ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. I caratteri normativi della responsabilità amministrativa – 2. La giurisprudenza costituzionale - 3. I rapporti con la responsabilità civile – 4. ‹‹Doppio binario›› o ‹‹due volte sullo stesso binario››? – 5. La confluenza del ‹‹doppio binario›› - 6. Responsabilità civile per le ‹‹società in house›› - 7. Quale futuro per la responsabilità amministrativa?
1. I caratteri normativi della responsabilità amministrativa
La responsabilità amministrativa dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica ha trovato la sua prima formulazione nell’art. 82, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui «[l]’impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo».
La giurisdizione su questa responsabilità è demandata dall’art. 103 Cost. alla Corte dei conti.
Attualmente è regolata nei suoi profili sostanziali dall’art. 1 della legge n. 20 del 1994, mentre gli aspetti processuali sono delineati dal d.lgs. n. 174 del 2016 (Codice di giustizia contabile).
L’azione di responsabilità amministrativa è esercitata innanzi alla Corte dei conti dal pubblico ministero contabile.
I caratteri tipici della responsabilità erariale sono:
– è una responsabilità personale, sicché il relativo debito si trasmette agli eredi solo nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi;
– sotto il versante dell’elemento psicologico, è limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, restandone esclusa la colpa lieve (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, lettera a, del d.l. n. 543 del 1996, come convertito)[1];
– se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la rispettiva parte, sicché il debito che ne deriva dà luogo ad un’obbligazione parziaria e non solidale (art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20 del 1994);
– resta ferma l'insindacabilità nel «merito delle scelte discrezionali» (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994);
– nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità «si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole», mentre in ipotesi di «atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi» la medesima responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione (art. 1, comma 1-ter, della legge n. 20 del 1994);
– il giudice contabile può esercitare il cosiddetto “potere di riduzione” (art. 83, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto»);
– «[n]el giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità» (art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20 del 1994), dunque è caratterizzata dall’operare di una ampia compensatio lucri cum damno;
– il diritto al risarcimento del danno «si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta» (art. 1, comma 2, della legge n. 20 del 1994).
2. La giurisprudenza costituzionale
La giurisprudenza costituzionale ravvisa il carattere composito della responsabilità amministrativa, concorrendo a fondamento della stessa funzioni di prevenzione, risarcitoria e sanzionatoria (Corte cost., sentenze n. 132 del 2024, n. 123 del 2023 e n. 203 del 2022).
Più in particolare, la disciplina della responsabilità amministrativa in generale e del suo elemento soggettivo in particolare rivela una «combinazione di elementi restitutori e di deterrenza», rispondente alla «finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (Corte cost. sentenze n. 371 del 1998, n. 203 del 2022 e n. 355 del 2010).
La contemporaneità delle funzioni risarcitorie e di deterrenza della responsabilità amministrativa comporta che ad essa sia affidato non soltanto il compito di restaurare la sfera patrimoniale dello Stato, quand’anche quello di scoraggiare i comportamenti dolosi o gravemente negligenti dei funzionari pubblici, che pregiudicano il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e gli interessi degli stessi amministrati. Il punto di equilibrio ottimale postula, tuttavia, che sia altresì impedito che, «in relazione alle modalità dell’agire amministrativo, il rischio dell’attività sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento» (Corte cost., sentenza n. 132 del 2024).
Questa peculiarità dello statuto di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti ha fatto da traino alle più recenti evoluzioni della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità civile, allorché si è riconosciuto che, nel vigente ordinamento, vi sono già «disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento» e perciò sono ammessi anche risarcimenti punitivi (Cass. Sez. Un. 5 luglio 2017, n. 16601).
Potrebbe dunque dirsi non più attuale la conclusione interpretativa che rivendica una originalità per necessaria diversità tra la responsabilità amministrativa e le comuni regole della responsabilità civile alla stregua degli artt. 97 e 103, secondo comma, della Costituzione (ad esempio, Corte cost., sentenze n. 453 e n. 371 del 1998).
La Corte costituzionale, non di meno, riconosce tuttora la peculiarità della giurisdizione erariale della Corte dei conti rispetto alla concorrente responsabilità civile degli stessi agenti pubblici nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, rinveniente il proprio fondamento negli artt. 28 Cost. e 22 e seguenti del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che impone al danneggiante il risarcimento dei pregiudizi derivanti a terzi per effetto della propria condotta in forza di un illecito contrattuale (art. 1218 del codice civile) ovvero aquiliano (art. 2043 cod. civ.), rimessa al giudice ordinario.
Viene evidenziata la marcata attenzione della disciplina dell’illecito erariale all’elemento soggettivo, non solo per il requisito della condotta, commissiva o omissiva, imputabile al pubblico agente per dolo o colpa grave, ma anche perché, come prescrive l’art. 83, primo comma, dello stesso r.d. n. 2440 del 1923, la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto»: il c.d. «potere riduttivo» del giudice contabile determina una attenuazione della responsabilità amministrativa, nei singoli casi, che permette di tener conto anche delle capacità economiche del soggetto responsabile, oltre che del comportamento, del livello della responsabilità e del danno effettivamente cagionato. Sicché il danno erariale è il presupposto della giurisdizione contabile, ma non è di per sé sempre ed integralmente risarcibile (Corte cost., sentenze n. 340 del 2001; n. 183 del 2007).
Un’altra peculiarità della responsabilità amministrativa affidata alla cognizione del giudice contabile, valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale, è la regola generale della parziarietà della stessa (art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20 del 1994), essendo l’obbligo risarcitorio solidale l’eccezione (comma 1-quinquies) stabilita per i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo, a fronte dell’opposto regime operante nella responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale (artt. 1292 e 2055 cod. civ.).
Per traslato dalla diversità delle rispettive discipline che ne regolamentano l’attuazione (e, invero, pur a fronte di un’appurata sostanziale coincidenza degli elementi costitutivi oggettivi), la Corte costituzionale insiste nel ravvisare la reciproca indipendenza dell’azione di responsabilità per danno erariale promossa dal PM dinanzi alla Corte dei conti e di quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario: «[c]iò significa che un pubblico agente può essere convenuto affinché ne venga accertata la responsabilità per entrambi i titoli ovvero essere attinto da una soltanto delle due azioni, non sussistendo i presupposti per l’esercizio di entrambe, senza naturalmente che vi sia cumulo del danno risarcibile, erariale o civile››[2].
3. I rapporti con la responsabilità civile
Tanto, dunque, la responsabilità amministrativa rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti, quanto la responsabilità civile rimessa alla cognizione del giudice ordinario, cumulano, ormai, una ratio reintegratrice del patrimonio del soggetto leso ed una ratio di deterrenza e sanzionatoria dell’autore, rimanendo entrambe ancorate all’an, prima ancora che al quantum, del danno concretamente subito[3]. Il danno erariale (in forma di danno emergente, id est deterioramento o perdita di denaro, beni o altra pubblica utilità, ovvero di lucro cessante, id est mancata acquisizione di incrementi patrimoniali che l'ente pubblico avrebbe potuto realizzare) resta uno degli elementi costitutivi oggettivi essenziali della responsabilità amministrativa, insieme alla condotta e al nesso causale, nonché agli elementi soggettivi costituiti dalla qualità dell’agente e dal requisito psicologico.
L’effettivo danno erariale, il cui riscontro radica la giurisdizione contabile, può rivelarsi diretto o indiretto. È diretto il danno che cagiona immediatamente il pregiudizio economico dell’erario, senza che vi sia stato danno a terzi; è, viceversa, indiretto, quello che l’amministrazione ha patito per aver dapprima risarcito il terzo del danno causato dal dipendente.
Se manca il danno erariale, non possono svolgersi né la funzione di reintegrazione patrimoniale, né le funzioni di deterrenza e di pena della responsabilità amministrativa dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti. L’insussistenza del danno erariale e la negazione della responsabilità amministrativa discendono altresì quando il primo viene azzerato quale effetto della compensatio lucri cum danno o per l’esercizio del potere di riduzione che comunque spetta al giudice contabile.
È, dunque, la sussistenza del danno erariale il proprium della giurisdizione contabile, non potendosi essa sovrapporre né alla giurisdizione ordinaria sulla responsabilità civile correlata ad ogni attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere, né alla giurisdizione amministrativa erogatrice della tutela demolitoria e/o conformativa rispetto al provvedimento[4].
4. ‹‹Doppio binario›› o ‹‹due volte sullo stesso binario››?
La giurisprudenza della Corte di cassazione e la dottrina più autorevole tendono, in ogni modo, a smentire la tendenza osmotica funzionale fra responsabilità amministrativa e responsabilità civile.
La soluzione interpretativa tuttora più accreditata recita che non sussiste violazione del principio del ne bis in idem tra il giudizio civile introdotto dalla P.A., avente ad oggetto l'accertamento del danno derivante dalla lesione di un suo diritto soggettivo conseguente alla violazione di un'obbligazione civile, contrattuale o legale, o della clausola generale di danno aquiliano, da parte di soggetto investito di rapporto di servizio con essa, ed il giudizio promosso per i medesimi fatti innanzi alla Corte dei conti dal Procuratore contabile, nell’esercizio dell'azione obbligatoria che gli compete, poiché la prima causa è finalizzata al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell'interesse particolare della singola Amministrazione attrice, mentre l’altra, invece, è volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, con funzione essenzialmente o prevalentemente sanzionatoria (Cass. 5 settembre 2024, n. 23833; Cass. 20 dicembre 2018, n. 32929; Cass. 14 luglio 2015, n. 14632).
Ai fini del sindacato delle Sezioni Unite sul riparto di giurisdizione, si assume, così, immutabilmente che, a fronte di un atto o di un comportamento di un pubblico dipendente, che, in via di conseguenza diretta o indiretta conseguenza, cagioni un indebito esborso di denaro pubblico o la mancata percezione di somme spettanti all'amministrazione, oppure la compromissione di interessi pubblici di carattere generale, connessi all’equilibrio economico e finanziario dello Stato, la responsabilità erariale, di cui conosce il giudice contabile, e la responsabilità civile e penale, di cui si occupa il giudice ordinario, sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale. La responsabilità erariale svolgerebbe, come già detto, un ruolo prevalentemente sanzionatorio conforme ad un generale interesse pubblico all’efficienza della P.A. ed all’impiego oculato delle sue risorse, mentre la responsabilità penale perseguirebbe i reati e la responsabilità civile si interesserebbe di assicurare all’amministrazione danneggiata il pieno ristoro del suo patrimonio, secondo criteri riparatori e compensativi. L'eventuale interferenza che venga a determinarsi tra i relativi giudizi, perciò, porrebbe, secondo l’uniforme pensiero della giurisprudenza, esclusivamente un problema di proponibilità dell'azione di responsabilità da far valere davanti alla Corte dei conti (cioè di c.d. “limite interno”), senza dar luogo ad una questione di giurisdizione, a meno che non sia contestata dinanzi al giudice contabile la configurabilità stessa, in astratto, di un danno erariale, in relazione ai presupposti normativamente previsti per il sorgere della responsabilità amministrativa contestata, tanto valendo a porre una questione di giurisdizione, agli effetti dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e dell’art. 362 c.p.c., non essendo la Corte dei conti “il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni pubblici” (Cass. Sez. Un. 14 aprile 2023, n. 9988; Cass. sez. Un. 23 febbraio 2022, n. 5978; Cass. Sez. Un. 15 febbraio 2022, n. 4871; Cass. Sez. Un. 23 novembre 2021, n. 36205; Cass. Sez. Un. 4 giugno 2021, n. 15570; Cass. civ. Sez. Un. 19 febbraio 2019, n. 4883; Cass. Sez. Un. 28 dicembre 2017, n. 31107; Cass. Sez. Un. 7 dicembre 2016, n. 25042; Cass. Sez. Un. 21 maggio 2014, n. 11229; Cass. Sez. Un. 7 gennaio 2014, n. 63; Cass. Sez. Un. 28 novembre 2013, n. 26582; Cass. Sez. Un. 23 novembre 2012, n. 20728).
A conforto dell’attuale stato delle cose giurisprudenziale, nei saggi dottrinali si osserva che restano evidenti le differenze fra responsabilità erariale e responsabilità civile, la prima tuttora connotandosi per l’officiosità dell’azione promossa del Procuratore contabile; la personalità del vincolo; la limitazione alla colpa grave; l’intrasmissibilità agli eredi; i limiti alla solidarietà passiva; la valorizzazione del potere riduttivo dell’addebito. Si tratta dei capisaldi della teoria del c.d. “doppio binario”, che, in realtà, per restare nella metafora ferroviaria, è davvero antica come la prima locomotiva a vapore, e, secondo la quale, ‹‹non essendovi una giurisdizione erariale esclusiva, azione civile e azione per risarcimento da danno erariale si differenziano per natura, ratio e portata della misura restitutoria. In tal modo, viene mantenuta la responsabilità civile dell’agente pubblico verso terzi, mentre la responsabilità erariale si lega a rapporti “interni”, che trovano fondamento nel “rapporto di servizio”, assumendo così finalità deterrenti per rafforzare i doveri di diligenza nell’esercizio della funzione››[5].
Mi sembra che la tesi della inalterata ecosostenibilità della teoria del c.d. ‹‹doppio binario›› meriti, tuttavia, qualche rimeditazione.
L’assunto della solitudine per incomunicabilità tra giurisdizione contabile sul danno erariale e giurisdizione ordinaria sulla responsabilità civile, come accennato, viene ancora oggi – comprensibilmente - richiamato dalla Corte di cassazione per affermare che la deduzione di una doppia condanna per il cumulo di tali titoli non rientra fra quelle che possono sorreggere un ricorso avverso sentenza della Corte dei conti ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e 362 c.p.c., trattandosi di questione attinente non ai limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali di detto giudice, quanto alla proponibilità della domanda avanti al giudice contabile, e, quindi, ai limiti interni della sua giurisdizione, ovvero ad un error in iudicando per violazione del ne bis in idem.
Altrimenti, principi analoghi si continuano a leggere, nel decidere su motivi formulati ai sensi dell’art. 360, primo comma, c.p.c., per smentire che la Corte dei conti abbia giurisdizione esclusiva in tema di danni causati all’amministrazione del dipendente, restando la giurisdizione civile e quella contabile reciprocamente alternative ed indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale. Ne consegue che la giurisdizione della Corte dei conti per il giudizio sulla responsabilità dei funzionari che abbiano arrecato un danno all’erario è, si, speciale e particolare, ma non anche esclusiva, poiché non esclude la competenza del giudice ordinario sulla responsabilità civile, non essendovi illeciti di diritto pubblico e illeciti di diritto privato[6].
Ben diverso apparirebbe, invece, non prendere atto che:
a)sia l’azione di responsabilità amministrativa rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti su iniziativa dal pubblico ministero contabile, sia l’azione di responsabilità civile esercitata dall’amministrazione danneggiata dinanzi al giudice ordinario, seguono identiche finalità di reintegrazione del patrimonio del soggetto leso e di deterrenza e sanzione dell’autore;
2) la natura civile del giudizio di responsabilità contabile, orientato al solo risarcimento dell’amministrazione danneggiata, ne esclude la soggezione al principio del divieto di bis in idem (Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, sentenza 13 maggio 2014, Rigolio contro Italia), il quale appartiene al diritto penale e si traduce nel divieto di punire due volte un soggetto per un medesimo “fatto storico”, cioè per la stessa vicenda materiale; non ricorre pertanto in questa materia neppure la necessità della connessione sostanziale e temporale tra procedimenti sanzionatori, che governa i casi di “doppio binario” punitivo in senso proprio allo scopo di assicurare il rispetto proprio della proporzionalità della pena complessiva cumulata;
3) si pone qui, piuttosto, un problema tipico del giudicato civile, che deve essere sempre idoneo ad accertare “a ogni effetto” se ed a chi spetti il diritto al bene della vita in contesa, coprendo “il dedotto e il deducibile”, sì da a dettare una stabile, ed anzi definitiva, regula iuris nel rapporto tra le parti;
4) si tratta, in sostanza, di evitare la duplicazione delle pretese e la distorsione ultracompensativa delle conseguenti statuizioni risarcitorie che facciano capo ad un’identica vicenda sostanziale e al medesimo rapporto tra l’amministrazione danneggiata e il suo dipendente, e siano perciò inscrivibili nello stesso ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo (da ultimo, Cass. Sez. Un. 19 marzo 2025, n. 7299);
5) non rassicura, al fine di individuare un rapporto di specialità che dissolva il concorso apparente di responsabilità, l’una erariale, l’altra civile, il criterio del bene o dell'interesse protetto dalle concorrenti tutele giurisdizionali, dovendosi invece verificare che le rispettive condanne, pur coincidendo sotto il profilo dell’identità dell'avversato comportamento doloso o gravemente negligente del funzionario pubblico, si differenzino per il fatto di dar rilievo, l’una e non l’altra, ad ulteriori elementi tipizzanti[7].
5. La confluenza del ‹‹doppio binario››
A tali possibili incongruenze applicative ha meritoriamente posto rimedio in modo esplicito la più recente elaborazione della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che, pur partendo dall’assunto della diversità del rilievo, rispettivamente pubblico e privato, degli interessi tutelati dalle autonome azioni di responsabilità contabile e di responsabilità civile, ha affermato con chiarezza il limite – evidentemente interno delle concorrenti giurisdizioni, attenendo al loro modo di esercizio - del divieto di duplicazione delle pretese risarcitorie, violativa del principio di effettività del danno.
Questa evoluzione rappresenta il puntuale sviluppo della netta affermazione contenuta tra le righe nella sentenza della Corte costituzionale n. 203 del 2022, ove, come visto nelle pagine precedenti, ribadendo che il pubblico agente può essere convenuto per il danno arrecato all’amministrazione sia davanti alla Corte dei conti, sia davanti al giudice ordinario, si è utilizzato il caveat «… senza naturalmente che vi sia cumulo del danno risarcibile, erariale o civile››[8].
Si tratta di un passaggio che, invero, si apprezzava già in Corte cost. 7 luglio 1988, n. 773, ove, nel negare la illegittimità costituzionale dell'art. 26 del previgente codice di procedura penale, in relazione all'art. 489, secondo comma, dello stesso codice, che precludeva l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del giudicato penale che avesse provveduto alla liquidazione del danno in favore della Pubblica Amministrazione costituitasi parte civile, si sottolineava che «il fatto, nella sua fenomenica oggettività, è il medesimo …, e che pertanto esso non può … dar luogo ad una duplicità di pretese (e di conseguenze) risarcitorie››.
In tal senso, si è dunque precisato che «il limite del divieto di duplicazione delle pretese risarcitorie, che non incide sulla giurisdizione, impone di tener conto, con effetto decurtante, di quanto già liquidato in altra sede (contabile o civile a seconda della priorità che in concreto si riscontra fra le azioni) e che quel limite potrà essere eventualmente fatto valere dal debitore anche in sede esecutiva›› (Cass. Sez. Un. 26 giugno 2024, n. 17634; ma già, a ben leggere, in Cass. Sez. Un. 15 febbraio 2022, n. 4871; Cass. 20 dicembre 2018, n. 32929; Cass. 14 luglio 2015, n. 14632).
Rimangono alcuni punti di attrito: non esiste possibilità di coordinamento in ipotesi di contemporanea pendenza del giudizio civile e del giudizio contabile sul medesimo fatto; l’azione dinanzi alla Corte dei conti deve, poi, comunque ritenersi preclusa nel caso in cui la condanna erogata dal giudice ordinario abbia consentito l’effettiva integrale refusione del danno (così si è sostenuto, ad esempio, nella Relazione al codice di giustizia contabile, ove si affermava che il legislatore delegato avesse preso atto della impossibilità di vietare in assoluto alle pubbliche amministrazioni di intraprendere giudizi risarcitori nei confronti dei dipendenti dinanzi al giudice civile, che pur potrebbero porsi come temerari e fonte di danno aggiuntivo, oltre che di sicuro onere in ragione dei costi di difesa).
6. Responsabilità civile per le ‹‹società in house››
L’art. 12 (Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate) del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), dispone:
1. I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house. È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2.
2. Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione.
L’art. 12 d.lgs. n. 175 del 2016 ha dato attuazione all’art. 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche)[9], il quale, fra i principi e criteri direttivi del decreto legislativo per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, individuato il “fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza”, indicava “la precisa definizione del regime delle responsabilità degli amministratori delle amministrazioni partecipanti nonché dei dipendenti e degli organi di gestione e di controllo delle società partecipate” e la “eliminazione di sovrapposizioni tra regole e istituti pubblicistici e privatistici ispirati alle medesime esigenze di disciplina e controllo”.
Il problema sicuramente più delicato che la formulazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 lascia irrisolto è proprio quello della configurabilità di una responsabilità civile concorrente rispetto a quella erariale degli organi delle società in house.
La posizione originaria su cui si attestò la giurisprudenza delle Sezioni Unite si ritrova nella sentenza n. 26283 del 2013: quando la società partecipata da enti pubblici e danneggiata dai propri gestori ed organi di controllo presenta le caratteristiche di una cosiddetta società in house, occorre prendere atto che è impossibile realizzare un soddisfacente coordinamento sistematico tra l’azione di responsabilità dinanzi al giudice contabile e l’esercizio delle azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile, in quanto il danno erariale e il danno civile sono reciprocamente escludenti. Il danno cagionato dagli organi della società al patrimonio sociale, che può dar vita all’azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, è sofferto da un soggetto privato (la società) e non implica alcun danno erariale, sicché è inidoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti. Risulta viceversa configurabile l’azione del procuratore contabile quando sia volta a far valere la responsabilità dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico che sia stato danneggiato dall’azione illegittima non di riflesso, quale conseguenza indiretta del pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, bensì direttamente. Dunque, per gli organi di società in house, costituendo queste mere articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici da essa autonomi, il danno eventualmente inferto al patrimonio sociale è arrecato ad un patrimonio (separato, ma) riconducibile all’ente pubblico, ed è perciò sempre erariale.
Il tema era poi al centro della questione di giurisdizione decisa nell’ordinanza delle Sezioni Unite n. 5848 del 2015 con riguardo a regolamento proposto in pendenza di un giudizio civile di responsabilità degli amministratori di una società totalitariamente partecipata da un ente pubblico. Il Procuratore generale aveva concluso per l’inammissibilità del regolamento di giurisdizione, muovendo dal presupposto che tra l’azione erariale proponibile dinanzi alla Corte dei conti e l’azione sociale di responsabilità esperibile nei confronti degli organi di società a norma del codice civile non sussista un rapporto di esclusività, bensì di alternatività. Le Sezioni Unite, al contrario, evidenziarono che la questione di giurisdizione sussisteva, in quanto alcuni dei convenuti nel processo dinanzi al tribunale civile avevano eccepito il difetto di giurisdizione, assumendo di essere in presenza di una situazione che comporterebbe la giurisdizione esclusiva del giudice contabile. Il Collegio si interrogò, allora, se, nel particolare caso di danni cagionati ad una società in house, gli specifici argomenti che hanno condotto le Sezioni Unite ad affermare la giurisdizione della Corte dei conti nelle azioni di responsabilità promosse nei confronti degli organi sociali responsabili di quei danni - implicanti l’inesistenza, almeno a questo fine, di un vero e proprio rapporto di alterità soggettiva tra la società partecipata e l’ente pubblico partecipante - non debbano al tempo stesso portare, sul piano logico, ad escludere la possibilità di una (eventualmente concorrente) giurisdizione del giudice ordinario investito da un’azione sociale di responsabilità per i medesimi fatti”. La risposta a tale quesito si rivelò, tuttavia, superflua nel caso di specie, in quanto la società di cui si discuteva era divenuta in house nel corso della sua esistenza, ma non lo era al tempo in cui i suoi amministratori e sindaci avevano tenuti i comportamenti oggetto di causa.
Dopo la ventata privatistica che investì le società a partecipazione pubblica con il d.lgs. n. 175 del 2016 (indicativi risultano i già ricordati art. 1, comma 3, e art. 14, comma 1), le ordinanze delle Sezioni Unite n. 22406 del 2018 e nn. 4883 e 10019 del 2019[10] hanno affermato l’ammissibilità della proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio e conseguentemente riconosciuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento ad azioni di responsabilità esercitate dai curatori dei fallimenti di società in house” nei confronti degli amministratori, dei componenti degli organi di controllo e dei direttori generali delle stesse. La scelta del paradigma privatistico, in mancanza di specifiche disposizioni di segno contrario o di ragioni ostative di sistema, comporta l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato. Gli argomenti addotti da queste decisioni delle Sezioni Unite a sostegno del c.d. “doppio binario giurisdizionale” sono già stati esaminati nelle pagine precedenti: l’azione di responsabilità per danno erariale e l’azione civile intentata dalle amministrazioni partecipanti sono reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali: la prima è volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, mentre la seconda è finalizzata al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola Amministrazione. La responsabilità contabile non può rivelarsi altrimenti paralizzante dell’attuazione della tutela dei creditori sociali. Non indurrebbe a diverso esito interpretativo il “Principio di concentrazione” sancito dall’art. 3 del d.lgs. n. 174 del 2016 (in forza del quale, “[n]ell’ambito della giurisdizione contabile, il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice contabile di ogni forma di tutela degli interessi pubblici e dei diritti soggettivi coinvolti, a garanzia della ragionevole durata del processo contabile”), giacché comunque non può darsi una pronuncia di condanna da parte della Corte dei conti in favore della società in house anziché dell’ente socio, così da offrire tutela ai creditori sociali. Il rischio della “duplicazione dei risarcimenti”, che la concorrenza delle azioni porta con sé, è problema pratico che non può incidere sull’assetto delle giurisdizioni. Si segnala, infine, l’aporia che deriverebbe dal supporre il difetto di giurisdizione del giudice ordinario adito pure quando la giurisdizione della Corte dei conti non sia stata radicata, per non aver esercitato l’azione erariale il Procuratore contabile, unico a tanto legittimato.
Anche l’ordinanza delle Sezioni Unite n. 614 del 2021 ha valutato l’eventualità che l’esclusione del rapporto di alterità soggettiva tra la società in house e l’ente pubblico partecipante conduca, attraverso l’affermazione del concorso tra la giurisdizione del Giudice contabile investito dall’azione di risarcimento del danno erariale e quello ordinario investito della azione sociale di responsabilità, ad una duplicazione di giudicati inerenti al medesimo fatto; ciò non costituisce ostacolo alla coesistenza delle azioni aventi “ad oggetto il medesimo danno”, visto che le “due giurisdizioni sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, e tenuto altresì conto della tendenziale diversità di oggetto e di funzione tra i relativi giudizi”. Sicché, “il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, e non dà quindi luogo a questioni di giurisdizione ma, eventualmente, di proponibilità della domanda …, fermo restando il limite (che può essere fatto valere, se del caso, anche in sede di esecuzione) rappresentato dal divieto di duplicazione del risarcimento, il quale impone a ciascuno dei Giudici di tener conto, nella liquidazione, di quanto eventualmente già riconosciuto nell’altra sede”.
Questo ennesimo profilo dilemmatico del tema in esame è inevitabilmente correlato al testo della norma.
Quando il primo comma dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 fa “salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house” intende comunque riferirsi soltanto al danno erariale (la precisazione “nei limiti della quota di partecipazione pubblica” non rileva per le società in house, ove la partecipazione è totalitaria) descritto dal secondo comma, e cioè a quello “subito dagli enti partecipanti”? Se così fosse, sarebbero estranee alla giurisdizione contabile le domande aventi ad oggetto il danno subìto dal patrimonio dalla società in house, e cioè le azioni sociali di responsabilità ex art. 2393 c.c. e le azioni di responsabilità verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c.
Se invece pure si recidesse il collegamento, di cui ai due commi dell’art. 12, tra la clausola di salvezza della giurisdizione contabile per il danno inerente alle società in house e il danno subito dai soli enti partecipanti, riferendosi al generale ambito della giurisdizione della Corte dei conti nei giudizi di conto di responsabilità amministrativa per danno all’erario, resterebbe da trovare un giudice che conosca dell’autonoma azione dei creditori sociali diretta a far valere la responsabilità degli organi della società nei loro confronti a norma dell’art. 2394 c.c.[11] Né le esigenze di effettività di tutela dei creditori sociali potrebbero ritenersi soddisfatte dall’intervento nel giudizio erariale, essendo lo stesso rimesso all’iniziativa del procuratore contabile e operando in esso la responsabilità unicamente per i fatti e le omissioni commessi con dolo o colpa grave, la trasmissibilità del debito agli eredi nei limiti dell’illecito arricchimento del dante causa e dell’indebito arricchimento degli eredi stessi, il potere di riduzione della condanna, la condanna delle più persone che abbiano causato lo stesso danno ciascuno per la parte che vi ha preso, a meno che non abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo [12].
Oltre all’azione civile e all’azione contabile, tentano, dunque, di mantenere una specie di coesistenza pacifica e diffidente, tanto in giurisprudenza che in dottrina, tesi secondo cui il danno cagionato alla società in house è indistintamente un danno arrecato all’ente pubblico, unici essendo il soggetto ed il suo patrimonio, quanto meno in termini di appartenenza, e tesi che invece individuano azioni di responsabilità volte a risarcire il danno subìto dal patrimonio dalla società in house e non anche dal patrimonio dell’ente pubblico partecipante.
7. Quale futuro per la responsabilità amministrativa?
Com’è noto, un ampissimo dibattito ha suscitato la sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024, per aver essa tracciato gli scenari del mondo ideale della responsabilità amministrativa, della quale la sentenza ha auspicato una complessiva riforma per ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le trasformazioni dell’amministrazione “di risultato”, disegnando nuovi punti di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, con l’obiettivo di rendere la responsabilità ragione di stimolo e non disincentivo all’azione, così da debellare il fenomeno della “burocrazia difensiva” ed alleviare la fatica dell’amministrare, senza sminuire la funzione deterrente della responsabilità amministrativa[13].
La sentenza n. 132 del 2024 ha suggerito: un’adeguata tipizzazione della colpa grave; l’introduzione, in aggiunta al potere giudiziale di riduzione ex post, di un limite massimo (“tetto”) ex ante oltre il quale il danno, per ragioni di equità nella ripartizione del rischio, non venga addossato al dipendente pubblico, ma resti a carico dell’amministrazione; la rateizzazione del debito risarcitorio; la previsione di fattispecie obbligatorie di esercizio del potere riduttivo; il rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti, con il contestuale abbinamento di una esenzione da responsabilità colposa per coloro che si adeguino alle sue indicazioni; la incentivazione delle polizze assicurative; l’esclusione della responsabilità colposa per specifiche categorie di pubblici dipendenti, anche solo in relazione a determinate tipologie di atti.
Da ultimo, per quanto qui più interessa, la Corte costituzionale ha segnalato al legislatore l’opportunità di «intervenire per scongiurare l’eventuale moltiplicazione delle responsabilità degli amministratori per i medesimi fatti materiali e spesso non coordinate tra loro››[14].
Lo scenario che ne emerge, ricostruito anche alla luce del convergente progetto riformatore veicolato dalla proposta di legge A.C. n. 1621, non è univoco: da un lato, le ipotesi riformatrici sembrano volte a rafforzare la dimensione prettamente pubblicistica della responsabilità amministrativo-contabile, distaccandosi dagli irrinunciabili principi civilistici del danno effettivo e dell’integralità della riparazione risarcitoria, in nome di un bilanciamento tra contrapposti interessi, parimenti meritevoli di tutela, tra la funzione deterrente della medesima responsabilità erariale e l’alleggerimento della fatica dell’amministrare; d’altro lato, si intenderebbe incentivare l’utilizzo di strumenti prettamente privatistici, quali le coperture assicurative e gli accordi di conciliazione e transazione, che suppongono diritti disponibili e comunque non possono scalfire la garanzia di responsabilità personale e diretta dei funzionari e dipendenti dello Stato nei confronti dei cittadini, a norma dell’art. 28 Cost., il che dovrebbe costituire, piuttosto, un fattore di ulteriore frammentazione dei giudizi di responsabilità dinanzi alle diverse Corti munite di giurisdizione[15].
L’indicazione della incentivazione delle polizze assicurative dovrà confrontarsi con l’esigenza di consentire la chiamata in garanzia della società assicuratrice, il che non è ammesso nell’esercizio della giurisdizione della Corte dei conti.
Nella medesima prospettiva, andrebbero valutati gli effetti della profilata tipizzazione delle ipotesi di colpa grave, le quali varrebbero nella responsabilità del pubblico dipendente verso l’amministrazione e non verso i terzi, con necessità di coordinamento rispetto alle ipotesi in cui la stessa amministrazione, condannata a risarcire il danno al terzo, agisca poi in rivalsa nei confronti dell’impiegato.
Come, poi, mettere a regime la previsione di “tetti” di responsabilità ragguagliati al trattamento economico complessivo annuo quando tra l’autore dell’illecito causativo di danno patrimoniale e l’ente pubblico che il danno subisce non intercorre un rapporto di impiego in senso proprio, oppure quando il danno sia stato cagionato ad enti pubblici diversi da quelli di appartenenza dell’agente?
Come, ancora, ipotizzare fattispecie obbligatorie normativamente tipizzate di riduzione, entro un minimo e un massimo predeterminati, nella quantificazione di un danno che già conosce un potere di riduzione discrezionale, deve tener conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o dalla comunità amministrata, e impone di condannare ogni corresponsabile per la parte che ha contribuito al fatto dannoso?
Non appare, infine, improbabile un notevole incremento dei ricorsi per cassazione contro le decisioni della Corte dei conti, volti a denunciare la violazione delle nuove disposizioni di tipizzazione della colpa grave o dei divieti di cumulo di azioni, o il superamento del “tetto” della condanna risarcitoria, o il mancato esercizio della riduzione in ipotesi obbligatoria, o il mancato esonero ex lege da responsabilità per l’adeguamento osservato alla indicazioni espresse in sede consultiva, o per l’appartenenza a taluna delle specifiche categorie di dipendenti esentati, ove tutti questi innovativi parametri si intendessero non quali limiti di merito interni alla potestas iudicandi, quanto, piuttosto, quali presupposti normativamente previsti per il sorgere della responsabilità amministrativa contestata dal Procuratore contabile, perciò integranti questioni di giurisdizione.
[1] Com’è noto, l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, ha introdotto una disciplina temporanea dell’elemento soggettivo (prorogata con successivi decreti-legge fino al 31 dicembre 2024), che, quanto alle condotte attive, ha limitato la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti alle sole ipotesi dolose. La legittimità costituzionale di tale regime normativo provvisorio, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., è stata affermata nella già “storica” sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024.
[2] Così Corte cost. 28 luglio 2022, n. 203, che ha dichiarato inammissibili, per la richiesta di un intervento additivo precluso alla Corte costituzionale, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, cod. giustizia contabile, che rispettivamente prevedono il divieto di chiamata in causa di altri soggetti non evocati in giudizio dal p.m. e impongono comunque all’autorità giudiziaria di valutare la responsabilità di tutti i soggetti concorrenti nell’illecito ai fini della decisione sull’eventuale scomputo di quote di responsabilità a carico dei convenuti. La sentenza ha osservato che la norma censurata non esclude il possibile esercizio, da parte del giudice, in caso di «fatti nuovi», del potere officioso di segnalazione al p.m., che, titolare del potere di azione, potrà invitare il terzo a dedurre, al fine di discolparsi. Se invece la ipotizzata corresponsabilità del terzo derivi da un diverso apprezzamento da parte del giudice di fatti già valutati dal p.m., è giustificato il fatto che il terzo non possa essere chiamato a intervenire in giudizio, perché significherebbe un’inammissibile estensione officiosa della domanda del p.m., senza la garanzia, per il terzo, di una previa formale istruttoria e soprattutto senza il previo invito, a quest’ultimo, a dedurre e a discolparsi. Quanto, infine, alla possibilità di un’iniziativa volontaria del terzo stesso, essa implicherebbe la costruzione di una fattispecie processuale di suo intervento in giudizio e, prima ancora, di denuntiatio litis, che appaiono scelte di sistema devolute al legislatore. Tuttavia, secondo la Corte cost., il denunciato deficit di tutela del terzo, non convenuto e il cui intervento in giudizio non può essere ordinato dal giudice, né aversi su base volontaria senza aderire alla posizione del p.m., chiama il legislatore a intervenire nella materia, compiendo le scelte discrezionali ad esso demandate..
[3] Come osserva G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. Dir., Annali, X, 2017, 761, è “non eliminabile il rapporto che intercorre tra la natura giuridica della responsabilità amministrativa per danno erariale e le funzioni ad essa ascrivibili: la riconduzione alla responsabilità civile ne accentua infatti la funzione risarcitoria, e reintegratoria, del patrimonio delle pubbliche amministrazioni danneggiate; la costruzione di una natura giuridica propria, ed autonoma, rende invece più pronunciata la funzione sanzionatoria a carico degli agenti pubblici danneggianti”.
[4] R. Alessi, Responsabilità amministrativa patrimoniale, in N.ssmo Dig. It., XV, Torino, 1957, 623: ‹‹il fondamento della responsabilità che qui si esamina è la effettiva produzione di un danno erariale, cioè la violazione del diritto dell’amministrazione all’integrità del suo patrimonio, non la mera violazione di obblighi di comportamento incombenti agli impiegati (elemento che, eventualmente, potrà porsi come causa del fatto dannoso)››. Così, ancora di recente, L. Caso, Danno erariale e burocrazia difensiva, in Rivista Amministrativa della Repubblica italiana, 2023, 11-12, 623.
Per le tesi che hanno configurato la responsabilità amministrativa come speciale responsabilità di diritto pubblico, che ha fonte nel rapporto di servizio precostituito e si sostanzia nella violazione dei relativi obblighi, costituente un illecito amministrativo, si veda F. Garri, Responsabilità amministrativa, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, 1991, 1 ss.
[5] Così nel pregevolissimo contributo di G. Rivosecchi, Il bastone e la carota. Appunti su una proposta di riforma della Corte dei conti, in Osservatorio costituzionale, 4/2024, 9, che esamina criticamente i contenuti della proposta di legge A.C. n. 1621, di riforma complessiva delle funzioni affidate alla Corte dei conti, ove si cita indicativamente, a base della teorica del ‹‹doppio binario››, M.R. Morelli, Art. 28, in V. Crisafulli – L. Paladin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 199 e 202 ss.
[6] Le Sezioni Unite della Corte di cassazione riconoscono che la affermazione di una giurisdizione esclusiva in materia (come ad esempio sosteneva R. Alessi, Responsabilità amministrativa patrimoniale, cit., 624) e “l’eventuale ripensamento del principio del «doppio binario» … produrrebbe(ro) come effetto nella fattispecie quello dell’affermazione della giurisdizione del solo giudice contabile, giammai quello della negazione del potere di ius dicere in capo a quest’ultimo”: Cass. Sez. Un. 26 giugno 2024, n. 17634.
[7] L. Caso, Danno erariale e burocrazia difensiva, cit., 626 - 627, lamenta il ruolo passivo in cui il presunto autore del danno è relegato di fronte alla facoltà dell’amministrazione di scegliere tra la segnalazione alla Procura della Corte dei conti, la citazione innanzi al giudice civile o la costituzione di parte civile nell’eventuale processo penale, nonché il pregiudizio al diritto di difesa che lo stesso pubblico dipendente subisce allorché sia convenuto innanzi alla Corte dei conti per rispondere di un danno indiretto accertato in un giudizio civile cui egli sia rimasto estraneo.
[8] Corte cost. 28 luglio 2022, n. 203.
[9] Dichiarato costituzionalmente illegittimo, con riguardo alle lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge n. 124 del 2015, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata: Corte Cost. 25 novembre 2016, n. 251.
[10] Precedute dall’ordinanza n. 24591 del 2016 e dalla sentenza n. 7759 del 2017 che, sempre con riguardo a società in house, avevano già attribuito al giudice ordinario le azioni concernenti, rispettivamente, la nomina o la revoca di amministratori e sindaci e le procedure seguite per l’assunzione del personale dipendente.
[11] Le ragioni di tutela dei creditori sociali sono state sempre poste in primo piano in dottrina per confutare le soluzioni “pan-erariali”, sottolineandosi come la separazione dei patrimoni dell’ente pubblico e della società in house serve altresì a scongiurare il rischio che i creditori sociali possano agire nei confronti del socio pubblico o che i creditori dell’ente pubblico si rivalgano nei confronti del patrimonio sociale: C. Ibba, Responsabilità erariale e società in house, cit. 13 ss.; già C. Ibba, Azioni ordinarie di responsabilità e azione di responsabilità amministrativa nelle società in mano pubblica. Il rilievo della disciplina privatistica, in Riv. dir. civ., 2006, II, 145 ss.
[12] Così C. Ibba, Responsabilità erariale e società in house, in Giur. comm. 2014, 13 ss.; “[n]on bisogna dimenticare, infatti, che la responsabilità amministrativa ha presupposti e caratteristiche che limitano l’effetto riparatorio (perché è attivabile solo in caso di dolo o colpa grave, è tendenzialmente parziaria e intrasmissibile mortis causa ed è quantificabile — e di regola quantificata — in un importo ridotto rispetto all’ammontare del danno), sicché ammetterla nei confronti degli amministratori equivarrebbe a sacrificare le finalità di riequilibrio patrimoniale proprie della responsabilità civilistica ovvero, ove si ritenesse configurabile una successiva azione in sede civile per il danno residuo, a costringere a una «moltiplicazione dei giudizi» (cosa che peraltro supporrebbe il superamento dell’esclusività della giurisdizione contabile)”.
Si vedano più di recente M. Perrino, Responsabilità degli organi di amministrazione e controllo di società a partecipazione pubblica (anche in house) e riparto di giurisdizione, in Riv. dir. soc. 1919, 15-38; F. Lorenzetti, La responsabilità degli amministratori nelle società partecipate e il riparto di giurisdizione tra la Corte dei Conti e il Giudice Ordinario, in Federalismi.it, 15 giugno 2022, 201-2019.
[13] In realtà, è già approdo raggiunto in giurisprudenza che, in tema di giudizi di responsabilità amministrativa, la Corte dei conti debba verificare pure se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, poiché la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti, secondo i criteri di efficacia ed economicità di cui all’art. 1 della l. n. 241 del 1990, senza che ciò implichi un sindacato sul merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione e, dunque, una violazione dei limiti esterni della giurisdizione ovvero della riserva di amministrazione: Cass. Sez. Un. 23 gennaio 2024, n. 2290.
[14] Estremamente critico al riguardo (come, per la verità, sull’intera sentenza) V. Tenore, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Foro it. 2024, 4, V, osservandosi che la proposta di scongiurare l’eventuale moltiplicazione delle responsabilità degli amministratori per i medesimi fatti materiali, spesso non coordinate tra di loro, è contraria al principio generale di plurioffensività delle medesime condotte, potendo lo stesso comportamento configurare, cumulativamente, un reato, un danno erariale, un illecito disciplinare e un danno civile arrecato a terzi, sicché il cumulo di reazioni non può essere precluso legislativamente se non nei casi di sanzioni della medesima natura secondo le note categorie del ne bis in idem.
I consigli somministrati nella sentenza n. 132 del 2024 sono in gran parte coincidenti con le linee in cui si articola il d.d.l. A.C. n. 1621, recante “Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale”. In proposito, F. S. Marini, La sentenza n. 132 del 2024: la Corte costituzionale sperimenta nuove tecniche decisorie, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, I, 1 ss.; F. Cintioli, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi.it, 2024/19, 122 ss.; D. Palumbo, La sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024: verso un nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra la P.A. e l’agente pubblico?, in Giustizia insieme 18 novembre 2024; L. Balestra, Per un ripensamento della responsabilità erariale e, più in generale, delle funzioni della Corte dei conti, in Giur. it. 2024, 2166 ss.; G. Bottino, La «quadratura del cerchio»: amministrare per risultati, temere le responsabilità pubbliche, difendersi perché «così fanno tutti», in Giur. cost., 2024, 1619 ss.
[15] Cfr. G. Rivosecchi, Il bastone e la carota. Appunti su una proposta di riforma della Corte dei conti, cit., 21 ss.
[i] Estratto dal testo della relazione dal titolo Confronto a due voci tra Corte dei Conti e Sezioni Unite civili tenuta nel corso Le interazioni tra disciplina di contabilità pubblica e questioni civilistiche organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura e programmato nella sede di Napoli - Castel Capuano dal 14 al 16 aprile 2025.
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La requisitoria del pubblico ministero.
Esplicazione della sua natura giurisdizionale, momento di attuazione del principio di oralità del processo
Relazione tenuta presso la Scuola Superiore della Magistratura di Scandicci ai magistrati ordinari in tirocinio nella loro prima settimana di formazione (“tirocinio generico penale”) il 21.2.2025
Sommario: 1. Introduzione: una prospettiva inedita – 2. La libertà del pubblico ministero – 3. La scatola vuota del processo accusatorio – 4. La struttura della requisitoria (ed emersione della natura giurisdizionale della funzione) – 5. La requisitoria quale momento di attuazione del principio di oralità del processo – 6. Post scriptum
La requisitoria esplica mirabilmente la natura giurisdizionale della funzione del pubblico ministero, ove egli trova quello spazio di libertà di cui non ha potuto godere nel corso dell'intero procedimento. Nella fase della discussione il pubblico ministero, finalmente autonomo, veramente autonomo, se saprà sfruttare bene, con rigore e onestà intellettuale, la sua libertà, avrà la possibilità di mostrarsi quale vero organo giurisdizionale.
E se tale è il contenuto della requisitoria – un contenuto giurisdizionale, appunto – essa non può che assumere un ruolo di sistema, e contribuire in maniera determinante alla realizzazione del principio di oralità del processo penale.
1. Introduzione: una prospettiva inedita
Ringrazio la Scuola Superiore della Magistratura, perché con questo confronto che mi si offre con voi, giudici di domani, mi viene data la preziosa possibilità di riflettere sul ruolo del pubblico ministero; in un momento storico in cui tanto se ne discute.
Vorrei quindi affrontare il momento della requisitoria, nella fase della discussione, muovendomi in una cornice teorico-generale. Partendo da questo frammento della sua complessiva e molto più ampia attività, vorrei portare voi, giudici di domani, a comprendere i contenuti della funzione giurisdizionale del pubblico ministero, che vengono esaltati proprio nella fase della discussione; e se tale è il contenuto della requisitoria – un contenuto giurisdizionale, appunto – essa non può che assumere un ruolo di sistema, e contribuire in maniera determinante alla realizzazione del principio di oralità del processo penale.
Me ne rendo conto: è una prospettiva inedita. La requisitoria è spesso vista come l'esaltazione del versante protagonistico della funzione requirente: fatalmente, è così. Di solito le notizie di stampa sui grossi processi si disinteressano dell'istruttoria, mentre la requisitoria arriva ad occupare sui giornali lo stesso spazio della lettura del dispositivo. Alle posizioni delle difese non si dà risalto, perché fa più notizia chiedere l'ergastolo che una assoluzione o, "in via gradata", il minimo della pena: il crucifige! dei tempi di Gesù Cristo non è mai passato di moda, anzi – come ha rilevato Gustavo Zagrebelsky – è parte integrante del sistema democratico.
Vi ho appena rappresentato una stortura, certo riconducibile a quella che viene definita "giustizia mediatica", e che nondimeno rischia di mettere in ombra il carattere epistemologico della requisitoria del pubblico ministero. Questa mi sembra allora l'occasione migliore per svolgere una riflessione più approfondita sul punto.
2. La libertà del pubblico ministero
La fase della discussione, se ci pensate bene, costituisce un buco nero procedimentale. Il codice, all'art. 523, afferma laconicamente che le parti «formulano e illustrano le rispettive conclusioni». L'unica regola astrattamente riconducibile alla requisitoria del pubblico ministero, e cioè alle sue «conclusioni», è l'art. 53: «nell'udienza, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia». Queste due regole esauriscono la disciplina delle discussioni: eppure non dicono nulla. La requisitoria non dipende da regole scritte, il requirere è di per sé, e in ogni ambito, impossibile da imbrigliare.
La fase della discussione, proprio perché non regolamentata in alcun modo, inaugura un tempo sospeso, in cui il pubblico ministero gode di una libertà assoluta. Una libertà che, come vedremo, deve essere ben utilizzata e di cui, per ampiezza, non gode nessun altro attore del processo: non l'avvocato, che deve sempre tenere conto degli interessi del suo assistito (ha un preciso dovere deontologico, al riguardo), e neppure il giudice, il quale solo dopo, e nella solitudine della camera di consiglio, si dovrà muovere nello stretto spazio degli elementi probatori acquisiti ed utilizzabili.
Il giudice prende in mano il processo solo alla fine, in camera di consiglio, e tira le fila; il pubblico ministero invece prende in mano il processo nella requisitoria e qui vi trova, finalmente, quello spazio di libertà di cui non ha potuto godere nel corso dell'intero procedimento.
Il pubblico ministero infatti nel corso del procedimento non è pienamente libero di determinarsi. E non mi riferisco tanto ai pesi e contrappesi, ai meccanismi interni dell'ufficio di Procura di verifica dell'oculatezza dell'azione penale, e delle azioni penali: il sostituto non può esercitare l'azione penale senza il visto del procuratore, tantomeno il procuratore può obbligare il sostituto a richiedere una misura cautelare; salvo ovviamente incorrere in sanzioni disciplinari.
Mi riferisco, ragionando in una prospettiva più sistematica, al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sancito in Costituzione quale precipitato, in sede giudiziaria, del principio di uguaglianza, che appunto indica al pubblico ministero una strada "obbligata"; e per questa via, però, lo imbriglia sul piano interpretativo, perché l'ermeneusi del giudice sulla fondatezza della notizia di reato – o di una notizia di reato – è prevalente rispetto a quella del pubblico ministero.
Tale principio è garantito durante le indagini dal giudice per le indagini preliminari, che può ordinare iscrizioni, indagini suppletive o addirittura l'esercizio dell'azione penale mediante l'imputazione coatta. Ma anche nella fase preliminare e predibattimentale il controllo sull'obbligatorietà dell'azione penale è serrato: pensate alle modifiche dell'imputazione che il giudice può richiedere, pena l'improcedibilità.
Questa obbligatorietà per il pubblico ministero comincia – finalmente – a nebulizzarsi nel corso del dibattimento, così come è definito nel modello accusatorio, in cui il giudice è "vergine", e nulla conosce del procedimento. È un'asimmetria informativa che carica sulle spalle del pubblico ministero – sgravato ormai dai controlli legati all'esercizio (o al mancato esercizio) dell'azione penale – il thema probandum.
3. La scatola vuota del processo accusatorio
Se ci pensate il processo, nel modello accusatorio puro, è una scatola vuota, che può essere riempita solo dall'attività istruttoria condotta dal pubblico ministero, il quale all'apertura del dibattimento chiede provarsi l'ipotesi accusatoria di cui all'imputazione, che è l'unico dato misto – di fatto e di diritto – di cui il giudice dispone.
L'attività istruttoria è per sua natura corale: come prescrive l'art. 111 della Costituzione, «si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»; ma è nella vita processuale concretamente trainata dal pubblico ministero, semplicemente perché è stato lui ad avere chiesto il processo. Lui o chi per lui. Quest'attività è ben più importante di quella d'indagine, ed anche più onerosa e responsabilizzante: da un lato, perché non è supportata dalla polizia giudiziaria, necessaria propaggine operativa del pubblico ministero alla ricerca delle prove di un reato; dall'altro perché egli, finalmente solo ai banchi dell'accusa, avverte l'euforia per una libertà fin lì mai pienamente goduta. E l'euforia è un sentimento che va governato, soprattutto in un'aula d'udienza.
Ragionando in astratto, il pubblico ministero può anche essere deciso a far naufragare il processo; quel processo che, magari, lui non ha voluto e gli è stato imposto da un giudice per una diversa valutazione sulla fondatezza del fatto di reato. Può scegliere che quella scatola rimanga vuota, boicottando le richieste di prova; o addirittura può chiedere fin dall'apertura del dibattimento una declaratoria favorevole all'imputato ai sensi dell'art. 129. Ma al di là di queste ipotesi estreme, e certo non auspicabili per la tenuta complessiva dell'ordinamento processuale, il pubblico ministero è libero di riempire la scatola vuota del processo come vuole, entro i limiti ovviamente del materiale probatorio raccolto e utilizzabile.
Ebbene, questo il punto: nella requisitoria il pubblico ministero deve dare conto di come ha speso la libertà che l'ordinamento, in sede processuale, gli ha conferito.
4. La struttura della requisitoria (ed emersione della natura giurisdizionale della funzione)
La requisitoria dovrebbe dunque, preliminarmente, avere un carattere ricostruttivo (dell'istruttoria) ed esplicativo (del materiale probatorio). Intendo dire che è una fase logicamente preliminare, perché solo dopo aver spiegato come è stata riempita quella scatola si può spiegare perché la si è riempita.
Quella scatola è stata riempita perché si voleva comprovare un fatto, e la sua sussunzione in una norma di legge. Quella scatola si è riempita per comprovare quell'unico dato "misto" – di fatto e di diritto – di cui il giudice disponeva fin dall'origine del processo: l'imputazione, la quale però è, in sé considerata, una mera elucubrazione del pubblico accusatore (o, più elegantemente, una ipotesi di lavoro). E se così è, dopo la ricostruzione dell'istruttoria e l'etichettamento, la catalogazione del materiale probatorio, per cui ogni elemento dell'imputazione, di ogni imputazione, deve trovare il suo riscontro, il fatto deve essere narrato e il diritto deve essere, infine, affermato.
Il fatto, ovverosia la narrazione del fatto, in cui il pubblico ministero sceglie sempre il suo punto di vista, il suo angolo prospettico, e lo fa anche quando non se ne accorge. Può scegliere di essere narratore onniscente, di essere narratore storico o addirittura sociologico, oppure di utilizzare la prima persona e adottare il punto di vista della persona offesa o dell'imputato; e può farlo per stigmatizzare, o per giustificare una determinata condotta. Può quindi modulare la sua narrazione affinché risulti funzionale alle sue richieste.
Ma la narrazione del fatto può essere – come spesso è – intrisa di soggettiva riprovevolezza, di considerazioni moralistiche, di giudizi di valore che invece il dato di legge non considera. L'indignazione morale è alla base del diritto penale, ma è accortamente tenuta fuori dalla sintassi del diritto penale.
Il pubblico ministero, quando affronta questo punto "narrativo" della requisitoria, è quindi un libero interprete delle vicende umane, ma non un libero giurista. Non è questa l'espressione di massima libertà del pubblico ministero a cui mi riferivo.
La massima espressione di libertà il pubblico ministero la trova nell'esercitare la sua vera natura giurisdizionale, e quindi nell'affrontare il diritto. La sussunzione del fatto nel diritto è il compimento della giurisdizione, cioè dello ius dicere. È a quel punto che si abbraccia la "fede nel diritto", per utilizzare una nota espressione di Calamandrei: è in base al diritto che si sta chiedendo la punizione dell'imputato oppure il suo proscioglimento (sulla scorta in questo caso del diritto processuale che verte sulle prove e sulle condizioni di procedibilità; mentre la condanna si fonda sulla fattispecie sostanziale indicata nella imputazione); e del diritto, il giurista nella veste di quell'attore del processo che formula le sue conclusioni, diventa sacerdote.
I "considerando" in diritto costituiscono quindi il momento più intenso dell'attività giurisdizionale del pubblico ministero, proprio perché egli ci arriva nel corso del procedimento gradualmente, affrancandosi prima dall'obbligatorietà dell'azione penale, che si tramuta – questo il punto – in un'obbligatorietà di ermeneusi, tanto che egli in udienza si presenta «con piena autonomia»; poi, dopo l'istruttoria, e dopo la narrazione del fatto, arriva alla quaestio iuris affrancandosi, il pubblico ministero, dalle scorie della soggettività che questa comporta. È in una tale libertà mai goduta che egli affronta – o dovrebbe affrontare – la parte in diritto; la sublimazione della scienza giuridica nella vicenda concreta. E questa libertà, finalmente anche ermeneutica, si esplica proprio davanti a voi, giudici di domani.
Anche se in molti processi la parte in diritto della requisitoria può apparire scontata, diffidate da quei pubblici ministeri che la omettono, perché le valutazioni giuridiche, di integrazione della norma nel fatto, distinguono la figura del poliziotto o del super-poliziotto, dello storico, del sociologo o del narratore, da quella del pubblico ministero. Almeno, così come emerge dall'attuale assetto costituzionale, in cui pubblico ministero e giudice sono parte di un'unica giurisdizione, di un unico ius dicere.
5. La requisitoria quale momento di attuazione del principio di oralità del processo
La requisitoria esplica dunque mirabilmente la natura giurisdizionale della funzione del pubblico ministero; ma al tempo stesso contribuisce alla realizzazione del principio di oralità del processo penale; e non solo per l'ovvia ragione che la requisitoria – così come l'arringa difensiva – è la quintessenza della retorica forense e giudiziaria, che di sola oralità può vivere.
Tutto ciò che nel corso dell'istruttoria non è stato "parlato", nella requisitoria deve parlare; si sopperisce così alla lettura processuale, che rende gli atti utilizzabili ai fini della decisione ma che, se ci pensate bene, collide con il principio di oralità del processo. Le dichiarazioni confluite nel fascicolo del dibattimento devono essere lette, o meglio recitate, almeno nelle loro parti salienti, perché quelle parole trovino adesso voce nel pubblico ministero, in procinto di formulare le sue richieste.
L'oralità crea un impatto emotivo ben diverso dalla scrittura: e poiché il penale è spesso sinonimo di umanità dolente, spetta al pubblico ministero chiudere il cerchio dell'oralità del processo, con la sua stessa voce. E talvolta essere l'unico artefice dell'oralità: pensate al processo abbreviato "secco", in cui tutto confluisce senza filtri nel fascicolo del giudice. La rinuncia all'oralità è una scelta dell'imputato, direte voi; ma l'adozione di una precisa strategia processuale non può mai intaccare il compendio di principi posto a garanza della genuinità della decisione del giudice; e di cui il pubblico ministero è ultimo garante. Garante, come parte pubblica, che il giudice entri in camera di consiglio con l'eco delle parole di accusa e difesa, nonché dello stesso imputato, cui è sempre riservata l'ultima parola (art. 523, co. 5).
Ma il pubblico ministero – tornando al dibattimento – ha anche il compito di dare voce non solo a ciò che è rimasto scritto per strategia processuale delle parti (si pensi alle acquisizioni di verbali previo consenso) o per necessità (si pensi al decesso di un testimone prima della sua audizione), ma anche – e forse soprattutto – a ciò che sempre, in un processo, rimane scritto; e senza alcuna specificazione, scripta manent: nel senso che non sempre il giudice dispone di quel contesto conoscitivo utile ad interpretare il dato asetticamente acquisito. Ci deve pensare, per l'appunto, il pubblico ministero; lo può fare con una memoria scritta, che il giudice porterà con sé nell'invalicabilità della camera di consiglio; lo deve fare nella sua requisitoria, che avrà quale canovaccio la stessa memoria.
Mi riferisco ai compendi documentali e alle intercettazioni.
In un processo in cui molta documentazione, anche tecnicamente complessa (si pensi a quella di tipo bancario o societario), è stata depositata e acquisita, non si può lasciare alla buona volontà del giudice la ricostruzione della vicenda; e anche laddove vi fossero delle consulenze, che rappresentano l'ausilio principale al giudizio attraverso altre discipline, è al pubblico ministero che spetta dare voce alla trama documentale che egli stesso ha tessuto. Il giudice, si dice, è peritus peritorum; più di lui, e prima di lui, però, deve esserlo il pubblico ministero.
Così come in un processo in cui sono state riversate le risultanze di una intensa attività tecnica, quelle conversazioni, almeno le più significative, dovrebbero essere fonte di prova nel senso proprio: dovrebbero cioè essere ascoltate in aula. Questo, mi rendo conto, non è quasi mai possibile: e allora sia il pubblico ministero a farsi filtro, ad ascoltare (o ri-ascoltare) quelle più rilevanti per afferrarne i toni e le sfumature (che sono a volte essenziali) e a dare conto nella requisitoria di questo ascolto. Mi è capitato più di una volta, e più di una volta ho chiesto l'assoluzione, perché l'ascolto mi ha convinto di una conversazione fraintesa, o male interpretata.
L'oralità nel processo è, per quanto riguarda il pubblico ministero, espressione della sua libertà, che si esalta nel corso della requisitoria. In questa fase egli, finalmente autonomo, veramente autonomo, se saprà sfruttare bene, con rigore e onestà intellettuale, la sua libertà, avrà la possibilità di mostrarsi a voi, giudici di domani, come vero organo giurisdizionale.
Un pubblico ministero capace di questo nel corso della requisitoria – capace quindi di ricostruire l'istruttoria e mettere in fila il materiale probatorio acquisito, distribuendolo nella topografia della imputazione, al fine di potere prima narrare il fatto per come è stato accertato e poi affermarne i suoi contenuti giuridici, sempre tenendo fede al canone di oralità, che è un canone di garanzia – compie un buon lavoro processuale ma soprattutto, in una prospettiva di sistema, si allinea perfettamente alla sua natura giurisdizionale, che è la stessa del giudice, senza che per questo egli ne sia influenzato rispetto alla decisione da prendere; ma voi giudici di domani avrete a quel punto – nella solitudine della vostra camera di consiglio – tutti gli elementi per rendere, senza il timore dell'incompletezza, lo ius dicere che vi è richiesto.
6. Post Scriptum.
Avevo appena chiuso questa mia relazione, che l’altro giorno, in udienza, venivo verbalmente aggredito da un imputato: si verificava uno spiacevole momento di turbolenza processuale. Non dovrebbe capitare, ma capita. Questo episodio mi consente di aggiungere una postilla al mio intervento.
Il processo, come ho detto, è un rito, e tutti gli attori (pubblico ministero, avvocato, giudice) ne sono i sacerdoti. Ogni fase di questo rito, specialmente le battute finali (requisitoria, arringa, camera di consiglio, che oggi stiamo esaminando), sono funzionali al compimento di quell’atto di giustizia che è il processo: e, badate bene, non può esserci democrazia senza giustizia.
A voi, giudici di domani, che di questo rito sarete i primi sacerdoti, rivolgo una preghiera: prendetevi cura di questo rito, e non consentite a nessuno di profanarlo, di dissacrarlo. Prendetevene cura come se fosse un pezzettino della nostra democrazia, e quindi un pezzettino della vostra vita.
Sommario: 1. Come per Sacco e Vanzetti – 2. Il primo maggio in Italia – 3. L’ultimo primo maggio di guerra – 4. Dopoguerra, un primo maggio in Sicilia – 5. Primo maggio, oggi.
Si dice bonariamente che la mamma va festeggiata tutto l’anno, non in un giorno solo di maggio. Con meno trasporto sentimentale, ma più raziocinio, dovremmo dire la stessa cosa per la categoria dei lavoratori. Magari in questo modo sarebbe più difficile dimenticare le questioni irrisolte della loro precarietà, della povertà dei salari (in Italia vantiamo il record europeo), delle morti sul lavoro (1.090 i decessi denunciati all’INAIL nel 2024, 4,7% in più dell’anno precedente; 138 nei primi due mesi del 2025, 16% in più dello stesso bimestre del 2024).
Col suo carico simbolico, in un Paese in cui la progressiva polarizzazione si nutre dell’indifferenza e dell’inettitudine all’indignazione e alla vergogna, il primo maggio è divenuta nel tempo festa sempre più divisiva, come se la parola “lavoro” non ricorresse in tutti i testi costituzionali d’Europa e, tra questi, nell’art. 1 del nostro.
Proviamo almeno a fare un po’ di storia, dunque, per ricordare le radici della festa.
1. Come per Sacco e Vanzetti
Negli Stati Uniti la festa dei lavoratori cade il primo lunedì di settembre. Eppure, la scelta invece della ricorrenza il primo maggio, da parte di 26 Paesi europei e numerose altre nazioni mondiali, risale a un evento verificatosi a Chicago, al culmine di uno sciopero generale, con lo scoppio di una bomba ad Haymarket square, di cui furono accusati quattro anarchici.
Nella seconda metà dell’Ottocento, nel pieno della rivoluzione industriale americana, si stavano susseguendo le manifestazioni per i diritti degli operai delle fabbriche, indette dai “Knights of Labor”, i Cavalieri del lavoro. Nel 1866 fu approvata in Illinois, la prima legge delle otto ore lavorative giornaliere, che entrò in vigore l’1 maggio dell’anno successivo. Per lo stesso giorno del 1866 venne proclamato uno sciopero, poiché le organizzazioni sindacali ritenevano che, dopo diciannove anni, fossero ormai maturati i tempi per estendere a tutti gli Stati uniti la legge sulle otto ore. Negli anni precedenti altre grandi manifestazioni si erano tenute in diversi centri, con alcuni episodi violenti.
L’epicentro delle manifestazioni del primo maggio 1886 fu ancora Chicago, Illinois, dove ben presto la polizia intervenne a reprimere la protesta, sparando sui dimostranti radunatisi intorno alla fabbrica di macchine agricole Mc Cormick e uccidendo due persone.
Nei giorni seguenti gli scontri proseguirono ininterrotti, finché il 4 maggio gli anarchici si sostituirono alla federazione sindacale con un’adunanza di protesta contro la violenza della polizia nella piazza del mercato di Chicago. Da una traversa fu lanciata una bomba – si accerterà poi che si trattava di dinamite – che provocò la morte di sei poliziotti e il ferimento di decine di presenti.
Le forze dell’ordine reagirono sparando sui manifestanti. Il numero complessivo delle vittime della giornata resterà per sempre ignoto. Quali autori dell’attentato, dopo un rapido processo, il 20 agosto 1987 furono condannati otto anarchici, sette dei quali alla pena capitale. Per due di loro, di origine germanica, l’intervento di cancellerie europee indurrà il Governo americano a commutare la pena nell’ergastolo. Gli altri cinque saranno invece impiccati a Chicago l’11 novembre.
Quarant’anni dopo, toccherà ad altri due anarchici, Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, acquisire fama universale per la condanna a morte inflitta dalla giustizia americana.
Non c’era internet e le notizie arrivavano oltreoceano giorni, se non settimane dopo. Ciò nonostante i fatti di Haymarket square ebbero in breve una tale risonanza da indurre i Governi europei ad adottare misure preventive per l’ordine pubblico. Il cancelliere Otto Von Bismarck vietò in tutta la Germania manifestazioni di sostegno agli anarchici e al socialismo.
L’eco internazionale e le pressioni sindacali spinsero lo stesso presidente USA Grover Cleveland a proclamare già nel 1987 il primo maggio come festa nazionale. Per scongiurare il rischio che l’iniziativa consolidasse la credibilità delle forze socialiste, dopo l’iniziale commemorazione dei tragici eventi di Chicago il presidente pensò di dedicare la festa per gli anni seguenti ai Cavalieri del lavoro.
Il 14 luglio del 1889 l’assemblea dei partiti laburisti e socialisti europei, fondando a Parigi la Seconda internazionale, come suo primo atto proclamò il primo maggio giornata internazionale dei lavoratori.
2. Il primo maggio in Italia
La prima reazione per i fatti di Chicago nel nostro Paese si registra a Livorno, dove la cittadinanza si mobilita scendendo nelle strade: prima si dirige verso il porto, dove sono ancorate le navi statunitensi, tentando di darvi l’assalto, poi alla Questura, dove si diceva si fosse rifugiato il console.
Nel 1890 si hanno le prime manifestazioni per il primo maggio[1], ma solo l’anno dopo l’evento viene ufficializzato.
La festa si celebrerà per trentadue anni. Nel 1923 il fascismo la anticipa al 21 aprile, in coincidenza con il “Natale di Roma”. Con regio decreto-legge n. 833/23 si stabilisce infatti che tutti gli accordi tra industriali e operai per la “giornata di vacanza” del primo maggio avrebbero trovato applicazione il 21 aprile, vale a dire due giorni dopo la pubblicazione del decreto (!).
Scatta di conseguenza la repressione contro i tentativi delle organizzazioni dei lavoratori di celebrare la festività originaria. Vengono eseguite decine di arresti di manifestanti. Ancora l’anno dopo, però, molti operai continueranno ad astenersi dal lavoro il primo maggio. Mettendo a repentaglio la propria libertà in tanti cercano così di salvare una ricorrenza gravida di significati[2].
Nel 1946 il Governo De Gasperi ripristinerà la celebrazione che tre anni dopo verrà inserita tra le festività nazionali.
3. L’ultimo primo maggio di guerra
Per molti lavoratori dell’industria del nord Italia il primo maggio 1944 sarebbe stato l’ultimo. Il Natale di Roma non si festeggiava già più, ma la mera condizione di operai specializzati stava per mettere in pericolo la loro esistenza.
Il 16 giugno, infatti, a Genova gli occupanti tedeschi, coadiuvati dai fascisti della RSI, compiono una retata inattesa, che coinvolge circa 1.500 uomini, lavoratori di Siac, San Giorgio, Piaggio e Cantiere navale Ansaldo. Il rastrellamento si estende ad altri operai liguri e del triangolo industriale. Da tempo essi stavano boicottando, con scioperi, proteste o azioni di danneggiamento, la produzione destinata a favorire la causa tedesca. Il nazifascismo trova dunque un facile pretesto per porre in essere un atto repressivo che ha però una finalità essenzialmente economica: reperire manodopera per il Reich che vada a rimpiazzare i vuoti determinati nel sistema produttivo tedesco soprattutto dal fabbisogno di crescenti contingenti di uomini da inviare sul fronte orientale della guerra.
Nei lager della Germania, come ad esempio il famigerato Mauthausen, gli operai trovano condizioni di vita simili, anche se meno assassine, di quelle dei deportati per ragioni razziali. Essi sono divenuti schiavi degli aguzzini tedeschi, votati solo al servizio del Fuhrer.
Ricorda in proposito Francesco Rossi: “Lavoravo nello stabilimento Stejer di Linz ed ero detenuto nel lager di Haid. La sveglia ogni mattina era alle tre. Nel tempo di quindici minuti occorreva essere pronti e veniva distribuita una gamella con un po’ di acqua calda ed una fettina di pane nero, circa 15 grammi per tutta la giornata. Quindi venivamo incolonnati e condotti sotto scorta ad attendere l’arrivo del treno che ci trasportava a Linz. A volte l’attesa del treno durava ore in un freddo glaciale, perché quello adibito per i deportati doveva dare la precedenza al trasporto delle truppe o dei civili. Alla stazione di Linz sempre incolonnati raggiungevamo la fabbrica, riorganizzata e sistemata in un gran numero di gallerie sotterranee. Nei vari reparti si lavorava dodici ore con un intervallo di mezz’ora in cui veniva consumata una brodaglia di rape. A sera tra le 18 e le 19 veniva ripetuto il tragitto contrario. Per lo più accadeva che il treno dei deportati non venisse neppure formato, per cui il ritorno al lager doveva essere fatto a piedi lungo il terrapieno della ferrovia. Ci si trascinava per oltre due ore e talvolta per le nevicate si giungeva alle baracche oltre la mezzanotte”[3].
Per alcuni deportati non ci sarà ritorno in Italia. Chi di loro sopravviverà rientrerà tra fine maggio e agosto 1945, non di rado in condizioni tali da renderlo inabile al lavoro. Ad alcuni, quali i dipendenti della San Giorgio, l’azienda riconoscerà una specie di cassa integrazione. Altri resteranno disoccupati.
La storia di quanti fecero Resistenza militante nelle fabbriche del Nord italiano, pagando per questo, è ancora misconosciuta. Anche per loro è la festa del primo di maggio.
4. Dopoguerra, un primo maggio in Sicilia
Sono circa 2.000 i lavoratori, per la gran parte contadini, che nel 1947 si riuniscono nella piana di Portella della Ginestra, a Piana degli Albanesi, per celebrare la festa dei lavoratori del primo maggio. V’è da festeggiare anche la vittoria alle elezioni regionali del 20 aprile del Fronte Popolare, l’alleanza PCI-PSI, che ha nel suo programma l’abolizione del latifondismo e la distribuzione delle terre ai braccianti.
Un calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, è il segretario della locale sezione socialista. Sta intrattenendo la folla, in attesa degli oratori ufficiali, quando un gruppo di persone armate sopraggiunte inizia a sparare sulla folla dei presenti. La fuga non è immediata, perché i manifestanti scambiano per qualche secondo i colpi di arma da fuoco con quelli dei mortaretti. Si accerterà tempo dopo che in realtà gli autori avevano utilizzato armi da guerra; erano attrezzati, dunque, per una vera azione militare, avviata con un lancio iniziale di granate volto a disperdere le frange dell’adunanza più esterne.
La strage di Portella della Ginestra è cruenta: muoiono dodici persone; ventotto restano ferite, alcune mortalmente.
Il 2 ottobre 1948 Salvatore Giuliano, con una lettera inviata a L’Unità, attribuisce la responsabilità a sé e alla sua banda, dandole uno scopo politico e alludendo a propri rapporti con noti esponenti politici, tra cui Mario Scelba. La lettera ha uno scopo evidente: è l’avviso dell’esecutore ai mandanti che non lo si sarebbe potuto mettere a tacere facilmente.
Nel frattempo Giuliano alza il livello della tensione, con nuovi attentati compiuti nel territorio palermitano. Il culmine si registra a Bellolampo il 19 agosto 1949: mentre una quindicina di uomini della banda assedia la caserma locale dei Carabinieri, allora alle porte del capoluogo, una camionetta che sta accorrendo a rinforzo, con diciotto militi a bordo, salta su una mina che era stata piazzata in contrada Passo di Rigano: ne muoiono sette, mentre gli altri undici rimangono feriti.
Il tempo per il bandito Giuliano, però, sta ormai scadendo. Diversi suoi uomini defezionano; altri vengono arrestati.
Il 5 luglio Giuliano viene ritrovato morto nel cortile dello studio di un avvocato a Castelvetrano, vittima – dirà il Ministero dell’interno – di uno scontro a fuoco coi Carabinieri. La versione ufficiale, piena di incongruenze, cozza con quella ufficiosa, secondo cui sarebbe stato il suo luogotenente Gaspare Pisciotta a ucciderlo, una volta passato dalla parte dello Stato. Pisciotta non arriverà mai rendere una testimonianza definitiva sull’accaduto, poiché il 9 febbraio 1954 viene avvelenato, bevendo un caffè con la stricnina.
La strage del primo maggio a Portella della Ginestra s’inserisce pertanto tra i misteri d’Italia, non tanto sulla dinamica e gli autori materiali, quanto sull’identità dei veri mandanti.
5. Primo maggio, oggi
Portella della Ginestra è l’ultimo evento drammatico di rilievo nella giornata della festa dei lavoratori non si hanno in Italia e in Europa. Il primo maggio assurge davvero a occasione per esaltare pubblicamente il significato del lavoro, un momento breve, ma significativo di sospensione della vita quotidiana.
Così come per il 25 aprile, questa giornata rappresenta non solo la celebrazione di un rituale che ha un significato proprio, ma anche la commemorazione degli eventi e delle persone che s’identificano con la lotta per la tutela della dignità del lavoro.
Nel 1990 la “triplice” (CGIL, CISL e UIL) istituisce il concertone in collaborazione col Comune di Roma. Nell’ultimo decennio altre civiche amministrazioni riproducono l’evento a dimensioni ridotte. Dal 2013 a Taranto c’è il festival musicale “Libero e pensante”, altrimenti detto controconcerto, organizzato dall’associazione Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Taranto è diventata a sua volta un luogo simbolo del disagio sociale causato dal ricatto insito nel conflitto tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro, dalla traiettoria disastrosa del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, dagli illeciti di chi ha perseguito il profitto sulla pelle dei lavoratori e della cittadinanza.
Tra le finalità dell’associazione organizzatrice il suo statuto annovera la tutela di alcuni diritti fondamentali connessi al lavoro: all’assistenza sanitaria pubblica; alla salubrità ambientale; alla stabilità occupazionale. C’è, inoltre, “la promozione della cultura della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro, come garanzia di effettività del diritto, normativamente riconosciuto, ad un ambiente lavorativo sicuro e salubre”.
La sociologia del nuovo millennio prefigura un futuro di cambiamenti talmente radicali, legati alla tecnica avanzata, da rendere il bisogno dell’apporto umano alla produzione pressoché inesistente. È un fenomeno non irrealistico, che tuttavia oggi contrasta con la realtà delle perduranti questioni radicatesi nell’Ottocento e rimaste irrisolte. In più ci troviamo ad affrontarle nel corso del tentativo, da tempo in atto e di portata disgregante, teso a marginalizzare le organizzazioni dei lavoratori nella loro capacità rappresentativa e nella loro unitarietà.
Fintanto che il futuro non sarà tra noi, coi nuovi problemi che porrà per l’individuo, non potremo quindi dismettere le categorie tradizionali nelle riflessioni sul mondo del lavoro, se vogliamo davvero attuare con pienezza, qui come altrove, la Costituzione.
[1] A Forlì la rivista La Rivendicazione pubblica il 26 aprile 1890 un articolo, intitolato Per primo maggio, che così esordisce: “Il primo maggio è come parola magica che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti i lavoratori del mondo, è parola d'ordine che si scambia fra quanti si interessano al proprio miglioramento”.
[2] Il primo maggio a Roma e nel mezzogiorno, in La giustizia, 2 maggio 1924.
[3] 16 giugno 1944: la razzia dei lavoratori genovesi, in Storia e memoria, n. 1/2024, ILSREC - Istituto ligure per la storia della resistenza e dell’età contemporanea “Raimondo Ricci”.
Immagine: la partigiana Anna Marengo, nome di battaglia "Fiamma" a Vercelli il 1° maggio 1945.
Legge 31.3.2025 n° 47 in materia di limite massimo di durata delle intercettazioni. Alcuni problemi applicativi… nel “silenzio della legge”
La legge 31 Marzo 2025 n° 47 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 Aprile 2025, entrata pertanto in vigore il 24.4, interviene modificando l'articolo 267 comma terzo c.p.p. e prevedendo che le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore al 45 giorni salvo che l'assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall'emergere di elementi specifici e concreti che devono essere oggetto di espressa motivazione.
In sostanza per effetto di tale disposizione, salve le deroghe che verranno di seguito esposte, per le intercettazioni di qualsiasi tipologia a partire da tale data sono consentite in via ordinaria, dopo il primo periodo di 15 giorni di captazione, soltanto due proroghe di 15 giorni ciascuna al fine di rispettare il termine massimo di durata sopra indicato.
A) I reati esclusi dalla nuova disciplina e dalla conseguente previsione del limite di durata complessiva dei 45 giorni
Si deve in primo luogo evidenziare che determinati reati, alcuni di particolare rilievo e in parte di competenza distrettuale, non sono soggetti alla nuova disciplina e quindi alla previsione del termine massimo di durata di 45 giorni.
Per effetto di una correlata modifica introdotta dalla citata legge dell'articolo 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152 e della specifica deroga introdotta per tali reati rispetto a quanto disposto dall'articolo 267 comma tre CPP, come appunto modificato dalla legge 47/2025, le intercettazioni non risultano sottoposte a tale termine di durata massima quando sono necessarie per le indagini sui seguenti reati:
delitti di criminalità organizzata ( art.13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152) Al riguardo appare utile ricordare che la disciplina dell’art. 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in punto di interpretazione della nozione di delitti di criminalità organizzata risulta estensibile anche ai procedimenti comunque aventi ad oggetto un’associazione per delinquere “comune” diversa da quelle richiamate all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p;
reati comuni commessi col metodo mafioso o col fine di agevolazione di un’associazione mafiosa (ex art. 1, comma 1 d.l. n. 105/2023 che richiama l’art 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
delitto ex art art. 452 quaterdecies CP attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (ex art. 1, comma 1 d.l. n. 105/2023 che richiama l’art 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
reati commessi con finalità di terrorismo (ex art. 1, comma 1 d.l. n. 105/2023 che richiama l’art 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
delitti ex art.630 CP di sequestro di persona a scopo di estorsione (ex art. 1, comma 1 d.l. n. 105/2023 che richiama l’art 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
delitto di minaccia col mezzo del telefono (art.13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
reati informatici e contro la inviolabilità dei segreti indicati dall’art. 371 bis comma 4 bis c.p.p (art.13 comma 3 bis del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 del codice di procedura penale. (ex art. 6, co. 1 del d.lgs. 9 dicembre 2017, n. 216 che richiama l'art. 13 d.l. n. 152/199)
delitti contro la personalità individuale previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del codice penale (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione o accesso a materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di persone, traffico di organi umani, acquisto e alienazione di schiavi, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) (ex art. 9 l. 11 agosto 2003, n. 228 che richiama l'art. 13 d.l. n. 152/1991)
reati in materia di prostituzione previsti dall'art. 3 l. 20 febbraio 1958, n. 75 (ex art. 9 l. 11 agosto 2003, n. 228 che richiama l'art. 13 d.l. n. 152/1991)
B) Il regime temporale applicabile alle attività di intercettazione disposte anteriormente all’entrata in vigore della legge
In assenza di una specifica previsione transitoria da parte del legislatore si ritiene che la modifica in oggetto intervenendo su normativa di natura processuale trovi immediata applicazione, con le specificazioni di seguito indicate, anche per i procedimenti iscritti anteriormente all'entrata in vigore della legge.
Si pone peraltro il problema di valutare se la disposizione sia immediatamente efficace, quanto alla operatività dell’indicato limite temporale massimo e conseguentemente sul numero ammissibile delle proroghe richiedibili, anche per le intercettazioni autorizzate e disposte (ed eventualmente già prorogate) anteriormente alla entrata in vigore della stessa.
L'applicazione immediata alle intercettazioni avviate anteriormente all’entrata in vigore della legge 47/2025 del limite di durata massima previsto dalla stessa verrebbe a interessare in tal caso intercettazioni validamente disposte anteriormente all’entrata in vigore della legge sulla base dell’originario disposto dell’art.267 comma 3 CPP ed eventualmente più volte prorogate in precedenza , in alcuni casi anche ben oltre il termine ora introdotto di 45 giorni, con conseguenti profili problematici in quest’ultimo caso anche in tema di utilizzabilità del contenuto delle stesse.
E in ogni caso, anche fuori di tale ipotesi, si determinerebbe l'operatività di un regime processuale misto per effetto del quale intercettazioni autorizzate ed avviate prima dell'entrata in vigore della legge 47/2025 per una parte verrebbero sottoposte alla disciplina della precedente normativa dell’art.267 comma 3 CPP – e come tali ad esempio già validamente oggetto di 2 proroghe di 15 giorni ciascuna per un una durata totale di 45 giorni e con la prospettiva normativamente ammessa di ulteriori proroghe entro i termini massimi di durata delle indagini preliminari – e per altra parte non sarebbero più prorogabili oltre tale limite temporale per effetto di una modifica introdotta dalla Legge 47/2025 all'articolo 267 comma 3 CPP successivamente rispetto all’ avvio e alle proroghe della attività di intercettazione su uno specifico “target”.
Tale commistione di diverse discipline processuali applicate alla medesima attività di intercettazione su uno specifico “bersaglio” non appare coerente con il sistema: ne consegue che la norma risulta interpretabile nel senso che le intercettazioni validamente disposte e eventualmente prorogate in base alla precedente disciplina , quale attività di indagine avviata in base alle allora vigenti disposizioni processuali, continuano ad essere soggette alla precedente disciplina e per le stesse potrà essere pertanto richiesta al GIP l’autorizzazione alla proroga anche oltre il limite di 45 giorni.
Il termine massimo di durata delle intercettazioni introdotto dalla Legge 47/2025 con il correlato limite temporale dei 45 giorni implicante la possibilità di richiedere due sole proroghe avrà efficacia invece, pur all’interno del medesimo procedimento, solo per le intercettazioni richieste e conseguentemente disposte ex novo dopo l'entrata in vigore della predetta legge e quindi dopo il 24.4.2025.
C) L’applicabilità del termine massimo di 45 giorni con riferimento al singolo bersaglio di intercettazione
La novella legislativa prevede per le intercettazioni un termine di durata complessiva non superiore ai 45 giorni senza ulteriore specificazione.
Va subito detto che la disposizione modificatrice non può essere in alcun modo interpretata, anche per la sua collocazione specifica all’interno del comma 3 dell’articolo 267 cpp che disciplina la parte relativa alla proroga della singola attività di intercettazione, come introduttiva di un limite temporale riferito alla singola persona fisica destinataria del provvedimento di intercettazione.
Ove venisse letta in tal modo si determinerebbero tra l’altro effetti distorti e in sostanza contra legem: intercettazioni ad esempio inizialmente disposte con riferimento al primo IMEI/SIM telefonico/ambiente/supporto informatico indicato dalle indagini come riferibile a un determinato indagato sarebbero soggette al termine massimo di intercettazione di 45 giorni. Nel caso in cui nell’arco temporale di 45 giorni dall’avvio di tale captazione dalla stessa attività di intercettazione o comunque dalle indagini ulteriori risultassero ulteriori numeri telefonici o ambienti o apparati informatici riferibili allo stesso indagato una siffatta interpretazione del termine massimo di durata per target persona indagata comporterebbe che le successive intercettazioni avviate avrebbero durata necessariamente inferiore ai 45 giorni.
E qualora poi gli ulteriori “bersagli” (telefoni, ambienti, supporti informatici) riferibili al medesimo indagato emergessero ormai decorso il termine di 45 giorni dall’avvio della prima captazione seguendo tale lettura in modo paradossale non sarebbe attivabile alcuna attività di intercettazione riguardando un ulteriore utenza/ambiente riferibile al medesimo indagato e in questo modo precludendo ogni ulteriore attività di indagine in tale direzione.
Allo stesso modo e per le stesse ragioni il limite temporale non può essere inteso come riferito alla durata complessiva dell'attività di intercettazione nell'ambito del medesimo procedimento ( come una sorta di “finestra” massima dell’attività di intercettazione nell’ambito del singolo procedimento) nel senso di ritenere che quale sia il momento di avvio della singola intercettazione il termine massimo di 45 giorni deve essere calcolato a partire dalla prima intercettazione disposta nell’ambito del singolo procedimento.
È superfluo rilevare come anche questa lettura non è in alcun modo desumibile dal tenore letterale della modifica normativa e dalla sua stessa collocazione nell’ambito dell’art.267 comma 3 CPP oltre a determinare effetti devastanti sui mezzi di ricerca della prova e sulla stessa effettività delle indagini preliminari.
La disposizione, stante il tenore letterale, deve essere interpretata nel senso che tale limite temporale opera con riferimento alla prorogabilità di ogni singola intercettazione ed alla relativa tipologia (telefonica fissa- mobile/ambientale/ telematica attiva-passiva) naturalmente calcolato dalla data di effettivo inizio della captazione di uno specifico “bersaglio” come indicato all'interno dei provvedimenti di intercettazione.
Tali provvedimenti anche quando fanno riferimento a più bersagli del resto contengono l’attribuzione di un distinto numero di RIT identificativo per ciascuno degli stessi.
Questo vale anche nell’ipotesi di installazione di successive SIM sul medesimo apparato mobile in quanto le stesse sono di regola oggetto di richieste con attribuzione di autonomi numeri di RIT.
Nel caso di intercettazione anche di IMEI opererà il limite temporale riferito a tale specifica intercettazione ma con distinti limiti temporali massimi in caso di intercettazione di plurime relative SIM riferibili al medesimo apparato mobile.
Identiche valutazioni valgono sia con riferimento alle intercettazioni ambientali ove i singoli ambienti/locali oggetto di intercettazione ( o nell’ipotesi di ambientale mediante captatore informatico in ogni caso il supporto inoculato) sono indicati all'interno di provvedimenti di intercettazione che, come detto, quando fanno anche riferimento a più bersagli contengono l’attribuzione di un distinto un numero di RIT per ciascun apparato/sonda di intercettazione sia con riferimento alle intercettazioni di comunicazioni informatiche e telematiche ex art.266 bis CPP in relazione ai singoli “bersagli” individuati.
D) Il requisito derogatorio della “assoluta indispensabilità” delle operazioni per una durata superiore giustificabile con l’emersione di elementi specifici e concreti espressamente motivati
La disposizione di legge prevede un obbligo motivazionale particolarmente accurato da parte del Pubblico Ministero ( e conseguentemente nelle indicazioni da parte della PG delegata alle indagini al PM ove assuma l’iniziativa di prospettare al PM ulteriori proroghe oltre il termine ordinario massimo di 45 giorni) per derogare al termine massimo di durata dell'intercettazione, obbligo motivazionale che deve essere collegato alla emersione di elementi specifici e concreti che giustifichino l’assoluta indispensabilità della prosecuzione dell'attività di intercettazione.
Il requisito della “assoluta indispensabilità” risulta dettato dal legislatore in termini oggettivamente rigorosi ma che devono essere parametrati ad una fase non decisoria ma tipicamente dinamica ed in evoluzione di ricerca degli elementi probatori quale è la fase di indagine. Tale requisito deve essere pertanto ritenuto in concreto sussistente ogniqualvolta sulla base degli elementi specifici indicati e allo stato desumibili dalla complessiva attività di indagine la rinuncia alla prosecuzione dell'intercettazione potrebbe determinare un pericolo concreto e rilevante in termini di perdita/deficit nella raccolta di elementi indiziari necessari al fine di accertare i reati oggetto di indagine e/o al fine di impedire la prosecuzione dell'attività criminosa.
La disposizione di legge non indica come visto la fonte di indagine da cui devono emergere gli elementi specifici e concreti che legittimano la deroga all'ordinario termine temporale di 45 giorni.
Si ritiene, come anticipato, che la disposizione vada interpretata nel senso che in assenza di indicazione o specificazione normativa tali elementi possono essere validamente desunti sia dalle risultanze della stessa attività di intercettazione per cui dovrebbe operare la deroga al termine temporale sia in alternativa dalle risultanze di qualsiasi ulteriore attività di indagine svolta dal Pm o dalla PG delegata (quali rilievi/accertamenti di PG, contenuto di fonti dichiarative , comprese le attività di intercettazione svolte su diversi bersagli etc).
Tali elementi di indagine devono essere ritenuti parimenti idonei, anche singolarmente considerati, a legittimare la richiesta al GIP di prosecuzione dell'attività di intercettazione su quel determinato specifico bersaglio oltre il limite di legge ove adeguatamente e specificamente motivata quanto ai requisiti indicati normativamente.
È inoltre sufficiente che tali elementi specifici e concreti emergano in un qualsiasi momento dell’indagine nel corso dell’arco temporale di svolgimento della intercettazione di cui si richiede la proroga oltre il limite massimo di 45 giorni.
Non si richiede pertanto per legittimare la richiesta in tal senso al GIP che tali elementi emergano necessariamente nell’arco temporale di indagine di 15 giorni immediatamente precedente e ricompreso nell’ ultima proroga in precedenza richiesta.
Si rileva da ultimo che la previsione normativa comporta in primo luogo che la Polizia Giudiziaria delegata nel momento in cui prospetterà al Pm assegnatario del procedimento la proroga dell'intercettazione oltre il limite massimo ordinario di 45 giorni dovrà indicare in modo dettagliato gli elementi di indagine specifici e concreti, nel senso sopra indicato, che rendono “assolutamente indispensabile” la prosecuzione della singola attività di intercettazione.
A sua volta il PM dovrà a sua volta svolgere un’attenta funzione di direzione sulla attività della PG delegata al fine di verificare in tale prospettiva che la stessa nella richiesta di proroga dell'intercettazione oltre tali termini massimi di durata evidenzi in modo completo ed esaustivo gli elementi di indagine, se emergenti dalla attività comunque svolta dalla PG, che legittimano la prosecuzione oltre i 45 giorni della attività di intercettazione sullo specifico bersaglio.
Tali elementi dovranno essere naturalmente indicati o comunque richiamati ed oggetto di specifica ed esaustiva motivazione da parte del PM in sede di richiesta di proroga indirizzata al GIP.
Ove tali elementi siano stati invece acquisiti sulla base di attività di indagine direttamente svolta dal Pubblico Ministero sarà onere dello stesso indicare allo stesso modo nella richiesta al GIP di proroga delle intercettazioni gli elementi di indagine ulteriori che legittimano la prosecuzione dell'attività di intercettazione per il suo carattere di indispensabilità nel senso sopra indicato.
Immagine: particolare da Jeff Koons, Telefono, 1979, telefono con specchio.
Il nuovo DDL n.1146 approvato dal Senato va oltre la disciplina già adottata a livello europeo con l’AI ACT ed è improntata ad uno spirito conservativo più attento ai pur esistenti rischi e problemi etici che alle enormi potenzialità. Vengono dettate disposizioni specifiche per la giustizia, in particolare relative ai professionisti e quindi anche agli avvocati, alla pubblica amministrazione e all’attività giudiziaria. Principi generali sono la prevalenza del lavoro intellettuale umano, l’utilizzo dei sistemi di IA solo per attività strumentali e di supporto e di efficienza, la trasparenza. L’utilizzo di IA per i professionisti e per la Pubblica Amministrazione incontra forti limiti ed è consentita solo quando finalizzata al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale. Mentre per l’attività giudiziaria deve essere sempre riservata al magistrato la decisione, ivi comprese interpretazione e valutazione delle prove. Vengono affidate al Ministero della Giustizia la disciplina degli impieghi di sistemi di intelligenza artificiale per l'organizzazione dei servizi, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie oltre che l'autorizzazione alla sperimentazione e all'impiego dei sistemi di intelligenza artificiale negli uffici giudiziari, dando un monopolio ed un enorme potere a una struttura che già oggi carente di risorse e con evidenti criticità. Sono poi previste moltissime deleghe, generiche, al Governo tra cui in tema di attività di polizia e di indagini preliminari. Quanto oggi manca è un’iniziativa in positivo per sottolineare e far emergere le grandi potenzialità dell’IA, per personalizzare e valorizzare le possibili applicazioni per le professioni giuridiche, per supportare il lavoro degli operatori e per realizzare una loro formazione a tappeto.
Sommario: 1. Il nuovo DDL e l’AI ACT – 2. Principi generali e disposizioni che riguardano la giustizia – 2.1. L’utilizzo di IA per gli avvocati – 2.2. L’utilizzo di IA per la Pubblica Amministrazione – 2.3. L’utilizzo di IA per l’attività giudiziaria – 2.4. Le altre norme che riguardano la giustizia – 3. Limiti di efficacia della normativa e prospettive in positivo.
1. Il nuovo DDL e l’AI ACT
Dopo quasi un anno dalla sua presentazione, che risale al 23 aprile 2024, il 20 marzo 2025 è stato approvato dal Senato il DDL n.1146 “Disegno di legge delega sull’intelligenza artificiale” che disciplina l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale in tutti i settori della nostra vita, tra cui anche per la giustizia.
Va rammentato che l’AI Act, il Regolamento europeo che stabilisce le regole per l’uso dell’intelligenza artificiale (approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio il 13 giugno 2024), classifica la materia della giustizia come ad alto rischio. Testualmenteil comma 8 dell’Allegato III indica come ad alto rischio «i sistemi di IA destinati a essere usati da un’autorità giudiziaria o per suo conto per assistere un’autorità giudiziaria nella ricerca e nell’interpretazione dei fatti e del diritto e nell’applicazione della legge a una serie concreta di fatti, o a essere utilizzati in modo analogo nella risoluzione alternativa delle controversie». Ma nel contempo il “considerando” 61 precisa che «Non è tuttavia opportuno estendere la classificazione dei sistemi di IA come ad alto rischio ai sistemi di IA destinati ad attività amministrative puramente accessorie che non incidono sull’effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi» e l’art. 6 §3 introduce limitazioni alla stessa classificazione come uso ad alto rischio: «In deroga al paragrafo 2, un sistema di IA di cui all’allegato III non è considerato ad alto rischio se non presenta un rischio significativo di danno per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali delle persone fisiche, anche nel senso di non influenzare materialmente il risultato del processo decisionale».[1]
Un sistema che cerca di tenere un equilibrio tra la tutela dai rischi e dagli abusi dell’IA e le immense potenzialità e possibilità di migliorare la nostra attività quotidiana che potrebbe darci l’IA.
Questo era il riferimento per il legislatore italiano che poteva tener conto della nuova normativa europea, approvata dopo la presentazione del DDL, ma in tempo per confrontarsi con la stessa dato anche l’ampio lasso di tempo (quasi un anno) preso per la discussione parlamentare. Tra l’altro si tratta di argomenti, anche se solo apparentemente, molto tecnici che come tali consentirebbero l’utilizzo di competenze ed idee provenienti da ogni parte politica evitando divisioni partigiane.
Il risultato dal mio punto di vista è deludente in quanto improntato ad uno spirito conservativo, più attento ai rischi e ai problemi etici indotti dall’IA, di sicuro esistenti, che a cercare di governare e di implementare un fenomeno che caratterizzerà i nostri prossimi anni, dando il proprio segno a sistemi che inevitabilmente si affermeranno. Con l’ulteriore risultato di accrescere il divario già oggi esistente tra l’Italia (ma riguarda anche l’Europa) e Stati Uniti e Cina nello sviluppo di sistemi di IA che nel prossimo periodo saranno sempre più dominanti e sempre più pervasivi nelle nostre società.
Abbiamo già visto come atteggiamenti che cercano di tirare il freno e di limitare innovazioni epocali, quali l’IA generativa, si rivelino inevitabilmente perdenti perchè rinunciano a gestire e a cavalcare, pur regolamentando, novità che, nella misura in cui eliminano lavoro umano a basso valore aggiunto e ci danno prodotti ed elaborazioni prima neppure ipotizzabili, diventano ineluttabili ed irrinunciabili.
Si tratta quindi di regolare per governare (come opportunamente ha cercato di fare l’Europa con l’AI Act), ma anche di incoraggiare e promuovere lo sviluppo di sistemi personalizzati ed adatti ai diversi settori.
Questo riguarda tutti i campi, anche la giurisdizione.
2. Principi generali e disposizioni che riguardano la giustizia
I principi generali relativi a tutti i settori enunciati nel DDL n.1146 all’art. 3 sono del tutto condivisibili: - tutela dei diritti, - correttezza, attendibilità, sicurezza, qualità, appropriatezza, trasparenza, - autonomia e potere decisionale dell’uomo e prevenzione del danno, - assenza di pregiudizi e condizionamenti per il metodo democratico e per il funzionamento delle istituzioni, - garanzie delle persone con disabilità.
Le norme che possono interessare la giustizia si limitano a pochi articoli: l’art.13 in materia di professioni intellettuali e quindi rilevante anche per gli avvocati, l’art.14 sull’uso nella pubblica amministrazione, l’art.15 sull’impiego nell’attività giudiziaria, l’art.17 sulla competenza per il contenzioso relativo al funzionamento dell’IA, l’art.26 contenente modifiche al codice penale.
Le norme sull’utilizzo dell’IA da parte dei tutti i soggetti che operano nella giustizia paiono ispirarsi a tre principi generali: - prevalenza del lavoro intellettuale umano, - utilizzo dei sistemi di IA solo per attività strumentali e di supporto e di incremento dell’efficienza della propria attività, - trasparenza sull’utilizzo di IA.
2.1. L’utilizzo di IA per gli avvocati
Per i professionisti l’utilizzo dei sistemi di IA è «finalizzato al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’ opera» con l’obbligo di comunicare al cliente i sistemi di IA utilizzati. Obbligo che era già previsto in alcune linee guida già adottate da diversi Ordini professionali (vedi ad esempio il punto 3 della Carta dei Principi per un uso consapevole di strumenti di intelligenza artificiale in ambito forense dell’Ordine degli Avvocati di Milano[2]). Per il resto i concetti di finalizzazione alle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e la prevalenza del lavoro intellettuale umano sono estremamente ambigui e tali da non essere determinanti. Dove si ferma l’attività strumentale e di supporto e dove comincia il nucleo forte dell’attività defensionale? E non è forse attività intellettuale umana la creazione di archivi giurisprudenziali a livello di studio o di settore o territoriale e la capacità di formulare prompting adeguati e efficaci?
Manca invece una regolamentazione dell’ampio campo che può davvero rappresentare un rischio per la professione di avvocato, ma ancor più per l’informazione ed i diritti dei cittadini, delle consulenze legali on line nelle quali occorrerebbe vietare quelle selvagge ed imporre una certificazione ed una trasparenza sulla provenienza e completezza dei dati sulle quali si basano.
La sensazione generale è che stiamo cercando di regolare con logiche vecchie strumenti del tutto nuovi nei cui confronti occorre certo cautela, ma anche flessibilità anche alla luce delle continue e rapidissime trasformazioni cui stiamo assistendo.
2.2. L’utilizzo di IA per la Pubblica Amministrazione
Per la pubblica amministrazione l’uso dell’intelligenza artificiale viene limitato a fini di incrementare l’efficienza sia come tempi che come qualità, assicurando agli interessati la conoscibilità del suo funzionamento. Quanto all’utilizzo nell’adozione di provvedimenti viene limitato a «funzione strumentale e di supporto» «nel rispetto dell’autonomia e del potere decisionale della persona che resta l’unica responsabile dei provvedimenti». Infine devono essere adottate «misure tecniche, organizzative e formative finalizzate a garantire un utilizzo dell’intelligenza artificiale responsabile e a sviluppare le capacità trasversali degli utilizzatori». Il tutto con la solita formula dell’invarianza di spesa.
In realtà le possibilità di utilizzo dell’intelligenza artificiale per le pubbliche amministrazioni e più specificamente per i servizi ai cittadini può davvero essere enorme, consentendo un rapporto più immediato e una costante interrelazione con i cittadini. I limiti posti in realtà sono estremamente stringenti e forse non consentirebbero più neppure l'applicazione di algoritmi già correnti. A meno di voler interpretare il concetto di sistemi di intelligenza artificiale, anch'esso estremamente vago data la difficoltà generale di identificare con esattezza cosa sia l'intelligenza artificiale, differenziandolo dagli algoritmi. La previsione sull'invarianza di spesa è una clausola di stile inevitabile perchè altrimenti scatterebbe l'obbligo di prevedere coperture, ma quanto sarebbe invece necessario proprio per la Pubblica Amministrazione è un grande piano di investimenti per adottare sistemi personalizzati di IA in tutti i settori, che porterebbe ad enormi risparmi di spese potendo eliminare almeno tutte le attività a basso valore aggiunto. Piano di investimenti su cui si è sempre in tempo, al di là di questo disegno di legge, ma che dovrebbe comportare stanziamenti più congrui del miliardo di euro che accompagna il presente DDL[3]. Basti pensare che la sola Microsoft ha investito ottanta volte tanto[4].
2.3. L’utilizzo di IA per l’attività giudiziaria
Quanto invece all'attività giudiziaria viene «sempre riservata al magistrato ogni decisione sull'interpretazione e sull'applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull'adozione dei provvedimenti». Principio su cui non si può che essere d'accordo, che comunque lascia aperto l'utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale come ricerca giurisprudenziale, supporto, costruzione di documenti. È sicuramente positivo che si siano abbandonate le disposizioni molto più restrittive previste nell'originario disegno di legge secondo cui l’utilizzo dell’IA era consentito «esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario, nonché per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale». L'utilizzo alla luce della normativa approvata è quindi ampiamente consentito, ma la decisione spetta sempre al magistrato.
Con altro comma «la disciplina degli impieghi di sistemi di intelligenza artificiale per l'organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie» viene affidata al Ministero della Giustizia. Ciò riguarda un ampio spettro di attività laterali rispetto alla giurisdizione. Sempre al Ministero spetterebbe, almeno fino alla compiuta attuazione del Regolamento UE 2024/1689 l'autorizzazione alla «sperimentazione e l'impiego dei sistemi di intelligenza artificiale negli uffici giudiziari». Ciò comporta che negli uffici giudiziari non si potrebbero utilizzare sistemi di IA, se non autorizzati. Previsione che onestamente preoccupa, perchè se è corretto evitare che vengano immessi sistemi che possono procurare problemi sulla rete protetta degli uffici, sarebbe allarmante se ciò comportasse un limite alla possibilità di utilizzo di Chat GPT, piuttosto che di Perplexity o di altri sistemi, perchè in tal modo si cercherebbe di limitare enormemente le stesse possibilità di utilizzo e di personalizzazione di sistemi utilizzati. Tra l'altro ci troviamo in una fase in cui il monopolio ministeriale dell'informatica è in evidente crisi sia per motivi istituzionali che di efficienza. L'informatica, ancor più dopo l'avvento dell'IA generativa, non è più un servizio della giustizia (art. 110 Costituzione), ma è un vero e proprio formante della giurisdizione e come tale continuare ad affidarlo solo al Ministero, senza alcun coinvolgimento reale del C.S.M. e dell'avvocatura è una violazione della Costituzione e della sua volontà. D'altro canto si è visto anche da recenti esperienze (gli uffici minorili e l’applicazione APP che sarebbe l’inizio del Processo Penale Telematico) come il Ministero non sia in grado per carenza di risorse tecniche di garantire un intervento ed una gestione efficace e come risulti sempre più lontano dalle esigenze e realtà degli uffici giudiziari e dell’avvocatura. Dare nuovi compiti, ovviamente a risorse invariate, significa condannarci all'immobilismo e all'inefficienza. Con l'ultimo comma dell'art. 14 viene poi prevista una competenza ministeriale per la formazione del personale e dei magistrati sull'intelligenza artificiale. La formulazione è in parte ambigua: per i magistrati parla di elaborazione delle linee programmatiche che il Ministero per legge ogni anno rassegna alla Scuola Superiore della Magistratura, per promuovere attività didattiche finalizzate alla formazione digitale di base e avanzata e all'acquisizione e alla condivisione di competenze digitali. La formazione in merito è fondamentale ed è una delle grandi sfide del prossimo periodo. Quanto deve essere chiaro è che ciò non può comportare una modifica di competenze acquisendo nuovi spazi per il Ministero ai danni della SSM, ma unicamente un forte stimolo perchè la Scuola si prenda carico di questi fondamentali compiti. Altra questione sarebbe la necessità di un raccordo costante tra Scuola e Ministero per consentire ed anzi incoraggiare momenti di formazione comune per magistrati, dirigenti amministrativi e personale, da auspicare e realizzare.
2.4. Le altre norme che riguardano la giustizia
Vi sono poi alcune ulteriori norme che interessano la giustizia. In primo luogo l'esplicita previsione che le cause aventi ad oggetto il funzionamento di sistemi di intelligenza artificiale rientrino nella competenza per materia del Tribunale e quindi una serie di previsioni penali tra cui spicca l'introduzione di una nuova aggravante, l'art. 61 n. 11 decies C.P. che punisce per «avere commesso il fatto mediante l'impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando gli stessi per la loro natura o per le modalità di utilizzo, abbiano costituito mezzo insidioso, ovvero quando il loro impiego abbia comunque ostacolato la pubblica o la privata difesa, ovvero aggravato le conseguenze del reato».
Lasciano poi perplesse le amplissime deleghe, molto generiche che vengono rilasciate al Governo, che sono di sicuro impatto anche per il mondo della giustizia. In primis l’art.16 che delega il Governo di adottare una disciplina organica relativo all’utilizzo di dati, algoritmi e metodi matematici per l’addestramento di sistemi di intelligenza artificiale. Quindi l’art. 24 che attribuisce deleghe ad intervenire o coordinare con le nuove norme in tema di IA in molti settori tra cui «la previsione di un’apposita disciplina per l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale per l’attività di polizia» (comma 2 lettera h) e la «regolazione dell’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale nelle indagini preliminari nel rispetto delle garanzie inerenti al diritto di difesa e ai dati personali dei terzi, nonché dei principi di proporzionalità, non discriminazione e trasparenza.» (comma 3 lettera e). Delega ampia e generale che appare carente di principi e criteri direttivi.
3. Limiti di efficacia della normativa e prospettive in positivo
Per quanto concerne in particolare magistrati e avvocati alla luce di queste disposizioni due domande vengono spontanee: come sarà possibile controllare se viene fatto un uso dell’intelligenza artificiale fuori dai canoni previsti ed autorizzati e quali saranno le conseguenze in caso di violazioni.
In realtà sarà ben difficile verificare se un operatore del diritto abbia utilizzato l’intelligenza artificiale generativa, essendo pacifico che la responsabilità dell’atto creato o cui ha collaborato l’IA è sempre di chi l’ha utilizzata e ha sottoscritto lo stesso. Probabilmente emergerà solo in caso di errori e “allucinazioni”, come del resto è già avvenuto sia all’estero che recentemente in Italia[5].
D’altra parte un atto creato in violazione delle previsioni di legge e quindi sostanzialmente automatizzato non avrà alcuna conseguenza giuridica circa la sua validità, stante la sottoscrizione e la responsabilità dell’autore umano. Conseguenze ci saranno, ma potranno essere sul piano etico o su quello disciplinare, non certo su quello processuale.
C’è da auspicare che il passaggio alla Camera serva anche per approfondire i vari temi che sono stati accennati e per aprire un grande dibattito tra gli operatori, che sinora sono stati silenziosi spettatori.
Ma poi c’è da sperare che, parallelamente alle pur indispensabili regolamentazioni, venga presa un’iniziativa in positivo per sottolineare e far emergere le grandi potenzialità delle varie intelligenze artificiali, per valorizzare le possibili applicazioni per le professioni giuridiche e supportare il lavoro degli operatori, per realizzare una loro formazione a tappeto. Occorrerebbe un laboratorio nazionale sull’utilizzo dell’IA generativa nella giustizia chiamando i migliori cervelli dall’università, dalla magistratura, dall’avvocatura, dalla dirigenza e dal personale giudiziario. Senza questo saremo sempre ad arrancare dietro i progressi tecnologici che o vengono governati o, al di là dei divieti formali, prevarranno.
[1] Vedi Amedeo Santosuosso Giudici potenziati dall’IA: le tutele dell’AI Act in Agenza digitale 11.2.2025
[2] https://www.ordineavvocatimilano.it/media/news/DICEMBRE2024/CartadeiPrincipi_OrdinediMilano.pdf
[3] https://www.irpa.eu/intelligenza-artificiale-la-sfida-del-governo/
[4] Microsoft e intelligenza artificiale, piano da 80 miliardi per i data center Redazione Finanza in Il sole 24 ore 04.01.2025 https://www.ilsole24ore.com/art/microsoft-e-intelligenza-artificiale-piano-80-miliardi-i-data-center-AGn0Ua7B
[5] Il Tribunale di Firenze sezione imprese con sentenza 13 marzo 2025 ha ritenuto che l’uso improprio da parte di un difensore dell’utilizzo di Chat GPT non possa configurare responsabilità aggravata per lite temeraria https://i2.res.24o.it/pdf2010/S24/Documenti/2025/03/27/AllegatiPDF/Trib_Firenze_14_03_25.pdf
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