciascun detenuto e sul ruolo dei fattori compensativi nell’escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, in www.sistemapenale.it, 23 marzo 2021, pp. 1 ss.; A. Centonze, Le Sezioni unite penali intervengono sui criteri di calcolo dello spazio individuale minimo del detenuto e sulla rilevanza dei fattori compensativi dell’offerta trattamentale, in IDV, 2021, 1, pp. 96 ss.
[29] Si veda Corte EDU, G.C., 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, cit.
[30] Si veda Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, n. 43517/09.
[31] Sul punto, si vedano Corte EDU, 20 ottobre 2020, Badulescu c. Portogallo, n. 33729/18; Corte EDU, 16 luglio 2019, Sulejmanovic c. Italia, n. 22635/03; Corte EDU, 15 luglio 2002, 21 Kalachnikov c. Russia, n. 47095/99; Corte EDU, G.C., 15 luglio 2002, Scadi c. Italia, n. 47095/99; Corte EDU, 21 febbraio 1975, Golder c. Regno Unito, n. 4451/70.
[32] Si veda Cass. pen., Sez. Un., 21 settembre 2020, Commisso, n. 6551, cit.
[33] Ibidem.
[34] Sulla natura dogmatica “flessibile” del diritto penitenziario, si rinvia a F. Fiorentin, Il vaso di Pandora scoperchiato: la violazione dell’art. 3 CEDU per (mal)trattamenti detentivi tra accertamento “multifattoriale” e giurisprudenza europea. Appunti a margine della sentenza Corte EDU, 12 marzo 2015, Mursic c. Croazia, in Arch. Pen., n. 3/2015; F. Gianfilippi, La fase decisionale, in La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, a cura di F. Fiorentin, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 483 ss.; G. Giostra, Art. 35-ter ord. pen., in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di F. Della Casa e G. Giostra, CEDAM, Padova, VI ed., 2019, pp. 489 ss.
[35] Si veda A. Centonze, Le Sezioni unite penale intervengono sui criteri di calcolo dello spazio individuale minimo del detenuto e sulla rilevanza dei fattori compensativi dell’offerta trattamentale, cit., pp. 101-102.
[36] Sul punto, si vedano Cass. pen., Sez., Sez. I, 11 settembre 2020, Adinolfi, n. 30030, in Cass. C.E.D., n. 279793-01; Cass. pen., Sez. I, 23 giugno 2020, Biondino, n. 20985, in Cass. C.E.D., n. 279220-01; Cass. pen., Sez. I, 26 maggio 2017, Gobbi, n. 41211, in Cass. C.E.D.. n. 271087-01.
[37] Sul punto, si vedano Cass. pen., Sez. I, 9 settembre 2016, Sciuto, n. 52819, in Cass. C.E.D., n. 268831-01; Cass. pen., Sez. I, 17 novembre 2016, Morello, n. 13124, in Cass. C.E.D., n. 269514-01; Cass. pen., Sez. I, 19 dicembre 2013, Berni, n. 5728, in Cass. C.E.D., n. 257924-01.
[38] Si vedano C. cost. 3 luglio 2007, n. 348; C. cost. 3 luglio 2007, n. 349.
[39] Si vedano C. cost. 3 novembre 2009, n. 311; C. cost. 3 novembre 2009, n. 317.
[40] Si vedano C. cost. 25 gennaio 2011, n. 80; C. cost. 9 febbraio 2011, n. 113.
[41] Si vedano C. cost. 3 novembre 2009, n. 311, cit.; C. cost. 3 novembre 2009, n. 317, cit.
[42] Sul punto, si vedano C. cost. 3 luglio 2007, n. 348, cit.; C. cost. 3 luglio 2007, n. 349, cit.
[43] Si veda C. cost. 3 novembre 2009, n. 311, cit.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.