ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dedicato ai magistrati resistenti[1].
La lunga vicenda processuale seguita all’omicidio dell’on. Giuseppe Di Vagno[2], tanto nella porzione svolta nel biennio 1922-1924, sia in quella successiva alla revisione del processo dopo la caduta della dittatura, rappresenta il paradigma dell’atteggiamento della magistratura professionale italiana (non già dei tribunali speciali costituiti dal regime con evidenti scopi persecutori) a fronte degli episodi di violenza commessi dai fascisti prima e durante l’affermazione del regime.
Quasi tre anni prima dell’uccisione di Giacomo Matteotti, nel sud barese si consumò un primo, meno noto, omicidio politico.
L’on. Di Vagno, deputato socialista, il 25 settembre 1921, venne raggiunto da una squadra fascista, mentre si apprestava a partecipare ad una iniziativa politica a Mola di Bari. Inseguito mentre fuggiva, venne attinto da due colpi da arma da fuoco, esplosi uno dopo l’altro, che colpirono la regione lombare e l’articolazione sacro coccigea. Dalle ferite ne derivò la morte.
La sentenza della Corte di assise di Bari del 1922, fra imputati amnistiati e complici la cui posizione era stata tralasciata già in fase di indagine, non rese mai giustizia al martirio del deputato socialista.
Nel 1944, la Corte di appello di Bari revocò l’amnistia concessa nel 1922 ed il Procuratore Generale presso la Corte di assise di Bari dispose nuove indagini sull’omicidio.
Scaturì il processo bis, celebrato per “legittima suspicione” a Potenza e concluso con la sentenza del 31 luglio del 1947 che accertava l’omicidio volontario e condannava esponenti fascisti baresi, nel frattempo divenuti “classe dirigente” locale.
In questa sede interessa, però, l’esito finale, ossia la sentenza della Corte di Cassazione del 22.3.1948, adottata in un’epoca in cui neppure vi era il timore che le decisioni giudiziarie contravvenissero alla volontà politica del fascismo.
La Suprema Corte, a conclusione del nuovo processo, qualificò l’omicidio come preterintenzionale e come tale, secondo gli ermellini, “coperto” dall’amnistia Togliatti.
Non serve scomodare gli annali della giurisprudenza, per precisare che l’omicidio è preterintenzionale quando la volontà dell'agente è diretta a percuotere o ledere ed il reo non prevede come conseguenza della sua azione l’evento morte, che – appunto – si verifica praeter l’intenzione.
Nel caso Di Vagno, lo svolgimento dell’azione, accertato pacificamente nei gradi di merito, palesa più elementi sintomatici dell’intento omicidiario: l’utilizzo di un’arma da fuoco, l’inseguimento della vittima, la pluralità dei colpi esplosi, le parti del corpo attinte. La conclusione della Suprema Corte piuttosto che fare uso dei canoni ermeneutici già allora affermati è facilmente sospettabile di avere puntato ad una “benevola” conclusione della lunga vicenda processuale, appunto tramite la qualificazione dell’omicidio come preterintenzione e conseguentemente riconoscendo l’amnistia in favore degli assassini del Di Vagno.
Al momento della sentenza il regime fascista era già venuto meno, si deve allora riflettere sui motivi di questo atteggiamento clemenziale. L’analisi verterà sulla condizioni e sulla composizione della magistratura italiana nel dopo guerra ed almeno fino al ricorrere di due eventi fondamentali, che si sarebbero verificati nel decennio successivo: l’entrata in funzione della Corte Costituzionale nel 1956 che promosse una lenta ma efficace rilettura dell’ordinamento e delle leggi fasciste alla luce dei precetti della Costituzione repubblicana e la legge istitutiva del Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958 che garantì la indipendenza ed autonomia del potere giudiziario.
Solo a partire dagli anni ’60, per effetto della piena operatività della Corte costituzionale e del Consiglio superiore ma anche per il fecondo clima culturale promosso da una generazione di giuristi attenti ai temi delle libertà, delle garanzie e dei diritti, la magistratura italiana cominciò un lungo viaggio che la rese coprotagonista della attuazione della Costituzione e del progresso della civiltà giuridica italiana.
Invece, la magistratura del dopoguerra era ancora quella mirabilmente descritta da Dante Troisi in Diario di un giudice: inconsapevole del suo ruolo costituzionale, ripiegata in se stessa, muta testimone delle rovine morali e materiali del dopoguerra ed attenta solo alle progressioni in carriera.
Circa le condizioni economiche, rileva quanto osservato da Meniconi “negli uffici giudiziari il clima era reso difficile dalle condizioni economiche e materiali in cui veniva amministrata la giustizia: affollamento delle cause civili e penali, diminuzione del numero di magistrati, dovuto al blocco dei concorsi, stipendi falcidiati dalla inflazione post bellica”. Un magistrato assunto nel 1910 con uno stipendio di 200 lire, si trovava ad essere consigliere di Cassazione con uno stipendio di 33.009 lire che però equivaleva alla capacità di acquisto di appena 150 lire nel 1910: ossia aveva visto, nonostante avesse raggiunto l’apice della carriera, diminuire di un quarto il potere di acquisto della sua retribuzione[3].
Una magistratura, schiacciata dall’eccessivo lavoro giudiziario ed insieme spinta a preoccuparsi dei propri bisogni materiali, è più facile che si sottragga all’approfondimento faticoso delle questioni ed alla decisione coraggiosa perché tendenzialmente troverà rifugio nella comodità del precedente giurisprudenziale e nella soluzione più semplice, se non addirittura in quella che meno scontenta la parte processuale più potente. Trova anche così giustificazione la motivazione della Corte di Cassazione nel processo “Di Vagno bis” che ha preferito dilatare i confini della nozione di omicidio preterintenzionale al fine di trovare una soluzione di compromesso (accertare la colpevolezza ma amnistiare i rei) che scontentasse il meno possibile. Si tratta di un “meccanismo” di inconsapevole autodifesa professionale che deve sempre essere tenuto presente quando si pretende l’adempimento delle funzioni giudiziarie secondo parametri quantitativi, seguendo l’approccio aziendalistico –oggi tanto in voga- ai temi della giustizia e la (purtroppo diffusa) pretesa di valutare l’attività giurisdizionale solo per il numero di affari definiti e non secondo la capacità di verificare, nel caso concreto, le ragioni ed i torti.
Ma si deve anche ragionare sulla composizione del ceto magistratuale del dopo guerra.
Il “corpo” della magistratura era rimasto quello del regime: come in generale per la pubblica amministrazione, la macchina dell’epurazione dei magistrati produsse pochissime decisioni di condanna anche per evitare la decapitazione di un’intera classe dirigente con la conseguente impossibilità per l’amministrazione di funzionare. Quanto lungo e difficoltoso sia stato il ricambio generazionale risulta dalla statistica riportata da Neppi Modona: assumendo come punto di riferimento i ruoli del 1968, risulta che erano stati assunti in servizio prima del 1944 tutti i magistrati di cassazione e ben il 70% dei magistrati di appello mentre erano il 99% i magistrati di tribunali assunti dopo il 1944. Quella che allora era definita l’“alta magistratura” (a più di venti anni dalla caduta del regime) era di origine “fascista” e non per nulla proprio dalla “bassa magistratura”, a partire dagli anni ’60, vennero gli stimoli per la stagione dell’affermazione dei diritti e delle garanzie.
È facile dunque immaginare quale fosse la composizione della magistratura al tempo del processo “Di Vagno bis” e quanto operasse in piena continuità con la tradizione fascista. Infatti, se è vero che i magistrati italiani potevano vantare il rifiuto di prestare giuramento alla Repubblica di Salò, è incontrovertibile che la loro carriera si era tutta sviluppata durante il fascismo così da avere il paradosso che fossero fra loro colleghi i magistrati che avevano avuto ruoli di vertice durante il regime[4] ed i magistrati che erano stati rimossi dal regime per motivi politici[5], a tacere dei magistrati resistenti ricordati da Borgna.
Si deve inoltre tenere presente che la cultura giuridica, dominante allora ed almeno per un altro decennio, era tutta fondata sul tecnicismo e sulla pretesa apoliticità dell’attività di interpretazione delle norme. Era dunque difficile l’immediato assorbimento dei principi fondanti la Carta costituzionale nata dalla Resistenza e comunque più complessa l’applicazione delle norme introdotte, dopo la Liberazione, per sanzionare i crimini fascisti, da più parte criticate per la loro vaghezza e per i loro difetti tecnici.
Si tratta dello stesso ritardo culturale che i magistrati hanno subito nel cogliere la gravità dei reati commessi in un contesto mafioso. Annota Isaia Sales[6] che dall’Unità d’Italia fino al 1992 a fronte di 10.000 omicidi ci furono in Sicilia solo 10 condanne all’ergastolo di mafiosi, mentre ce ne saranno 450 solo fra il 1993 ed il 2006. Al di là dell’inasprimento dell’apparato sanzionatorio antimafia, dovuto alla legislazione degli anni’80 e ’90, Salvatore Lupo[7], fra i maggiori storici della mafia, ha individuato questa radicale inversione di tendenza nel “processo di distacco della giovane magistratura dal potere; grazie alla scolarizzazione di massa che sottrae il reclutamento ai tradizionali canali riservati alla possidenza fondiaria ed alla classe dei grandi professionisti; grazie all’applicazione seppure tardiva del dettato costituzionale, che dà alla magistratura prima, al singolo magistrato dopo, un’autonomia della quale mai l’una e l’altra avevano goduto in passato”.
Ancora una volta solo la sua rinnovata composizione sociale e la definitiva affermazione della cultura costituzionale consentirono alla magistratura di affrancarsi da prassi giurisprudenziali conformiste e poco propense a smuovere lo status quo. Un tema, quella della composizione sociale della magistratura, che non deve cessare di interessare chi si occupa di giustizia e diritti, soprattutto di questi tempi quando le difficoltà concorsuali hanno innalzato l’età di accesso alle funzioni giudiziarie (con medie ben superiori ai trenta anni) con il rischio di ritorno ad un meccanismo censuario di selezione, perché solo chi è sostenuto da famiglie che possono garantire il mantenimento economico fino ai trenta anni può dedicarsi serenamente alla preparazione delle prove di accesso. Così come, tuttora, deve tenersi ben saldo l’assetto costituzionale del potere giudiziario, ben prevenire il rischio che gli organi giurisdizionali tornino a rimanere, anche solo inconsapevolmente, supini al gradimento delle maggioranze del momento.
È ora però di tornare al tema dell’atteggiamento della magistratura del dopo guerra rispetto ai crimini fascisti. Neppi Modona, tirando le fila dello studio sugli orientamenti giurisprudenziali di quegli anni in materia di sanzioni contro i fascisti e di processi per i crimini commessi dai partigiani durante la Resistenza, conclude che “il ceto giudiziario della Cassazione romana (a differenza dei giudici di merito delle zone dove maggiormente si sviluppò la guerra di Liberazione, come per esempio il Piemonte, nda) che non aveva vissuto in prima persone le barbarie nazifasciste e la cui compromissione con il regime era stata certamente maggiore, opera una scelta non solo di continuità ….ma di copertura dei reati comuni commessi dai nazifascisti”.
Ed in conclusione, rileva il giudizio di V. Zagrebelsky “in generale l’orientamento della magistratura può essere definito moderato e conservatore, conforme a quello politico prevalente in ogni campo e particolarmente favorito dall’atteggiamento della magistratura, per un verso di ostentata estraneità a tutto ciò che si richiamasse ad opzioni politiche e per altro verso naturalmente incline ad esprimere le scelte con argomentazioni tecniche. In fondo un simile atteggiamento era anche favorito dalla convinzione diffusa tra i magistrati che la magistratura fosse rimasta esente da influenze politiche persino durante il periodo fascista, come sarebbe dimostrato dal fatto che il fascismo, per ottenere una giustizia politicamente orientata, aveva istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato”.
Breve bibliografia
AAVV, Il processo Di Vagno, Camera dei Deputati, 2011.
BASSO, Il Principe senza scettro, Milano, Feltrinelli, 1999.
NEPPI MODONA, La magistratura dalla Liberazione agli anni Cinquanta. Il difficile cambiamento verso l’indipendenzain Storia dell’Italia Repubblicana, a cura di F. Barbagallo, vol. III, 2 Torino, Einaudi, 1997 pp. 83-137.
V. ZAGREBELSKY, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi in Storia d’Italia. Annali 14. Legge, diritto, giustizia a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 1998, pp. 713-790.
MENICONI, Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2012.
BORGNA, La magistratura resistente in Questione Giustizia on line.
[1] Alcuni nomi ricordati da Borgna: Carlo Alberto Ferrero, della Corte d’appello di Torino che, per aver definito «prive di fondamento giuridico» le sanzioni a carico dei familiari dei renitenti alla leva, fu catturato dai tedeschi, seviziato, costretto a sfilare nel paese di Chiusa Pesio con appeso al collo un cartello con la scritta «traditore» e infine fucilato.
Mario Fioretti che a Roma, il 12 dicembre 1943, fu ucciso in piazza di Spagna al termine di un comizio. Il giudice di Ferrara Pasquale Colagrande, il quale, incarcerato dai fascisti, quando gli si offri di fuggire, rispose «Salvarsi? O tutti o nessuno». E poco dopo, davanti al plotone di esecuzione, alzò il grido: «Assassini!». Dirà Calamandrei in un discorso commemorativo tenuto a Ferrara nel novembre 1950: «Quella non fu un’imprecazione; egli era un magistrato: quella fu una sentenza, l’ultima inappellabile sentenza di un magistrato eroico».
Il giudice cuneese Vincenzo Giusto, che cadde in combattimento dopo aver raggiunto sulle montagne le formazioni partigiane.
[2] Ben descritta da Marco Nicola Miletti Il doppio tradimento. Una lettura storico giuridica delle carte processuali, Giulio Esposito Le premesse del delitto e Vito Antonio Leuzzi La revisione del processo: tra reazione e democrazia tutti in Il processo Di Vagno, Camera dei Deputati, 2011.
[3] Venne addirittura proclamato lo sciopero descritto da Scalambrino in Questione Giustizia n. 1, 1984, pp. 219 e ss.
[4] Si pensi a Luigi Oggioni, già procuratore generale della Repubblica di Salò e poi procuratore generale presso la Corte di Cassazione in epoca repubblicana od ad Gaetano Azzariti, già presidente del Tribunale per la razza e poi giudice e presidente della Corte Costituzionale.
[5] Si pensi a Giuseppe Pagano, nominato primo presidente della Corte di Cassazione dal Guardiasigilli Togliatti od a Giuseppe Badia e Vincenzo Chieppa, dirigenti dell’associazione nazionale magistrati.
[6] La Mafia impunita in la Repubblica del 27.3.22.
[7] Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1996.
Il decreto PNRR n. 19/2024 (ri)attribuisce rilevanza penale agli illeciti previsti dall’art. 18 D.lgs 276/2003
Il presente contributo costituisce il seguito de I rischi penali dell'interposizione illecita di manodopera di Chiara Giuntelli, apparso su questa Rivista il 4 marzo 2024.
Con la recente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Legge 2 marzo 2024 n. 19 recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (cd. DLPNRR-bis), le varie forme di somministrazione abusiva di manodopera, utilizzazione illecita, appalto e distacco illeciti contemplati all’art. 18 D.lgs 276/2003, fattispecie colpite dalla depenalizzazione ad opera del D.lgs n. 8/2016, tornano ad assumere rilevanza penale. Si tratta di una delle misure di prevenzione e contrasto al lavoro irregolare adottate in via di urgenza a seguito dei tragici fatti di Firenze che, unitamente ad altre disposizioni, mirano a rafforzare gli strumenti di tutela dei lavoratori nell’ambito delle esternalizzazioni.
La tutela penale era ormai da tempo riservata, dopo una precedente abrogazione, all’ipotesi di somministrazione fraudolenta di manodopera prevista dall’art. 38 - bis d.lgs n. 81/2015, oltre che ad alcune limitate fattispecie previste nell’art. 18 D.lgs 276/2003 e non interessate dalla depenalizzazione.
L’art. 29 del Decreto Legge 19/2024 interviene in maniera radicale sull’art. 18 riscrivendo gli illeciti contravvenzionali e potenziando il trattamento sanzionatorio, con la previsione di una pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, anche rispetto all’originaria formulazione del reato introdotto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003 (legge Biagi).
Con specifico riguardo alla somministrazione abusiva di lavoro prevista al comma 1 dell’art. 18, l'esercizio non autorizzato delle attività di cui all’art. 4 comma 1 lettere a) e b) è ora punito con la pena dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro.
È stata reintrodotta, altresì, la rilevanza penale dell’esercizio abusivo senza scopo di lucro della attività di intermediazione di cui all’art. 4 comma 1 lett. c) per cui è prevista la pena dell’arresto fino a due mesi o dell’ammenda da euro 600 a euro 3.000.
Per quanto riguarda, invece, l'esercizio non autorizzato delle attività di cui all'articolo 4, comma 1, lettere d) ed e), la pena è dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda da euro 900 ad euro 4.500; se tali attività sono esercitate senza scopo di lucro la pena è dell’arresto fino a quarantacinque giorni o dell’ammenda da euro 300 a euro 1.500.
Importanti novità riguardano anche il trattamento sanzionatorio previsto per l’utilizzatore, che ricorra alla somministrazione di manodopera da parte di soggetti non autorizzati o al di fuori dai limiti normativi previsti a cui, ai sensi dell’art. 18 comma 2, si applica la pena dell’arresto fino ad un mese o dell’ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione.
Anche gli appalti e distacchi irregolari sono nuovamente passibili di sanzione penale. È stato, infatti, modificato il comma 5 - bisdell’art. 18 che ora recita: “Nei casi di appalto privo dei requisiti di cui all'articolo 29, comma 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all'articolo 30, comma 1, l'utilizzatore e il somministratore sono puniti con la pena dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione».
Il reato di somministrazione fraudolenta previsto dall’art. 38-bis D.Lgs. n. 81/2015, che si configura in tutti i casi in cui la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore, è stato abrogato ed inserito con la stessa formulazione al nuovo comma 5–ter dell’art. 18. È stata rafforzata, anche in questo caso, la previsione sanzionatoria con l’arresto sino a tre mesi o l’ammenda di euro 100 per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione.
Sono state, infine, introdotte due disposizioni che incidono sulle sanzioni. Ai sensi dell’art. 5-quater dell’art. 18 gli importi delle sanzioni previste da tale articolo sono aumentati del venti per cento ove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni penali per i medesimi illeciti, mentre il nuovo comma 5-quinquies prevede che l'importo delle sanzioni non può, in ogni caso, essere inferiore a euro 5.000 né superiore a euro 50.000.
Il Decreto PNRR apporta modifiche anche all’art. 29 D.lgs 276/2003 prevedendo che, al personale impiegato nell'appalto di opere o servizi e nell'eventuale subappalto è corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto. È prevista, inoltre, l'estensione della responsabilità solidale dell’utilizzatore che ricorra alla somministrazione nei casi di cui all’art. 18 comma 2 nonché ai casi di appalto e distacco di cui all’art. 18 comma 5-bis.
Dall’analisi del nuovo contesto normativo emerge, inequivocabilmente, da parte del governo una decisa marcia indietro rispetto al passato visto il sempre più crescente e preoccupante fenomeno del lavoro sommerso e irregolare mascherato sovente da appalti e distacchi illeciti che celano, in realtà, mere forniture di manodopera.
Gli effetti di questo censurabile malcostume esplicano effetti negativi anche sulla salute e sicurezza dei lavoratori come spesso la triste cronaca rivela. Un parallelo pacchetto di interventi riguarda il sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei mobili di cui all’art. 89 comma 1 lett. a) D.lgs 81/08 con l’introduzione della c.d. “patente a crediti” oltre ad altre misure volte a rafforzare l’attività di vigilanza degli organi competenti.
Sarà il tempo a stabilire se la minaccia della sanzione penale reintrodotta per le varie forme di interposizione illecita possa rappresentare un vero deterrente, dato che, stante la natura contravvenzionale delle “nuove” fattispecie criminose, la previsione della pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, può condurre all’estinzione del reato, o in sede amministrativa secondo quanto previsto dall’art. 15 D.lgs 124/2004 e artt. 20 e 21 D.lgs 758/1994, o in sede penale attraverso l’istituto dell’oblazione facoltativa ex art. 162 - bis c.p. qualora ricorrano le condizioni previste dalla norma.
Certamente più efficace appare l’inasprimento generalizzato del trattamento sanzionatorio dei reati rendendo decisamente più onerosa rispetto al passato la definizione economica degli stessi da parte del contravventore.
COMUNICATO
della Fondazione Vittorio Occorsio in vista del 25 aprile, alla luce della censura di Scurati
La Fondazione Vittorio Occorsio è nata per tutelare la memoria di Vittorio Occorsio, assassinato il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine Nuovo. La memoria di un Paese è innanzitutto corretta ricostruzione degli eventi storici. Su questo la FVO è impegnata in oltre 100 scuole in tutta Italia.
Già il 7 luglio 2023 la FVO, attraverso la prolusione del suo presidente del Comitato Scientifico, Giovanni Salvi, in occasione dell’anniversario dell’attentato e della Giornata conclusiva del Progetto Scuola, presso la Scuola Ufficiali dell’Arma, stigmatizzò l’assenza di reazioni istituzionali alla celebrazione della morte del Concutelli da parte di centinaia di camerati, con il saluto fascista e con il grido “presente”. L’onore del camerata Concutelli, scrivemmo allora, consistette nell’uccidere con una mitraglietta un uomo disarmato e nell’assassinare in carcere due testimoni delle stragi di Brescia e Bologna, per le quali sono stati condannati con sentenza definitiva esponenti neofascisti.
In questi giorni si assiste alla celebrazione a reti e testate unificate del “filosofo” Giovanni Gentile, che solo filosofo non fu ma ebbe invece un ruolo determinante nel rafforzamento del fascismo e persino nei rapporti della RSI con i nazisti, definendo Hitler il grande condottiero nelle cui mani era il destino d’Italia (discorso di apertura dell’Accademia d’Italia, marzo 1944). Nel 1931 si batté per l’imposizione del giuramento fascista a chiunque svolgesse una carica pubblica e dunque anche a tutti i docenti del Paese. Egli non spese una sola parola pubblica per l’abominio delle leggi razziali e della deportazione degli Ebrei italiani con la complicità fascista: scelse solo, tra i suoi amici e conoscenti, chi aiutare e chi lasciare al suo destino. Non una parola pubblica spese per i 600.000 italiani rastrellati e deportati dai nazisti, anzi ne spese per uno solo, il figlio.
Qualche giorno fa, sulla rete pubblica Rai 2 si è giunti fino al punto di definire vili assassini i partigiani che – a rischio della vita – eseguirono un’azione militare contro uno dei principali esponenti della dittatura fasci-nazista. Ricordiamo – la memoria! – che tra quei vili assassini vi era Teresa Mattei, di appena vent’anni, il cui fratello, arrestato e torturato, pur di non rivelare il nome dei suoi compagni si era suicidato nella cella. Teresa Mattei è una delle madri della nostra Costituzione.
Oggi leggiamo che è stato impedito ad Antonio Scurati, uno dei maggiori scrittori di Storia contemporanea, di leggere un monologo sull’assassinio di Matteotti, sulle stragi fasci-naziste e sulle necessità che il Governo rappresenti la Repubblica e la Costituzione nate dalla Resistenza.
Non possiamo tacere, perché nostro compito è coltivare la memoria di chi ha sacrificato la vita, da magistrato, per i valori della democrazia e dell’antifascismo, come Vittorio Occorsio.
Giovanni Salvi (Presidente Comitato Scientifico)
Eugenio Occorsio e Vittorio Occorsio (Fondatori)
Melina Decaro (Segretaria Generale)
Roma, 21 aprile 2024
La risposta unanime al nazifascismo da parte di coloro che lo avevano osteggiato e ne avevano subito la violenta oppressione fu la Resistenza. Un fenomeno complesso, ancora oggi tema di discussione e di confronto tra gli storici ma anche tra coloro che fanno fatica a riconoscere l’origine dell’Italia repubblicana sulla base della Costituzione frutto della guerra di liberazione partigiana antifascista.
In tutta l’Europa la Resistenza ebbe i suoi centri nelle città, nelle campagne, in tutti i luoghi dove fu possibile organizzare la lotta delle formazioni partigiane: dalla Iugoslavia alla Grecia, alla Polonia, alla Francia, all’Italia centro-settentrionale.
Dal punto di vista sociale si può dire che nei vari paesi europei furono attivi nella lotta per la liberazione operai, contadini, ceti piccolo borghesi, intellettuali, guidati per lo più dai partiti di sinistra che combattevano con la grande fiducia nel cambiamento e nella rinascita dopo la rovina della guerra. I comunisti, in modo particolare, guardavano all’Unione Sovietica come patria, di una rivoluzione realizzata, mentre la componente borghese della Resistenza italiana ebbe come modello e punto di riferimento gli anglo-americani.
L’Italia centro-settentrionale dopo l’8 settembre del 1943 visse la svolta più complessa e drammatica determinata dagli effetti degli ultimi eventi. Senza Badoglio e senza il re, essa fu occupata dai tedeschi che promossero la “rinascita” del fascismo e diedero vita ad un nuovo governo fantoccio manovrato secondo i dettami di Hitler.
Il governo neofascista nacque a Salò, il partito fascista si chiamò “repubblicano” e il nuovo regime prese il nome di Repubblica sociale italiana con le forze armate sotto il comando tedesco con funzione squisitamente antipartigiana.
L’Italia spaccata in due, tra regno del sud e repubblica di Salò visse le sue più gravi e intricate contraddizioni: da un lato la dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo monarchico e il riconoscimento di “cobelligeranza” da parte degli alleati; dall’altro i partiti antifascisti che dopo il congresso di Bari (gennaio 1944) non riconoscevano alcuna autorità al re e a Badoglio e chiedevano l’abdicazione del sovrano traditore e compromesso col fascismo. Tutto questo in attesa che la questione istituzionale fosse risolta a liberazione raggiunta da una Assemblea Costituente eletta a tale scopo.
Fu Togliatti, con la svolta di Salerno nel marzo del 1944, a superare l’impasse. In nome dell’unità nazionale furono riconosciuti gli anglo-americani e fu promossa la nascita di un nuovo governo Badoglio con la partecipazione dei partiti per poter combattere tutti uniti il nazifascismo, rinviando a guerra finita la questione “monarchia o repubblica”. Formatosi il nuovo governo, il re abdicò in favore del figlio Umberto e dopo la liberazione di Roma il 5 giugno del 1944 si dimise. A parte le quattro giornate gloriose della resistenza napoletana, il movimento di liberazione si sviluppò al massimo nell’Italia centro-settentrionale con i vari CLN e il CLNAI che ne era a capo con funzioni direttive e di coordinamento. Con l’accordo di dicembre del ‘44 gli alleati riconobbero il movimento partigiano e lo trasformarono in una vera e propria forza militare, il Corpo dei volontari della Libertà, con a capo il generale Cadorna e i vicecomandanti Longo comunista e Parri azionista.
In questa situazione i tedeschi inasprirono la rappresaglia, la vendetta, i crimini, con azioni efferate: bastino per tutte le Fosse Ardeatine e la strage di Marzabotto. Nonostante gli alleati avessero la chiara intenzione di limitare il contributo del movimento partigiano, popolare e democratico, solo al conseguimento della vittoria sui tedeschi, l’iniziativa della Resistenza reagì ad ogni forma di compromesso ed ebbe la forza di garantire una svolta irreversibile tra l’Italia prefascista e l’Italia contemporanea.
Come concorda gran parte della storiografia nella “primavera dei partigiani” le forze popolari hanno messo nel paese quelle radici profonde che erano mancate all’esperienza del Risorgimento e la lotta antifascista ha assunto quel significato di riappropriazione dal basso della nazione e della patria che era venuta meno nel corso dell’esperienza storica dell’Ottocento.
Il giorno conclusivo della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo ha dunque un valore assoluto che trascende il tempo, i governi, le posizioni di quelli che ancora oggi lo considerano, in pubblico o in privato, un evento divisivo.
Divisivo tra chi? Tra coloro che ancora non hanno fatto i conti col fascismo e quelli che hanno piena coscienza delle basi su cui è stata fondata e si fonda a tutt’oggi l’Italia repubblicana? Bisogna finalmente pretendere che le ombre siano dissipate, che i fantasmi di un passato tenebroso siano dispersi per sempre.
Ci possono e ci devono essere chiavi di lettura molteplici della Storia, purché non si trucchino i fatti!
Per ripetere una frase di Gesù Cristo: solo la verità rende liberi.
La pietà per i morti, anche per quelli che “morirono dalla parte sbagliata” non conosce confini, ma il giudizio storico non può non essere un giudizio di valore.
Se rimanessimo nell’ottica neo-hegeliana di stampo crociano, ovvero che il giudizio storico è di natura teoretica non pratica, allora dovremmo affermare che esso non assolve e non condanna, dunque giustifica. In tale ottica di perfetta identità tra reale e razionale dovremmo giustificare tutti i misfatti della Storia, dalla Crociate ai lager, alle dittature, ai genocidi… Lo stesso Benedetto Croce fu poi costretto ad assumersi la responsabilità del giudizio sul fascismo che per lungo tempo aveva “giustificato” come passaggio da sopportare in vista della rinascita di uno stato liberale forte.
Mai come oggi è tempo di prendere posizioni nette rispettando la lezione dei fatti. Le nuove generazioni hanno bisogno di chiarezza nella difesa delle nostre radici perché specialmente ai giovani spetta il compito di rinnovare e difendere libertà, giustizia e pace sociale in una fase storica in cui si accentuano i conflitti e si annunciano mostruosi scontri epocali.
(Immagine: Milano, tra la fine di aprile e l'inizio di maggio del 1945, fonte il Manifesto)
Sommario: 1. Premessa - 2. Gli arresti giurisprudenziali più recenti - 3. La quantificazione del provento da sottoporre a sequestro o confisca.
1. Premessa
L’esperienza giudiziaria più recente ha visto l’incremento delle contestazioni di riciclaggio e di reimpiego sia nei procedimenti di criminalità comune che in quelli di criminalità organizzata, anche di stampo mafioso, in ragione di un progressivo affinamento dell’azione di contrasto all’accumulazione di patrimoni illeciti e alla infiltrazione delle strutture criminali nella economia legale.
In particolare, l’impresa mafiosa rappresenta l’attuale paradigma delle forme più moderne e pericolose di operatività dei sodalizi, impegnando di conseguenza l’autorità giudiziaria - inquirente e giudicante - in uno sforzo di elaborazione di protocolli investigativi e modelli decisori maggiormente in grado di assicurare il perseguimento dell’obbiettivo, risalente quanto bisognevole di ammodernamento continuo, della sottrazione ai gruppi criminali delle ricchezze illecitamente accumulate e soprattutto del contrasto alle manovre criminali volte al condizionamento dei mercati e alla alterazione delle relazioni economiche attraverso l’immissione di capitali illeciti, cui si aggiunge talvolta anche l’utilizzo del metodo mafioso e della finalità agevolatrice delle attività dei sodalizi di stampo mafioso.
Nulla di nuovo, si potrebbe affermare, poiché nella operatività delle organizzazioni mafiose la leva economica e le finalità di accaparramento di ampi settori dell’economia, a fini di accumulazione di ricchezza e di implementazione del controllo delle attività d’impresa attraverso condotte lato sensu riciclatorie, rappresentano da sempre il cuore degli obbiettivi strategici dei gruppi più potenti e radicati.
Così come, sul versante del crimine economico comune, le condotte di riciclaggio e reimpiego offrono da tempo gli strumenti più efficaci per il perseguimento degli scopi di arricchimento illecito, di assicurazione delle provviste accumulate e di ulteriore locupletazione.
A fronte di tale quadro fattuale, lo sforzo della giurisdizione è non solo di tipo operativo ma anche di ricostruzione sistematica del quadro normativo di riferimento: e ciò soprattutto in tema di cautela reale, essendosi oramai da tempo compreso che il delitto non deve pagare e che gli strumenti ablativi offrono la risposta più efficace possibile a queste gravi forme di lesione degli interessi protetti dall’ordinamento, che investono non solo i patrimoni privati ma l’ordine economico e la corretta operatività dei mercati. In ultima analisi, l’economia del Paese.
Sequestri e confische, dunque, come forma insostituibile dell’azione di contrasto attraverso la predisposizione normativa di una ampia gamma di strumenti; non sempre – a dire il vero – sottoposti a una adeguata ricostruzione sistemica e razionale. Soprattutto, di pluriforme natura, collocazione operativa e funzione: penale e di prevenzione; di tipo preventivo/pertinenziale o per sproporzione.
In questa cornice si inserisce l’attuale dibattito sulla individuazione del quantum sequestrabile in caso di riciclaggio (ai sensi dell’art. 648 bis codice penale) o di reimpiego (ex art. 648 ter codice penale) di provviste finanziarie di provenienza illecita: tema particolarmente delicato sol se si pensi alle cronache giudiziarie degli ultimi tempi, che vedono una manovra investigativa sempre più attenta a colpire patrimoni e aziende coinvolti in vicende di crimine economico o economico-mafioso.
2. Gli arresti giurisprudenziali più recenti
Al fine di individuare criteri adeguati per quantificare la somma sequestrabile va riconosciuto che allo stato è sicuramente più avanzata la riflessione giurisprudenziale in materia di riciclaggio rispetto a quella affermatasi per i delitti di reimpiego; e vanno ricordate le nette differenze strutturali e funzionali delle due fattispecie[1].
La condotta di riciclaggio consiste infatti in attività di sostituzione/trasferimento finalizzate al mero occultamento della illecita provenienza di una determinata somma o di un determinato bene, mentre la seconda incrimina l’impiego di beni e di somme di denaro in attività a loro volta produttive di ulteriore guadagno: precisazione assolutamente necessaria nel momento in cui occorre verificare quale sia il profitto (o, in termini generali, il provento) della operazione delittuosa.
Poiché se è vero che il profitto del riciclaggio consiste nel risultato di occultamento (attraverso attività di sostituzione e trasferimento, o qualsiasi altra operazione finalizzata a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa) della somma (o del bene) che il produttore della provvista illecita affida al terzo, nel caso di reimpiego (in particolare di somme di denaro) il profitto consiste evidentemente nel risultato economico conseguito con l’investimento, potenzialmente (e da verificare in fatto) più elevato della somma investita: diversamente ragionando si opererebbe infatti una indebita assimilazione, in punto di sequestro, tra fattispecie assolutamente diverse che peraltro rappresentano esattamente il frutto di una volontà di incriminazione di condotte progressive nelle quali l’impiego in attività economiche o finanziarierappresenta uno step successivo e ulteriore rispetto a quello del loro mero nascondimento.
Quantificare il risultato economico del reimpiego “come se” si trattasse di una operazione di mero riciclaggio non è evidentemente corretto, pena una ingiustificata disparità di trattamento tra il semplice riciclatore (in ipotesi anche colui che abbia soltanto depositato la somma di provenienza illecita sul proprio conto corrente) e l’autore del reimpiego, che realizza una più complessa condotta caratterizzata dal reinvestimento in attività imprenditoriali, economiche e finanziarie le quali, se e in quanto producano (ulteriore) vantaggio economico, devono rappresentare il criterio di verifica e il parametro di quantificazione del profitto del reato.
Che tale debba essere l’impostazione per una corretta ricostruzione in diritto discende anche dall’analisi della giurisprudenza di legittimità che, intervenuta per la ipotesi di sequestro di somme in ipotesi di riciclaggio, ha fissato principi che consentono di risolvere anche la questione del sequestro di somme in caso di reimpiego.
In relazione al delitto di riciclaggio di provviste finanziarie, infatti, vale la pena in primo luogo rilevare che la più recente giurisprudenza di legittimità ha respinto l’orientamento per così dire restrittivo di cui alla sentenza Cass sez. II pen, n. 21820/22, relatore Mantovano[2], secondo la quale in caso di riciclaggio di somme potesse addirittura essere sequestrato soltanto lo stretto guadagno (del tutto eventuale e sicuramente inferiore alla somma riciclata) del riciclatore, inteso come “accrescimento” eventuale del patrimonio dell’autore della condotta riciclatoria, e non l’intera somma riciclata.
Posizione rimasta del tutto isolata, essendosi affermato il diverso orientamento che, richiamando anche decisioni precedenti e soprattutto guardando ai principi e alle finalità di cui alla Dec. 2001/500/GAI del 26.6.01 (Decisione Quadro del Consiglio concernente il riciclaggio di denaro e il sequestro degli strumenti e dei proventi del reato) e alla Direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose), da considerare nel nostro ordinamento multilivello quali importanti punti di riferimento per l’interpretazione e l’applicazione della legge nazionale, ha statuito che in caso di riciclaggio che ha per oggetto somme di denaro il profitto è costituito “dall’intero ammontare delle somme che sono state ripulite attraverso le operazioni di riciclaggio compiute dall’imputato…il denaro di provenienza illecita viene sostituito con denaro pulito che può liberamente circolare…quindi, nel caso di riciclaggio il profitto coincide con il denaro derivante dal delitto presupposto, quindi con la ricchezza illecitamente conseguita dal reato presupposto, e non importa se poi il soggetto condannato per riciclaggio abbia goduto di questa somma solo in minima parte: il valore del profitto del primo reato si identifica col valore del secondo, cioè del riciclaggio” (così Cass. II sez. pen. n. 7503/22 relatore Di Pisa)[3].
Questa stessa pronuncia, poi, ha affrontato anche la questione dell’applicazione del principio solidaristico – secondo il quale al singolo può sequestrarsi anche l’intera somma profitto del delitto a prescindere dal ruolo di ciascuno dei concorrenti – alla fattispecie di riciclaggio, riconoscendo che se è vero che tale principio presuppone il concorso di più soggetti nel medesimo reato (cosa che non accade nei confronti dell’autore del reato presupposto, non punibile per riciclaggio), è anche vero che nel caso di riciclaggio all’autore del delitto presupposto la mancata contestazione del riciclaggio avviene soltanto in applicazione di una deroga normativa alla ordinaria operatività della norma sul concorso, mentre deve riconoscersi sussistente comunque un “concorso nell’illecito complessivo” fra l’autore del delitto presupposto e il riciclatore (ancora, Cass. II sez. pen. 7503/22 relatore Di Pisa). Anche per questo motivo, dunque, la somma da sequestrare deve essere l’intera somma “ripulita” e non soltanto l’eventuale guadagno specifico del riciclatore.
Peraltro, va detto per completezza, l’identificazione del soggetto (autore del delitto presupposto) che abbia affidato la provvista illecitamente prodotta a un terzo (estraneo al delitto presupposto) il quale abbia provveduto poi o a sostituirla/trasferirla oppure a impiegarla comporta oggi (a partire dal 2015, data della entrata in vigore della norma di cui all’art. 648 ter 1 c.p.) anche la contestazione al primo della condotta di autoriciclaggio: si completa così il quadro normativo che consente di parlare di “concorso nell’illecito complessivo”, individuandosi una categoria ricostruttiva utile anche sotto il profilo dell’applicazione del principio solidaristico oltre che per la quantificazione della somma illecita da sequestrare[4].
Infatti, l’applicazione del principio solidaristico a maggior ragione si imporrà nel caso di concorso tra l’auto-riciclatore e il reimpiegante (o il mero riciclatore), atteso che in questo caso abbiano addirittura il concorso di persone in una identica condotta delittuosa, seppure diversamente qualificata in capo ai due partecipi “in fatto” alla complessiva operazione illecita: un chiaro caso di “concorso nell’illecito complessivo”.
3. La quantificazione del provento da sottoporre a sequestro o confisca
Occorre allora verificare gli ulteriori parametri normativi utili per calcolare il quantum.
Ebbene, di estrema rilevanza appare anche la direttiva ermeneutica (richiamata ancora nella sentenza su indicata, Cass. II sez. pen. 7503/22 relatore Di Pisa) volta a valorizzare a questo fine la valutazione “in concreto” dell’operazione illecita di volta in volta realizzata; essa è stata ad esempio ribadita da Cass. II sez. pen n. 34218/20, relatore Sgadari, secondo la quale, ancora una volta in tema di profitto del riciclaggio, “la determinazione della misura del profitto è funzione direttamente correlata sia alla tipologia del delitto da cui discende il profitto, sia alla natura dei beni oggetto del delitto stesso, in quanto il vantaggio economico che può ritrarsi dalla commissione dei singoli reati dipende da variabili rappresentate dalla tipologia delle operazioni di fatto e giuridiche che si realizzano attraverso la commissione dei reati, dalla loro capacità di incidere sul valore e sulla concreta disponibilità di beni, diversamente incommerciabili o di valore di mercato inferiore…”; e per questo secondo la Cassazione “bisogna fare riferimento alle specifiche circostanze del caso concreto per stabilire l’entità del profitto del riciclaggio…”.
Principi che, applicati nel nostro caso, impongono una valutazione in concreto dei vantaggi conseguiti dai concorrenti attraverso le complesse operazioni commerciali di investimento in attività produttive o finanziarie. Vantaggi in concretoche devono tener conto delle specifiche attività economico-finanziarie realizzate in fatto.
Ancora più chiara è infine la posizione espressa nella sentenza n. 22053/23 della Cass. II sez. pen. relatrice Minutillo Turtur, che, intervenendo espressamente (ed è una delle pochissime, allo stato) sul tema del sequestro in caso di delitto di reimpiego, ha precisato in prima battuta che il sequestro/confisca ha ad oggetto “il valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dagli autori del reato, assolvendo in tal modo a una sostanziale funzione ripristinatoria della situazione economica modificata a seguito della commissione del reato” (come del resto già chiarito anche da Cass. SS.UU. n. 31617 del 26.6.15). Aggiungendo che, in caso di concorso, “tutti i rei rispondono per intero dei beni che costituiscono il prodotto del reato”; dunque, secondo il principio solidaristico, ciascuno risponde del “valore complessivo riferito a tutte le attività illecite ascritte al complessivo gruppo dei concorrenti a prescindere dal profitto di ciascuno dei concorrenti responsabili in concorso”. E chiarisce poi questa pronuncia, richiamando sul punto una granitica giurisprudenza, che certamente ciò non dovrà comportare duplicazioni, ma che esse saranno da risolvere nella fase esecutiva.
In applicazione di tali principi, ad esempio, in caso di investimento di somme di provenienza illecita, da parte dell’autore del delitto presupposto, in aziende appaltatrici formalmente intestate a un terzo (estraneo al delitto presupposto), per quantificare la somma da sequestrare dovrà farsi riferimento all’ammontare del valore degli appalti ottenuti dai rei (l’autoriciclatore, in concorso con il reimpiegante) attraverso la condotta illecita in contestazione, rappresentata da una complessa attività di partecipazione ad appalti attraverso ditte nelle quali sono confluiti – proprio per quegli affari – gli investimenti di provviste illecite: il sequestro delle sole somme investite corrisponderebbe infatti al quantum da sequestrare in caso di delitto di “mero” riciclaggio, mentre qualora non ci sia stata soltanto attività di sostituzione ma sia stato realizzato un investimento che abbia prodotto un ulteriore risultato economico attraverso l’impiego di quelle somme in attività produttive, dovrà essere sottoposto a sequestro quell’ulteriore illecito arricchimento, provento del delitto di reimpiego, rappresentato nel caso dal risultato economico complessivo dell’affare (ad esempio, il valore dell’appalto ottenuto).
[1] Sul tema, Giacomo Pestelli, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio, in Sistema Penale, 12/2021.
[2] La decisione aveva ad oggetto la confisca operata nei confronti di imputato di riciclaggio, e affermava che “una cosa è il prodotto, il profitto o il prezzo che l’autore del riciclaggio trae dal reato che ha commesso e altra e differente cosa è il bene riciclato. Nei confronti del riciclatore può essere disposta la confisca esclusivamente del prodotto, del profitto e del prezzo che egli ha tratto dal reato di riciclaggio che ha consumato, mentre nei confronti del “riciclante” può essere disposta la confisca del bene riciclato, sempre che ne sussistano i presupposti”: si escludeva pertanto la possibilità di sequestrare e confiscare l’intera somma riciclata poiché essa non poteva essere considerata “prodotto, profitto o prezzo” del riciclaggio; dunque, fuori dalla rilevanza penale del delitto di riciclaggio. E nel motivare tale esclusione si introduceva una figura del tutto originale, quella del “riciclante”, non perseguibile per il delitto di riciclaggio ma che avrebbe potuto autonomamente subire la confisca della somma riciclata “sempre che ne sussistessero i presupposti”. Dunque, è da interpretarsi, soltanto come provento del delitto presupposto; e dunque soltanto in quell’eventuale procedimento, a carico dell’autore del delitto presupposto: per usura, estorsione, narcotraffico, o per qualsiasi altro delitto produttivo di somme di denaro. Giungendosi però in tal modo ad affermare che in un procedimento per riciclaggio di una somma di denaro di provenienza illecita non si potrebbe sequestrare la somma riciclata.
[3] Precisava la sentenza che “appare difficile sostenere, quindi, che il denaro ripulito nella disponibilità del riciclatore non possa farsi rientrare nella nozione di profitto del reato o quanto meno di prodotto del reato nell’accezione che di tali categorie dà la giurisprudenza. Posto che il cuore del disvalore del delitto di riciclaggio risiede nell’immettere nel circuito economico somme illecitamente acquisite, la somma ripulita passata nelle mani del riciclatore, ove non ritenuto quale vero e proprio profitto, si configura quanto meno quale risultato empirico dell’esecuzione criminosa…si tratta del frutto diretto dell’attività criminosa, ossia del risultato ottenuto direttamente dalla attività illecita. Nel caso di riciclaggio che ha per oggetto somme di denaro, il profitto del reato o comunque il prodotto del reato è quindi l’intero ammontare delle somme che sono state ripulite”.
[4]In ordine alla tematica del rapporto fra autoriciclaggio e riciclaggio (ovvero reimpiego) si ricordano glki arresti giurisprudenziali più recenti: Cass II sez. pen, n. 17235/18, relatore Beltrani: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell'autore del reato - presupposto delle condotte indicate dall'art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo questo configurabile solo nei confronti dell'intraneus”. Cass. VI sez. pen., n. 3608/18, relatore Agliastro: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell'autore del reato-presupposto delle condotte indicate dall'art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo quest'ultimo configurabile solo nei confronti dell' "intraneus". (Fattispecie in cui l'imputata aveva versato su un libretto di deposito di una cooperativa di consumo, e poi prelevato mediante assegni, denaro provento dell'attività concussiva attuata dal marito). Dunque, alla luce della attuale ricostruzione sistematica delle norme incriminatrici appare corretto contestare, in ordine alla medesima imputazione in fatto (avente ad oggetto le complesse operazioni economiche e finanziarie di volta in volta accertate, alle quali abbiano partecipato il “produttore” del reddito illecito e il terzo “reimpiegante”) il delitto di autoriciclaggio ai soggetti che abbiano prodotto le provviste illecite attraverso la commissione dei delitti presupposti (associazione per delinquere, estorsione, usura, narcotraffico, etc) e il delitto di reimpiego a carico del terzo estraneo che abbia contribuito consapevolmente al reinvestimento in attività produttive e di impresa.
(Immagine: "L'avarizia. Scena ambientata nel Banco di San Giorgio di Genova", miniatura tratta dal Trattato sui sette vizi, (1330-1340 circa), British Library, Londra)
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