ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’applicabilità dell’art. 34, comma 3 c.p.a. nel giudizio di ottemperanza al giudicato (nota a Cons. Stato, 22 gennaio 2024, n. 664)
di Stefania Florian
Sommario: 1. La fattispecie concreta 2. I presupposti per la conversione dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a. 3. Brevi cenni sull’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato come azione costitutiva e sua convertibilità in un’azione di accertamento. 4. Conclusioni
1. La fattispecie concreta
La sentenza in commento viene resa su ricorso con il quale il Direttore di un ente parco, nominato con decreto del Presidente della Regione Lazio, chiedeva la riforma della sentenza resa in sede di ottemperanza dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, che accoglieva il ricorso con il quale la Dirigente della Regione Lazio e dell’area amministrativa presso l’ente parco naturale regionale in questione, in carica per quasi una decina d’anni, chiedeva l’annullamento del decreto di nomina del medesimo Direttore e i connessi atti presupposti, tra cui la nota con cui era stata individuata la terna di candidati per la nomina, dalla quale la stessa ricorrente per l’ottemperanza era stata esclusa.
La vicenda muove dalla necessità di aggiornare l’elenco regionale dei direttori degli enti di gestione delle aree naturali protette regionali promossa dalla regione Lazio, che aveva avviato una procedura per il conferimento del posto di Direttore dell’Ente Parco e, dopo quasi un mese dalla nota con cui era stata individuata la prima terna di candidati, che conteneva il nominativo della ricorrente in ottemperanza, il Presidente dell’ente trasmetteva una nuova terna, con la motivazione di dover emendare un errore contenuto nella prima nota[1]. Alla fine della procedura il Presidente della regione nominava con decreto un soggetto diverso dalla suindicata ricorrente, la quale ultima, perciò, proponeva ricorso per l’annullamento del medesimo decreto di nomina. Il soggetto nominato alla carica di Direttore presentava quindi le proprie dimissioni e il Presidente della regione, dopo aver comunicato una nuova terna di nomi, individuava il nuovo Direttore in un soggetto diverso dalla ricorrente. Quest’ultima impugnava nuovamente, in sede di cognizione, il decreto di nomina e la nota del Presidente dell’ente regionale, con la quale erano stati individuati i soggetti candidati alla nomina di Direttore. Il ricorso veniva accolto e, successivamente alla sentenza emessa in sede di cognizione, il Presidente della regione procedeva a una nuova nomina, entro una rosa di candidati tra cui non compariva il nominativo della ricorrente. Quest’ultima, pertanto, impugnava con ricorso per l’ottemperanza il decreto di nomina e la nota con cui erano stati individuati i soggetti candidati alla procedura, chiedendone la declaratoria di nullità in quanto assunti in violazione o elusione del precedente giudicato. Il TAR Lazio accoglieva il ricorso per l’ottemperanza e il nuovo Direttore dell’ente parco impugnava suddetta sentenza resa in sede di ottemperanza, riproponendo le difese avverso i motivi di ricorso proposti dalla ricorrente e dichiarati assorbiti dal TAR[2].
Nel merito del giudizio di impugnazione, anche la ricorrente riproponeva i motivi di ricorso che il TAR, in sede di giudizio di ottemperanza, aveva dichiarato assorbiti e evidenziava, con distinta memoria, che “il Consiglio di Stato - anche qualora accolga l’appello, non ritenendo sussistente la fattispecie di nullità dichiarata dal TAR - non potrà che consentire al ricorrente in primo grado di procedere alla riassunzione del giudizio dinanzi al medesimo TAR, innanzi al quale il processo potrà proseguire, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda di annullamento, ai sensi dell’articolo 32, comma 2, c.p.a.” e che, per esserci la corretta ottemperanza al giudicato, l’ente parco avrebbe dovuto ““o inserire la dott.ssa – OMISSIS – nella terza terna dei candidati” oppure “quantomeno, prendere in considerazione la specifica posizione rivestita dalla dott.ssa – OMISSIS - […] esplicitando le ragioni sottese alla scelta di non inserirla nella terza terna dei candidati””[3].
Di contro, la Regione, che si era costituita in quanto cointeressata, depositava un documento dal quale emergeva il sopravvenuto collocamento a riposo della ricorrente, che, perciò, non avrebbe potuto essere nominata Dirigente. All’eccezione relativa all’insussistenza dell’interesse alla decisione sulla domanda di nullità per violazione o elusione di giudicato rappresentata dalla Regione Lazio, la ricorrente ribadiva la sussistenza del proprio interesse a ottenere la pronuncia sulla domanda di nullità ai fini risarcitori, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
La questione di rilievo che il Collegio affronta nella sentenza in commento è, perciò, l’applicabilità dell’art. 34, comma 3 c.p.a., nella parte in cui prevede il meccanismo di “conversione” della pronuncia costitutiva di annullamento, ex art. 29 c.p.a., in una pronuncia di accertamento dell’illegittimità dell’atto “se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, anche in sede di ottemperanza al giudicato, nel caso in cui sia sopravvenuta la carenza di interesse a una pronuncia di nullità per violazione o elusione del giudicato. A riguardo del rilievo dell’interesse alla pronuncia risarcitoria, la sentenza in commento richiama la sentenza del 13 luglio 2022, n. 8, secondo cui, per procedere all’accertamento dell’illegittimità dell’atto, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a, sarebbe sufficiente la mera dichiarazione di un interesse anche solo strumentale e morale alla domanda risarcitoria[4]. Tale interesse sarebbe configurabile nel caso di specie, poiché “malgrado l’avvenuto pensionamento, la ricorrente conserva comunque un interesse almeno morale alla decisione del ricorso ex art. 112 c.p.a., trattandosi di questioni comunque attinenti alla sua sfera professionale e alle gratificazioni, anche di carattere personale, che si possono ritrarre anche solo dalla possibilità di una nomina a un incarico apicale”[5]. La sentenza in commento ravvisa, perciò, la possibilità di convertire, nel giudizio di impugnazione della sentenza resa in sede di ottemperanza, l’azione di nullità in un’azione di accertamento dell’illegittimità dell’atto, in forza del fatto che la ratio dell’art. 34 comma 3 c.p.a. sarebbe quella di garantire, “in coerenza con l’art. 1 del c.p.a., una «tutela effettiva» del cittadino anche nel caso in cui – «nel corso del giudizio» – sia divenuta impossibile la tutela in forma specifica tramite l’annullamento dell’atto, ma si possa (e si debba) comunque fornire una tutela per equivalente. Il risarcimento diventa, così, l’unica forma di tutela cui l’interessato – illegittimamente colpito da un provvedimento viziato e lesivo – può aspirare”[6]. Pertanto, rileva il Collegio, “anche se il dettato del comma 3 dell’art. 34 fa esplicito riferimento (soltanto) all’azione di annullamento, la medesima ratio legisimpone di ritenere […] che il meccanismo di conversione possa essere invocato anche da chi rischia di perdere il bene della vita non a causa di un provvedimento illegittimo tout court, di cui «non risulta più utile l’annullamento», ma a causa di un provvedimento nullo per violazione di un giudicato, nel caso in cui – sempre «nel corso del giudizio» – sia sopravvenuta la carenza d’interesse a una pronuncia sulla sussistenza di questo profilo di illegittimità. Tale conclusione discende dalla inderogabile necessità, per la giurisdizione amministrativa, di assicurare anche nel giudizio di ottemperanza «una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo», secondo quanto stabilito dall’art. 1 c.p.a.. Questa norma, che pone all’inizio del codice del processo il fondamentale principio di effettività, deve assurgere a guida esegetica anche per l’interpretazione e l’applicazione delle altre disposizioni del codice, ivi compreso l’art. 34, comma 3, qui in questione. In caso contrario, la mera inerzia dell’amministrazione di fronte a una pronuncia del giudice rischierebbe di rendere inutile la pretesa del cittadino alla sua esecuzione, con perdita definitiva (anche «per equivalente») del bene della vita cui è preordinata la domanda di nullità per violazione o elusione del giudicato e conseguente lesione anche del principio di effettività della tutela”[7]. Il Collegio, pertanto, propone un’interpretazione estensiva dell’art. 34, comma 3 c.p.a., che costituirebbe “estrinsecazione di un principio generale che, in ossequio a consolidati canoni processuali, consente l’emendatio riduttiva di ogni domanda volta all’accertamento dell’invalidità del provvedimento amministrativo, ivi compresa la patologia più radicale di cui all’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990. Alla stregua di quanto esposto, anche chi ha proposto azione di ottemperanza ex art. 112 c.p.a. potrà (limitarsi a) domandare – come avvenuto nel caso di specie – l’accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini esclusivamente risarcitori ex art. 34, comma 3, del medesimo codice”[8].
Il Consiglio di Stato (Sez. IV), in sede giurisdizionale, pertanto, accoglie l’interpretazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. per cui sarebbe possibile convertire l’azione di nullità in una declaratoria di illegittimità del provvedimento e degli atti impugnati e respinge l’appello, confermando la sentenza impugnata con diversa motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata obbliga la Regione Lazio “a vagliare l’opportunità di individuare il Direttore dell’Ente Parco fra i candidati presenti nella prima terna elaborata” [9], che esula dal perimetro del giudicato.
2. I presupposti per la conversione dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
Come noto nel processo amministrativo la conversione della domanda è disciplinata dall’art. 32 comma 2, secondo periodo c.p.a. La norma, dopo aver disposto che il giudice qualifica la domanda sulla base degli elementi sostanziali della stessa e, perciò, “superando l’eventuale nomen iuris scelto dalla parte”[10], afferma che “sussistendone i presupposti il giudice può sempre disporre la conversione delle azioni”. Con riguardo alla conversione di domande nel giudizio di ottemperanza, la giurisprudenza ha ravvisato la possibilità di una conversione ex officio[11], ad esempio, nel caso in cui a seguito dell’annullamento di un atto da parte del giudice amministrativo, l’atto emanato dall’Amministrazione, quando rinnova l’esercizio delle sue funzioni, sia impugnato “«[…]davanti al giudice dell’ottemperanza lamentando la violazione o elusione del giudicato ovvero la presenza di nuovi vizi di legittimità nella rinnovata determinazione[…]»”[12]. In tal caso, si è affermato che “«[…] il giudice dell’ottemperanza è quindi chiamato, in primo luogo, a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all'ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell'azione amministrativa, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori; nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall'amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, ne dichiara la nullità, con la conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda (quella cioè volta a sollecitare un giudizio sulla illegittimità dell'atto gravato); viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice dispone la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a.» ed inoltre, «ove ne sussistano i presupposti processuali, tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa»”[13]. La giurisprudenza rileva anche la possibilità di convertire ex art 32 co. 2 c.p.a. un ricorso in ottemperanza in un giudizio avverso il silenzio, ex art. 31 e 117 c.p.a., nel caso in cui “il ricorso per ottemperanza sia esperito per l’ottemperanza a una sentenza di annullamento di diniego di concessione, che contenga anche un esplicito riferimento alla necessità/obbligatorietà del Comune di pronunciarsi”[14].
L’art. 32, co. 2 c.p.a., pertanto, consente al giudice di disporre la conversione dell’azione in tutti i casi in cui sussista un rapporto di continenza tra le due domande, per cui la domanda “convertita” costituirebbe un minus rispetto alla domanda “da convertire”, in quanto già implicitamente formulata[15]. Con riguardo, in particolare, alla convertibilità dell’azione di annullamento in un’azione di accertamento ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., la giurisprudenza evidenzia la necessità di ravvisare anche un collegamento tra l’azione di accertamento e la domanda risarcitoria eventualmente formulata successivamente. A questo riguardo, l’Adunanza Plenaria, nella stessa sentenza n. 8/2022 evidenzia come secondo un orientamento minoritario, ai fini della conversione dell’azione di annullamento in una domanda di accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., sarebbe necessario che l’interessato alleghi i “presupposti della successiva domanda risarcitoria o, almeno, sarebbe necessario che sia comprovato sulla base di elementi concreti il danno ingiustamente subito […]”[16]. Di contro, secondo un orientamento maggioritario cui ha aderito anche l’Adunanza Plenaria con la sentenza del 13 luglio 2022, n. 8, l’art. 34, comma 3 c.p.a. deve intendersi nel senso che l’obbligo di accertare l’illegittimità dell’atto impugnato sussista in caso di espressa dichiarazione di interesse della parte ricorrente, non essendo necessaria l’allegazione degli elementi che dimostrino il danno concretamente subito[17]. Inoltre, con riguardo al rapporto tra la domanda di annullamento e la domanda risarcitoria si è rilevato che “se fosse stata proposta domanda di risarcimento in cumulo con la domanda di annullamento, il giudice, pur avendo accertato l’improcedibilità della domanda di annullamento, per il carattere autonomo della domanda risarcitoria, sarebbe comunque tenuto a pronunciarsi sulla stessa per il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.a., incorrendo, altrimenti, nel vizio di omessa pronuncia. In tale ricostruzione, pertanto, la disposizione contenuta nell’art. 34, comma 3, c.p.a. sarebbe del tutto superflua; essa, invece, si rende necessaria proprio per l’assenza di rituale domanda risarcitoria che la parte ben potrebbe proporre successivamente in autonomo giudizio, una volta ottenuto dal giudice l’accertamento dell’illegittimità dell’azione amministrativa”[18].
Con riguardo al primo orientamento, l’Adunanza Plenaria del 13 luglio 2022, n. 8 rileva che la manifestazione di interesse all’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato in un giudizio in cui sia pendente una domanda risarcitoria si ponga in termini di contraddizione logica con quest’ultima, poiché mentre nel caso del sopravvenuto difetto di interesse alla pronuncia di annullamento, la pronuncia di accertamento rappresenta “una modifica in senso riduttivo di una domanda già proposta, quella di annullamento”[19], nel caso in cui penda un’azione di risarcimento del danno “l’accertamento mero si palesa inutile ed è assorbito da quello che deve svolgersi in sede di esame della domanda risarcitoria”[20]. A tali conclusioni, la giurisprudenza è pervenuta coordinando l’art. 34, comma 3, c.p.a. con la disciplina processuale dell’azione di risarcimento contenuta nel codice del processo amministrativo, ossia con l’art. 30, co 5 c.p.a. [21], che consente di proporre l’azione risarcitoria nel corso del giudizio o comunque, entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento. È quindi evidente che il termine ultimo di decadenza per la proposizione dell’azione risarcitoria, che si pone oltre la definizione del giudizio di annullamento, non consentirebbe di ammettere la conversione dell’azione di annullamento in un accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato se fossero allegati alla domanda di annullamento i presupposti che consentirebbero la proposizione di un’azione risarcitoria. Pertanto, “l’interesse risarcitorio ai fini di una pronuncia di accertamento di illegittimità dell’atto impugnato si correla al termine ultimo previsto dalla disposizione ora menzionata, in forza della quale è possibile promuovere giudizi in successione per ottenere quella «tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» enunciata dall’art. 1 c.p.a. quale principio fondamentale della giurisdizione amministrativa. Nella cornice così definita, contraddistinta da un’ampia possibilità di scelta per il privato di modulare la propria strategia processuale a tutela dei suoi diritti ed interessi, la manifestazione dell’interesse risarcitorio ai fini dell’eventuale azione di risarcimento dei danni dell’atto originariamente impugnato, ma per il cui annullamento è venuto meno l’interesse nel corso del giudizio, consente al medesimo privato di ricavare dal giudizio di impugnazione un’utilità residua, impeditiva della pronuncia in rito ex art. 35, comma 1, lett c), c.p.a., nella futura prospettiva di una tutela per equivalente monetario che il codice consente di fare valere […]”[22]. L’Adunanza Plenaria rileva, quindi, come anche da altre disposizioni del codice del processo amministrativo, ai fini della sussistenza di un interesse ai fini risarcitori posto a condizione della pronuncia di accertamento dall’art. 34, comma 3 c.p.a., emerga la sufficienza di una mera dichiarazione di interesse alla pronuncia risarcitoria – da rendersi nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a., a garanzia del contraddittorio nei confronti delle altre parti – perché sorga l’obbligo per il giudice di accertare l’eventuale illegittimità dell’atto impugnato. Tra queste disposizioni, la giurisprudenza in esame evidenzia il rilievo del “l’art. 35, comma 1, lett. c), che prevede l’improcedibilità del ricorso «quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione», soggetta non solo all’eccezione di parte ma anche al rilievo officioso del giudice” [23] e dell’ “art. 104, comma 1, che nell’enunciare il c.d. divieto dei nova in appello, per cui «non possono essere proposte nuove domande”, precisa che resta «fermo quanto previsto dall’art. 34, comma 3»”[24]. Pertanto, osserva la giurisprudenza in esame, “dal punto di vista processuale il fenomeno è inquadrabile nella c.d. emendatio della domanda, in senso riduttivo quanto al petitum immediato, non integrante un mutamento non consentito nell’ambito del principio della domanda, come evincibile dalla clausola di salvezza rispetto al c.d. divieto dei nova in appello previsto dall’art. 104, comma 1, c.p.a., sopra richiamato. A sua volta, la dichiarazione di interesse risarcitorio in funzione dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato mira a provocare una pronuncia che seppur non modificativa della realtà giuridica, come invece quella demolitoria di annullamento, verte comunque su un antecedente logico-giuridico dell’azione risarcitoria, per la quale è conseguentemente predicabile l’attitudine a divenire cosa giudicata in senso sostanziale ai sensi dell’art. 2909 del codice civile”[25]. Pertanto, rileva il Collegio nella sentenza in esame, “sulla base di quanto ora esposto si trae l’ulteriore corollario per cui l’accertamento richiesto è esattamente quello che il giudice avrebbe dovuto svolgere nell’esaminare nel merito la domanda di annullamento, donde […] la necessità di svolgere un’istruttoria laddove necessario, con la sola differenza che in caso positivo tale accertamento non va a costituire il presupposto per la pronuncia costitutiva di annullamento dell’atto impugnato, ma esaurisce il contenuto della pronuncia (di accertamento mero) con cui il giudizio è definito”[26]. Pertanto, la ratio sottesa all’art. 34, comma 3, c.p.a., che consente l’applicabilità della norma anche a fattispecie diverse da quella indicata e, perciò, anche in sede di giudizio di ottemperanza, non può che essere ravvisato nella previsione della possibilità di esperire un’azione di mero accertamento, che non si limita a momento logico propedeutico al giudizio sulle altre azioni di cognizione (di condanna e costitutiva), ma esaurisce in sé lo scopo del processo[27]. “Con la particolarità che qui l’incisione della situazione giuridica sostanziale non consiste nella condizione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, originata dalla contestazione di controparte, che si intende con l’azione di mero accertamento eliminare. L’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), piuttosto, è integrato dalla necessità di economizzare un giudizio già instauratosi (ma destinato a concludersi in rito, per via di sopravvenienze), deragliandone il percorso in funzione dell’accertamento di una parte (quella riferita alla illegittimità dell’atto) dei fatti costitutivi necessari ai fini dell’accoglimento della (eventuale) azione risarcitoria (in sostanza, dall’annullamento dell’atto si passa ad una sentenza generica su di una frazione dell’ an della pretesa risarcitoria)”[28].
3. Brevi cenni sull’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato come azione costitutiva e sua convertibilità in un’azione di accertamento.
Con riguardo al problema della conversione dell’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato in una pronuncia di accertamento si ritiene utile richiamare l’art. 31, comma 4 c.p.a. che, disciplinando l’azione di nullità, dispone un regime giuridico diverso a seconda della singola fattispecie di nullità che, di volta in volta, è configurabile nel caso di specie. La letteratura pare concorde nel ritenere che la fattispecie di nullità per carenza assoluta di potere sia inquadrabile in un’ipotesi di nullità-inesistenza e, perciò, sia riconducibile alla giurisdizione del giudice ordinario[29]. Diversa, invece, è l’azione di nullità relativa ai casi di nullità testuale, per cui la previsione di un termine di decadenza di 180 giorni per la proposizione della domanda conduce a presumere che le fattispecie di nullità riconducibili al regime giuridico di cui all’art. 31, comma 4 c.p.a. siano quelle in cui l’atto nullo è idoneo a produrre conseguenze sul piano giuridico. Si è quindi affermato come la pronuncia di nullità di cui all’art. 31, comma 4 c.p.a. sia più propriamente da considerarsi come una sorta di “annullabilità rafforzata”[30] poiché, non essendo possibile, dopo la scadenza del termine, contestare la nullità del provvedimento, non sarebbe neppure possibile contestare che quel provvedimento, pur essendo invalido, continui ad esistere e a produrre effetti. A tale ricostruzione non osta la Costituzione, che all’art. 113, comma 3 Cost., nel disporre che la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa, sembra consentire al legislatore di prevedere conseguenze diverse dall’annullamento di teoria generale a fronte di un provvedimento illegittimo[31], purchè sia garantita una tutela non inferiore rispetto a quella che sarebbe garantita dalla pronuncia di annullamento[32]. L’annullamento, pertanto, non è la conseguenza necessaria, ma una conseguenza possibile dell’“illegale” esercizio del potere, potendo il legislatore disporre anche una tutela risarcitoria o di nullità come sanzione dell’illegittimità. Decorso il termine di decadenza di 180 giorni, quindi, l’atto diventa inoppugnabile e i suoi effetti non possono più essere contestati. Con la conseguenza che quegli effetti esistono e, pertanto, l’azione di nullità in esame sembra avere una natura costitutiva.
Lo stesso art. 34, comma 4 c.p.a. dispone, infine, che tale regime giuridico non si applica alle nullità di cui all’art. 114, comma 4, lettera b, ossia ai casi di nullità per violazione o elusione del giudicato, per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV. Sembra opportuno chiarire, a questo punto, se l’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato abbia, anch’essa, una natura costitutiva oppure meramente dichiarativa poiché, se fosse configurabile una natura dichiarativa, si presenterebbero alcune criticità con riguardo alla possibilità di individuare il criterio della continenza – per cui sarebbe possibile convertire un’azione in un’altra solo entro una logica “riduttiva”[33] – come riferimento per applicare l’istituto della conversione. Infatti, già altri hanno dubitato della continenza come criterio utile a individuare i presupposti della conversione[34]. Tale criterio “si rivela ancor più critico nel caso della conversione reciproca tra giudizio di ottemperanza e giudizio ordinario, poichè consente la conversione in via unidirezionale, dall’azione di nullità a quella di annullamento e nel caso dell’implicita conversione dell’azione di annullamento in annullamento ex nunc, posto che la continenza pare giustificare la mutilazione dell’azione di annullamento”[35]. La dottrina in esame, pertanto, rileva la necessità di una maggiore valorizzazione della vicenda sostanziale rispetto alla conversione, “restituendo centralità […] alle allegazioni delle parti e, dunque, al generale principio della domanda”[36]. Perciò, “si potrebbe anche dire […] che si realizza un’ulteriore ipotesi di «continenza», atteso che le domande convertite devono essere «contenute» nelle allegazioni delle parti: si tratterebbe, dunque, di una continenza differente, non basata su indici quantitativi, ma fondata sulla centralità della vicenda sostanziale prospettata dal ricorrente e dettagliata nel contradditorio fra le parti”[37].
Tuttavia, l’applicazione del criterio della continenza, così come elaborato dalla giurisprudenza maggioritaria, nel caso di conversione dell’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato in un’azione di accertamento non sembra comportare particolari problemi. Infatti, non dissimilmente dai casi di nullità testuale pare che anche l’atto adottato in violazione o elusione del giudicato, in mancanza di impugnazione nel termine di prescrizione decennale, continui ad esistere e ad avere la forza necessaria per modificare la realtà giuridica sostanziale preesistente[38]. Infatti, tale atto non può che avere la stessa forza che aveva l’atto emanato in prima battuta dall’Amministrazione, prima della sua impugnazione e della formazione del giudicato. Tuttavia, mentre, nel giudizio di cognizione, all’illegittimità dell’atto segue il suo annullamento, alla reiterata violazione della medesima norma che regola l’esercizio del potere l’ordinamento riconduce la nullità per violazione o elusione del giudicato, dal momento che il ricorso per l’ottemperanza rappresenta un mezzo di coercizione più incisivo rispetto a quello offerto nell’ordinario giudizio di legittimità[39], in quanto strumentale al pieno soddisfacimento della stessa tutela di legittimità[40].
4. Conclusioni
Se, pertanto, la pronuncia di nullità per violazione o elusione del giudicato concretizza una sentenza costitutiva, il cui presupposto logico necessario è l’accertamento della violazione della medesima norma d’azione accertata nel giudizio di cognizione, sembra potersi ritenere che non dissimilmente dai casi di annullabilità del provvedimento per i quali è ammessa la conversione dell’azione costitutiva in un’azione di accertamento se sussiste un interesse ai fini risarcitori, anche nei casi di nullità di cui alla sentenza in commento possa applicarsi l’art. 34, comma 3 c.p.a. Come la pronuncia costitutiva di annullamento, infatti, sembra che anche la sentenza di nullità per violazione o elusione del giudicato possa scindersi in un effetto dichiarativo, coperto dal giudicato, e un effetto costitutivo. Sicchè, nel caso in cui venga meno l’interesse alla pronuncia costitutiva, il giudice possa limitarsi a accertare l’illegittimità del provvedimento per violazione o elusione del giudicato, che funge, a sua volta, da presupposto per la condanna al risarcimento del danno per equivalente.
Le ragioni che giustificano una interpretazione estensiva dell’art. 34, comma 3 c.p.a. sembrano potersi ricondurre non solo a elementi di carattere strutturale della tutela di nullità di cui all’art. 114, comma 4, lettera b c.p.a., ma anche, come rilevato dalla sentenza in commento, all’esigenza di garantire una tutela piena e effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo così come recepiti dall’ 1 c.p.a. La conversione dell’azione di nullità in un’azione di accertamento, infatti, consente di garantire una tutela per equivalente laddove la tutela in forma specifica, in sede di giudizio di ottemperanza[41], non sia più possibile. Tale tutela per equivalente, peraltro, oltre a essere un riflesso delle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 1 c.p.a., è esplicitamente garantita dall’art. 112, comma 3, c.p.a., per cui può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza […] azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione. Il ricorrente vittorioso, tuttavia, potrebbe esperire suddetta tutela risarcitoria per equivalente anche successivamente alla “declaratoria” di nullità per violazione del giudicato in forza dell’art. 30, comma 5 c.p.a.. L’art. 30, comma 5 c.p.a., infatti, sebbene disponga che l’azione risarcitoria può essere proposta sino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, sembra applicabile anche nel giudizio reso in sede di ottemperanza se si considera che il regime giuridico dell’azione di condanna di cui all’art. 30 c.p.a. vale anche per i casi di giurisdizione esclusiva, cui sembra rientrare anche il giudizio di ottemperanza (che tutela il diritto di pretendere dall’Amministrazione la prestazione dovuta) giacchè la tassatività dei casi di giurisdizione esclusiva, non esclude che si possa riconoscere i caratteri di tale giurisdizione in fattispecie già pienamente regolate dalla legge[42].
[1] Testualmente Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2024, n. 664, sub 3.3.
[2] Cons. Stato, cit., sub 8.1.
[3] Cons. Stato, cit., sub 8.5.
[4] Cons. Stato, cit., sub 10.2.
[5] Cons. Stato, cit., sub 10.4.
[6] Cons. Stato, cit., sub 10.2.
[7] Cons. Stato, cit., sub 10.3.
[8] Cons. Stato, cit., sub 10.3.
[9] Cons. Stato, cit., sub 11.6.
[10] S. FRANCA, La conversione dell’azione tra potere officioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. proc. amm., 1/2024, 148.
[11] V. per tutti Cons. Stato, Ad. pl. 15 gennaio 2013, n. 2, sub 4.
[12] Cons. Stato sez. IV, 30 agosto 2023, n. 8050, sub 12.
[13] Cons. Stato, cit., sub 12. Cfr. T.A.R. Lazio, sez. I - Roma, 25 agosto 2020, n. 9262.
[14] T.A.R. Lazio ,sez. I - Latina, 24 ottobre 2022, n. 825, massima dejure.it.
[15] Cons. Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 3997, sub 5. Sul rapporto di continenza nel caso di conversione di domande v. anche Consiglio di Stato sez. V, 02 luglio 2020, n. 4253, Cons. Stato, sez. VI, 4 maggio 2018, n. 2651; Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979; Cons. Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 3997.
[16] Cons. Stato, Ad. Pl., 13 luglio 2022, n. 8, sub 1. Cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 agosto 2017, sub 4.1.
[17] Sul rilievo dell’allegazione dei presupposti per la successiva proposizione dell’azione risarcitoria o comunque degli elementi concreti che comprovino il danno successivamente subito v. Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2016 n 1023.
[18] Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 2020, n 727, sub 3.2.
[19] Cons. Stato, Ad. Pl., 13 luglio 2022, n. 8, sub 22.
[20] Cons. Stato, cit., sub 21.
[21] Ibidem.
[22] Cons. Stato, cit., sub 16.
[23] Cons. Stato, cit., sub 9.
[24] Ibidem
[25] Cons. Stato, cit., sub 18
[26] Cons. Stato, cit., sub 19
[27] T.A.R. Lombardia, sez. I – Milano, 24 ottobre 2013, n. 2367, sub III.1.
[28] Ibidem
[29] Consiglio di Stato sez. VI, 27/01/2012, n.372; T.A.R. Torino, (Piemonte) sez. I, 22/01/2015, n.137; T.A.R. Pescara, (Abruzzo) sez. I, 09/10/2013, n.473; T.A.R. Roma, (Lazio) sez. II, 06/03/2013, n. 2432; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 16/07/2019, n.674. In dottrina v. C. E. GALLO, Sulla nullità del provvedimento amministrativo, in Dir. amm., 1/2017, 57-58 rileva: “Nella gran parte delle ipotesi in cui si contesta la nullità del provvedimento per carenza di potere o per difetto di attribuzione la giurisdizione è del giudice ordinario perché il provvedimento asseritamente nullo è l'atto con il quale l'amministrazione si confronta con il cittadino, meglio incide sulla sua posizione giuridica: l'accertamento della nullità impedisce, perciò, la lesione (si pensi alla nullità del decreto di espropriazione, anche nel caso in cui la nullità dipenda da un vizio di un atto del procedimento, quale è la dichiarazione di pubblica utilità, che, però, ha l'effetto di privare di potere l'amministrazione in sede di adozione dell'atto ablativo)”. Sulla nullità per violazione o elusione del giudicato v. R. FUSCO, Il sindacato giurisdizionale sulla riedizione del potere amministrativo a seguito del giudicato, in Dir. proc. amm., 1/2024, 67-109.
[30] Configura la “declaratoria” di nullità sottoposta al termine di decadenza di 180 giorni come “annullabilità rafforzata” B. SASSANI, Riflessioni sull’azione di nullità, in Dir. proc. amm., 2011, 275 s. Rileva D. CORLETTO, Sulla nullità degli atti amministrativi, in giustamm.it.: “Se l’atto amministrativo è lo strumento principale della concreta azione pubblica, se esso è, tanto per non mascherare la sostanza, la manifestazione del potere di comando e di controllo si di una società, è essenziale che sia efficace, che raggiunga i suoi scopi, e in sostanzia che sia obbedito. Le esigenze della effettività del potere pubblico, fino a che si vuole che un potere pubblico vi sia, sono evidentemente incompatibili con un regime di inefficacia radicale degli atti, tale da autorizzare la disobbedienza al provvedimento, la piena irrilevanza di questo. Il regime della nullità, per essere compatibile, o anche solo pensabile con riferimento agli atti del potere pubblico, non può configurarsi quindi altrimenti che ammettendo che l’atto sia comunque per l’intanto efficace, se può e riesce ad esserlo, fino a che la nullità non viene dichiarata o accertata. Sotto questo aspetto (efficacia fino a contraria dichiarazione) il regime della nullità non può ragionevolmente differire da quello della annullabilità”.
[31] F. VOLPE, La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi illegittimi, in Dir. proc. amm., 2/2008, 342-350.
[32] F. VOLPE, ult. op. cit., 346-348.
[33] S. FRANCA, La conversione dell’azione tra potere officioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. proc. amm., 1/2024, 151.
[34] S. FRANCA, ult. op. cit., 153-169.
[35] S. FRANCA, ult. op. cit., 177.
[36] Ibidem.
[37] S. FRANCA, ult. op. cit., 178.
[38] Rileva come nell’atto adottato in violazione o elusione del giudicato sia configurabile una “violazione del dovere di esercitare il potere secondo la disciplina del caso data dal giudicato” D. CORLETTO, Sulla nullità, cit. Sulla nullità per violazione o elusione del giudicato v. anche M. D’ORSOGNA, Violazione ed elusione del giudicato nella nuova disciplina delle nullità dei provvedimenti amministrativi, in giustamm.it.
[39] F. VOLPE, Norme di relazione, norme d’azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 534.
[40] F. VOLPE, ult. op. cit., 533.
[41] Rileva come il giudizio di ottemperanza sia uno “strumento volto a garantire l’effettività della tutela costitutiva di annullamento erogata in fase di accertamento dal giudice amministrativo” F. FRANCARIO, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm. 4/2016, 1033.
[42] S. GIACCHETTI, Un nuovo abito per il giudizio di ottemperanza, in Foro amm., I, 1979, 2623.
Lo sciopero del 27 febbraio: un’“uditrice” fa sentire la sua voce, i mot uniti contro la separazione delle carriere
“Cambiando lavoro, stai cambiando anche tu?” Il seme del fico sacro, Mohammad Rasoulof
Nel corso del dibattito pubblico svoltosi al cinema Adriano di Roma il 27 febbraio scorso, in concomitanza con lo sciopero dei magistrati a difesa della costituzione, ho dismesso le vesti di magistrata ordinaria in tirocinio, sfidando la mia inesperienza a parlare in pubblico fra illustri relatori, per lanciare un messaggio alla società civile.
Come noto agli addetti ai lavori, il magistrato ordinario in tirocinio (cd. M.O.T.), è colui che, dopo il superamento del concorso in magistratura, affianca per un periodo, nel nostro caso della durata di un anno, un magistrato affidatario, collaborando e assistendolo nello svolgimento delle sue funzioni. Come suggerisce il termine stesso di “uditore”, con cui eravamo definiti fino al 2007, in questo periodo dovremmo dedicarci principalmente all’apprendimento e alla comprensione di un mondo nuovo e complesso, come quello al quale siamo approdati.
Tuttavia, in un’occasione come questa, far sentire la voce anche di un MOT era un diritto e, allo stesso tempo, un dovere.
Il nostro diritto di intervenire derivava non solo dagli intensi anni di studio che, con i miei 598 colleghi di tirocinio, abbiamo affrontato preparando il concorso in magistratura, e che ci hanno consentito di superare una selezione rigidissima, come è giusto che sia, e come spero che rimarrà sempre. Ma anche dalla tenacia e dalla forza di volontà che abbiamo dimostrato nel non arrenderci, continuando a studiare negli anni giorno dopo giorno, imperterriti e senza alcuna scadenza ravvicinata. Per chi partecipa al concorso in magistratura ormai è un dato scontato, che tende ad accettare come stato delle cose. Ma non è superfluo evidenziare che fra il momento della iscrizione al bando e quello delle prove scritte passano in media 8-9 mesi, cui segue la correzione degli elaborati (10 mesi di media), lo svolgimento degli orali (8-10 mesi), cui si aggiungono infine altri due mesi per l’approvazione del DM di nomina e della celebrazione del giuramento. Ciò significa che, eccettuati i colleghi che riescono a superare il concorso al primo tentativo, chi invece non si arrende ai primi insuccessi, continua a studiare negli anni, nonostante il tempo che scorre, destreggiandosi fra il lavoro, costosissimi costi di preparazione, e, talvolta, anche le necessità familiari.
E il diritto di parlare lo abbiamo rivendicato per spiegare il motivo per cui i MOT, prima ancora di prendere le funzioni, hanno deciso di scioperare, ed esprimere così, assieme ai colleghi più anziani, le ragioni del loro dissenso alla riforma.
La gioia per l’agognato successo si è subito infatti per noi colorata di amarezza nell’apprendere che, dopo questo lungo e faticoso percorso ad ostacoli, ad attenderci al nostro ingresso in magistratura si stagliava la riforma costituzionale. Una riforma che vorrebbe snaturare quella giurisdizione unitaria di cui abbiamo a lungo sognato di far parte: quell’ordine composto da individui indipendenti, autonomi e imparziali, che applica una legge “uguale per tutti”, tutela i diritti dei cittadini, invera il principio di legalità e quello dello stato di diritto, e così facendo protegge la democrazia.
L’amarezza è suscitata anche dal fatto che, grazie alle settimane trascorse alla Scuola Superiore della Magistratura, abbiamo sperimentato il sentimento di appartenenza ad un ordine unico. In questa sede i MOT di tutta Italia, futuri giudici e futuri PM, frequentano la stessa formazione, condividono idee, confrontano visioni e sviluppano così un’unica cultura della giurisdizione. Ma la riforma costituzionale ci vorrebbe separare e dovremmo distruggere ciò che abbiamo costruito, e dimenticare il sentimento di appartenenza comune che abbiamo sviluppato, come se tutto ciò non fosse mai avvenuto.
A maggio sceglieremo in ordine di graduatoria il nostro primo Tribunale di assegnazione e le funzioni che vogliamo ricoprire, se giudicante o requirente, e saremo noi ad assistere alla prima stortura della riforma in ordine cronologico. Perché ci saranno bravissimi e preparatissimi potenziali futuri PM che ben si guarderanno dallo scegliere una funzione che, se la riforma costituzionale venisse approvata, uscirebbe dall’ordine giurisdizionale così come lo conosciamo per divenire altro. Altro che rischia di ricadere nell’orbita di influenza dell’esecutivo e perdere il connotato di indipendenza che caratterizza il potere giurisdizionale. Ci saranno invece altri colleghi che, per ragioni di graduatoria, sceglieranno una funzione che non rispecchia la loro vocazione, senza poter ambire nemmeno una volta a poter cambiare funzioni correggendo il tiro, come accade nel sistema attuale. Ed è veramente un’occasione mancata quella di non assecondare appieno le inclinazioni, e non sfruttare al massimo le potenzialità e le rinnovate energie di 599 nuovi giovani colleghi, che si accingono a mettersi a servizio della società.
Dall’11 novembre stiamo frequentando le aule dei tribunali a fianco dei nostri affidatari e collaboriamo con loro con entusiasmo, impegno e dedizione, per poter arrivare il primo giorno della presa di funzioni più preparati che possiamo per svolgere un ruolo che ci appare quasi sacrale: amministrare la giustizia in nome del popolo italiano.
Siamo consapevoli della difficoltà tecnica del nostro lavoro e della pregnanza di ogni nostra singola decisione sui diritti fondamentali delle persone. Ci sentiamo da un lato onorati, dall’altra non lo nego, un po' tesi, e ben consci che, accingendoci a prendere le funzioni, dovremmo impiegare tutte la nostra cultura giuridica, la nostra sensibilità e il nostro equilibrio per essere sin da subito all’altezza del nostro delicatissimo ruolo.
In una situazione fisiologica, non dovremmo preoccuparci di altro, e questo già basterebbe a riempire i nostri pensieri. Sono, del resto, queste le stesse sensazioni descritte da tutti i colleghi più anziani nei racconti a proposito della loro esperienza come magistrati di prima nomina.
Tuttavia, i miei 598 colleghi di tirocinio, e i circa 800 futuri MOT che arriveranno dopo l’esaurimento dei due concorsi successivi in svolgimento, dovranno convivere anche con un’ulteriore e legittima preoccupazione.
Quella di non riuscire, nostro malgrado, a tutelare adeguatamente i diritti dei singoli, a non assumere le funzioni timorosi e impauriti, ad evitare meccanismi di giustizia difensiva, se la riforma costituzionale dovesse essere approvata, se, come è stato ventilato da giuristi ben più esperti di noi, dovesse vacillare il principio di indipendenza della magistratura. Se il nostro organo di autogoverno, cd. pietra angolare della nostra autonomia e indipendenza, diviso ed eletto per sorteggio, dovesse uscirne svilito, delegittimato, diviso e indebolito. Se, come paventato da parte di alcuni, la stessa ANM dovesse separarsi.
E volgiamo lo sguardo dalla riforma stessa al contesto generale in cui questa si inserisce.
Dovremo insediarci a dicembre nei tribunali di assegnazione (il più delle volte, tribunali di frontiera), e, come i colleghi più avanti di noi nel percorso ci raccontano, saremo verosimilmente chiamati a smaltire l’arretrato dovuto alla vacanza di organico che ha preceduto la nostra assegnazione. Talvolta anche a sopperire anche ad una problematica strutturale: le inefficienze del sistema giustizia. Ciò di cui la riforma, che è riforma della magistratura, e non della giustizia, non si occupa. E la giustizia, banalmente, avrebbe bisogno di maggiori risorse, umane e materiali, senza alcuna necessità di modificare la Costituzione.
È paradossale, per utilizzare un eufemismo, che la maggior parte delle persone guardi ai magistrati come una potentissima e irraggiungibile casta quando, appena entrati in magistratura, una delle prime evidenze che apprendiamo sono le condizioni in cui molti colleghi sono costretti a lavorare: facendo del loro meglio, lottando eroicamente contro dotazioni informatiche insufficienti, talvolta obsolete e mal funzionanti, personale amministrativo e polizia giudiziaria numericamente carente, tribunali fatiscenti, carceri sovraffollate.
Come se tutto ciò non bastasse, noi magistrati di prima nomina potremmo avere un compito aggiuntivo, e quanto mai arduo da assolvere: prendere decisioni che riteniamo giuste nel merito, esatte tecnicamente ma che sappiamo essere sgradite, in un contesto di continui attacchi del potere politico alla magistratura tutta (in ultimo, anche quella internazionale) e ai magistrati come singoli. In un contesto di ormai perenne violenza verbale e toni esasperati, in cui nell’ultimo mese abbiamo assistito, senza soluzione di continuità, alla vicenda delle mancate convalide del trattenimento dei migranti in Albania, alla vicenda Almasri a quella Lo Voi. In un contesto in cui i dettagli delle vite personali di coloro che assumono provvedimenti non graditi al potere vengono scandagliati e divulgati dagli organi di stampa.
In un contesto in cui la riforma costituzionale della separazione delle carriere viene brandita come un’arma contro di noi e presentata all’elettorato come una punizione a una magistratura troppo debordante, invadente, ostativa. Noi, nel frattempo, guardando indietro ai sacrifici compiuti per inseguire un sogno, increduli ci chiediamo: abbiamo studiato tanti anni per essere ostativi o non ostativi o per applicare la legge uguale per tutti e tutelare i diritti delle persone?
Ed ecco che, in questa contingenza storica, il diritto di parlare degli ultimi arrivati diventa un dovere civico. Quello di mettere in guardia la società civile rispetto alle concrete conseguenze per tutti dell’erosione del principio di indipendenza della magistratura: il grave e serio pregiudizio alla tutela dei diritti fondamentali di ognuno.
E volevamo che l’opinione pubblica fosse ben conscia del fatto che anche noi, appena entrati in magistratura, ci opponiamo alla riforma costituzionale. E che questo smentisce nei fatti l’addebito che viene continuamente mosso ai magistrati, quello di opporsi alla riforma per difendere uno status quo. Uno status quo che noi, per definizione, ancora nemmeno conosciamo. Per evidenziare che la tutela dell’indipendenza della magistratura è quanto di più lontano dall’essere un interesse corporativo, ma è interesse, prima di tutto, dei cittadini. Quello a non incappare mai in un giudice impaurito, condizionabile, non imparziale e indipendente.
Durante l’assistenza prestata nel corso della lunga malattia di mio padre ho incontrato moltissimi medici, e ricordo bene che le peggiori decisioni di cura, o dovrei dire non cura, sono state prese da quei medici che avevano perso di vista l’interesse che dovevano tutelare, quello di chi avevano davanti, del paziente, perché troppo indaffarati a ponderare le conseguenze legali delle loro scelte terapeutiche e assorbiti dalle loro strategie di medicina difensiva. Avendo vissuto tutto questo dalla parte del paziente, non vorrei mai e poi mai, da cittadino, avere a che fare con un magistrato simile.
La partecipazione dei MOT e dei giovani magistrati alle iniziative di dialogo con la società civile organizzate in tutta Italia, in concomitanza con lo sciopero del 27 febbraio a tutela della costituzione, è stata massiccia e particolarmente sentita. Fino a raggiungere picchi come quelli di Bologna (31 MOT su 35).
Del resto, proprio una collega MOT in servizio presso il Tribunale di Bologna aveva coraggiosamente e orgogliosamente preso la parola all’assemblea straordinaria indetta all’ANM lo scorso 15 dicembre. Quella stessa assemblea che ha deliberato, fra le altre cose, la giornata di sciopero del 27 febbraio.
I MOT che il giorno del 27 febbraio erano impegnati nella formazione alla Scuola Superiore di Scandicci non si sono arresi (ormai ci siamo abituati), e hanno in via del tutto spontanea manifestato il loro sostegno e la loro vicinanza, come da foto in apertura a questo articolo.
In un momento storico caratterizzato da conflitti, scontri e future separazioni, noi MOT, nel rispetto delle reciproche differenze di sensibilità di ognuno di noi, rimaniamo uniti in difesa della nostra Costituzione.
Il “posto” del diritto nelle regressioni democratiche ed il ruolo dei giuristi
Da costituzionalista e comparatista, intervengo con gratitudine, e preoccupazione, a questo evento in difesa della Costituzione.
La difesa della Costituzione, la difesa della democrazia costituzionale, è purtroppo più attuale che mai in questa epoca, in Italia e nel mondo.
Infatti, ormai da quasi venti anni, dopo la grande espansione della democrazia costituzionale (quella, per intendersi, delineata dall’art. 1, comma 2, della Costituzione italiana, intorno ai due pilastri della sovranità popolare e dei limiti che essa incontra) avvenuta negli anni 1990, siamo di fronte a un fenomeno nuovo, definito della “regressione democratica”, che investe non solo le nuove democrazie, come la Polonia, l’Ungheria, il Messico, la Turchia, ma si affaccia anche in quelle stabilizzate, come l’India, Israele, l’Italia, per non parlare degli Stati Uniti.
Si tratta – e questa è la principale novità nuovo rispetto agli autoritarismi del passato, che si instauravano con l’uso della forza, tramite colpi di Stato – di una erosione della democrazia costituzionale che avviene attraverso il diritto, in particolare il diritto costituzionale: esso è utilizzato sempre più, anziché come strumento di tutela dei diritti e delle libertà, quale meccanismo di conservazione e accentramento del potere, al punto che i regimi che scaturiscono da tali processi vengono anche etichettati come forme di autocratic legalism.
Lo scivolamento verso regimi non democratici è graduale, e per questo anche difficilmente individuabile: esso avviene attraverso una sequenza di mutamenti istituzionali (revisioni costituzionali, riforme legislative, abbandono di prassi e consuetudini costituzionali), che spesso, presi uno per uno, non paiono pericolosi, ma considerati nel loro insieme fanno entrare in crisi gli elementi strutturali della democrazia costituzionale, determinando la perdita di indipendenza del potere giudiziario, la limitazione dei poteri o addirittura la «cattura» delle corti costituzionali e degli organi indipendenti da parte delle maggioranze politiche, il controllo dei media ad opera del governo, la compressione dell’autonomia locale. Questi processi sono orientati a una concentrazione dei poteri in capo ai governi, spesso sostenuti da ampie e durature maggioranze elettorali.
È la tecnica preferita dei populismi, movimenti politici, guidati da leader carismatici, che pretendono di parlare in nome del popolo (del “vero popolo”, dell’“ordinary people”, come risuona nella retorica populista, cui vengono contrapposte le élite corrotte), come se il popolo fosse uno e avesse un’unica voce. Tale pretesa, la cui caratteristica più evidente è il carattere anti-pluralista, implica la negazione della mediazione e del compromesso, caratteristiche della democrazia rappresentativa, la richiesta che il popolo si esprima direttamente (preferibilmente con un sì o un no, su quesiti o persone) e senza limiti.
La strategia si ripete, un paese dopo l’altro, nell’ambito dell’Unione europea lo abbiamo visto in Ungheria e Polonia: appena saliti al potere, spesso attraverso elezioni svoltesi con sistemi elettorali fortemente premianti, i populisti prendono di mira la parte istituzionale della costituzione, i checks and balances nella forma di governo e l’indipendenza degli organi di garanzia, ovvero quell’insieme di meccanismi volti a limitare i governi e le maggioranze politiche che caratterizza la forma di Stato democratico-pluralista. Una volta insediatisi al potere, l’obbiettivo è creare le condizioni per non perderlo. Soltanto in un secondo momento procederanno ad attaccare direttamente le norme sui diritti, la parte valoriale delle costituzioni, imponendo la propria agenda politica che mira a scardinare, pezzo per pezzo, i valori fondanti delle democrazie pluraliste, in primo luogo la loro qualità di società aperte e inclusive.
L’esito è costituito da regimi che i politologi definiscono «ibridi»: infatti, essi non presentano tutti i tradizionali caratteri dei regimi autoritari, in quanto i diritti di libertà non sono totalmente soppressi e si fa scarso ricorso alle norme penali, mentre le elezioni continuano ad avere formalmente carattere competitivo (perciò la denominazione di competitive authoritarianism), benché di fatto le opposizioni si trovino ad essere private della possibilità di diventare maggioranza. Questo genera, a sua volta, corruzione e clientelismo, che rendono ancora più difficile una alternanza al potere.
È un fenomeno insidioso, benché ormai noto e studiato. C’è una grande difficoltà a mobilitare le opinioni pubbliche, in quanto si tratta di interventi normativi assai tecnici, difficili da spiegare ai non addetti ai lavori, e ai quali è arduo far appassionare le persone: la questione della composizione dei diversi Consigli e della Corte disciplinare nella revisione costituzionale in itinere ne costituisce un esempio lampante. Spesso, tra l’altro i sostenitori di queste “riforme” si avvalgono di argomenti tratti dal diritto comparato, manipolati e decontestualizzati, per mostrare che quel pezzetto di norma esiste in un qualche altro paese del mondo, un paese democratico, dove non ha provocato involuzioni autoritarie, secondo quello che viene definito il “comparativismo abusivo”, ovvero un uso improprio del diritto comparato, che isola alcuni istituti dal contesto e li assembla in un inimmaginabile “Frankenstate” autoritario.
Che fare, questo è l’interrogativo impellente. Un interrogativo che, in tutto il mondo, investe innanzitutto i giuristi, che si trovano in prima linea nelle regressioni democratiche, proprio in quanto il diritto è il principale strumento del quale si avvalgono i nuovi autocrati per mantenersi al potere. Mantenersi integri, ovviamente. E poi vigilare, studiare, replicare, informare, protestare, per generare una consapevolezza di quel che sta accadendo: altro da fare non c’è. Ciascuno nel suo ruolo, accademici, operatori del diritto tutti, inclusi i magistrati, libera stampa, forze politiche fedeli alla democrazia costituzionale, società civile. Il punto chiave è trovare il modo per comunicare temi complicati in modo chiaro, semplice, corretto e, se possibile, attraente. Da qui l’importanza di questa giornata, come momento iniziale di un percorso di consapevolezza per il nostro paese, per la nostra costituzione e la nostra democrazia.
Intervento nell’assemblea pubblica al cinema Adriano, Roma, nell’ambito dello sciopero dei magistrati a difesa della Costituzione.
Buongiorno a Tutti,
vorrei, innanzitutto, ringraziare l’Associazione Nazionale Magistrati per avermi invitato a questo evento, che è un’importante occasione di confronto sul tema della separazione delle carriere.
Confronto che, invece, è il grande assente dell’iniziativa del Governo, che ha avviato una procedura di riforma costituzionale con grandi proclami, ma senza aprire un dialogo costruttivo tra tutte le parti in causa, siano essi Magistrati, Avvocati o cittadini comuni, i primi ad essere interessati alle questioni legate alla Giustizia.
Il confronto è stato sostituito da un monologo, in cui il tema della separazione delle carriere ha acquisito una centralità tale da far svanire, dal dibattito sulla Giustizia, altri e ben più pressanti problemi che affliggono i nostri Tribunali.
Il Paese soffre di un cronico sovraccarico dei Tribunali e di una severa carenza di Magistrati.
Eppure, di questo non si parla più. Adesso, sembra che la priorità degli italiani sia il divorzio tra Giudici e Pubblici Ministeri.
L’esigenza, che viene reclamata a gran voce, sarebbe quella di garantire l’indipendenza della Magistratura giudicante da quella requirente; preoccupazione questa davvero peculiare, soprattutto in un Paese che non è certamente caratterizzato da qualche sorta di servilismo della Magistratura giudicante rispetto a quella requirente.
Già la mia semplice esperienza nel Foro di Milano ne è prova evidente.
Sono molte le inchieste di rilievo, avviate dalla Procura milanese, che, negli ultimi anni, non hanno superato il vaglio dibattimentale.
Se penso ai casi che ho trattato personalmente, mi viene subito in mente la vicenda MPS, che ha visto contrapposta la Procura di Milano già con l’ufficio GIP, su vari tronconi della vicenda, e poi con l’Autorità Giudicante, che sino ad oggi ha sempre assolto gli imputati, a dispetto delle richieste della Procura della Repubblica.
Il caso Eni Nigeria, balzato alle cronache nazionali per aver visto la Procura sconfessata, e il caso dei camici durante il Covid, che il Giudice dell’Udienza Preliminare non ha neppure consentito finisse a giudizio.
Per non parlare dei casi che hanno avuto un rilievo, oltre che mediatico, anche politico; casi che, negli ultimi tempi, sono sempre stati caratterizzati da decisioni della Magistratura giudicante contrapposte a quelle della Magistratura requirente. Come è avvenuto, ad esempio, nel processo Fondazione Open, con il proscioglimento dell’ex premier Renzi dalle accuse sollevate dalla Procura di Firenze.
È, quindi, evidente che non esista alcun problema di patologica commistione tra Giudici e Pubblici Ministeri. Eppure, non passa giorno senza che questa accusa venga elevata, accompagnata da continui attacchi nei confronti della Magistratura.
Attacchi sordi, qualunque sia la decisione assunta dai Giudici: condanne o proscioglimenti, non fa differenza, la Magistratura è comunque responsabile di abusi.
Ma attenzione, perché questo continuo riferimento ad asseriti abusi confonde i cittadini: i non addetti ai lavori potrebbero pensare che la separazione delle carriere sia la panacea di tutti i mali della Giustizia italiana. Ma così non è perché, come ho detto, in questo Paese non esiste un problema di indebita commistione tra Magistratura giudicante e requirente.
Senza contare che questo clima di contrasto tra il ceto politico e la Magistratura crea un terreno fertile per interventi esterni come quello di Elon Musk, che si è trovato nella condizione di poter esprimere dichiarazioni invadenti e irrispettose nei confronti della Magistratura italiana, nel silenzio più assoluto tanto della maggioranza quanto dell’opposizione.
Dichiarazioni intollerabili di fronte alle quali ho sentito il bisogno di scrivere una lettera indirizzata ai Direttori dei principali quotidiani nazionali per ricordare che difendere la Magistratura significa difendere la nostra democrazia, perché ogni attacco alla dignità delle nostre istituzioni e di chi le rappresenta ferisce il nostro senso di comunità.
Da qual momento in avanti, se possibile, la mia preoccupazione è aumentata.
Continuo a percepire un notevole disagio quando assisto al contraddittorio comportamento di chi, prima, celebra i Giudici garantisti, perché assolvono il Ministro Salvini, nel processo Open Arms, salvo poi affermare che la vicenda in questione sarebbe la prova dell’esigenza di procedere quanto prima alla separazione delle carriere, laddove la logica, mi pare, direbbe esattamente il contrario, dato che l’assoluzione è avvenuta a dispetto delle richieste della Procura.
Poi, dopo poco, si denigrano i Magistrati, perché sarebbero politicizzati, avendo condannato il Sottosegretario Delmastro, ma non si dice ai cittadini che, prima di esprimere un giudizio sulle sentenze e sul loro preteso carattere politico, bisogna prima leggere le motivazioni di quelle decisioni. È mai possibile che basti un dispositivo per dire che i Giudici sono politicizzati?
E soprattutto non si dice che, in quel processo, un autorevole Pubblico Ministero aveva chiesto l’assoluzione del Sottosegretario Delmastro.
Per carità, è giusto che ognuno sia libero di rivendicare la propria innocenza e tutti sappiamo che le sentenze possono essere ribaltate nei successivi gradi di giudizio. Ma non si possono accompagnare le legittime rivendicazioni della propria innocenza con offese gratuite nei confronti della Magistratura, perché questo clima di contrapposizione tra i poteri dello Stato è nocivo.
In questo modo, l’unico effetto che si ottiene è quello di screditare la Magistratura agli occhi dei cittadini, che ovviamente perdono fiducia nei confronti della Magistratura stessa. Soprattutto quando leggono dichiarazioni come quella della Sottosegretaria Siracusano, che - all’indomani della sentenza sul caso Cospito - ha affermato, testualmente, «noi andremo avanti sulla separazione e per dare argini al PM, fatevene una ragione»[1].
Come volete che siano interpretate dichiarazioni come questa? Esattamente nel senso che ho indicato prima, e cioè che di fronte ai presunti abusi della Magistratura occorra limitare i poteri dei Pubblici Ministeri.
Ma se vi è un intendimento di limitare i poteri dei Pubblici Ministeri significa che vi è una certa insofferenza verso la funzione giurisdizionale della Magistratura requirente.
Una funzione giurisdizionale che, come noi avvocati sappiamo bene, è proprio quella che ci ha consentito, in tutti questi anni, di rappresentare ai Pubblici Ministeri le nostre ragioni, portando ad altrettante richieste di archiviazione. E ciò è potuto accadere, perché i Pubblici Ministeri rispondono solo alla legge.
Non dobbiamo rinunciare alla funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri, perché è quella che consente loro di respingere pretese di invasioni di altri poteri, come i poteri economici e i poteri politici.
Non posso, quindi, che esprimere una seria inquietudine, sia come cittadino che come avvocato, quando si veicola l’idea che la riforma costituzionale sia volta a limitare lo strapotere dei Pubblici Ministeri, come se fosse il punto di partenza di un futuro condizionamento da parte del potere politico.
La riforma sulla separazione delle carriere non deve comportare la compressione della funzione giurisdizionale della Procura della Repubblica, perché è la più alta forma di garanzia per ogni cittadino.
*
Concludo ricordando, e lo dico veramente senza retorica, che bisogna portare rispetto alla Magistratura, non foss’altro per la storia della Magistratura: se viviamo in un Paese più libero, se oggi leggiamo sui giornali che la mafia è molto più debole, lo dobbiamo all’impegno, al coraggio e al sacrificio dei Magistrati. Fosse solo per questo, chi oggi ha lo scettro del potere non deve mancare di rispetto alla Magistratura.
Mi auguro quindi che, d’ora in avanti, cessino gli attacchi rivolti a Giudici e Pubblici Ministeri e si interrompa questa disinformazione sull’attività svolta dalla Magistratura.
Anche perché gli strumenti di divulgazione pubblica, che sono a disposizione del ceto politico, hanno una portata ben più ampia ed incisiva rispetto a quelli della Magistratura. E questa asimmetria nella diffusione delle informazioni pesa, perché sono certo che, ad oggi, l’opinione pubblica non abbia chiari i termini e gli effetti di questo disegno di legge.
Se il Governo vuole avviare un confronto serio su una riforma costituzionale di tale portata deve iniziare ad invertire la rotta: il rispetto nei confronti della Magistratura è il punto di partenza necessario per avviare qualsiasi dialogo sulla separazione delle carriere. Indipendentemente da quale sia la propria idea al riguardo.
È essenziale che un processo di riforma costituzionale avvenga in un clima di serenità, lontano da ogni forma di strumentalizzazione ideologica, che possa compromettere la qualità del confronto democratico. Il mio invito è questo: apriamo un dialogo, parliamo tutti, perché tacere oggi è l’assunzione di gravi responsabilità per il nostro domani.
[1] Fonte la Repubblica del 22 febbraio 2025 nel testo dell’articolo «Anm contro il governo “attacchi sconcertanti” Delmastro: “Ayatollah”».
Testo del discorso pronunciato da Giuseppe Iannaccone al Cinema Adriano di Roma in occasione dello sciopero dei magistrati in difesa della Costituzione indetto dall'ANM il 27 febbraio 2025.
La proposta di revisione che modifica l’assetto costituzionale della magistratura italiana
Sommario: 1. Premesse in tema di interventi sulla Costituzione - 2. La proposta di revisione costituzionale approvata dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025 smantella l’assetto costituzionale della Magistratura - 2.1. Perché deve essere riformato l’assetto costituzionale di uno dei tre poteri dello Stato? - 3. La revisione del principio secondo il quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” - 4. L’ossimoro dell’unico ordine composto di due ordini. La separazione della magistratura requirente dalla magistratura giudicante - 5. La funzione disciplinare.
1. Premesse in tema di interventi di revisione costituzionale
La proposta di legge di revisione in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare (p.d.l. n. C. 1917, di iniziativa della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio) costituisce il primo tentativo di incrinare l’assetto del sistema democratico del nostro paese come consacrato nella Costituzione della Repubblica Italiana, approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre del 1947.
Le leggi di revisione costituzionale, sino ad oggi quindici (legge di revisione Cost. n. 2/1963, n.1/1967, n. 1/1989, n. 1/1991, n.1/1992, n. 3/1993, m. 2/1999 n. 1/2007, n. 1/2000, n. 3/2001, n. 1/2003, n. 1/2012, n. 1/2020, n. 1/2022, n.1/2023), sono state tutte coerenti ai 139 articoli della Costituzione italiana.
In coerenza con il nucleo fondamentale della Costituzione gli interventi di revisioni hanno infatti rafforzato i diritti fondamentali, la parità di tutti i cittadini davanti alla legge, hanno ampliato la sfera dei beni collettivi da tutelare, hanno migliorato la tenuta del sistema democratico e infine regolato l’autonomia regionale.
Quanto ai diritti fondamentali è stato introdotto il divieto di estradizione dello straniero per reati politici (art. 10 e art. 26 l. cost. n.1/1967) ed è stata eliminata la pena di morte anche in caso di leggi militari di guerra (art. 27 l. cost. n. 1/2007).
In coerenza con il principio secondo il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge è stato modificato l’art. 96 che, nella versione originaria, prevedeva che “Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri sono posti in stato d'accusa dal Parlamento in seduta comune per reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni”.
La legge di revisione costituzionale n. 1/1989 ha sostituito l’articolo con la previsione secondo la quale: “il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati”, sono stati conseguente modificati i compiti della Corte costituzionale con riferimento ai processi di accusa contro i ministri (gli 134 e 135 legge n. 1/89).
In linea con la tutela dei diritti è stato introdotto il principio del giusto processo (art. 111 Cost. l. n. 2/1999).
Quanto alla parità è stata inserita la promozione delle pari opportunità in tema di accesso agli uffici pubblici (art. 51 legge cost. n. 1/2003), il riconoscimento del diritto di voto agli italiani all’estero (art. 48 l. cost. n. 1/2000).
Interventi hanno riguardato la tutela dell'ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni (art. 9 Cost. l. n. 1/2022). È stato inserito quale limite all’iniziativa economica il non recare danno alla salute e all’ambiente (art. 41 l. cost. n.1/2022). È stato dato rilievo costituzionale al valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell'attività sportiva in tutte le sue forme (art. 33 l. Cost n. 1/2023).
Per la migliore tenuta del sistema democratico è stato introdotto il principio dell’improrogabilità di ciascuna camera se non per legge e soltanto in caso di guerra (art. 60 l. Cost. n. 2/1963). È stata specificata l’immunità dei membri del parlamento (art. 68 l. cost. n. 3/1993). In materia di amnistia e indulto la delegazione del Presidente della Repubblica è stata sostituita da legge deliberata dai 2/3 dei componenti di ciascuna camera (art. 79 l. n. 1/1992). In materia di scioglimento delle camere è stato introdotto il limite temporale dei sei mesi prima della scadenza (88 l. cost. n. 1/1991). Con l’ingresso nell’Unione europea è stato poi dato rilievo costituzionale al pareggio di bilancio dello Stato (art 81, 97 l. cost. n. 1/2012).
Gli interventi di revisione hanno riguardato la composizione del Parlamento, senza influire sulla sua funzionalità. Sono stati introdotti correttivi con riferimento al numero dei parlamentari – numero fissato nel 1948 in proporzione alla popolazione – (gli articoli 56, 57 sono stati modificati prima dalla l. cost. n. 1/63 e poi dalla l. cost n.1/2020). È stata portata a diciotto anni l’età dell’elettorato attivo per il Senato (art. 58 l. n.1/2021). È stata introdotta interpretazione autentica della disposizione concernente la nomina da parte del Presidente della Repubblica dei senatori a vita (art. 59 l. cost. n. 1/2020).
Con la legge di revisione n. 3 del 2001 sono state introdotte modifiche al Titolo V della Costituzione (dall’art. 114 all’art. 132) che hanno diversamente perimetrato l’autonomia di regioni, province e comuni.
Questa breve rassegna delle leggi di revisione costituzionale conferma che la proposta di revisione costituzionale approvata il 16 gennaio 2025 è assolutamente distonica rispetto ai precedenti interventi, anche quanto ai tempi di prima approvazione alla Camera di un testo nella sostanza blindato.
Una pericolosa breccia alla Costituzione antifascista del 1948, in grado di ledere gravemente la tenuta del sistema democratico del nostro paese.
Sino ad oggi nessun intervento di revisione costituzionale ha riguardato l’assetto di uno dei tre poteri dello Stato.
La legge di revisione costituzionale in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare (p.d.l. n. C. 1917, di iniziativa della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, approvato il 16 gennaio 2025 dalla Camera dei deputati), costituisce il primo step verso la modifica dell’assetto costituzionale della magistratura così incidendo sul principio della tripartizione dei poteri dello Stato.
Il disegno di legge di revisione è ora all'esame del Senato (d.d.l. n. S. 1353) per il secondo passaggio dei quattro richiesti dall’art. 138 Cost. Se la legge non sarà approvata in seconda votazione da ciascuna delle due camere a maggioranza dei due terzi sarà possibile il ricorso alla consultazione referendaria e l’approvazione dipenderà dal voto popolare.
Per il referendum costituzionale non è previsto quorum, con il voto “sì” si approva la riforma con il voto “no” si rifiuta la revisione e la nostra Costituzione rimane integra.
È la prima volta, infine, che con legge di revisione costituzionale si incide in maniera significativa sulla spesa pubblica; il Consiglio Superiore della Magistratura costa 43 milioni l’anno, lo stanziamento annuo del Mef è di 38 milioni. In sostanza il CSM vive con i resti di spesa, senza avanzi di spesa non sarebbero possibili le ordinarie reingegnerizzazioni degli uffici.
Tanto per fare un esempio i consiglieri laici tra compensi (euro 255.000) e rimborsi spese (euro 50.000 circa) costano circa 305.000 euro l’anno (i consiglieri togati costano meno perché l’indennità è parametrata alla differenza stipendiale).
La spesa annua aumenterà dunque di 80 milioni l’anno, ad essere ottimisti e senza considerare le spese di start up.
Soldi che ben potrebbero essere spesi, ad esempio, per attenuare le carenza strutturali gravi della giustizia oppure nell’istruzione, nella sanità o per i carcerati.
2. La proposta di revisione costituzionale approvata dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025 smantella l’assetto costituzionale della Magistratura
La proposta di revisione costituzionale scompone e smembra la magistratura con effetti negativi sulla tenuta dei principi cardine dello stato di diritto e un vulnus al principio secondo il quale: “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” (art. 3 Cost.), come è scritto in tutte le aule dei Tribunali italiani.
La parità di tutti i cittadini davanti alla legge presuppone infatti l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, principio fondamentale dello Stato di diritto e della democrazia liberale.
Secondo l’insegnamento di Montesquieu: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che ciascun potere ponga limiti all’altro potere”.
Corollario della separazione dei poteri dello Stato è il principio che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
La Costituzione italiana, al Titolo IV, assicura il principio della separazione del potere giurisdizionale dal potere esecutivo attraverso un articolato sistema di garanzie e tutele, il cui principio cardine è incentrato nell’attribuzione, in via esclusiva, al Consiglio Superiore della Magistratura del compito di “governare” i magistrati. Si tratta di un governo c.d. autonomo, non autogoverno, in ragione dell’opzione dei Costituenti per una composizione mista, con prevalenza dei componenti togati, e ciò al fine di favorire uno stabile e significativo collegamento della magistratura con gli atri poteri dello Stato (M. Volpi, Gli organi di autogoverno, p. 56 in Ordinamento giudiziario, ed. Utet 2009).
Quando la Costituzione fu scritta – è bene non dimenticarlo – l’Italia usciva dal ventennio fascista, dagli orrori delle persecuzioni, dalla soppressione dei diritti fondamentali, dagli abusi dei Tribunali speciali, dalle ingiustizie dei procuratori del Re dipendenti dal Fascio e dall’accondiscendenza dei giudici al fascismo [1].
L’Assemblea costituente che aveva cocente la memoria del danno e piena la consapevolezza dei danni prodotti da uno “Stato che [aveva fatto] cose sporchissime” [2], di un esecutivo che aveva abusato senza limiti del suo potere vestì il potere giurisdizionale secondo l’attuale assetto costituzionale. I costituenti avevano sperimentato sulla loro pelle che i sistemi democratici non nascono una volta e per sempre, ma vanno costruiti e ricostruiti ogni giorno ( Fierro in Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo). Erano, dunque, determinati a consegnare, come lascito inestimabile alle future generazioni, una Carta costituzionale capace di ergersi a solido baluardo a difesa di possibili tentativi di abusi.
2.1. Perché deve essere riformato l’assetto costituzionale di uno dei tre poteri dello Stato?
La ragione dell’intervento sulla carta costituzionale è stata svelata dalla maggioranza di governo in occasione di decisioni assunte da giudici (magistrati giudicanti) o determinazioni assunte dai pubblici ministeri (magistrati requirenti) ritenute sgradite [3].
All’aperta manifestazione di non gradimento segue infatti, con crescente insistenza, il richiamo all’urgenza e improcrastinabilità della riforma della giustizia, riforma che però non riguarda la giustizia bensì la magistratura, il potere dello Stato che amministra la giustizia in nome del Popolo italiano in applicazione della legge.
Urgenza della “riforma” – che, come abbiamo detto, non è “della giustizia” –intonata come un mantra, contro i giudici civili dei tribunali chiamati a convalidare [4] [5], contro i giudici civili della Corte di appello a seguito del mutamento della competenza, contro il Procuratore di Roma per trasmissione, ex art. 6 legge costituzionale n. 1/89 al Tribunale dei Ministri della denuncia di Li Gotti. Il richiamo all’urgenza della “riforma della giustizia”, in concomitanza con decisioni considerate ostili al governo, ma attuazione del principio secondo il quale il giudice è soggetto solo alla legge sono state ripetute successivamente a dei decreti del Tribunale di Roma.
È dei giorni scorsi la sentenza di condanna di Delmastro, e la reiterazione dei richiami alla riforma [6]. La condanna seguita dalla richiesta di assoluzione del PM ha scompigliato la vulgata dell’appiattimento dei giudici ai pubblici ministeri, come già aveva fatto il Gip di Roma.
Alle manifestazioni di sgradimento dei provvedimenti giurisdizionali segue inoltre, ormai senza alcuna remora, la pubblicazione di dossieraggi, preconfezionati, relativi a fatti personali dei magistrati autori dei provvedimenti sgraditi.
Tanto ad evidenziare lo spasmodico tentativo di umiliare e al tempo stesso intimidire i titolari di quel potere diffuso che è il potere giurisdizionale, servitori dello Stato che esercitano le loro funzioni, con quotidiana abnegazione, tra carenze strutturali e di personale che il Ministero della Giustizia preferisce ignorare, con carichi di lavoro che sono i più gravosi in Europa. Attraverso il metodo del dossieraggio così come quello di iniziative disciplinari su iniziativa del ministro – anticipando la riforma costituzionale – si condizionano i magistrati chiamati ad assumere decisione sensibili per il governo.
3. La revisione del principio secondo il quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”
Il primo articolo attinto dalla riforma è l’art. 104, collocato al titolo IV della Costituzione rubricato “La magistratura”.
L’art. 104 della Costituzione, al primo comma, consacra il principio secondo il quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” e poiché la magistratura è, come si dice, un potere diffuso (ovvero in capo a ciascuno non soggetto a gerarchie) l’art. 107 della Costituzione, al terzo comma, consacra il principio che “i magistrati si distinguono solo per le funzioni”.
Il Consiglio Superiore della magistratura è un organo di rilevanza costituzionale (secondo la definizione di cui sentenza della Corte Cost. n. 148 del 1983), autonomo dal potere politico al quale spettano le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (art. 105 Cost.).
Il CSM, come stabilito all’art. 104 della Costituzione (commi dal 2 al 7) è presieduto dal Presidente della Repubblica, sono componenti di diritto il Primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di cassazione. È poi composto, per due terzi, da rappresentanti eletti dai magistrati ordinari (c.d. componente togata), e per un terzo da professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio, i quali sono designati dal Parlamento in seduta comune (c.d. componente laica).
Il vicepresidente è eletto in plenaria fra i componenti designati dal Parlamento. Tanto per ricordare l’autorevolezza dell’Organo, e l’importanza del ruolo del Vicepresidente, ricordiamo il prof. Vittorio Bachelet che fu ucciso dalle BR nel 1980, l’ultimo anno del quadriennio consiliare, proprio in ragione del ruolo rivestito. La sede del CSM dal 1962 è a piazza Indipendenza; il palazzo sede del Consiglio il 12 febbraio 2024 è stato intitolato a Vittorio Bachelet.
La proposta di riforma costituzionale, con la revisione del secondo comma dell’art. 104, smantella il CSM, quale unico organo costituzionale, deputato a garantire l’indipendenza della magistratura tutta, e lo divide in tre, due Consigli – uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente – [7] e un’Alta Corte di giustizia.
Ma non basta, con la revisione del quarto comma, svilisce tutti e tre gli organi, sostituendo all’elezione, da parte dei magistrati della componente togata, il sorteggio. La natura di Organo di Alta amministrazione e di rilevanza costituzionale stride con l’immagine del dado. Non esistono nel mondo consigli giudiziari centrali o giudici disciplinari composti mediante estrazione a sorte.
La rappresentatività della componente togata e la legittimazione elettorale della stessa garantisce l’autorevolezza delle delibere, delle risoluzioni e infine dei pareri che il CSM è chiamato ad emettere ai sensi dell’art. 10 della legge n. 195/1958 sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie. La competenza, la legittimazione democratica e la responsabilità verso gli elettori si riverberano infatti in competenza, legittimazione e responsabilità dell’Organo di Autogoverno verso i governati. I dibattiti assembleari che preludono le elezioni aumentano la trasparenza delle idee e delle intenzioni dei candidati. I magistrati con la candidatura manifestano il loro interesse e la loro passione per il ruolo, circostanza che garantisce maggiore impegno rispetto a chi potrebbe essere sorteggiato casualmente senza reale motivazione. Viceversa, il sorteggio può selezionare magistrati privi delle competenze necessarie. Non tutti i sorteggiati potrebbero essere motivati o interessati al ruolo, con l’effetto della perdita di efficacia dell’azione dell’organo.
Un organo di rilevanza costituzionale come il CSM, per l’importanza dei compiti rimessigli di governo di soggetti che esercitano in maniera diffusa un potere dello Stato, non può essere composto da magistrati che non abbiano le competenze specifiche.
La predisposizione a svolgere funzioni di alta amministrazione e di politica giudiziaria non è necessariamente correlata alla funzione giurisdizionale e non tutti i magistrati sono naturalmente disponibili a svolgere funzioni diverse da quelle giurisdizionali.
Insomma, è senz’altro errato l’assioma sul quale si fonda il sorteggio ovvero che qualunque magistrato può svolgere le funzioni di Consigliere del CSM. A questo proposito si ritiene utile riportare l’incisivo ragionamento di Giovanni Tamburino in CSM, Sistema elettorale Sezione disciplinare pubblicato questa Rivista nel 2011 fascicolo 1/2 “[...] l’argomento secondo cui dunque qualunque magistrato, essendo legittimato a giudicare e condannare anche in grado di rivestire degnamente il ruolo di consigliere superiore. L'ottimo chirurgo non è per ciò stesso in grado di amministrare un ospedale, né l'eccellente professore di dirigere l'università o il bravo giornalista di dirigere la testata dove scrive.
Il sorteggio realizza, secondo regola statistica, la scelta di consiglieri conformi alla capacità media dei magistrati. Capacità media nella quale sicuramente non è compresa l'idoneità ad amministrare un organo come il Csm.
Inoltre, nessun sorteggio può escludere la scelta dei magistrati al di sotto della media, con le conseguenze che l'organo di rilievo costituzionale potrebbe essere affidato a personaggi inadeguati senza potere in nessun modo rimediare.”
I sorteggiati non sarebbero legittimi rappresentanti della magistratura perché il tiro del dado non offre alcuna legittimazione. Il sorteggio priverebbe di consistenza e autorevolezza la componente togata del Csm e di riflesso l’Organo di autogoverno che va a comporre.
“Qui sta la ragione del rifiuto da opporre a un sorteggio che avesse rilievo sulla scelta dei componenti: ne uscirebbe un organo debole, privo di rappresentatività, senza legittimazione democratica, politicamente di dissanguato. È proprio ciò che va evitato.
Se finalità del CSM è la tutela dell'indipendenza della magistratura il Csm deve essere forte sul piano della legittimazione.
Dalla politica provengono i rischi maggiori per l'indipendenza.
Per questo il Costituente ha voluto il Csm sorretto dalla magistratura, tutta la magistratura con le sue idee e i suoi uomini migliori.
L'indipendenza della magistratura non è fatta per i giudici, ma per la società dei cittadini.
Nel momento della scelta della rappresentanza consiliare, essenziale al fine della concreta realizzazione di tale tutela, la volontà dei magistrati- elettori non solo deve essere libera di esprimersi, ma anzi deve esprimersi con il massimo della forza.
Il Csm intanto può realizzare la funzione di tutela in quanto incorpori la volontà della magistratura, traendo da ciò la sua legittimazione. E, dunque, nemmeno se il metodo del sorteggio desse la certezza di eliminare il correntismo potremmo ritenerlo accettabile”.
Se il C.S.M. è un organo di rilevanza costituzionale, tanto che è presieduto dal Presidente della Repubblica, allora è necessario che i suoi componenti siano tecnicamente preparati, si siano assunti con la candidatura la responsabilità delle loro scelte, siano autorevoli, capaci di relazionarsi e di mediare per operare in un organo collegiale che emette atti di alta amministrazione, destinati a incidere sull’organizzazione della giustizia. Come ha scritto Francesca Biondi, l’effetto del sorteggio sarebbe quello di un “Consiglio del tutto svilito, ridotto a mero organismo burocratico, in netto contrasto con l’esigenza di valorizzazione del pluralismo interno”. Come ha detto Azzariti nell’Audizione alla Camera del 23 giugno 2024, “Il metodo del sorteggio, determinando una composizione casuale dell’organo, non può che tradursi in una riduzione dell’autorevolezza del/dei CSM. Una riduzione di autorevolezza che rischia di compromettere tanto la capacità funzionale quanto la capacità rappresentativa dell’organo […] anche i meno commendevoli – che però saranno definiti in modo del tutto personale, meglio dire del tutto “casuale”. Si potrebbe icasticamente commentare: “cadendo così dalla padella nella brace”.
Oltre alla capacità funzionale è poi la capacità rappresentativa dell’organo che rischia di venire compromessa dal sistema della estrazione a sorte dei suoi membri.” E con riferimento alle correnti ha aggiunto “Mi chiedo: è possibile che si debba lasciare alla sorte la selezione per funzioni tanto delicate? La lotta al correntismo deve veramente utilizzare quest’arma distruttiva del merito e delle competenze?”
Ma non basta, mentre per i componenti togati il sorteggio è puro (tra circa 6500 giudici e 2000 pubblici ministeri), per i componenti laici il sorteggio è temperato. La revisione costituzionale prevede infatti la previa formazione di una lista di professori universitari e avvocati predisposta dal parlamento in seduta Comune; non è precisato nel testo della legge di revisione costituzionale quanti nomi dovrebbe contenere la lista, questione rimessa alla legge ordinaria, potrebbe trattarsi dunque anche di una lista con un solo nome in più rispetto ai componenti da nominare.
La scelta della componente laica da parte della politica è destinata a compromettere l’equilibrio dell’autogoverno dove ad una scelta a sorte dei componenti togati faccia da contro altare una scelta tecnica dei componenti laici di estrazione politica.
Lo sbilanciamento determina il rischio del predominio della componente laica di estrazione politica su un’inesperta componente togata e ciò in danno del carattere autonomo del governo del CSM.
4. L’ossimoro dell’unico ordine composto di due ordini. La separazione della magistratura requirente dalla magistratura giudicante.
La revisione costituzionale trasforma il primo comma dell’art. 104 in un ossimoro “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” ma, al tempo stesso, è a sua volta composto da due ordini: i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti. L’utilizzo improprio del termine “carriera” – che evoca la possibilità di accumulare titoli e di salire quindi nella scala gerarchica della professione – non elide infatti che il riferimento sia a due ordini. La previsione di cui al terzo comma dell’art. 107 – non attinta dalla revisione – stabilisce come si è già accennato, che “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per la diversità delle funzioni” e dunque consacra l’assenza di carriera dei magistrati [sia giudicanti che requirenti], ciò a garanzia dell’indipendenza interna e in ragione del carattere di potere diffuso del potere giurisdizionale. L’utilizzo del termine carriere è improprio, trattasi infatti di ordini.
A parte la contraddittorietà insita nel prevedere un ordine autonomo e indipendente – dove “un” non è articolo indeterminativo ma aggettivo qualificativo – composto da due ordini, la previsione di un ordine della magistratura requirente, separato dalla magistratura è deleteria per il corretto esercizio della giurisdizione.
Separare la magistratura requirente dalla magistratura giudicante significa infatti accentuare l’autoreferenzialità dell’accusatore, allontanarlo dall’anelito verso l’accertamento della verità per spingerlo verso l’obiettivo del risultato ovvero quello della condanna dell’imputato.
Come ha scritto Giovanni Canzio in Questa Rivista “l’organo di giustizia sarebbe naturalmente sollecitato ad assumere il ruolo di incontrastato vertice della polizia giudiziaria, con la disponibilità di rilevanti risorse di personale e tecnologiche e con la funzione di dirigere indagini finalizzate al raggiungimento di obiettivi concreti e immediati, che potrebbero pure apparire sconnessi dalla lontana nel tempo e imprevedibile opera del giudice – terzo e imparziale - di ricostruzione probatoria dei fatti e della verità nel contraddittorio fra le parti.
Sembra evidente il rischio che, per una paradossale eterogenesi dei fini, prevalgano vieppiù logiche di chiusura corporativa, opposte alla linea, tracciata dalla Costituzione, dell’attrazione ordinamentale del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione.
In poche parole, con il distacco del pubblico ministero dal perimetro della cultura della giurisdizione si viene prospettando la costituzione di un secondo e autonomo potere giudiziario, indipendente da ogni altro potere dello Stato e dallo stesso potere pertinente alla giurisdizione in senso stretto, sulla base di un eccentrico e inedito modello nel panorama della giustizia internazionale, nel quale non è dato rinvenire il riconoscimento di un così largo statuto di autonomia e indipendenza a favore di un pubblico ministero “separato” dal giudice e dalla giurisdizione. Con l’effetto collaterale, certamente non auspicato dai promotori dell’iniziativa riformatrice, di legittimare, con l’ulteriore frammentazione dei poteri dello Stato, l’obiettivo rafforzamento, oltre ogni ragionevole limite, della sfera di influenza nel sistema di giustizia dell’organo di accusa, al quale, munito di ampie risorse investigative e di forti garanzie di autonomia e indipendenza, resta attribuito il ruolo di titolare esclusivo dell’inchiesta e dell’azione penale”(Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle “distinte carriere” dei magistrati. Eterogenesi dei fini, aporie e questioni aperte)
Insomma, la separazione degli ordini determinerebbe un effetto ben lontano dall’obiettivo della parità delle armi – nella breve fase del dibattimento penale. Nella sostanza ogni parità è negata dall’essere il PM un organo pubblico, il quale con la riforma diverrebbe un nuovo potere dello Stato, un potere di accusa avulso dal potere giurisdizionale, con buona pace degli avvocati che puntano il dito sull’unicità dell’accesso senza considerare che la parità è ontologicamente esclusa dalla natura pubblica dell’interesse che governa l’esercizio della funzione.
L’effetto della separazione è la creazione di un potere ben più forte e autoreferenziale comunque non paritario all’accusa, assai differente dall’attuale PM, che agisce nell’interesse della legge e non per accusare. Come è stato scritto nel parere reso ex art. 10 d.lgs. n. 195/1958 dal Csm la proposta di revisione costituzionale dell’art. 104 Cost. il potere dei procuratori diverrebbe: “il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell'epoca contemporanea, per cui sarà ineluttabile che di esso assuma il controllo il potere esecutivo”.
Un potere il cui unico limite sarebbe il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’articolo 112 della Costituzione che consacra il principio secondo il quale il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, anch’esso però a rischio in quanto atti da d.d.l. C. 23 cost. Costa, C. 434 cost. Giachetti, C. 824 cost. Morrone, contenente proposta di modifica nel senso che «il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge» e ciò con buona pace del principio della parità di tutti i cittadini davanti alla legge.
Se i magistrati sono legati da colleganza perché provengono tutti dallo stesso concorso perché, se si sospetta che il giudice delle indagini preliminari possa essere influenzato dai PM – salvo i casi delle imputazioni coatte – non si sospetta che anche i giudici di Tribunale possono essere influenzati dai Gip e così i giudici delle Corti di appello rispetto ai giudici di Tribunale e infine i giudici della Cassazione. E il PM degli affari civili, che pure svolge un ruolo essenziale in taluni processi civili, per quale delle parti della controversia civile potrebbe far pendere il giudice?
Ragionamento logico infatti porterebbe a ritenere che il peccato di origine dell’appartenenza a un unico ordine e dell’accesso con unico concorso riguardi tutti i laureati in giurisprudenza vincitori del concorso e dunque indiscriminatamente nessun magistrato sia terzo rispetto all’altro ma tutti condizionati o condizionabili.
I sostenitori della separazione delle carriere dovrebbero rendersi conto che quello che fa la differenza tra avvocato difensore e pubblico ministero è l’interesse sotteso alla funzione a ciascuno rimessa.
“Il pubblico ministero è organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi” [Corte cost., sent. n. 26 del 6 febbraio 2007], il difensore persegue (doverosamente) un interesse privato.
“Questa Magistratura requirente, protetta e garantita dal suo CSM, finirà per acquisire un ruolo e un peso che, prima o poi, sarà necessario intervenire di nuovo. Per ricondurre la corporazione dei PM al circuito democratico, verosimilmente sottoponendola all’esecutivo. In questo senso pare agevole pronosticare che, quella prospettata dal d.d.l. 1917, sarebbe solo una tappa intermedia rispetto a una traiettoria indefettibile. Con un esito – la dipendenza del PM dall’esecutivo – che non pare positivo, né auspicabile” ( Così Mitja Gialuz in audizione del 24 settembre 2024 davanti alla commissione i affari costituzionali che ha citato P. Ferua, Il modello costituzionale del pubblico ministero, cit., p. 33. 11.)
Come ha scritto Gaetano Silvestri: “spero vivamente di non dover ricordare tra qualche anno agli entusiasti sostenitori della separazione delle carriere, che hanno volutamente rinunciato ad una parte delle loro garanzie, favorendo la formazione di una categoria di accusatori di professione sempre più avulsi dalla giurisdizione in senso stretto e sempre più animati dall'ansia di risultato”. (22-23 ottobre 2004 XIX Convegno Annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Università degli Studi di Padova)
5. La funzione disciplinare
La legge di revisione sottrae al Consiglio superiore la funzione disciplinare, funzione con implicazioni enormi quanto all’indipendenza. L’iniziativa disciplinare rimessa al Ministero della Giustizia, oltre che al Procuratore generale potrebbe costituire uno strumento di intimidazione e di condizionamento della decisione idoneo a minare l’indipendenza dei magistrati.
La modifica dell’art. 105 Cost. toglie il compito disciplinare al CSM e lo attribuisce all’istituenda Alta corte di giustizia, composta da quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità. L’Alta Corte elegge il presidente tra i giudici nominati dal Presidente della Repubblica o quelli estratti a sorte dall’elenco compilato dal Parlamento in seduta comune.
All’Alta Corte è rimessa la funzione giurisdizionale dei magistrati ordinari, i magistrati amministrativi e contabili continueranno avere la loro giurisdizione domestica. In ordine all’assenza di autorevolezza della componente togata e la sua destinazione all’emarginazione vale quanto si è detto con rifermento al sorteggio delle componenti togate dei due CSM.
Ulteriore anomalia riguarda l’impugnazione delle decisioni dell’Alta corte impugnabili solo davanti la corte stessa secondo il testo della proposta “Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata”.
La diversa composizione tra giudice di prima istanza e giudice di seconda istanza non garantisce affatto l’indipendenza che deve necessariamente intercorrere tra il giudice che decide sull’incolpazione disciplinare e il giudice che decide sulla sentenza disciplinare.
L’espressa previsione “soltanto” ulteriori impugnazioni, ai magistrati ordinari giudicanti e requirenti condannati disciplinarmente sarebbe dunque precluso il ricorso per cassazione previsto dall’art. 111, comma settimo, della Costituzione che prevede “contro le sentenza e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”.
Sarebbe la prima volta che una legge di revisione costituzionale introduce una disposizione in contrasto con una norma costituzionale preesistente, con l’unica chance dunque di fare ricorso al principio secondo il quale il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti, ai sensi dell’articolo 2 e dell’articolo 24 della Costituzione – che in questo caso sarebbe leso –, è stato riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale quale principio fondamentale (cfr., tra le altre, Corte Cost. n. 238/2014), appare possibile domandarsi se la ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti decisori, per violazione di legge, assurga anch’essa, in tale contesto, a principio fondamentale.
Nel senso chiarito dalla Corte Cost. con la sentenza n. 1146/1988 nella quale si afferma che “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell’ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare fornita dall’art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all’accertamento della loro conformità ai (v. Sent. nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al sindacato di questa Corte (v. Sent. nn. 183 del 1973, 170 del 1984). Non si può, pertanto, negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore”.
Si rinvia alla lettura di Migliorare il Csm nella cornice costituzionale di Paola Filippi del quale in questo scritto sono stati ripresi alcuni passaggi.
Sul tema in questa rivista si legga Riforma del Csm. Le proposte della Commissione Luciani di Edmondo Bruti Liberati; le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione di Francesca Biondi, Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio di Francesco Dal Canto, La rappresentanza di genere nel CSM di Donatella Ferranti, Quale riforma per il CSM? Riflessioni sull’elezione del Vicepresidente e sul rinnovo parziale di Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura di Giacomo D'Amico Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici di Salvo Spagano; Quale sistema elettorale per quale csm di Edmondo Bruti Liberati; Dubbi di legittimità costituzionale sul sistema elettorale dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura secondo il "ddl Bonafede" di Antonio Mondini.
[1] La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3088-la-magistratura-al-tempo-di-giacomo-matteotti-di-giuliano-scarselli, Indipendenza dei giudici e riforme della giustizia ai tempi dell’omicidio Matteotti. Uno sguardo alle pagine di cento anni fa della Rivista “La Magistratura” https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3264-indipendenza-dei-giudici-e-riforme-della-giustizia-ai-tempi-dellomicidio-matteotti-uno-sguardo-alle-pagine-di-cento-anni-fa-della-rivista-la-magistratura-simone-pitto, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente di Andrea Apollonio, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio.
[2] La citazione è alla frase di Bruno Vespa al termine della puntata del 30 gennaio di “Cinque Minuti” (Rai1). «Sinceramente crediamo che non tutti gli Stati facciano cose sporchissime, che solo gli Stati che non rispettano i diritti umani che fanno cose sporchissime, che senz’altro il governo fascista fece cose sporchissime e comunque, come i nostri padri costituenti vogliamo insegnare ai nostri figli che le cose sporchissime non si fanno.»
[3] In tal senso Marcello Pera “La separazione delle carriere da sola non basta”, articolo pubblicato sul quotidiano il Foglio, 3 febbraio 2025.
[4] Decreti di non convalida dei trattenimenti dei migranti – Gli attacchi di esponenti della maggioranza di governo e attività di dossieraggio in danno della giudice Iolanda Apostolico hanno determinato le sue dimissioni v. Una giudice a Catania. Il caso Apostolico e le conseguenze degli attacchi politici alla magistratura
[5] Lettera del giudice Marco Gattuso al presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia letta in occasione dell’assemblea pubblica dell’ANM a Bologna il 4 novembre 2024, L’imparzialità del magistrato e l’uomo di vetro di Federica Resta, Giudici che dispiacciono. Come liberarsene di Vladimiro Zagrebelsky.
[6] «Una sentenza politica! Le sentenze non si commentano - ha scritto in un post su Facebook -, ma quelle politiche si commentano da sole! E questa sentenza si commenta da sola! Dopo che l’accusa ha chiesto per tre volte l’assoluzione, arriva una sentenza di condanna fondata sul nulla! Vogliono dire che le riforme si devono fermare? Hanno sbagliato indirizzo! Vogliono dire che il Pd non si tocca? Hanno sbagliato indirizzo. Io non ho tradito i miei ideali: ho difeso il carcere duro verso terroristi e mafiosi. Io non ho tradito! E gli italiani lo sanno! Attendo trepidante le motivazioni per fare appello e cercare un giudice a Berlino. E da domani avanti con le riforme per consegnare ai nostri figli una giustizia diversa». https://www.ilsole24ore.com/art/caso-cospito-delmastro-condannato-8-anni-rivelazione-segreto-d-ufficio-AGrVVl1C#U53342545206zph.
[7] Renato Balduzzi ha scritto che “l’esistenza di un Csm unitario rappresenta il più esplicito indicatore e, al contempo, il primo vincolo costituzionale nel senso della unitarietà dell’ordine della magistratura titolare del potere di esercitare la giurisdizione. La creazione di due organi separati altera quel modello perché punta alla formazione di due magistrature non solo funzionalmente, ma pure istituzionalmente e culturalmente distinte” (in “Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia”, Rivista “Gruppo di Pisa” - fascicolo n. 1/2024).
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