ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Luigi Salvato
1. «L’idea che ogni persona, in qualsiasi parte del mondo, indipendentemente dalla nazionalità, dal luogo di residenza, dalla razza, dal censo, dalla casta o dalla comunità di appartenenza, abbia alcuni diritti fondamentali che gli altri sono tenuti a rispettare ha in sé qualcosa di estremamente affascinante» (Amartya Sen, L’idea di giustizia, Milano 2010, 361). Eppure, tale idea – ha altresì osservato Amartya Sen – pressoché universalmente condivisa, almeno apparentemente, nonostante il suo fascino «è considerata da molti critici priva di qualsiasi fondamento razionale», al punto che «riaffiorano così insistentemente questi interrogativi: esistono diritti umani ? E quale ne sarebbe la fonte ?» e, «benché negli affari del mondo il ricorso alla nozione di diritti umani sia una costante, sono molti coloro che la considerano solo una formula gridata sulla carta» (op. cit., 361).
Ad onta di un diffuso convincimento della centralità ed essenzialità dei diritti dell'uomo e del fatto che sono trascorsi oltre settanta anni dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani (il testo che ha segnato una svolta nella comunità internazionale in questa materia), deve dunque constatarsi, purtroppo, il permanere di dubbi finanche in ordine a profili preliminari, concernenti l’an, oltre che il quomodo, dei diritti umani; soprattutto, che in non pochi angoli del mondo ancora si assiste a violazioni dei più basilari diritti sanciti nel corso della storia, talora pure in quegli stati che si suole ritenere tra i più avanzati e democratici. Anzi, molteplici e nuove nubi sembrano addensarsi minacciose sul sistema dei diritti umani, anche in conseguenza dell’impatto della profonda crisi che, prevalentemente nell’ultimo decennio, ha investito il mondo intero, non soltanto economica, ma anche etica, psicologica, politica. Si tratta di una complessiva e generale crisi di fiducia e di sicurezza, di solidarietà e sociale, particolarmente pericolosa, in quanto può minare le radici stesse della convivenza civile e del sistema democratico, alimentare la perniciosa tendenza secondo cui i diritti umani potrebbero essere talvolta lasciati da un lato, poiché costituirebbero un lusso che non ci si può permettere in tempi di crisi, e porre a rischio la tenuta di risultati che pure sembravano pacificamente acquisiti.
Tali pericoli rendono certe la perdurante attualità delle tematiche relative ai diritti dell'uomo e l’esigenza di una fertilizzazione costante e continua del relativo dibattito, imprescindibile allo scopo di garantire che non vadano vanificati gli obiettivi acquisiti e che prosegua il lungo, complesso e faticoso, percorso verso il pieno riconoscimento e l’effettiva tutela dei diritti umani.
2. Quest’ultima considerazione è sufficiente, da sola, a dare ragione dell’opportunità della rinnovata riflessione svolta da Pasquale Gianniti e Claudio Sartea nella monografia “Diritti umani e sistemi di protezione sovranazionali” (edita per i tipi dell’Aracne). Il volume affronta la questione dei diritti umani muovendo da una sintesi del percorso che ha condotto alla progressiva affermazione dei diritti umani, che illustra con efficacia la radice della loro teorizzazione (rinvenuta nella filosofia classica e nel pensiero religioso) ed il momento dell’emersione della loro rilevanza sul piano giuridico, allorché la codificazione degli stessi dà «inizio al moderno linguaggio dei diritti» (pg. 19). Al fine di evidenziare che la questione dei diritti umani e taluni dei principali caratteri che la connotano sono risalenti nel tempo, può ricordarsi che Louis Godart, muovendo dalla premessa che la legge scritta e codificata costituisce l'unico mezzo in grado di tutelare i diritti dell'uomo, ha indicato (La libertà fragile. L'eterna lotta per i diritti umani, Milano, 2012) nel primo codice di leggi della storia (il c.d. codice di Ur-Nammu, sovrano sumerico, fondatore della terza dinastia di UR verso il 2110 a.c., riprodotto su una tavoletta di argilla conservata al museo di Istanbul) la più antica testimonianza della transizione (o, meglio, del tentativo di transizione), realizzata da una fonte normativa, dalla giustizia ferrea dell’occhio per occhio e del dente per dente ad una giurisdizione più «umana» e dell’affermazione della tutela dei diritti dei deboli (l’orfano, la vedova, il povero). Si tratta di una considerazione particolarmente significativa, in quanto pone in luce con sintesi ed efficacia sia che il tema dei diritti umani è sorto e si è imposto contestualmente all’inizio della civilizzazione – e che, dunque, la storia dei diritti umani è la storia stessa della civiltà e della progressiva attuazione della democrazia –, sia che il riconoscimento e la garanzia degli stessi dipende dalla loro consacrazione in una fonte normativa e dalla tutela assicurata mediante la giurisdizione.
Il primo di detti profili, di recente, è stato significativamente evidenziato, tra l’altro, allorché si è sottolineato, con riguardo ai diritti enunciati nella CEDU, che questi sono distinti dalla Corte di Strasburgo in due categorie: la prima, costituita dai diritti fondanti la democrazia europea; la seconda dai diritti di «importanza capitale» indirettamente costitutivi la democrazia (F.Sudre, citato da D.Tega, I diritti in crisi, Milano 2013, 6).
Tale profilo, tra le molte suggestioni offerte dalla lettura della monografia - condizionate, come è ovvio, dai convincimenti dei lettori, ciascuno dei quali sceglie la propria chiave di interpretazione – costituisce, a mio avviso, una delle idee centrali della riflessione, affrontata incisivamente dagli Autori ed opportunamente ed adeguatamente messa in rilievo, soprattutto in un momento storico quale quello attuale. La preliminare considerazione dalla quale muovono - che «i diritti umani hanno il loro fondamento nella stessa natura e dignità della persona umana» (pg. 1) - è, infatti, in seguito ulteriormente approfondita, evidenziando che «fin dai tempi dell’antichità greco-romana era chiaro che la democrazia può esistere come tale soltanto se la maggioranza rispetta certe premesse basilari dell’ordinamento sociale, tra cui i diritti inviolabili dell’uomo» (pg. 15). Tanto significa che la connotazione individualistica che caratterizza i diritti umani, in quanto rinvengono la loro matrice «nella dignità che appartiene ad ogni essere umano», comunque neppure va enfatizzata fino al punto di «contraddire la nostra natura sociale» (pg. 29), dimenticando il carattere di «alterità» che li connota, in quanto «riconosciuti, difesi, in favore di altri soggetti umani, non di se stessi» (pg. 30). In ogni caso, non esaurisce la complessiva dimensione nella quale gli stessi si collocano, in quanto devono essere calati in una vicenda che non è non può essere soltanto individuale, ma è collettiva, costituendo la fonte ed il parametro di verifica del sistema democratico. E’ stata infatti la diffusione della cultura e del rispetto dei diritti umani che ha influito sulla conformazione interna degli stati; in essi si è radicato il superamento della dimensione dell’assolutezza del potere dello stato nei confronti di quanti vivono all’interno dei confini del medesimo; grazie ad essi, attraverso un processo sviluppatosi soprattutto a partire dalla metà dello scorso secolo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, è stata realizzata, non solo in Italia, la transizione dallo stato di diritto allo stato costituzionale, mediante le Costituzioni ‘rigide’ ed in quanto eminentemente indirizzate alla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini, miranti quindi a garantire ognuno dallo strapotere delle maggioranze parlamentari.
La circostanza che «i diritti fondamentali nascono come diritti naturali, si sviluppano come diritti costituzionali e si dirigono verso la meta dei diritti universali» (N. Bobbio, L’Età dei diritti, Torino, 1992, XII) ha poi fatto sì che detta funzione del sistema dei diritti umani, eccedente la dimensione meramente individualistica, si è esplicata altresì oltre i confini dei singoli stati, trovando consacrazione con la firma, il 26 giugno 1945, dello Statuto delle Nazioni Unite che «individua infatti tra i fini dell’organizzazione la promozione del rispetto e dell’osservanza dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (pg. 22). Ed è ancora grazie ai diritti umani che è maturato il mutamento della concezione della sovranità dello stato, in conseguenza della trasformazione del diritto internazionale, divenuto per essi il diritto degli individui, con l’istituzione di corti internazionali cui gli individui possono rivolgersi direttamente per conseguire forme di tutela dei loro diritti fondamentali (A. Pizzorusso, E’ possibile parlare ancora di un sistema delle fonti ?, in Foro it., 2009, V, 215), ed ha subito un’accelerazione anche il processo di integrazione europea, a seguito dello sfaldamento del «rapporto biunivoco ritenuto fondamentale dalla scienza giuridica moderna, e cioè quello tra stato e diritto, emblema della sovranità statale» (A. Di Martino, Il territorio: dallo Stato-Nazione alla globalizzazione (sfide e prospettive dello Stato costituzionale aperto), Milano, 2010, 4).
Gli Autori colgono e pongono in luce con efficacia questa essenziale funzione regolatrice dei rapporti tra stati svolta dal sistema dei diritti umani, evidenziando come, appunto per questo, l’affermarsi di un nuovo ordine globale costituisca effetto del riconoscimento degli stessi «non solo “dentro” gli Stati ed in conformità alla loro azione, ma anche, ove fosse il caso, “contro” gli Stati, in base ad un sempre più riconosciuto principio di antecedenza delle persone sull’istituzione» (pg. 23); ciò vuol dire che la dimensione individuale influisce appunto su quella collettiva e sul modo di essere del potere, poiché costituisce ragione e misura dello stesso. Attraverso un’approfondita analisi viene dunque messo in chiaro quello che potrebbe essere definito il volto buono della globalizzazione, che non è soltanto quella economica, finanziaria e dei mercati, ma è altresì quella che ha realizzato la «inarrestabile affermazione di un nuovo modello del potere», sovranazionale ed incentrato sulla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali (pg. 24). Alla globalizzazione della produzione e dei mercati fa riscontro - come osservava Francesco Galgano e ricordano gli Autori - «un’altra, nobile, forma di globalizzazione […] che possiamo definire come la globalizzazione dei diritti dell’uomo» (pg. 27).
Pasquale Gianniti e Claudio Sartea approfondiscono questa radice “buona” della globalizzazione, perché frutto dell'affermazione dell'universalità dei diritti umani, prima ancora che di spinte dell'economia. La sfida che occorre affrontare e vincere è, dunque, quella che passa attraverso la riscoperta di questo valore positivo della globalizzazione, anche con riguardo alla storia dell'UE, come gli Autori non mancano di approfondire. Occorre infatti non dimenticare che, come essi ricordano, l’UE, nata come Comunità economica, con matrice appunto essenzialmente economica e sistema nel quale «l’individuo non era tutelato come essere umano, ma in quanto centro di imputazione di interessi economici» (pg. 162), grazie alla meritoria opera della Corte di giustizia, influenzata anche dalle Corti costituzionali italiana e tedesca (in particolare, sentenza della Corte costituzionale 27 dicembre 1973, n. 183; sentenza del Bundesverfassungsgericht del 29 maggio 1974) e che sin dal 1969 ha svolto un ruolo “strutturale” incidente sullo stesso modo di essere dell’ordinamento comunitario (A. Tizzano, Qualche riflessione sul contributo della corte di giustizia allo sviluppo del sistema comunitario, in Dir.un.eur., 2009, 141), si è sviluppata con più ampio respiro, proprio ed anche a seguito dell’affermazione che «i diritti fondamentali della persona […] fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui la Corte garantisce l’osservanza» (sentenza 12 novembre 1969, C-29/69, Stauder), sia pure «entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità» (sentenza 17 dicembre 1970, C-11/70, Internationale Handegesellshaft mbH).
La riflessione svolta nel volume meritoriamente rafforza il convincimento che il sistema dei diritti umani ha permesso una «progressiva affermazione di un nuovo modello del potere sovranazionale» (pg. 24, oltre che, come detto, di quello ‘interno’) e costituisce la ragione di una serie di conseguenze positive di fondamentale importanza, eccedenti la dimensione meramente individuale; tra queste, l’essere diventata la persona umana, grazie ad essi, soggetto del diritto internazionale, che non è più soltanto il diritto degli stati e delle organizzazioni internazionali, in virtù di una positiva «carica eversiva» (pg. 32), che li ha resi scudo in grado di arginare le deviazioni burocratiche ed il formalismo, divenendo fonte delle giurisdizioni internazionali, attraverso il richiamo alle priorità della persona e della dignità umana (pg. 33).
3. Il condivisibile convincimento al quale è stato sopra fatto cenno - che la positivizzazione dei diritti umani, mediante il loro riconoscimento in fonti normative, e l’apprestamento di rimedi giurisdizionali congrui ed efficaci costituiscono condizioni imprescindibili per garantirne la tutela - rende di particolare interesse la parte del volume dedicata alla ricognizione di dette fonti e strumenti di garanzia.
La dimensione internazionale dei diritti umani è all’origine delle complesse problematiche poste dal c.d. ordinamento multilivello, frutto anche (forse, soprattutto) dello sviluppo del sistema dei diritti fondamentali, che tuttavia, secondo alcuni, ha in sé insito il «pericolo di una “Babele” dei diritti (e delle loro tutele)» (C. Panzera, Il bello dell’essere diversi. Corte costituzionale e Corti europee ad una svolta, in Riv. trim.dir.pubb., 2009, 1), dovuta alla pluralità delle fonti, alla difficoltà, per alcune, di stabilirne il rango, alla concorrenza di competenze delle Corti nazionali, sovranazionali ed internazionali, alla facoltà dei singoli di rivolgersi, in taluni casi, direttamente ad esse per conseguirne la tutela ed alla differente conformazione offerta di tali diritti da dette Corti. Si tratta di difficoltà che non vanno sottovalutate, ma neppure enfatizzate (ciò grazie anche al progressivo componimento dei taluni dissidi reso possibile da un sempre più intenso dialogo tra le Corti); comunque, rendono di sicuro interesse l’attenta ricognizione operata dagli Autori dei molteplici sistemi internazionali e sovranazionali di tutela dei diritti umani. Questa ricognizione permette infatti di avere un panorama completo di detti sistemi e precisa conoscenza dei diritti umani tutelati da fonti diverse da quelle interne, della configurazione dalle stesse offertane e del se (come e quando), siano applicabili in vicende giudiziarie di diritto interno.
In disparte i profili del rapporto tra Corte costituzionale e Corte di Strasburgo (di più immediato interesse in relazione al tema dei diritti umani), sviluppatosi intorno ai principi secondo cui «il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento» deve essere sempre di segno positivo (per tutte, Corte costituzionale, 4 dicembre 2009, n. 317) ed occorre avere riguardo alla giurisprudenza consolidata della seconda (Corte costituzionale, sentenza 26 marzo 2015, n. 49), la ricognizione svolta nel volume appare particolarmente utile.
La doverosa attenzione alle fonti diverse da quelle interne non solleva infatti dall’onere di un’attenta verifica dell’efficacia nel nostro ordinamento di quelle ‘esterne’. Quando queste ultime risultino applicabili alla fattispecie oggetto del giudizio, il giudice comune è infatti tenuto ad improntare il rapporto con le Corti sovranazionali ed internazionali ad un principio fondamentale di collaborazione, che non è lasciato alla sua sensibilità, ma costituisce oggetto di un vero e proprio obbligo previsto dall’ordinamento sovranazionale, ovvero da un accordo internazionale e, quindi, ad esso va data attuazione nei modi e nei termini espressamente stabiliti da dette fonti. Al riguardo, può anche parlarsi di “dialogo”, purchè si abbia la consapevolezza che questo termine non sempre è sufficiente per decodificare il fenomeno degli scambi degli indirizzi giurisprudenziali; a volte è criticabile per difetto, altre volte lo è per eccesso (tenuto conto dei molti significati del termine “dialogo”, G. De Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna, 2010, 1). Il riferimento alle sentenze di organi giurisdizionali stranieri, ulteriori e diversi rispetto a quelli inseriti in uno stesso ordinamento sovranazionale, va inoltre operato avendo ben chiara la diversità tra il caso in cui il diritto straniero applicato da una Corte non italiana costituisce, eventualmente, una fonte applicabile anche nel nostro ordinamento ed il caso in cui il riferimento rileva esclusivamente come un dato fattuale, non diversamente da quanto accade quando si cita un fatto storico o un’opinione dottrinale. Inoltre, occorre considerare che in un ordinamento a diritto costituzionale aperto, qual è il nostro, il fine del richiamo e del rilievo delle giurisprudenze straniere «è pur sempre quello di intendere il proprio diritto costituzionale», al punto che è quasi «come ricorrere, per risolvere un problema difficile, a “un amico ricco di esperienza”» (G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 405). Ed è dunque evidente l’immediato interesse di una ricognizione completa e chiara dei molteplici sistemi di tutela dei diritti umani previsti da strumenti internazionali e sovranazionali e da ordinamenti di stati diversi dal nostro.
4. L’ultima parte del volume è dedicata ad una «riflessione conclusiva», con cui gli Autori considerano i diritti umani «in chiave filosofico-critica», allo scopo di verificare se «sia possibile reperirne un ragionevole fondamento» e «per verificarne l’eventuale abuso» (pg. 231). A loro avviso, «tutte le nuove domande di giustizia tendono a riversarsi direttamente nelle aule giudiziarie […] nella forma dei diritti fondamentali» (pg. 232), esponendoli in tal modo «alla mercé delle preferenze soggettive non solo di ciascun cittadino, ma anche di ogni singolo giudice» (pg. 232), con il possibile pericolo di una loro «incontrollata e problematica proliferazione». Il rimedio a tali rischi è individuato nella valorizzazione della «dimensione relazionale» dei diritti umani e nella adeguata considerazione delle circostanze che «sono stati riconosciuti ed affermati per proteggere la persona umana dall’arbitrio e dagli abusi dei potenti» e che «trasformare ogni desiderio in diritto implica riconoscere un’enorme quantità di obblighi a carico di altri» (pg. 236).
Pregnante rilevanza assume dunque il criterio del bilanciamento, da realizzare applicando il principio di ragionevolezza, che tuttavia, osservano gli Autori, «pone in crisi il giuspositivismo e fa riemergere istanze tipiche del diritto naturale, proprie dei giusnaturalismi» (pg. 241). La loro proposta è di volgere lo sguardo al concetto della dignità dell’uomo, che riveste la «portata di principio fondamentale», «valore super costituzionale» (pg. 258), «fondante degli stessi diritti dell’individuo» (pg. 260), più volte applicato dalle Corti nazionali e sovranazionali (della cui giurisprudenza è offerto un panorama). Nondimeno, l’indeterminatezza della nozione di dignità esigerebbe che la sua traduzione in termini giuridici resti riservata «innanzitutto alla responsabilità del legislatore» e che «il necessario bilanciamento tra valori costituzionali» sia effettuato in sede legislativa ed affidato soltanto «a posteriori alla responsabilità degli interpreti e, in particolare, alla responsabilità delle Corti supreme, nazionali e sovranazionali» (pg. 270). In ogni caso, il bilanciamento va operato tenendo conto che la dignità umana: è «principio che innerva le costituzioni personaliste delle democrazie liberali contemporanee»; «si sottrae al bilanciamento e ne è anzi lo scopo»; «impone a tutti, a partire dalle autorità pubbliche, il rispetto delle singole persone» (pg. 279-280).
Una pur rapida, necessariamente incompleta, sintesi delle considerazioni svolte in quest’ultima parte della monografia rende palese che le suggestioni offerte dalla lettura del volume sono tante e così complesse da sollecitare riflessioni che eccedono questa sede, destinata esclusivamente ad ospitare brevi considerazioni a margine della stessa.
La preoccupazione della quale si fanno interpreti gli Autori non è nuova ed è stata variamente evidenziata, pur muovendo da approcci diversi, segnalando, tra l’altro, l’esigenza della rigorosa attenzione al dato di diritto positivo, onde evitare di «consegnare i diritti fondamentali alla mercé del consenso» e di alimentare la cd. juristocracy, termine utilizzato «per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali» (M. Cartabia, La Costituzione italiana 60 anni dopo: i diritti fondamentali, 15 e 23, in Atti del Convegno dell’Accademia dei Lincei su “La Costituzione ieri e oggi”, Roma, 9-10 gennaio 2008), con il rischio (evidenziato dall’analisi di C.Salvi, Capitalismo e diritto civile. Itinerari giuridici dal Code civil ai Trattati europei, Bologna, 2015) che la preminenza assoluta della libertà personale possa scivolare in una logica mercantile, dando luogo, secondo alcuni Autori, a soluzioni «arbitrarie», appunto per questo, scarsamente tolleranti (F. Gazzoni, Cognome del figlio naturale, femminismo, lotta alla camorra e obiter dicta, in Dir. famiglia, 2006, 4, 1661).
In disparte il tema della ipotizzata crisi del giuspositivismo e della riemersione di istanze proprie del giusnaturalismo - di complessità tale da rendere impossibile farvi pur solo cenno (per una recente, efficace, sintesi dei problemi emersi proprio con riguardo al profilo del ricorso alla tecnica del bilanciamento, cfr. il dibattito svoltosi tra R. Guastini, Sostiene Baldassare, in Giur.cost., 2007, 1373, e A.Baldassarre, Una risposta a Guastini, ivi, 2007, 3251) -, la preoccupazione è meritevole di considerazione, ma esige di essere apprezzata nel quadro dell’attuale contesto storico, politico e sociale. Deve infatti darsi come dato pacifico che «la complessità della società comincia a impressionare di sé la dimensione giuridica, la quale non può che abdicare a una semplicità, suadente sì nella limpidità dei suoi contorni ma assolutamente artificiosa, senza concrete radici nella effettività storica» (P.Grossi, Introduzione al novecento giuridico, Bari, 2012, 107).
Uno dei tratti caratterizzanti la società postmoderna è quindi l’emersione di nuovi diritti, quale «conseguenza delle “pacifiche rivoluzioni del Novecento, delle donne, degli ecologisti, della scienza e della tecnica”» che hanno determinato «la più intensa esplosione di richieste di riconoscimento di diritti che mai sia stata conosciuta», che ha condotto a parlare di «“diritti riproduttivi” e di “diritto a non nascere”, di “diritto a morire” e di “diritto ad ammalarsi”, ma anche del “diritto dell’embrione” e del “diritto a non essere perfetto”» (S.Rodotà, I nuovi diritti che hanno cambiato il mondo, in La Repubblica, 26 ottobre 2004). Tali diritti sono spesso rimasti del tutto privi di disciplina in sede normativa, o l’hanno ricevuta con rilevante ritardo e non di rado in modo incompleto; il loro riconoscimento, in base alle norme della Costituzione ed alle fonti esterne, grazie alla prima applicabili nel nostro ordinamento, ha finito dunque con il rimanere affidata (quasi) esclusivamente al giudice. L’opera di ricostruzione-creazione in sede giurisprudenziale è stata dunque indispensabile e, tuttavia, incontra un preciso limite, in quanto «il potere interpretativo dei giudici […] non può spingersi oltre il confine che gli è connaturato, neppure quando ciò accade al fine di orientare l’ordinamento verso i principi costituzionali, perché di fronte a un insuperabile ostacolo che viene dalla lettera della legge, ovvero dal contesto logico-giuridico nel quale essa si inserisce compete solo alla Corte [costituzionale] intervenire» (G.Lattanzi, Relazione, Riunione straordinaria della Corte costituzionale del 21 marzo 2019, 17), risultando altresì l’operazione di bilanciamento possibile alla Corte costituzionale diversa da quella consentita al giudice comune.
Nondimeno, non sembra controvertibile la complessità dei problemi derivante dal fatto che «è difficile affrontare» questi temi «in modo astratto: forse la via di soluzioni accettabili va trovata attraverso l’elaborazione giurisprudenziale, che può tenere conto dei molteplici aspetti dei casi concreti e contemperare i diversi principi in gioco» (E.Paciotti, Diritti umani, diritti fondamentali, nuovi diritti in Europa, www.italianieuropei.it, 3/2008, richiamando S.Rodotà). La circostanza che il riconoscimento in favore di una persona di un diritto (anche di un diritto umano) richiede la ponderazione di complesse esigenze, riservata all’apprezzamento della discrezionalità del legislatore ordinario, ed implica obblighi per altre persone, deve tenere conto del fatto che la riconducibilità di date esigenze a valori essenziali della persona dipende, in larga parte dei casi, dalle circostanze della fattispecie, e così anche l’eventuale incidenza del loro soddisfacimento sui valori di altri soggetti. Tanto è sufficiente a rendere palese che l’auspicabile, precisa e completa, regolamentazione in sede legislativa resta spesso irrealizzabile; anzi può talora risultare inidonea ad assicurare la tutela di diritti fondamentali o, comunque, il corretto bilanciamento di tutti i valori in gioco.
L’obiettivo che si impone di conseguire è dunque di realizzare un ragionevole bilanciamento, spesso possibile soltanto mediante la regola del caso per caso. Tale regola non sfocia in arbitrio, come bene sottolineano gli Autori, se applicata nell’osservanza del criterio del rispetto e della realizzazione della dignità umana, correttamente identificata nel suo contenuto, in primo luogo, attraverso l’esegesi di tutte le fonti materialmente costituzionali, nel significato alla stessa attribuito dalla Corte costituzionale e dalle Corti sovranazionali. In secondo luogo, procedendo a tale operazione ermeneutica secondo una prospettiva non soltanto soggettivistica ma anche relazionale, in virtù di quell’approccio evidenziato nella prima parte della monografia, che impone di riferirla alla persona umana anche in quanto soggetto della società in cui vive, in una dimensione che eccede quella meramente individualistica.
La difficoltà - antica, ma che certo in modo peculiare connota l’attuale fase storica e l’odierna società - va affrontata, da un canto, ribadendo l’esigenza di una regolamentazione dei diritti da parte del legislatore; dall’altro, tenendo conto che - come di recente convincentemente ha dimostrato Roberto Conti (nel volume Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Aracne, 2019), - «la normazione si configura […] non come un atto circoscritto alla sola formazione del testo di legge, inteso come prodotto finito, ma come un procedimento che si completa nel momento dell’interpretazione, quale passaggio ineliminabile per il concretarsi della positività della norma», attraverso «un processo di concretizzazione in vivo dei diritti, che esige la valorizzazione non solo dei testi, ma dei contesti e che intercetta la giuridicità oltre la norma, ponendo la società e il contesto come referenti della giuridicità». Siffatto processo garantisce, inoltre, le esigenze di certezza, poiché deve muoversi all’interno dei «solidi punti di riferimento [rinvenibili] nella Carta fondamentale, nelle Carte sovranazionali e nella giurisprudenza delle Corti» (è questa l’efficace sintesi del pensiero di R.Conti tratteggiata da G.Luccioli, Postfazione, in questa Rivista, 2019 https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/654-scelte-di-vita-o-di-morte-il-giudice-e-garante-della-dignita-umana). L’applicazione di detti principi scongiura il possibile rischio che i giudici assurgano a «padroni del diritto», in quanto essi sono e restano «i garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, cioè della necessaria, mite coesistenza di legge, diritti e giustizia» (G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino 1992, 213), coesistenza che è imprescindibile allo scopo di assicurare il pieno riconoscimento e l’effettiva tutela dei diritti umani.
L’abolizione della protezione umanitaria non ha effetto retroattivo, ma quanto rileva ancora l’integrazione sociale ( e la Costituzione)? A proposito di Cass.S.U. nn.29459,29460 e 29461/2019.
di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Con il deposito di tre diverse decisioni a Sezioni unite (n.29459, 29460 e 29461, due per conflitto armato e l’altra per l’esistenza di legami familiari in Italia) la Corte di Cassazione respinge le ordinanze di rimessione che, in conformità a quanto ritenuto dal ministero dell’interno, sostenevano la natura retroattiva del decreto legge n.113 del 2018 ( poi convertito nella legge 132 dello stesso anno) che aboliva l’istituto della protezione umanitaria. Il decreto Salvini risulta dunque inapplicabile retroattivamente alle domande già pendenti alla data del 5 ottobre 2018 e il riconoscimento della protezione va valutata con la vecchia normativa e quindi alla stregua dei criteri che comportavano in precedenza il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione umanitaria ex art. 5.6 del Testo unico n.286/98 anche se il permesso rilasciato dovrebbe essere quello “speciale annuale rinnovabile” previsto dal Decreto n.113/2018 (articolo 9, comma 1).
Tutte e tre le sentenze della Corte, depositate il 13 novembre scorso, accolgono i ricorsi presentati dal Ministero dell’interno che aveva impugnato pronunce di diverse Corti di appello (Firenze e Trieste) favorevoli al riconoscimento dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in tre distinti procedimenti: il primo riguardava un cittadino bengalese che aveva ottenuto un’assunzione in Italia, il secondo un gambiano che “studia e coltiva i suoi principali legami sociali” nel nostro Paese, mentre in Gambia “non ha rapporti familiari di rilievo”, e il terzo un altro gambiano per il quale i giudici di Trieste avevano riconosciuto la protezione sulla base era “situazione critica dovuta al disordine complessivo del Gambia e alle primitive strutture giudiziarie e carcerarie sotto il profilo della tutela dei diritti individuali, considerato che sarebbe stato sottoposto a procedimento penale ove fosse rientrato nel Paese di provenienza”.
Le Sezioni unite sono state costrette a pronunciarsi per una opposta interpretazione della disciplina sul diritto intertemporale derivante del Decreto 113/2018 da parte di due diverse sezioni della stessa Corte di Cassazione. A gennaio infatti la prima sezione presieduta dal giudice dott. Stefano Schirò aveva evidenziato l’irretroattività del decreto sicurezza, la stessa sezione, la prima civile, aveva poi cambiato orientamento con un diverso giudice, il dott. Genovese, che aveva chiesto alle Sezioni Unite di stabilire i criteri di applicabilità delle norme che abolivano la protezione umanitaria. Nel frattempo migliaia di casi erano stati risolti con criteri incerti che avevano indotto ad un diniego, o venivano sospesi, con migliaia di persone allo sbando, anche per la chiusura di molti progetti di accoglienza, e quindi con un ulteriore aggravamento della situazione degli uffici giudiziari.
Con la Sentenza. n. 4890/2019, depositata il 19 febbraio scorso, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione sembrava risolvere i dubbi in tema di retroattività della nuova disciplina sulla protezione umanitaria. In quella sentenza la Corte rilevava innanzitutto che nel decreto sicurezza, poi convertito nella legge 132/2018,“non vi è una espressa disciplina legislativa di carattere intertemporale riguardante i giudizi in corso che seguano ad un accertamento positivo o ad un diniego delle Commissioni territoriali o espressamente rivolta ai procedimenti amministrativi in itinere alla data di entrata in vigore della nuova legge. L’unica regola inequivoca che si può cogliere dall’art. l, comma 9, riguarda il segmento conclusivo dell’accertamento positivo del diritto che, anche ove accertato alla stregua del parametro legislativo applicabile prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, non può che assumere la denominazione ed il contenuto indicati nella norma non essendo più legislativamente previsto il permesso di soggiorno per motivi umanitari”.
La sentenza 4890/2019 aveva quindi affermato la non retroattività della norma abolitrice della protezione umanitaria, contenuta nel decreto sicurezza 113/2018, adottando una motivazione sostanziale che si basava sulla natura della situazione soggettiva inerente la protezione umanitaria. Su questo aspetto vanno messi dei punti fermi perché le successive ordinanze della Cassazione che affermavano al contrario la natura retroattiva della nuova normativa, non richiamavano tali aspetti di diritto sostanziale, e meno che mai il fondamento costituzionale della protezione umanitaria, istituto che nel 2018 il legislatore ordinario avrebbe inteso abrogare. Secondo quella sentenza ed in conformità con la consolidata giurisprudenza della Corte,“ il diritto d’asilo costituzionale è integralmente compiuto attraverso il nostro sistema pluralistico della protezione internazionale, anche perché non limitato alle protezioni maggiori ma esteso alle ragioni di carattere umanitario, aventi carattere residuale e non predeterminato, secondo il paradigma normativo aperto dell’art. 5, c.6, d .lgs. n. 286 del 1998”.
Con tre “ordinanze interlocutorie” (relatore Lamorgese) depositate il 3 maggio 2019, sulla disciplina intertemporale del decreto sicurezza, i giudici della prima sezione civile della stessa Corte di cassazione avevano trasmesso gli atti al primo presidente Giovanni Mammone per “l’eventuale assegnazione” alle Sezioni unite della Corte. Secondo queste ordinanze le nuove norme “in materia di permessi umanitari contenute nel decreto Sicurezza entrato in vigore lo scorso 5 ottobre devono essere applicate a tutti i giudizi in corso”.
Con la sentenza n. 29459 delle Sezioni unite e con le altre due emesse in conformità e depositate il 13 novembre scorso, la Corte di Cassazione ha affermato che il decreto legge 113/2018 non si applica alle cause in corso perché il diritto alla protezione è espressione di quello di asilo tutelato dalla Costituzione e sorge al momento in cui lo straniero arriva in Italia in condizioni di vulnerabilità per il rischio che siano compromessi i diritti umani fondamentali. La protezione umanitaria “attua il diritto d’asilo costituzionale”, cioè “scaturisce direttamente dal precetto dell’art. 10 della Costituzione”: “il che vale anche per i nuovi istituti” del legislatore, che devono “rispettare Costituzione e vincoli internazionali”, che può soltanto definire i criteri di accertamento e le modalità di esercizio di quel diritto.
Ove si accedesse alla tesi della retroattività dell’abolizione della protezione umanitaria si determinerebbe, secondo quanto osservano i giudici della Cassazione, un grave vulnus costituzionale, in particolare per violazione del principio di uguaglianza ( art. 3) oltre che dell’art. 10 comma 3 della Costituzione. Persone che infatti si trovavano nella medesima situazione al momento della presentazione della domanda di asilo, e prima ancora al momento dell’ingresso in Italia, al tempo della manifestazione della volontà di chiedere protezione, potrebbero subire trattamenti diversi a seconda del tempo della decisione da parte della Commissione territoriale o del giudice, in caso di ricorso contro un eventuale diniego.
Una volta riconosciuta l’esistenza dei vecchi requisiti, il permesso di soggiorno rilasciato dalle questure sarà quello nuovo ” per casi speciali”, più breve e non convertibile. Secondo le Sezioni unite, “la permanente rilevanza della protezione umanitaria o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano discende dalla irretroattività della novella, che l’ha espunta dall’ordinamento; il concreto atteggiarsi del permesso che pur sempre risponde a quella protezione, è dettato dall’interpretazione conforme a Costituzione, che valorizza la volontà del legislatore”. Per la Corte “in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile”.
2. Con la sentenza n.29459 depositata il 13 novembre scorso, le Sezioni Unite della Corte di cassazione aggiungono poi, ai fini del riconoscimento della protezione, che “l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”. Quindi occorre attribuire"rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”.
Quanto adesso affermato dalle Sezioni unite della Cassazione non costituisce una novità, come alcuni commentatori vorrebbero fare credere. Già nella circolare ministeriale del 4 luglio 2018 i “parametri” per il riconoscimento della protezione umanitaria venivano ristretti in base ad un precedente giurisprudenziale che si continua a citare nelle ultime decisioni della Cassazione a Sezioni Unite ( la nota sentenza della Cassazione n.4455 del 23 febbraio 2018) in base alla quale i “seri motivi” previsti dalla normativa nazionale per il riconoscimento della protezione umanitaria ( art. 5 comma 6 del Testo Unico n.286 del 1998) sarebbero stati “tipizzati” dalla ratio di tutelare situazioni di vulnerabilità, calate in concreto nella complessiva condizione del richiedente, emergente sia da indici soggettivi che oggettivi”, senza che “nessuna singola circostanza possa di per sé, in via esclusiva, costituire il presupposto per l’attribuzione del beneficio”. Secondo la sentenza n. 4455/2018 della Cassazione, “l’accertamento della situazione oggettiva del paese di origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce della peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere”. Un criterio già adottato dai giudici di merito, che però facevano, e continueranno probabilmente in futuro, a fare richiamo ai principi costituzionali ed agli obblighi di fonte internazionale evocati dall’art. 5. 6 del T.U. n. 286 del 1998, che la circolare ministeriale del 4 luglio 2018 sembrava invece ignorare del tutto. Malgrado le numerose sentenze di annullamento adottate dai Tribunali le decisioni delle Commissioni territoriali restavano fortemente condizionate dall’indirizzo impresso dal ministro dell’interno con la sua circolare, in totale dispregio della autonomia di giudizio imposta alle Commissioni dalla normativa europea, e il calo dei casi di riconoscimento della protezione umanitaria continuava indipendentemente dalle oscillazioni della giurisprudenza della Cassazione.
3. Le ultime sentenze delle Sezioni unite della Cassazione in materia di protezione umanitaria potrebbero sembrare il classico “bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno”, e tutti potrebbero dire di avere avuto ragione, ma in realtà non è così, per due ragioni fondamentali.
a) Innanzitutto escono sconfitti dal giudizio della Cassazione a Sezioni unite coloro che avevano sostenuto una interpretazione retroattiva del Decreto Salvini, come il ministero dell’interno ed i giudici che sul punto specifico, dopo una diversa decisione della stessa sezione della Corte, avevano rimesso la questione alle Sezioni unite.
La qualificazione giuridica del diritto alla protezione umanitaria, almeno fino al 4 ottobre 2018, e la natura meramente ricognitiva del giudizio di accertamento cui esso è assoggettato nella fase amministrativa e giudiziale dell’esame dei presupposti, come adesso riconosce la stessa Cassazione, inducono dunque a ritenere che la nuova disciplina legislativa non sia applicabile ai procedimenti in corso. Rimane incontestabile, ed incontestato, il principio affermato da anni dalla prevalente giurisprudenza di merito e consolidato negli orientamenti della Cassazione, secondo cui il diritto soggettivo, anche nel caso della protezione umanitaria, e comunque in tutti i casi riconducibili all’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana, preesiste alla verifica delle condizioni cui la legge lo sottopone, mediante il procedimento amministrativo ed eventualmente giudiziale. Il risultato positivo o negativo dell’accertamento, dipende dal quadro probatorio posto a base della domanda ma non incide sulla natura giuridica della situazione giuridica soggettiva azionata e sulla incontestata natura dichiarativa della verifica amministrativa e giudiziale
Il cittadino straniero che manifesti la volontà di chiedere una qualsiasi forma di protezione matura quindi da quel momento il diritto ad un titolo di soggiorno fondato sui motivi desumibili dal quadro degli “obblighi costituzionali ed internazionali” assunti dallo Stato. Il legislatore può anche mutare la portata del riconoscimento dei casi diversi, dall’asilo e dalla protezione sussidiaria, rientranti nell’ampia copertura dell’art. 10 della Costituzione, ma non può modificare con effetto retroattivo gli effetti maturati rispetto ai presupposti della preesistente normativa, nel caso di specie l’art. 5 comma 6 del T.U. 286 del 1998, in assenza di una specifica disposizione intertemporale, che allo stato non appare certo rinvenibile nella formulazione del decreto “sicurezza” 113 del 2018, poi convertito nella legge n.132 dello stesso anno.
b)Sul punto della ammissibilità di un terzo regime di protezione che si aggiunge al riconoscimento del diritto di asilo o della protezione sussidiaria già previsto dalla normativa dell’Unione Europea ed imposto da un preciso richiamo costituzionale, si sconfessa apertamente chi voleva “abolire” la protezione umanitaria, per lasciare in vigore solo la disciplina della cd. protezione internazionale ( termine con il quale si riassume il diritto di asilo e la protezione sussidiaria). Un tentativo che era partito con un preciso indirizzo del ministero dell’interno, poi tradotto in la Circolare del 4 luglio 2018 che aveva influenzato non poco le decisioni delle Commissioni territoriali competenti a decidere sul riconoscimento di uno status di protezione.
La Corte di cassazione, a Sezioni unite, conferma in queste tre pronunce come l’istituto della protezione umanitaria costituisca diretta attuazione del dettato costituzionale ( art. 10 comma 3) pur riconoscendo al legislatore ampi poteri per le modalità di riconoscimento, e non certo di “concessione” di tale diritto. Quanto deciso dalla Corte nelle tre decisioni depositate ieri spalanca dunque la via ad una serie di ricorsi alla Corte Costituzionale per verificare quanto il legislatore, con i decreti sicurezza che hanno “abolito” la protezione umanitaria, abbia esercitato quel potere senza violare i principi solidaristici affermati dall’art. 10 della Costituzione, e per rimando anche dalla normativa euro-unitaria, in virtù dell’art. 117 della stessa Costituzione.
Le Sezioni unite della Corte chiamate a pronunciarsi in materia di protezione umanitaria non costituiscono alcuna svolta, ma richiamano la consolidata giurisprudenza della stessa Cassazione, secondo cui “ la qualificazione giuridica di diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale, è stata affermata e mantenuta costante dalle S.U. di questa Corte a partire dall’ordinanza n.19393 del 2009 fino alle più recenti ( ex multis S.U.5059 del 2017; 30658 del 2018; 30105 del 2018; 32045 del 2018; 32177 del 2018). Tale peculiare natura, del tutto coerente con il richiamo al rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali indicati nell’art. 5, c.6, del d.lgs. n. 286 del 1998, ha avuto un notevole rilievo nella ricognizione dei presupposti per l’accertamento del diritto al permesso umanitario, svolta dalla giurisprudenza di legittimità. Si è ritenuto che essi fossero diversi da quelli posti a base delle protezioni maggiori e che la protezione umanitaria avesse carattere residuale (Cass. 4131 del 2011; 15466 del 2014), dal momento che le condizioni di vulnerabilità suscettibili di integrare i “seri motivi umanitari” non possono che essere correlati al quadro costituzionale e convenzionale al quale sono ancorati (Cass. 28990 del 2018)”.
Il legislatore italiano non può dunque sottrarsi, come si vedrà meglio per altre parti del decreto legge n.113/2018, al rispetto degli “obblighi internazionali dello stato italiano”. L’art. 5 comma 6 del Testo Unico 286 del 1998 che si è voluto abrogare costituiva una sorta di clausola di salvaguardia del sistema che consentiva di valorizzare quali ‘seri motivi di protezione umanitari e\o di rilievo costituzionale e internazionale’, particolari condizioni di vulnerabilità dei soggetti, quali, ad esempio, motivi di salute (con rischio di perdita delle opportunità di cura garantite in Italia) o di età, oppure anche una grave instabilità politica e insicurezza del paese di origine, anche se non attraversato da conflitti armati di gravità tale da raggiungere i requisiti che permettevano il riconoscimento della protezione sussidiaria, oppure la diffusione nello stato di provenienza di episodi di violenza o insufficiente rispetto dei diritti umani, carestie, disastri naturali o ambientali che consentivano di concedere l’autorizzazione temporanea al soggiorno ( in passato il permesso ‘umanitario’ biennale) per far fronte alla durata, normalmente non illimitata, delle emergenze umanitarie.
Nella nuova disciplina introdotta dal decreto legge n.113/2018, poi convertito nella legge n.132/2018, si prevede con l’abrogazione del permesso di soggiorno per seri motivi umanitari un nuovo tipo di permesso di soggiorno per “protezione speciale”, legato al rischio che si verifichi un allontanamento verso il paese di origine in violazione del divieto sancito dall’art. 19 commi 1 e 1.1 del d.lgs. n. 286/98, che in particolare vieta l’espulsione o il respingimento verso paesi nei quali la persona possa essere sottoposto a rischio di morte o di tortura, ed anche in casi di “violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Appare evidente, per quanto riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza di merito e dal consolidato indirizzo della corte di Cassazione, che tali casi andranno riconosciuti con una valenza tale da corrispondere al dettato dell’art. 10 comma 3 della Costituzione, restando aperta la possibilità, ove ciò non avvenisse, di una applicazione diretta della norma costituzionale, o di una censura di costituzionalità della norma del decreto sicurezza n.113, poi convertito nella legge n.132 del 2018, che ha introdotto la protezione per casi speciali, se di questa norma si dovesse fornire una interpretazione restrittiva, tale da non corrispondere alla più ampia portata dell’art. 10 comma 3 della stessa Costituzione.
Come osserva la Corte di cassazione a Sezioni unite nella sentenza n. 29459/19, se la protezione umanitaria attuava il diritto di asilo costituzionale, come riconosciuto da ultimo anche dalla sentenza della Corte Costituzionale del 24 luglio 2019, n. 194, “nonostante l’intervenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli “obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” precedentemente contenuto nell’art. 5.6 del T.u. n.286 del 1998, anche i nuovi istituti relativi al riconoscimento della protezione per casi speciali devono rispettare la Costituzione ed i vincoli internazionali ( in questo specifico senso la Corte Costituzionale con sentenza n.194 del 2019).
La normativa europea peraltro prevede espressamente che in caso di rifiuto di un permesso di soggiorno e di avvio di una procedura di rimpatrio, gli stati possano “decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari, o di altra natura, un permesso di soggiorno autonomo, o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare”( in questo senso la Direttiva rimpatri n. 2008/115/CE all’articolo 6, paragrafo 4).
4. Toccherà adesso alla giurisdizione nel suo complesso, dunque ai singoli giudici ed avvocati, affrontare questa materia tenendo presenti i principi costituzionali e sollevando questioni di costituzionalità nei singoli casi di contrasto con l’attuazione delle norme che avrebbero ridimensionato la protezione umanitaria riducendola a “casi speciali”.
Alla stregua della sentenza della Corte di cassazione n.15466 del 2014, l’istituto della protezione umanitaria veniva riconosciuto come risolutivo del problema della applicabilità diretta dell’art. 10 comma 3 della Costituzione. Ipotesi che si ripropone immediatamente qualora si dovesse ritenere che il legislatore abbia voluto abrogare del tutto questo istituto, cancellando la dizione “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.
Se si dovesse accedere alla tesi dell’”abolizione” della protezione umanitaria, prima per circolare nel luglio dello scorso anno, e poi con decreto, senza attribuire una valenza ampia ai “casi speciali” di protezione, che pure il legislatore richiama nel decreto legge n.113/2018 e nella legge di conversione n.132/2018, si potrebbe verificare una espansione dell’ambito di operatività diretta dell’art. 10, comma terzo della Costituzione, che potrebbe essere immediatamente azionabile davanti al giudice ordinario, anche con riferimento alla integrazione sociale raggiunta in Italia, in relazione ala condizione soggettiva nella quale si troverebbe il richiedente in caso di rimpatrio nel paese di origine.
Quando il Presidente della Repubblica Mattarella, il 4 ottobre 2018, aveva firmato il Decreto Legge “immigrazione e sicurezza” n.113/2018, aveva allegato al provvedimento una lettera in cui si avvertiva “l’obbligo di sottolineare che, in materia», «restano ‘fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo”. Il Presidente della Repubblica ricordava in particolare “quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia” . Obblighi costituzionali ed internazionali che potrebbero essere violati anche in via amministrativa se l’adozione di una “lista di paesi terzi sicuri”, prevista dal decreto sicurezza n.113 del 2018( poi convertito nella legge n.132) dovesse comportare una procedura accelerata e magari una valutazione automatica, in senso negativo, delle richieste di protezione delle persone provenienti da quei paesi.
Come osservato dalla Associazione nazionale magistrati (ANM) a tale riguardo,“venendo, infatti, in gioco diritti costituzionali, rimane fermo il potere dell’autorità giurisdizionale ordinaria di riconsiderare l’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri mediante congrua motivazione, tanto più ove la predetta indicazione si discosti dai criteri di inserimento pure previsti dalla norma generale (così parere approvato dal CSM sul testo licenziato al Senato). Resta, fermo, in ogni caso, come anche raccomandato dalla Commissione Europea, il dovere del giudice di procedere all’esame pieno ed individualizzato della domanda di protezione internazionale, dovendosi comunque indagare a fondo le esigenze di protezione internazionale di ciascun richiedente asilo in ossequio agli obblighi costituzionali ed internazionali ed al fine di evitare il rischio di violare il divieto di trattamenti inumani e degradanti.”
Le decisioni più recenti della Cassazione, per quanto adottate a Sezioni Unite, non andranno dunque nella direzione di una riduzione della conflittualità in questa materia. Spetta ai politici, al Governo ed al Parlamento, nel suo complesso, prendere atto del fallimento, “sul campo” dell’applicazione concreta, del decreto sicurezza 132 del 2018 in materia di “abrogazione” della protezione umanitaria, e adottare quanto prima provvedimenti che ne cancellino gli effetti, che oggi si stanno traducendo in decine di migliaia di persone alle quali si nega il diritto ad esistere legalmente, se non lo stesso diritto alla vita ed alla dignità umana.
IL DIRITTO PENALE VIVENTE
Principio di stretta legalita’ e ruolo politico del giudice
Il diritto vivente è stato per molto tempo considerato l’ “altro diritto”, un diritto secondario che serviva alla risoluzione di dubbi sulla applicazione della norma. Un diritto statico, fermo secolarmente alle medesime letture delle leggi per cui quando si effettuavano le ricerche giurisprudenziali sui fascicoli spiegazzati delle riviste bastava leggere una sentenza della Cassazione per leggerle tutte.
L’ingresso nel nostro ordinamento del diritto europeo rappresentato dall’interpretazione delle Corti sovranazionali ha reso il diritto giurisprudenziale una fonte normativa di pari livello, se non superiore a quello positivo, con una funzione stimolante di attenzione ai valori sociali e di costante evoluzione del campo di applicazione delle norme.
Si sono sviluppati cosi nuovi termini come “ prevedibilità” ad indicare che nei casi di novum ermeneutico sfavorevole all’imputato questi debba essere in grado di comprendere la possibile evoluzione del campo di applicazione della norma. Tale criterio si è dimostrato di non facilissima applicazone nella realtà e la liquidità del nuovo “ diritto vivente” è sembrata a molti acuti giuristi un elemento di destabilizzazione del diritto. Al contrario esso ha destato interesse e fervore presso i giudici di legittimità che dalla nuova spinta “creativa” hanno tratto impulso per guadagnare un ruolo assai più rilevante rispetto a prima. Ne scrivono Max Oggiano e Vinicio Viol con riferimento alla ben nota, diropente sentenza Contrada.
In particolare è stata la funzione nomofilattica ad assumere un ritmo assai più accentuato ed in alcuni periodi frenetico.
In tal senso la riforma Orlando ha finito per istituzionalizzare un ruolo che nei fatti era già stato assunto dalle Sezioni Unite, specie sotto la presidenza di Giovanni Canzio.
L’interventismo della Suprema Corte ed anche i precetti provenienti dalle sedi europee ha sovente creato preoccupazione se non vera e propria diffidenza in alcuni settori dell’accademia forse legittimamente preoccupati di una possibile marginalizzazione del ruolo.
Così nell’avvocatura, anche se , per quanto ad alcuni colleghi possa sembrare strano, è l’interprete che spesso ha difeso la democrazia del diritto, a partire dai giudici Europei. Basti pensare ad esempio alla pagina delle misure di prevenzione, radicalmente rivoluzionate in un’ottica giurisdizionale. La scheda è curata da Silvia Astarita.
Nell’ambito dei produttori del diritto, un ruolo particolare è quello assunto dalla Corte Costituzionale e non solo per la posizione verticisticamente più elevata guadagnata nell’ambito di un fitto e serrato confronto con le corti sovranazionali ( vedasi la vicenda Taricco con le schede di Angela Compagnone, Andrea Codisposti , Giordano Grilli ed Alessia Martini,).
Al contrario degli altri protagonisti la Consulta ha osservato un ruolo non interventista sebbene gli evidenti ritardi ed insufficienze del legislatore potessero autorizzarla ad operare diversamente.
Ciò nondimeno il Giudice delle leggi ha deciso di far sentire la sua voce forte e chiara in uno dei settori più cruciali quanto negletti: il carcere, con pronunce ed iniziative “ politiche” di valore storico quale il tour carcerario dei suo componenti registrato in un film che ha commosso l’opinione pubblica. Anna Rita Franchi spiega il ruolo della Corte Costituzionale nel delicato tema dell’ergastolo ostativo.
Con alcuni giovani colleghi della Camera Penale abbiamo deciso di dedicare alcuni dibattiti culturali e politici ad una approfondita riflessione sul “ diritto vivente “: ai vari aspetti di ordine generale come a singole pagine significative. Abbiamo pensato di invitare alcuni dei più qualificati giuristi per una serie di dibattiti cui parteciperanno anche i soci della camera penale.
Non a caso nel primo incontro insieme a due ben noti membri della Camera, Cristiano Cupelli e Giuliano Dominici, abbiamo invitato un illustre studioso di diritto pubblico, Cesare Pinelli, ed un magistrato, Alberto Macchia che nel corso di una prestigiosa carriera ha ricoperto posti in prima linea sia come inquirente su fenomeni come il terrorismo, che come giudice del merito e di legittimità, ed oggi presta servizio presso la Corte Costituzionale.
L’idea che muove la Commissione non è quella che qualcuno ha definito di un “convegnificio” ma un luogo di confronto e scambio sulla politica del diritto di cui crediamo si senta il bisogno. Ed a tale proposito ringrazio il direttivo per il supporto e soprattutto gli amici della commissione, sempre più numerosi e partecipi. Il Foro penalista di Roma vive e vivrà della loro appassionata intelligenza.
Cataldo Intrieri
di Roberto Giovanni Conti
SOMMARIO: 1. Premesse. 2. La vicenda del ponte di Varvarin e le decisioni del giudice tedesco. 3. Corte dir.uomo, 14 dicembre 2006, GC, Markovic c.Italia. 4. Qual è la lezione del caso Markovic. 5. Qualche conclusione.
1. Premesse.
In questi ultimi concitati frangenti si è tornato a parlare sempre più spesso, in Italia, di atto politico, della sua sindacabilità da parte del giudice e della sua “resistenza” ad incursioni giudiziarie patrocinate dall’esigenza di rispettare i diritti fondamentali.
L’occasione che mi è stata concessa, assai importante e al contempo onerosa, di rendere omaggio alla figura professionale ed umana di Paulo Pinto De Albouquerque nel momento in cui egli si appresta a lasciare la carica di giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo intendo onorarla con il ricordo di una vicenda giudiziaria che ha coinvolto, a vario titolo, le giurisdizioni nazionali e sovranazionali, dalla quale penso possano trarsi rilevanti insegnamenti per il futuro o, meglio, per affrontare al meglio l’attuale contesto socio-politico che le democrazie occidentali si trovano a dovere fronteggiare, impegnate in situazioni più o meno emergenziali nelle quali i governi nazionali e le istituzioni sovranazionali sono chiamate a scelte delicate nelle quali si confrontano rilevanti interessi nazionali agganciati spesso a opzioni di matrice populista e, appunto, i diritti fondamentali delle persone.
Si tratta, per chi scrive, di una scelta che ripercorre alcune riflessioni rese all’indomani della pubblicazione di una pronunzia delle Sezioni Unite (Cass.S.U. n.8157/2002)[1], (colpevolmente?) sottovalutata dalla dottrina dell’epoca che non ritenne di dedicare alcun approfondimento specifico. Una pronunzia, insomma, incredibilmente sfuggita al grande pubblico degli operatori del diritto, archiviata velocamente anche in relazione al “seguito” che essa produsse innanzi alla Corte edu con la pronunzia che pure sarà qui ricordata.
Un silenzio assordante che, ancora oggi, sembra trovare matrice ultima nel fatto che, in definitiva, i diritti in quel caso in gioco e reclamati non avevano riguardato i “cittadini” italiani, ma “persone straniere”, come tali titolari di diritti fondamentali da riconoscere comunque in scala, se e in quanto meritevoli di protezione agli occhi dello Stato[2] e per i quali non era necessario intraprendere battaglie di opinione, organizzare dibattiti scientifici e riflettere sulle conseguenze particolari e di sistema.
Il fine delle riflessioni che seguono è, allora, quello di “fare memoria” su quella ferita ancora aperta e sanguinante, anche solo per il rispetto delle persone che persero la vita in quel bombardamento e che continuano, ancora oggi, a distanza di vent’anni a meritare.
Per procedere nel senso appena indicato si proverà dunque a ripercorrere un fatto accaduto ormai quasi trent’anni fa quando, nella notte del 23 aprile 1999, mentre dal palazzo della radiotelevisione serba Radio Televizija Srbije di Belgrado veniva trasmessa un’intervista rilasciata dall’allora Presidente Milosevic ad un’emittente americana, un missile lanciato da aerei della NATO decollati dalla base di Aviano centrava la sede televisiva, provocando non solo il temporaneo oscuramento delle trasmissioni, ma anche la morte di 11 civili, rimasti travolti dal crollo dell’edificio ed il ferimento di cento persone che lavoravano al momento dell’attacco.
“Sulla Aberdareva ulica, l’entrata posteriore dove il missile si è infilato in verticale, negli uffici scoperchiati c’è anche sangue.Una grande chiazza rossa, dovuta a chissà quale resto umano che la violenza dello scoppio ha scagliato contro il muro, si nota in mezzo al bianco dell’intonaco spezzato”[3]. Così resocontava il cronista di guerra.
L’attenzione degli occidentali fu all’epoca catalizzata non tanto dal sacrificio umano che quell’atto determinò, quanto dall’opportunità e legittimità di un’offensiva militare orientata a colpire i mezzi di informazione del regime che si intendeva abbattere per ragioni umanitarie[4], peraltro ben presto fallita per l’immediata riattivazione delle trasmissioni televisive ordinata dal governo jugoslavo. Nelle cronache di guerra che a quel tempo arrivavano dal fronte i morti civili, dopo qualche sussulto inorridito, vennero così ben presto dimenticati.
Per altro verso, la Serbia ed il Montenegro, subentrati medio tempore alla ex Repubblica Federale Jugoslava, intrapresero un’offensiva giudiziaria iniziata il 26 aprile 1999 con la dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja e proseguita con il deposito, in data 29 aprile 1999, di dieci ricorsi nei confronti dell’Italia e di altri nove dei 19 Stati membri della NATO, contestarono l’avvenuta violazione di precetti internazionali[5] fra i quali l’ingiustificato attacco di obiettivi non militari - ospedali, scuole stazioni della radio e della televisione- la distruzione di abitazioni[6] e l’uccisione di un numero imprecisato di civili, chiedendo l’adozione di misure cautelari.
La Corte Internazionale di giustizia, con una decisione adottata a maggioranza, ritenne insussistenti i presupposti – e quindi prima facie la giurisdizione della Corte stessa - per adottare misure interinali poiché non era stato dimostrato, allo stato degli atti, l’elemento dell’intenzionalità dei bombardamenti che dunque non costituivano di per sé atto di genocidio[7].
In questo contesto le Sezioni Unite della Cassazione furono chiamate a pronunziarsi su un regolamento di giurisdizione promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nell’ambito di un’azione civile intentata dal procuratore speciale di alcuni cittadini serbi, congiunti di due persone decedute nel bombardamento della radiotelevisione jugoslava.
Alcuni congiunti delle vittime, sostenendo che l’avere scelto come bersaglio l’edificio di un’emittente televisiva costituiva un modo di conduzione delle ostilità rivolto deliberatamente a colpire civili e dunque contrario al Protocollo I aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra, avevano infatti convenuto innanzi al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Difesa ed il Comando delle Forze Alleate dell’Europa Meridionale – Afsouth – per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, patiti.
All’Italia, come Paese membro della NATO, veniva contestata la violazione del Protocollo I aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra dell’Agosto 1949 e dell’art.174 del codice penale militare di guerra, per avere concorso all’individuazione delle modalità di conduzione delle ostilità e fornito le basi da cui erano partiti gli aerei impiegati nel bombardamento della stazione radio televisiva di Belgrado. Il che avrebbe dovuto radicare la giurisdizione del giudice ordinario ai sensi dell’art.VIII, par.5 della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, ratificata con la legge 30 novembre 1955 n.1335.
Le amministrazioni dello Stato convenute eccepirono il difetto assoluto di giurisdizione e, nel successivo regolamento preventivo di giurisdizione, sostennero che l’azione non era proponibile innanzi al giudice italiano, essendo lo Stato italiano chiamato in causa nella sua unitaria e specifica soggettività di diritto internazionale. Aggiungevano che nemmeno la giurisdizione poteva radicarsi alla stregua della Convenzione di Londra del giugno 1951, poiché l’art.VIII riguardava soltanto i danni causati dallo stato di soggiorno.
Il Procuratore Generale della Cassazione concluse nel senso che col regolamento di giurisdizione si era inteso impropriamente contestare l’esistenza nell’ordinamento giuridico italiano di norme e principi che astrattamente contemplassero la posizione di diritto soggettivo fatta valere in giudizio-, ivi prospettando dunque inammissibilmente questioni di merito e non di giurisdizione.
Con l’ordinanza n.8157/2002 le S.U. dichiararono inammissibile il ricorso, osservando che nella controversia venivano in discussione le modalità di conduzione di un conflitto armato e che tali atti, espressione di una funzione politica, non potevano essere sottoposti al sindacato giudiziale circa il modo in cui la funzione era stata esercitata, non essendo configurabile veruna situazione di interesse protetto.
Secondo Cass.S.U. n.8157/2002 le disposizioni della Convenzione di Ginevra e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo regolavano rapporti tra Stati, indicavano le Corti internazionali competenti ad affermarle, né erano state trasposte nell’ordinamento interno norme espresse che consentissero alle persone offese di chiedere allo Stato la riparazione dei danno loro derivati dalla violazione delle norme internazionali. Nè la giurisdizione interna poteva radicarsi alla stregua della Convenzione di Londra poiché in contestazione non era la commissione di un singolo atto ma una più complessa operazione militare che le parti private avevano chiesto fosse sottoposta ad un vaglio di liceità.
2. La vicenda del ponte di Varvarin e le decisioni del giudice tedesco.
Giova ricordare che un’azione per molti aspetti sovrapponibile a quella ora ricordata venne intentata dagli eredi e aventi causa delle vittime di un bombardamento NATO che aveva colpito, il 30 maggio 1999, la cittadina serba di Varvarin, situata a 180 Km a sud di Belgrado, distruggendo un ponte sul fiume Mortava e causando la morte ed il ferimento di diversi civili[8]. Anche in quell’occasione le istanze giudiziarie promosse dagli eredi delle vittime innanzi alla giustizia tedesca prospettando la violazione del diritto internazionale umanitario non ottenero alcun risultato favorevole, nemmeno innanzi alla Corte costituzionale federale. In tale occasione la Corte costituzionale federale, con sentenza del 2 novembre 2006, riconobbe in astratto il diritto delle persone di far valere posizioni giuridice soggettive riconosciute allo stesso dal diritto internazionale proprio in ragione della prestatualità della dignità umana e della sua protezione, ma escluse l’art.3 della Convezione dell’Aja sulle leggi e usi della guerra terrestre del 18 ottobre 1907 e l’art.92 fel I Protocollo dell’8 giugno 1977 sulla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, non contenevano un diritto self-executing al risarcimento per la violazione del diritto internazionale umanitario azionabile dai singoli dinanzi a i giudici statali[9].
3. Corte dir.uomo, 14 dicembre 2006, GC, Markovic c. Italia.
In esito alla decisione delle S.U. i congiunti si rivolgevano alla Corte dei diritti umani, lamentando la lesione dei diritti sanciti dagli artt.6 e 1 della Convenzione.
La Grande Camera della Corte dei diritti umani – alla quale è stata rimessa la decisione della questione in ragione della delicatezza e rilevanza delle questioni sollevate, potendosi verificare contrasti rispetto a precedenti posizioni assunte dal giudice europeo (art.30 CEDU) – con la sentenza resa 14 dicembre 2006[10], ha anzitutto ritenuto che la vicenda sollevata dai congiunti delle vittime della strage della rediotelevisione serba doveva inquadrarsi nell’ambito di una controversia relativa a diritti di carattere civile, osservando che la deduzione difensive dl Governo italiano, secondo la quale non era profilabile un diritto dei congiunti dei danneggiati alla tutela invocata secondo l’ordinamento interno era una valutazione che solo la decisione delle Sezioni Unite avrebbe reso manifesta.
Detto questo in punto di ammissibilità il giudice europeo, con una maggioranza di 10 voti a sette, ha escluso l’esistenza di una violazione dell’art.6 CEDU, ritenendo che la decisione delle Sezioni Unite non aveva vulnerato il diritto all’accesso alla giustizia sancito da tale disposizione.
La Corte ha inteso ribadire che i compiti ad essa riservati dall’art.19 CEDU erano quelli di accertare il rispetto degli impegni intrapresi dalle parti contraenti alla convenzione e non di occuparsi degli errori in fatto o in diritto commessi da una corte nazionale a meno che essi avessero creato una lesione dei diritti protetti dalla Convenzione. La responsabilità principale per implementare ed attuare i diritti e le libertà garantite dalla Convenzione, prosegue la Corte europea, è riservata alle autorità nazionali, essendo il ruolo della Corte europea meramente sussidiario al sistema nazionale di protezione dei diritti umani.
Così procedendo, il giudice europeo ha escluso che la decisione che ha dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione fosse in grado di vulnerare i diritti garantiti dalla CEDU, non integrando una forma di immunità per lo Stato in spregio alle regole ordinarie previste nell’ordinamento interno.
Procedendo, fra l’altro, ad interpretare il Protocollo alla Convenzione di Londra già ricordato, la Corte ha ritenuto, in sintonia con la decisione delle Sezioni Unite, che lo stesso fosse applicabile solo per gli atti commessi nello Stato richiesto e non fosse così applicabile per le condotte realizzate in Serbia – e non in Italia –.
Non ravvisando, in tal modo, in base alle regole interne l’esistenza di un diritto alla riparazione, la Corte non ha trovato nemmeno ostacoli a bypassare la deduzione, richiamata nelle difese dei ricorrenti, secondo la quale la giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass.S.U. n.5044/2004[11]) aveva superato i principi espressi da Cass.S.U. n.8157/2002, affermando che dalla violazione dei diritti umani fondamentali non poteva che scaturire i diritto al risarcimento dei danni in favore delle vittime.In quell’occasione i giudici di legittimità ebbero in effetti a riconoscere, dopo un excursus normativo e giurisprudenziale assolutamente sganciato dall’esperienza normativa interna ed invece proiettato alla difficile ricerca delle radice comuni del diritto, il principio della giurisdizione universale nelle controversie riguardanti la responsabilità di uno Stato per crimini contro l’umanità Con ciò individuando nei precetti delle norme di diritto internazionale dei valori parametri normativi – come tali dotati di forza precettiva e non meramente programmatica – sui quali fondare l’ingiustizia del danno alla stregua di Cass.S.U.n.500/1999. Fu dunque ritenuto che il riconoscimento dell’immunità dello Stato dalla giurisdizione di altro Stato trovava limite per effetto del valore di principio fondamentale dell’ordinamento internazionale assunto dall’obbligo di rispetto dei diritti inviolabili della persona umana.In tali casi, anche l’esercizio della sovranità non resta coperto dalla immunità quando si risolva in comportamenti dello Stato estero lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statuali.
Orbene, osservano i giudici europei, il successivo revirement giurisprudenziale del 2004 non poteva far ritenere che il diritto reclamato dagli attori esistesse prima del diverso orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel 2002.
Né la decisione delle Sezioni Unite del 2002 poteva dirsi integrare una forma di immunità, nemmeno di fatto, poiché il giudice nazionale aveva richiamato la propria pacifica giurisprudenza in ordine all’insindacabilità degli atti di guerra.
Sicchè l’inesistenza, affermata in via generale, del diritto al risarcimento del danno da parte dell’autorità giurisdizionale interna non poteva far ritenere sussistente una forma di immunità.
Anche la decisione “in rito” sulla giurisdizione adottata dalle autorità italiane non concretava una violazione del diritto all’accesso alla giustizia tutelato dall’art.6 CEDU, avendo il giudice nazionale evidenziato le ragioni che dovevano condurre all’esclusione del diritto reclamato dai ricorrenti, senza pertanto conculcare il diritto dei ricorrenti ad ottenere una decisione sulla domanda proposta[12].
Rispetto alla decisione assume capitale importanza l’opinione difforme espressa dal giudice Vladimiro Zagrebelsky, condivisa da altri giudici della Corte edu, nella quale si è ritenuto che la decisione espressa dalla maggioranza ha rappresentato un colpo tremendo al fondamento stesso della Convenzione, proprio nella parte in cui ha condiviso l’affermazione del giudice nazionale che impedisce la risarcibilità di un diritto garantito dalla CEDU quando a cagionarlo è stato un atto politico discostandosi, peraltro, dalla tradizione della stessa Corte, favorevole al riconoscimento di un diritto effettivo alla tutela giurisdizionale- v. sul punto l’opinione parzialmente difforme giudice Costa-.
Zagrebelsky ricordava nella sua opinione dissenziente che il ricorso all’esame della grande Camera sollevava una questione di estrema importanza nel quadro della Convenzione, icasticamente evocando il tema della “ posizione dell’individuo di fronte all’autorità”. L’autorità nella sua forma più temibile: l’autorità basata sulla “ragione di Stato”.
Dopo avere precisato che al centro dell’istituzione della Corte Edu vi era stata, come ricordato nel suo discorso all’Assemblea parlamentare il 19 agosto 1949, da P. H. Teigten, l’esigenza di ridurre la prima minaccia alla libertà rappresentata dalla “eterna ragione di Stato” che aleggia sempre là come perenne tentazione, Zagrebelsky non mancò di stigmatizzare la decisione della Corte di Cassazione allorchè aveva affermato che “alle funzioni di tipo politico non si contrappongono situazioni soggettive protette”. Sostenne, infatti, che “le funzioni politiche e i diritti individuali non possono, pertanto, coesistere, dato che non si possono esercitare dei diritti in relazione ad atti politici.” La conclusione alla quale era giunto il giudice di legittimità risultava pertanto incompatibile con la Convenzione “…e almeno equivoca in base al diritto nazionale, come riflesso nelle relative disposizioni della costituzione (vedi paragrafo 20 della sentenza), per il fatto che il campo di applicazione dell’articolo 31 del Decreto n. 1024 è limitato alla sola giurisdizione amministrativa con poteri di riesame (Consiglio di Stato) e in assenza di esempio tra le sentenze della Corte di Cassazione citate dal Governo di una situazione comparabile a quella ottenuta nel caso di specie (vedi paragrafo 100 della sentenza). La decisione della Corte Edu era quindi criticabile poiché anche se i ricorrenti hanno avuto accesso ai tribunali italiani, ciò era accaduto solo “per farsi dire che né i tribunali civili né un altro tribunale italiano avevano giurisdizione per udire il loro ricorso.” In modo assolutamente adamantino Zagrebelski aggiungeva che “La Corte di Cassazione ha pertanto ristretto per tutti i fini pratici la portata del diritto generale al risarcimento contenuto nell’articolo 2043 del Codice civile. Inoltre, a differenza dei tribunali interni del ricorso Z e Altri, essa non ha ponderato i concorrenti interessi in gioco e non ha tentato di spiegare perché nelle specifiche circostanze del ricorso dei ricorrenti il fatto che l’atto contestato fosse di natura politica avesse annullato la loro azione civile. È facile vedere come la natura discrezionale – a volte completamente discrezionale – degli atti politici o di governo può condurre all’esclusione di qualsiasi diritto di contestarli. Il punto è, dunque, che per essere compatibile con il principio dello stato di diritto e il diritto di accesso ai tribunali insito in esso, la portata dell’esclusione non può chiaramente estendersi oltre i limiti stabiliti nelle norme giuridiche che disciplinano e circoscrivono l’esercizio delle relative attribuzioni governative (atto di governo). Il predetto fine legittimo non può oltrepassare il campo della discrezione che l’autorità governativa ha il diritto di esercitare entro i limiti imposti dalla legge. Nel ricorso di specie, i ricorrenti hanno sostenuto nei tribunali nazionali che le azioni delle autorità italiane avevano violato le norme del diritto interno e del diritto consuetudinario internazionale in materia di conflitti armati. Così facendo, essi hanno sollevato la questione dei limiti da porre alla nozione di una “ragione di stato” libera da qualsiasi controllo giudiziario.
Se, dunque, era preoccupante che né la Corte di Cassazione né la Corte EDU avessero fornito una definizione di che cosa potesse qualificarsi come “atto di governo” o “atto politico” da ciò sarebbe conseguito che “…qualsiasi atto di un’autorità pubblica sarà, direttamente o indirettamente, il risultato di una decisione politica, che essa sia generale o specifica nel contenuto. In definitiva, la Corte di Cassazione è pervenuta a questa conclusione senza tenere conto della natura della richiesta proposta dai ricorrenti: essa non riguardava direttamente la partecipazione dell’Italia al conflitto armato della NATO e il loro fine non era l’annullamento di un atto di governo. Esso era semplicemente ottenere il risarcimento per le remote conseguenze dell’atto politico in questione, conseguenze che erano puramente potenziali e non collegate alla finalità degli atti. Nonostante la natura generale del diritto esposto nell’articolo 2043 del Codice civile italiano, la Corte di Cassazione ha infine rifiutato di accettare che nel diritto interno un giudice italiano avesse giurisdizione per udire le pretese dei ricorrenti, solamente perché la decisione di partecipare alle suddette operazioni militari era di natura politica. La Corte di Cassazione è andata perciò oltre ogni legittimo fine che può essere riconosciuto alla dottrina dell’atto politico e ben oltre ogni proporzionalità.” Concludeva pertanto esprimendo il proprio rammarico a che”che la maggioranza della Corte abbia accettato una soluzione che colpisce le fondamenta stesse della Convenzione”.
4. Qual è lezione del caso Markovic.
Paulo Pinto di Albouquerque si è dimostrato assai attento al tema della protezione delle persone dai crimini contro l’umanità.
Sul tema, di straordinario rilievo le opinioni rese nei casi Mocanu e a c.Romania (ric.n.10865/09, 45886/07 e 3243/08)[13] e Perincek c. Svizzera (ric.n.27510/08, quest’ultima insieme al giudice Vucinic).
Un atteggiamento, quest’ultimo, che se condiviso non avrebbe certo consentito alla Corte EDU di chiudere la vicenda Marcovich nel modo che invece la Grande Camera ha inteso adottare, pur con le assai efficaci e persuasive opinioni dissenzienti già ricordate.
Ma sono proprio quelle opinioni dissenzienti[14] a consentire una riflessione sistematica che tende, in definitiva, a tratteggiare il ruolo del giudice nelle dinamiche che sempre di più lo chiamano ad essere arbitro di diritti che fuoriescono dalla dimensione individuale della singola vicenda, producendo ricadute ben più ampie.
La prima considerazione non può che muovere dal valore della CEDU nell’ordinamento interno.
Occorre quindi accostarsi al principio, divisato dalla ordinanza delle S.U. civili del 2002 sul bombardamento alla RTV di Belgrado che postula l’ininfluenza, ai fini della decisione in punto di giurisdizione, delle norme contemplate dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo, ratificata in Italia con la legge 4 agosto 1955 n.848.
Il riferimento, rispetto al caso di specie, corre agli artt.2 e 15 par.2 della CEDU che tutelano in via assoluta ed inderogabile il diritto alla vita, impedendone ogni violazione anche in caso di guerra e salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra.
È dunque in questo contesto che si inserisce la pronunzia in epigrafe, escludendo l’efficacia diretta degli artt.2 e 15 par.2 della CEDU in quanto norme di diritto internazione regolanti rapporti fra Stati alle quali non era seguita alcuna norma attributiva del diritto al risarcimento del danno.
Per la Cassazione, solo la Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto competente a valutare “tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli” (art. 32, 1 CEDU), può valutare l’esistenza di una qualsiasi violazione della Convenzione commessa da uno degli Stati contraenti che abbia comportato una lesione, per effetto della violazione de qua, di un diritto riconosciuto al soggetto interessato dalla CEDU.
A sostegno del superiore assunto i giudici di legittimità richiamarono la nota vicenda delle ipotesi di irragionevole durata dei processi italiani che, riguardando le violazioni all’art.6 della CEDU, aveva richiesto l’adozione di una specifica disciplina normativa volta a riconoscere il pregiudizio sofferto – l.n.89/2001 –, in mancanza della quale l’unico rimedio era rappresentato dal ricorso alla Corte dei diritti dell’uomo.
La prospettiva allora recepita dalle Sezioni Unite non ci sembrò persuasiva.
Ed infatti, la decisione ometteva di considerare l’evoluzione, profonda, subita dalla CEDU per effetto del Protocollo n.11 entrato in vigore l’11 novembre 1998 che, nel giurisdizionalizzare in modo completo il sistema europeo del controllo dei diritti umani, ha inteso apprestare un notevole grado di effettività alla tutela dei diritti attraverso il ricorso individuale alla Corte – per il quale è pure stato eliminato il filtro di controllo statale (art. 34) – che ora si affianca al ricorso interstatuale (art. 33). Anzi, in ragione del principio di sussidiarietà è stata imposta la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni (art.35) proprio per confutare il convincimento secondo cui la tutela garantita dagli organismi sopranazionali ai diritti fondamentali fosse l’unica esperibile dal cittadino nei confronti dello Stato.
Se dunque si leggono le disposizioni appena evocate a tutela del diritto inviolabile alla vita insieme agli artt.1 e 13 della CEDU e si considera, altresì, che le norme convenzionali fanno parte a pieno titolo dell’ordinamento interno (in quanto recepite con la legge di esecuzione) e come tali devono essere fatte osservare dal giudice interno chiamato ad applicarle, deve ritenersi opinabile l’affermazione che al singolo è vietato azionare innanzi alla giurisdizione nazionale una pretesa fondandola direttamente sul diritto riconosciuto dalla CEDU quando una fattispecie concreta non trovi nelle altre norme dell’ordinamento una disciplina specifica.
Ciò avrebbe forse potuto legittimare il giudice nazionale a fare applicazione della norma convenzionale – impregiudicato, ovviamente, l’esito finale del giudizio – considerando che la responsabilità dello Stato per violazione dell’art.2 della Convenzione non abbisognava di alcuna norma di recepimento, esistendo un principio giuridico che impone al responsabile di un danno di risarcire le conseguenze negative da questo prodotto.
L’ingiustizia del danno, in altri termini, traendo luogo dalla norma convenzionale sovranazionale, poteva non richiedere alcuna norma interna diretta a prevedere la riparazione dei danni a carico dello Stato che, quand’anche adottata, sarebbe stata meramente riproduttiva di principi giuridici già assolutamente radicati nell’ordinamento interno.
In effetti, l’esistenza nell’ordinamento interno di una clausola generale, rappresentata dall’art.2043 c.c. nella lettura espansiva offerta dalla storica sentenza delle Sezioni Unite n.500/1999[15], che impone anche allo Stato il divieto del neminem laedere, se correlata alle previsioni che tutelano in modo incondizionato il diritto alla vita e che impegnano, con forza di legge, lo Stato a sottostare ai già ricordati principi contenuti nella Convenzione di Ginevra sul diritto internazionale umanitario- integrativi del principio sovranazionale che scrimina la violazione del diritto alla vita solo in presenza di un legittimo atto di guerra (art.15, par.2 della CEDU), non poteva fare ritenere esclusa l’esistenza di un quadro normativo già dotato di precettività.
Ed infatti, il collegamento della clausola generale del neminem laedere con i diritti inviolabili dell’uomo sembrerebbe creare un sistema di tutela civile in sé compiuto dal quale promana, in via generale, il diritto del danneggiato a reclamare il risarcimento dei danni subiti dalla persona umana.
Ciò quanto meno nel caso in cui dalle norme della Convenzione si possa inferire una regola positiva idonea a disciplinare la fattispecie concreta[16]. E non par dubbio che l’art. 2 CEDU contiene l’affermazione di un diritto assolutamente inviolabile alla vita – salvi i casi del par.2 –, considerato incoercibile se non per atti legittimi di guerra proprio in ragione dell’art.15 par.2 CEDU[17].
Per tali ragioni il giudice nazionale avrebbe potuto (e dovuto) fare applicazione della norma convenzionale – impregiudicato, ovviamente, l’esito finale del giudizio – considerando che la responsabilità dello Stato per violazione dell’art.2 della Convenzione non abbisognasse di alcuna norma di recepimento, esistendo un principio giuridico che impone al responsabile di un danno di risarcire le conseguenze negative da questo prodotto.
Dalla diversa conclusione divisata dalla Corte di Cassazione traspariva un ritorno a posizioni che sembravano ormai superate – oltrechè aspramente criticate in dottrina[18] – poiché la Corte, ancora una volta colpita dalla “sindrome del carattere programmatico delle norme della Convenzione”[19], sembrò volere riaffermare che le cennate disposizioni hanno unicamente natura di “norme-principio” e dunque non contengono il modello di un atto interno completo nel suoi elementi essenziali tale cioè da potere senz'altro creare obblighi[20].
Si faceva dunque un salto indietro nel tempo, fino a ritenere che il diritto interno non permette di rimuovere le conseguenze di una violazione alle norme della CEDU[21].
Né era agevole comprendere quale ulteriore attuazione lo Stato avrebbe dovuto realizzare per dare riconoscimento al diritto inviolabile alla vita, una volta che la norma convenzionale l’ha riconosciuto come assolutamente incoercibile e che è la stessa CEDU a sancire l’obbligo del rispetto di tale situazione soggettiva, per tutelare la quale deve essere garantito un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale -art.13 CEDU-[22].
Va allora sottolineato come Cass., S.U. n.5044/2004, già ricordata, abbia avuto, pochi anni dopo, la forza di discostarsi dall’indirizzo espresso nell’ordinanza del 2002 sul bombardamento alla radiotelevisione serba, riconoscendo espressamente, a proposito dell’azione risarcitoria proposta nei confronti della Germania dagli eredi di persone deportate nei campi di concentramento tedeschi che “…l'insindacabilità delle modalità di svolgimento delle attività di suprema direzione della cosa pubblica non è di ostacolo all'accertamento degli eventuali reati commessi nel corso del loro esercizio e delle conseguenti responsabilità, sia sul piano penale che su quello civile (artt 90 e 96 Cost.; art. 15, l. Cost. 11 marzo 1953, n. 1; art. 30, l. 25 gennaio 1962, n. 20)”. In quella stessa occasione non si mancò ancora di precisare che “in forza del principio di adattamento sancito dall'art. 10, primo comma, della nostra Carta Costituzionale, le norme di diritto internazionale "generalmente riconosciuti" che tutelano la libertà e la dignità della persona umana come valori fondamentali e configurano come "crimini internazionali" i comportamenti che più gravemente attentano all'integrità di tali valori, sono divenute "automaticamente" parte integrante del nostro ordinamento e sono, pertanto, pienamente idonee ad assumere il ruolo di parametro dell'ingiustizia del danno causato da un fatto" doloso o colposo altrui.” Fu in tal modo che le S.U. decisero espressamente di superare i principi espressi dal Cass.S.U. n.8157/2002, affermando che “i principi contenuti in detta pronuncia non possono venire in considerazione nel caso di specie.” Indirizzo, quello appena ricordato, che in dottrina è stato positivamente salutato, evidenziandosi che in base ad esso sarebbe pienamente legittimo il riconoscimento del pregiudizio subito per la violazione di norma di diritto internazionale umanitario nel quadro di operazioni belliche[23]
Non meno nette sembrano essere le riflessioni critiche da esprimere a proposito della ritenuta natura politica degli atti bellici indirizzati contro civili inermi cha la Corte di Cassazione ha finito col ritenere immuni da ogni controllo.
Si è visto, infatti, che nella pronunzia n.8157/2002 delle Sezioni Unite particolare attenzione venne riservata alla natura politica dell’atto di conduzione delle ostilità nei confronti degli obiettivi individuati dalla NATO in territorio jugoslavo. Così facendo la Corte escluse la sindacabilità della modalità di conduzione dell’atto di guerra richiamando la propria giurisprudenza in tema di atto politico.
Ora, l’insindacabilità dell’atto politico, a rime alternate affermata da tutte le giurisdizioni interne[24], trovò la sua origine nell’art.31 del R.D. n.1054/1924, a tenore del quale è escluso il sindacato giurisdizionale amministrativo avverso gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico.
Nel corso degli ultimi lustri si è dubitato della vigenza dell’art.31 T.U.Cons.Stato per effetto dell’entrata in vigore della Costituzione italiana[25], ipotizzando la radicale incostituzionalità di quegli atti che finiscano con travalicare diritti e libertà costituzionalmente tutelate[26], anche se secondo l’art. 7, comma 1, c.p.a. (d.lgs.n.104/2010) “non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.
Sulla questione occorre probabilmente procedere avendo di vista il tema che riguarda, in generale, l’eventuale lesione di un diritto fondamentale ad opera di un atto ritenuto politico.
Per un verso va riconosciuto che, promanando da un organo costituzionale nell’esercizio della funzione di governo e dunque nell’attuazione dell’indirizzo politico, l’atto politico non è espressione di funzione amministrativa e dunque si sottrae, in generale, al sindacato giurisdizionale[27]. In questa prospettiva suole ricordarsi che l'atto politico[28] esprime "l'attività di direzione suprema della cosa pubblica (cioè l'indirizzo politico) e l'attività di coordinamento e controllo delle singole manifestazioni in cui la direzione stessa si estrinseca"[29].
Assolvendo dunque ad una funzione superiore, l’atto politico si disegna come atto libero nel fine, pur dotato di natura discrezionale che mira a tutelare l'interesse generale dello Stato nella sua unita', secondo il libero apprezzamento dell'autorità governativa determinato da detto interesse e dalla convenienza.
Ora, la categoria dell’atto politico è stata tradizionalmente individuata in negativo attraverso una casistica giurisprudenziale[30] che ha via via eroso la portata del concetto – e con essa delle posizioni di privilegio ad esse connesse[31]–, tanto da richiedere come elemento essenziale la riconducibilità dell’atto esclusivamente ad organi costituzionali.
Anche la giurisprudenza della Cassazione ha avuto occasione di riconoscere l’insindacabilità di atti politici in modo da negare ogni tutela a situazioni con essi contrastanti[32].
In tempi più recenti si è tuttavia assistito ad un ridimensionamento della categoria dell’atto politico.
Cass.S.U. nn.11502/2019, 11588/2019 e n.18829/2019, ricordando le prese di posizione della Corte costituzionale[33]– fra le altre, Corte Cost. n. 339 del 2007 e C.Cost.n.52/2016[34] – non hanno mancato di osservare che “l’esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale va necessariamente confinata entro limiti rigorosi”[35].
È stato peraltro da tempo sottolineato che la scelta politica ha come presupposto per la non riferibilità di alcuna responsabilità diversa da quella appunto politica e dunque come intrinseco limite quello del rispetto dei principi generali dell'ordinamento[36].
Tra questi, il canone dell’effettività della tutela giurisadizione costituisce uno dei baricentri dell’ordinamento costituzionale nazionale.
Per queste stesse ragioni l’esito giudiziario della vicenda del bombardamento sulla quale qui ci si è lungamente soffermati si pone, dunque, in netta e mancata contrapposizione con la costante posizione espressa dalla Corte costituzionale in tema di effettività della tutela giurisdizionale[37], la cui matrice multilevel è stata dallo stesso giudice costituzionale a più riprese sottolineata[38].
Né può sottacersi, la più volte commentata Corte cost.n.238/2014 che, intervenendo proprio nelle vicende successive agli effetti prodotti dalla ricordata sentenza Ferrini delle S.U. del 2004 sulla tutela giurisdizionale riconosciuta a livello interno alle azioni risarictorie volte a risarcire il pregiudizio prodotto da crimini contro l’umanità, ha operato una summa dei principi espressi dal giudice costituzionale in materia[39], pur pervenendo a soluzioni anch’esse non compiutamente appaganti quanto all’immediata disapplicazione innanzi al giudice comune della disposizione di legge cotnraria a norma consuetudinaria di matrice internazionale[40].
Il tema, del resto, è tornato all’attenzione degli operatori giudiziari in relazione alle vicende legate al tema delle migrazioni, ai provvedimenti adottati dal Governo sui c.d. porti chiusi[41] e alle condotte assunte da ONG per porre in salvo migranti accolti dopo il salvataggio in mare. Tema che si è scontrato con le decisioni governative assunte in materia di chiusura dei porti, riguardando altresì la rilevanza delle condotte di esponenti delle ONG inosservanti dei divieti di attraccare intimati dalle vedette della Guardia di Finanza[42].
Proprio nel contesto appena ricordato, nel quale si sono fronteggiate posizioni divaricate sulla liceità delle condotte inosservanti degli ordini impartiti dall’autorità governativa e/o militare[43], Roberto Bin non ha mancato di efficacemente rilevare che «[l]'atto è politico se e perchè non ha effetti lesivi per le persone:per cui gli effetti lesivi della decisione di Salvini nel caso Diciotti sono la dimostrazione chenon si può trattare di un atto politico»[44]. E ancora più icasticamente non ha mancato di sottolineare, sempre a proposito della vicenda della nave Diciotti, paradossalmente che se per raggiungere un obiettivo politico un ministro ordinasse un omicidio, si finirebbe per ripetere l’idea sostenuta da Mussolini rispetto all'omicidio Matteotti.[45]
Orbene, non può disconoscers l’estrema complessità e delicatezza del tema che coinvolge il limite dell’atto politico[46] e con esso quello del bilanciamento fra contrapposti diritti ed interessi di rilievo nazionale. La riconduzione operata dalle S.U. nella vicenda del bombardamento alla RTV serba delle modalità operative del conflitto iniziato per ragioni umanitarie nei confronti della ex Jugoslavia alla funzione politica appare difficilmente controvertibile, attenendo alla gestione di un conflitto che lo Stato italiano – e quegli altri che vi hanno preso parte – gestirono nell’interesse dell’intera comunità internazionale proprio per tutelare gli obblighi erga omnes di cui si è detto.
Desta tuttavia notevoli perplessità il richiamo operato in quell’occasione dalle Sezioni Unite a Cass.S.U.n. 2452/1968[47], ove il giudice del riparto aveva ritenuto che gli atti compiuti dallo Stato nel regolamento delle relazioni internazionali si sottraggono totalmente al sindacato sia della giurisdizione amministrativa che di quella ordinaria, in quanto nei confronti dei predetti, stante la preminenza assoluta degli interessi della collettività organizzata a Stato che con tali atti vengono tutelati – non sono configurabili né interessi legittimi né diritti soggettivi, restando l’interesse del singolo pienamente sacrificato di fronte all’interesse della collettività, nei rapporti interstatali e ponendosi la responsabilità degli organi di Governo per gli atti internazionali esclusivamente sul piano politico.
Se può dunque convenirsi sul fatto che l'attività militare svolta in Italia dagli organi della NATO era stata attuata ai fini della tutela della sovranità degli Stati aderenti al Patto, attenendo alla sfera del diritto pubblico, doveva qualificarsi come jure imperii[48], occorre sottolineare che non venne probabilmente focalizzata la differenza fra natura politica dell’atto – ed in questo senso la partecipazione dell’Italia alla campagna militare contro la Repubblica Federale Jugoslava non sembra essere soggetta ad alcun tipo di sindacabilità da parte della giurisdizione – e le singole operazioni militari eseguite nell’ambito della partecipazione al conflitto, soprattutto quando si assume che queste abbiano leso diritti inviolabili dell’uomo.
Un conto è affermare che la funzione politica è attribuita agli organi costituzionali, altro è sostenere che la Costituzione imponga l’insindacabilità assoluta degli atti politici allorché questi siano – in tesi – contrari ai diritti dell’uomo. E in questa direzione assolutamente rilevanti risultano le riflessioni di Zagrebelsky sopra ricordate, destinate a valere ben al di fuori della vicenda che si è qui ricordata ed invece decisamente orientate a valere come pietra miliare per il dispiegarsi di un corretto rapporto fra fonti interne e CEDU.
5. Qualche breve conclusione.
La vicenda dalla quale hanno preso le mosse le riflessioni qui espresse dimostra, ancora una volta, la centralità del ruolo dell’ordine giudiziario nel processo di tutela dei diritti fondamentali, altresì denotando gli evidenti rischi che esso corre all’atto stesso dell’esercizio delle funzioni allo stesso costituzionalmente garantite.
Funzioni che possono, a volte, condurre l’autorità giudiziaria ad intercettare, nei percorsi di verifica di una condotta ai fini della sua rilevanza penale o del suo rilievo ai fini civilistici, scelte di natura politica adottate a livello interno e, quindi, ad intraprendere decisioni che possono essere strumentalmente accusate di essere anch’esse di natura politica, tentando di appannare il ruolo di terzietà ed indipendenza dell’ordine giudiziario medesimo.
Anche in tempi recenti si tende infatti a far passare l’idea che come le scelte securitarie del legislatore in materia migratoria hanno una valenza politica, allo stesso modo le decisioni dell’ordine giudiziaro che incidono sulle prime, comprimendone la portata, sarebbero soggette al medesimo tipo di valutazione, politica, appunto. Il che dovrebbe condurre alla conclusione che queste ultime avrebbero superato il “limite” entro il quale la giurisdizione ha la competenza per svolgera in modo corretto la propria funzione.
Ora, tale assunto va recisamente e con fermezza contrastato proprio alla luce delle riflessioni che si è qui tentato di svolgere.
Come il giudice può resistere all’accusa di politicità rispetto a talune scelte giudiziarie?
Questa “possibilità di resistenza” si ritrova nell’essere le fonti che riconoscono la tutela dei diritti dotate di valenza costituzionale e sovranazionale che le scelte dell’esecutivo e dei Parlamenti non possono mai disattendere.
Il giudice nazionale sta dunque lì a svolgere la sua funzione di guardiano indipendente, trovando nel diritto vivente delle Corti superiori nazionali e sovranazionali la linfa sulla quale orientare il proprio operato nell’interpretazione della legge[49]. Si arriva, così, ancora una volta al nocciolo rappresentato dal significato che la legge ha nella sua applicazione concreta. Risultato al quale solo il giudice del caso concreto può giungere per il tramite dell’interpretazione che alla legge occorre dare per trasformare la disposizione normativa astratta in norma applicabile al caso concreto. Basilari, sul punto, le riflessioni recentemente offerte da Gaetano Silvestri[50].
Di straordinaria chiarezza le parole di recente usate da Franco Ippolito per tratteggiare ruolo del diritto e dei giudici, quando egli ci ricorda che «La garanzia dell’indipendenza non assicura affatto che i giudici siano davvero indipendenti. Ma consente a giudici indipendenti di poterlo essere davvero anche quando la politica o altre alte istituzioni si arrendono alle pressioni dell’alleato più forte e realizzano attività di favore della potenza egemone. Anche quando i Governi sono costretti a “sporcarsi le mani” con manipolazioni di ogni tipo per neutralizzare l’effetto dell’esercizio doveroso dell’azione penale, il fatto che la giurisdizione tenga dritta la barra del diritto costituisce il presupposto per salvare la democrazia costituzionale»[51]. Espressioni vive da scolpire nella mente di ciascun giudice attento al proprio ruolo.
È dunque attorno al concetto di indipendenza che il giudiziario deve continuare a girare, forte del giusto rilievo che ad esso anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nella sua articolazione più autorevole – Corte giust., 27 febbraio 2018, C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 24 giugno 2019, n. C-619/18 ,Commissione europea c. Repubblica di Polonia, Corte giust.(GC), 5 novembre 0219, C-192/18, Commissione c.Repubblica di Polonia – è di recente tornata a sottolineare, ricordando che la garanzia di indipendenza dei giudici nazionali è essenziale per il buon funzionamento del sistema di cooperazione giudiziaria costituito dal meccanismo del rinvio pregiudiziale di cui all’articolo 267 TFUE, presuponendo che l’organo eserciti le sue funzioni giurisdizionali in piena autonomia, senza vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte, e che esso sia quindi tutelato da interventi o pressioni dall’esterno idonei a compromettere l’indipendenza di giudizio dei suoi membri e ad influenzare le loro decisioni. Appare evidente la finalità che la Corte di giustizia affida alla garanzia di indipendenza. Non si tratta, a ben considerare di una prerogativa che la Corte intende riconoscere in astratto alle giurisdizioni nazionali, ma è strettamente collegata al sistema di tutela giurisdizionale dei diritti di matrice UE.
Con l’indipendenza dei giudici la Corte UE guarda in realtà al controllo giurisdizionale, autentica “garanzia prima” dello Stato di Diritto e dell’effettività della tutela dei diritti fondamentali, disegnando una triangolazione che trova il suo quadro giuridico di riferimento negli artt.2 TUE, art.19 TUF e 47 della Carta UE-. Preminenza del diritto rispetto dei diritti fondamentali ed indipendenza delle Corti costituiscono un’endiadi e non possono che andare di pari passo.
Sicchè l’attentato all’indipendenza del giudice - recte, dei giudici - non si traduce in una semplice violazione del diritto UE o della CEDU, ma determina un problema capace di minare l’ordine democratico del Paese e renderlo incompatibile con le premesse indispensabili per la sua partecipazione al sistema UE ed al meccanismo europeo di tutela dei diritti umani.
Il requisito dell’indipendenza dei giudici attiene al contenuto essenziale del diritto fondamentale a un equo processo, che riveste importanza cardinale quale garanzia della tutela dell’insieme dei diritti derivanti al singolo dal diritto dell’Unione e della salvaguardia dei valori comuni agli Stati membri enunciati all’articolo 2 TUE, segnatamente, del valore dello Stato di diritto. L’Unione è, infatti, un’Unione di diritto in cui i singoli hanno il diritto di contestare in sede giurisdizionale la legittimità di ogni decisione o di qualsiasi altro provvedimento nazionale relativo all’applicazione di un atto dell’Unione nei loro confronti.
Se, dunque, il giudice nazionale costituisce l’avamposto della Corte di giustizia nell’ordinamento interno, è la Corte a pretendere che quello stesso organo sia salvaguardato nelle sue prerogative di base fra le quali vi è quella dell’indipendenza che si declina, anzitutto, come indipendenza dagli altri organi nazionali dello Stato che dovessero frapporre degli ostacoli al pieno dispiegarsi dei diritti che l’ordinamento UE riconosce e pretende siano tutelati in maniera effettiva.
Un’indipendenza che è dunque la stessa che la Corte di giustizia individua come prerogativa ad essa stessa riferibile in quanto giudice dell’Unione e che assume i tratti di non bilanciabilità, di assolutezza almeno se si guarda alla prospettiva che sembra animare le decisioni della Corte stessa ai fini dell’esercizio della giurisdizione.
La strada maestra alla quale ispirarsi è dunque quella della continua opera di costruzione di un sistema normativo ispirato alla protezione dei diritti della persona che i giudici hanno il diritto ed il dovere di garantire senza condizionamenti di sorta, in una prospettiva volta a perseguire il “metaprincipio” della massimizzazione della tutela[52].
Peraltro, la circostanza che la giurisprudenza nazionale e della Corte Edu sopra ricordate abbiano assecondato una prospettiva esattamente contraria a quella improntata alla salvaguardia dei diritti fondamentali, barbaramente calpestati dal bombardamento della radiotelevisione di Belgrado, costituisce un forte monito rivolto a tutti gli operatori giudiziari, affinchè essi siano a tal punto indipendenti da sapere improntare il proprio operato, anche alla luce dei successivi sviluppi giurisprudenziali maturati all’interno delle S.U., all’ombra del faro dei dirdiciotti
itti fondamentali. Prospettiva imprescindibile tanto ieri come oggi, essa costituendo la base stessa delle democrazie moderne.
È dunque importante che gli operatori del diritto in questo cammino, mai conchiuso ma anzi continuamente in movimento, abbiano l’opportunità di “intercettare” personalità di spicco come quella di Paulo Pinto De Albouquerque capaci di offrire, anche andando controcorrente, prospettive ed orizzonti universali senza i quali quelle stesse democrazie rimangono più vulnerabili.
[1] R. Conti, La guerra <<
[2] Per una critica insuperabile alla visione che riconduce ai non cittadini solo il nocciolo duro dei diritti fondamentali v. A. Ruggeri, Cittadini, immigrati e migranti, alla prova della soldarietà, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, f.2/2019.
[3] Cfr.il resoconto dell’episodio di cronaca tratto dal quotidiano Il Corriere della Sera del 24 aprile 1999 nell’articolo di Renzo Cianfanelli, Missile sulla tv serba, strage di civili cui hanno fatto seguito, sulle colonne della stessa testata dei giorni 25 e 26 aprile 1999, gli articoli a firma di Massimo Nava e Gianluca Di Feo.
[4] L’Organizzazione di giornalisti “Reporter senza frontiere” condannava il raid definendolo un caso che poteva “stabilire un pericoloso precedente per la stampa”.
[5] In particolare, veniva richiamato l’art.2 Convenzione sul genocidio del 9 dicembre 1948
[6] Cfr. ricorso proposto dalla Repubblica Federale Jugoslava contro l’Italia, in I diritti dell’uomo,cronache e battaglie,1998,3,99; ibidem, 1998, 67 v.A. Saccucci, Il ricorso della Jugoslavia davanti alla Corte Internazionale di giustizia .
[7] cfr. Corte Internazionale di Giustizia, 2 giugno 1999, nel giudizio promosso nei confronti dell’Italia, in Riv.dir.inter.,1999,810.V. anche Saccucci ,Le prime statuizioni della Corte Internazionale di giustizia sul ricorso della Jugoslavia, in I diritti dell’uomo,cronache e battaglie,1999,4,65 che analizza specificamente le dieci ordinanze rese dalla Corte con motivazioni diverse.Infatti, furono cancellati dal ruolo i procedimenti nei confronti della Spagna e degli Stati Uniti che all’atto di aderire alla Convenzione sul genocidio avevano formulato una riserva, accettata dagli altri aderenti, che impediva la devoluzione alla giurisdizione della Corte internazione senza una previa manifestazione di consenso di quei Paesi, mentre per i restanti la Corte si riservò di esaminare l’esistenza della propria giurisdizione con il successivo esame di merito. Successivamente, la Corte internazionale di giustizia ha emesso il 15 dicembre 2004 una sentenza sulle eccezioni preliminari nella quale ha sancito di non aver giurisdizione in merito ai ricorsi presentati nel 1999 da Serbia e Montenegro nei confronti di dieci Stati membri della NATO in relazione ai bombardamenti da questi compiuti nel corso del 1999 durante il conflitto in Kosovo.
[8] V. Focarelli, Lezioni di diritto internazionale, vol. II - Prassi, Padova, 2008, 91 ss.
[9] Analoga soluzione venne adottata in anni successivi in altra pronunzia del 13 agosto 2013 della medesima Corte costituzionale federale tedesca - https://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Entscheidungen/DE/2013/08/rk20130813_2bvr266006.html. Per l’abstract in lingua inglese v.https://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Entscheidungen/EN/2013/08/rk20130813_2bvr266006en.html. Ringrazio il Prof.Marongiu Bonaiuti per avermi fornito gli estremi delle pubblicazioni dei provvedimenti adottati dalla giurisprudenza tedesca.
[10] In Foro it., 2007, IV,125, con nota di commento di F. Amato, Se la Corte europea rinnega i diritti dell’uomo. V. anche B. Randazzo, Responsabilità delloStato per atti di guerra:la Corte di Strasburgo ‘tradisce’ la sua consolidatagiurisprudenzasul diritto di accesso ad un tribunale?, in Forum quaderni costituzionali. V. anche, volendo, R. Conti, Anche dopo Markovic, the king can do not wrong:ma fino a quando?, in Corr. Giur., 2007, 10, 1375.
[11] La sentenza è stata pubblicata su diverse riviste giuridiche. V., i commenti di P. De Sena, Immunità degli Stati della giurisdizione e violazioni di diritti dell'uomo: la sentenza della Cassazione italiana nel caso Ferrini, in Giur.it., 2005, 250, R. Baratta, L'esercizio della giurisdizione civile sullo Stato straniero autore di un crimine di guerra., in Giust. civ., 2005, I, 1191.
[12] La Corte edu non mancò peraltro di sottolineare l’erroneità dei passaggi motivazionali con i quali Cass.S.U. n.8157/2002 aveva sostenuto la natura programmatica della CEDU, osservando che “in virtù dell’art.1… l’applicazione de la consacrazione dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione spettano in primo luogo alle autorità nazionali. Il meccanismo di ricorso davanti alla Corte riveste dunque un carattere sussidiario in rapporto ai sistemi di salvaguardia dei diritti dell’uomo”.
[13] V.la ora riportata in P. Pinto de Albuquerque, I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni concorrenti e dissenzienti(2011-2015), a cura di D. Galliani, Torino, 2015,125.
[14] Sulla valenza delle opinioni dissenzienti nella giurisprudenza convenzionale v., di recente ed utilmente, A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, Napoli, 2019, 119 ss.
[15] Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in Foro it., 1999, I, 2487, con osservaz. di Palmieri e Pardolesi.
[16] V. Il contributo della Corte internazionale di giustizia al rispetto degli obblighi erga omnes in materia di diritti umani”, in La comunità internazionale, 2000, 36, che pur riconoscendo che allo stato attuale del diritto internazionale è problematico riconoscere che gli individui siano titolari di diritti soggettivi internazionali richiama, sub nota 108, i testi pattizi che hanno ampliato il ruolo dell’individuo in ambito internazionale.
[17] Né può disconoscersi che la ratifica ed esecuzione del Protocollo I aggiunto alla Convenzione di Ginevra dell’agosto 1949 di cui si è detto supra ha introdotto nell’ordinamento dei principi giuridici in tema di liceità – ed illiceità - degli atti bellici che, indipendentemente dalla loro idoneità a costituire diritti soggettivi per i singoli costituiscono, per effetto della loro ratifica, diritto positivo che il giudice è chiamato ad applicare. V., del resto, la legge 12 luglio 1999 n. 232. contenente la Ratifica ed esecuzione dello Statuto Istitutivo della Corte Penale Internazionale adottato dalla Conferenza Diplomatica delle Nazioni Unite il 17 luglio 1998, in cui l’art.8 disciplina la fattispecie del crimine di guerra facendo rientrare, fra l’altro, le gravi violazioni delle leggi e degli usi applicabili all'interno del quadro consolidato del diritto internazionale, nei conflitti armati internazionali (dirigere deliberatamente attacchi contro popolazione civili in quanto tali o contro civili che non prendano direttamente parte alle ostilità; dirigere deliberatamente attacchi contro proprietà civili e cioè proprietà che non siano obiettivi militari; attaccare o bombardare con qualsiasi mezzo, città, abitazioni o costruzioni che non siano difesi e che non costituiscano obiettivo militari) –v.art.8 par.2, lett.b),I,II e V–.
[18] Cfr. B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 1997, 298; Buonuomo, L’equo processo costituzionale e giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,in Doc.giust., 2000, 162.
[19] L’espressione è di M. De Salvia, Esistono norme vaghe nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo?, in Jus,1999,65.
[20] V. Cass., S.U., 3 agosto 2000 n.530, in Giust. civ. 2001, I, 747, che, in un giudizio promosso da un’organizzazione sindacale nei confronti degli Stati Uniti d’America – dopo la strage del Cermis- per ottenere il risarcimento del danno provocato in occasione del sorvolo da parte di aerei americani in forza alla NATO del suolo italiano, ha escluso la giurisdizione italiana, dichiarando incidentalmente che l'art. 8 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1948, nella parte in cui riconosce il diritto di ognuno di ricorrere davanti al competente giudice nazionale contro gli atti commessi in violazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dalle leggi “non ha valore precettivo immediato ed è rivolta agli Stati”. Cass.20 luglio 2002 n.11046, inedita, decidendo una controversia involgente la legge n.89/2001, dopo avere affermato che “i principi elaborati dalla Corte di Strasburgo non possono avere carattere direttamente vincolante per il giudice interno”, aggiunge che “il giudice nazionale resta vincolato al quadro normativo del proprio ordinamento, che non può disapplicare né censurare”.
[21] Sembra che le Sezioni Unite abbiano seguito l’indirizzo espresso da Cass.12 gennaio 1999 n.254, in Giust. civ. 1999, I, 2363 - e prima ancora da Cass.S.U. 6.3.1992, Giovannini,in Giust. pen. 1993, III, 1 -, che, a proposito dell'art. 5, n. 5, della Convenzione europea, in virtù del quale "ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione", ha statuito che la norma convenzionale prevede un generico diritto alla riparazione, senza ulteriori specificazioni circa la disciplina di tale diritto, per cui la suindicata disposizione non si presta ad una applicazione immediata ed assume soltanto il valore di un impegno degli Stati contraenti a darvi attuazione, attraverso strumenti apprestati dal diritto interno.Diversamente v. Trib. Roma 7 agosto 1984, in Temi rom., 1985, II, 977.
[22] Cfr.Cass. n.4297/2002.
[23] A. Balsamo, Le corti europee e la responsabilità degli stati per i danni da operazioni belliche: inter arma silent leges?, in Cass. pen., fasc.5, 2007, 2186 che pure ricorda la conforme posizione espressa da A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale. I. Diritto sostanziale, Bologna, 2005, p. 60-63, nonché da P.De Sena –De Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione e violazioni di diritti dell'uomo: la sentenza della Cassazione italiana nel caso Ferrini, in Giur. it., 2005, n. 2, c. 265, p. 265, nota 91 e da A.Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati della giurisdizione nella sentenza Ferrini, in Riv. dir. int., 2004, p. 677 ss.
[24] v. Cons. Stato, sez.IV, 21 dicembre 1973 n.1296, in Foro amm.,1973,I,1217 che ha ritenuto ancora in vigore l’art.31 r.d.26 giugno 1924 n.1054; Corte Conti, sez. riun., 22 ottobre 1997, n. 75/A, in Foro amm. 1999, 519 che in materia di provvedimenti adottati dal Governo in tema di quote latte, ha ritenuto che non sussistono i presupposti della colpa grave e prima ancora del danno erariale sindacabile in sede di giurisdizione contabile, per gli atti posti in essere dal Ministro nella sua qualità di organo politico costituzionale e non quale vertice gerarchico di un dicastero.
[25] Così E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, Milano, 1954, 20.
[26] G. Grottanelli De Santi, voce Atto politico e atto di governo, in Enc. giur., IV, 1988 4. V., inoltre, F. Bilancia, Ancora sull’“atto politico” e sulla sua pretesa insindacabilità giurisdizionale. una categoria tradizionale al tramonto?, in RivistaAic, n.4/2012, 2 ottobre 2012.
[27] Cfr. B. G. Mattarella, L’attività, in Trattato di diritto amministrativo,a cura di S. Cassese, Milano, 2000, t.I, 675.
[28] L'atto politico si collega al concetto d'indirizzo politico e di attivita' di governo, e si caratterizza a seconda della nozione che si accolga per definire l'indirizzo politico; così correttamente Grottanelli De' Santi, in Atto politico e atto di governo, in Enc. giur., IV, 1988. In merito all'evoluzione dottrinale sull'atto politico v. G. Di Gaspare, in Considerazioni sugli atti di governo e sull'atto politico, Milano, 1984.
[29] Cosi' A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 14; sul punto cfr., anche, E. Cheli, Atto politico e funzione d'indirizzo politico, Milano 1961.
[30] Cfr. Cass.n.16328/2018, ove si afferma che “Sulla nozione di atto politico si deve fare riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale "alla nozione legislativa di atto politico concorrono due requisiti, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo: occorre da un lato che si tratti di atto-provvedimento emanato dal governo, e cioè dall'autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica; dall'altro, che si tratti di atto provvedimento emanato nell'esercizio del potere politico, anzichè nell'esercizio di attività meramente amministrativa (Consiglio di Stato, sezione quarta, 4 maggio 2012, numero 2588), ovverosia debba riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione" (v. Consiglio di Stato, sezione qua, 18 novembre 2011 numero 6083; Consiglio di Stato, sezione quarta, 12 marzo 2001 numero 1397; Consiglio di Stato, 8 luglio 2013 numero 3609).”
[31] V.G. B. Garrone, Atto politico (disciplina amministrativa), in Digest.,disc. Pubb., I,Torino, 1987, 548 ; B. G. Mattarella, op.cit., 676, che nelle note al testo enumera i precedenti della giurisprudenza amministrativa che hanno escluso il carattere politico di atti sottoponendoli quindi al sindacato giurisdizionale. Diversamente, Con.Stato sez.III,28 marzo 1986 n.1167, in Foro amm.,1986,2854 ha ritenuto che gli atti del CIPI e del Ministro per le partecipazioni statali che dettano direttive in ordine all’acquisizione o allo smobilizzo di imprese relativamente al comparto pubblico dell’economia, attenendo alla sfera del pubblico interesse, insito della definizione delle linee di politica economica nell’esercizio della suprema funzione di governo, non sono in grado di fondare posizioni giuridicamente tutelabili di terzi.
[32] v. Cass., S.U., 8 Gennaio 1993 n°124, in Giust. civ. 1993, I, 1525. V. anche Cass. 11 ottobre 1995 n.10617, in Foro it. 1996,I, 503, anche in Danno e resp. 1996, 78, ove si afferma che di fronte all’esercizio del potere politico non sono configurabili situazioni soggettive protette dei singoli.
[33] Secondo la Corte costituzionale(sentenza n. 81 del 2012) "…gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto".
[34] Sulla pronunziai ndicata nel test v., fra gli altri, A. Ruggeri, Confessioni religiose e intese tra iurisdictio e gubernaculum, ovverosia l’abnorme dilatazione dell’area delle decisioni politiche non giustiziabili (a prima lettura di Corte cost. n. 52 del 2016, in www.federalismi.it., 7/2016, 30 marzo 2016.
[35] Cass., S.U., n. 16305/13, Cass., SU n. 21581 del 2011; Cass., n. 10416 del 2014; Cass. n. 10319 del 2016; Cass.n. 3146/2018.
[36] v.S. Gattamelata, Quote latte ed insindacabilità degli atti di governo, in Foro amm. 1999,II, 522;Grottanelli De’ Santi, Atto politico e atto di governo,in Enc.giur..,IV,ad vocem, Roma,Ist. Enc.It.,1988.
[37] Sul punto vanno ricordate le puntuali ossservazioni critiche espresse da B. Randazzo all’ordinanza delle S.U. n.8157/2002 ed alla sentenza della Grande Camera della Corte edu sul caso Markovic nella nota di commento già ricordata, cit.
[38] Cfr. Corte cost.n.262/2017, ove si è ricordato che secondo una giurisprudenza costante, il diritto a un ricorso effettivo può essere soggetto ad una limitazione purché, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, tale limitazione sia prevista dalla legge, rispetti il contenuto essenziale di tale diritto e, nel rispetto del principio di proporzionalità, sia necessaria e risponda effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione europea o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui (Corte giust., 4 giugno 2013, ZZ, C-300/11, punto 51; Corte giust., 17 settembre 2014, Liivimaa Lihaveis, C562/12, punto 72; Corte giust., 6 ottobre 2015, Schrems, C-362/14, punto 95; 15 settembre 2016, Star Storage e a., C-439/14 e C-488/14, punto 49; Corte giust., 27 settembre 2017, Puškár, C-73/16, punto 62, e Corte giust., 20 dicembre 2017, Protect Natur-, Arten- und Landschaftsschutz Umweltorganisation, C-664/15, punto 90). Ma v. anche la più risalente Corte cost.n.20/2009:”…Gli articoli 24 e 113, Cost., enunciano il principio dell’effettività del diritto di difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione. Entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente sul piano processuale (in tal senso, ex plurimis, le sentenze n. 182 del 2008, nn. 180, 181, 282, 420 del 2007, n. 101 del 2003 e n. 419 del 2000). A sua volta, il principio del giusto processo, consacrato nell’art. 111, Cost., è finalizzato ad assicurare che gli strumenti procedurali vigenti pongano accusa e difesa in una posizione di parità e offrano idonea tutela ai diritti sostanziali su cui si controverte nel processo, attraverso la piena attuazione del principio del contraddittorio, del principio di ragionevole durata del procedimento, della motivazione della decisione. Anche in tal caso si tratta di garanzie di carattere esclusivamente processuale. Gli stessi principî di effettività del diritto di difesa e del giusto processo sono espressi anche nella «Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali» con esclusivo riferimento al piano processuale.”
[39] Cfr.Corte cost.n.238/2014: “Fin dalla sentenza n. 98 del 1965 in materia comunitaria, questa Corte affermò che il diritto alla tutela giurisdizionale «è tra quelli inviolabili dell’uomo, che la Costituzione garantisce all’art. 2, come si arguisce anche dalla considerazione che se ne è fatta nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (punto 2. del Considerato in diritto). In una meno remota occasione, questa Corte non ha esitato ad ascrivere il diritto alla tutela giurisdizionale «tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio» (sentenze n. 18 del 1982, nonché n. 82 del 1996). D’altra parte, in una prospettiva di effettività della tutela dei diritti inviolabili, questa Corte ha anche osservato che «al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi ad un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale»: pertanto, «l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti (…) è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili e caratterizzanti lo stato democratico di diritto» (sentenza n. 26 del 1999, nonché n. 120 del 2014, n. 386 del 2004 e n. 29 del 2003). Né è contestabile che il diritto al giudice ed a una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti inviolabili è sicuramente tra i grandi principi di civiltà giuridica in ogni sistema democratico del nostro tempo. Nella specie, il giudice rimettente ha non casualmente indicato congiuntamente gli artt. 2 e 24 Cost., inestricabilmente connessi nella valutazione di legittimità costituzionale chiesta a questa Corte. Il primo è la norma sostanziale posta, tra i principi fondamentali della Carta costituzionale, a presidio dell’inviolabilità dei diritti fondamentali della persona, tra i quali, nella specie conferente a titolo primario, la dignità. Il secondo è anch’esso a presidio della dignità della persona, tutelando il suo diritto ad accedere alla giustizia per far valere il proprio diritto inviolabile.”
[40] V. tra le tante riflessioni sulla decisione, che pure ha condotto la Consulta ad opporre i "controlimiti" all'ingresso della norma internazionale consuetudinaria in materia di immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile in caso di lesione del valore della dignità della persona, fino a qualificare come "inesistente" la norma interna di adattamento automatico, A. Ruggeri, La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014), in Consultaonline, Studi, 2014; id., Conflitti tra norme internazionali consuetudinarie e Costituzione, atto secondo: quali i possibili “seguiti” della 238 del 2014? ib., Studi, 2015/I. Per una completa bibliografia sulla sentenza v. i commenti (ben 42) riportati in link sulla pagina di Consultaonline che ospita la sentenza n.238/2014.
[41] L. Brunetti, Ancora sulla insindacabilità degli atti politici ministeriali. Può davvero una legge costituzionale permettere la violazione dei diritti fondamentali?, cit.; A. Morelli, Cosa rischia Salvini? Cosa rischia il Paese?, in www.lacostituzione.info, 25 agosto 2018. A. Spataro, L’immigrazione tra sicurezza e diritti, spec.par.6, di imminente pubblicazione su in I diritti dell’uomo. Cronache e battaglie.
[42] Cfr. Il ricorso della Procura di Agrigento. E’ possibile ritenere scriminata l’azione della Capitana Rakete ?, in https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/713-e-possibile-ritenere-scriminata-l-azione-della-capitana-rakete
[43] L. Masera, Il caso della capitana Rackete e l’illegittimità della politica governativa dei porti chiusi per le ONG, in https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/703-il-caso-della-capitana-rackete-e-l-illegittimita-della-politica-governativa-dei-porti-chiusi-per-le-ong-2; G. Spangher, SEA WATCH 3: Rimangono forti dubbi, in https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/712-sea-watch-3-rimangono-forti-dubbi-di-giorgio-spangher. Cfr., altresì, Il ricorso della Procura di Agrigento. E’ possibile ritenere scriminata l’azione della Capitana Rakete?, in https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/713-e-possibile-ritenere-scriminata-l-azione-della-capitana-rakete.
[44] R. Bin, Ancora sul caso Diciotti: ma qualcuno ha lettociò che ha scritto il Tribunale dei ministri?, ivi, 13 febbraio 2019, p. 2. V. sul punto anche L. Brunetti, Ancora sulla insindacabilità degli atti politici ministeriali. Può davvero una legge costituzionale permettere la violazione dei diritti fondamentali?, in http://www.astrid-online.it/static/upload/brun/brunetti.pdf.; id., L'atto politico ministeriale come attopotenzialmente «esente da giurisdizione» (quand'anche astrattamente reato), in Forum di Quaderni costituzionali, 30 gennaio 2019. Del resto, ricorda puntualmente L. Carlassarre, L'atto politico fra “qualificazione” e “scelta”: i parametri costituzionali, in Giur. Cost., 2016,2, 554, “…Se gli atti politici fossero realmente «sempre e tutti insindacabili, si porrebbero come degli autentici limiti all'esercizio delle situazioni soggettive attive anche se garantite dalla Costituzione» diceva Paolo Barile ( P. Barile, Atto di governo (e atto politico), in Enc. dir., vol. IV, Milano 1959, 220 ss.
[45] R. Bin, Postilla, in Processare Salvini equivale a processare il Governo? In www.lacostituzione.info, 30 gennaio 2019.
[46] La letteratura sul punto è notevole. V., fra gli altri, ultimente, F.F. Pagano, Gli atti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico nella più recente giurisprudenza tra separazione dei poteri e bilanciamenti costituzionali, in Dir. pubbl., 2013, 885.
[47] Cass.S.U. 12 luglio 1968 n.2452, in Foro amm.,1969,I,39.
[48] v. Cass. S.U., 2 marzo 1964 n. 467, in Giust.civ.,1964,I,971; Cass. S.U. 13 maggio 1963 n. 1178, in Giust.civ.,1963, I, 1533; Cass.S.U. 17 ottobre 1955 n. 3223, in Foro it.,1955,1296.
[49] V. R. G. Conti, Il giudice disobbediente nel terzo millennio, Conclusioni, in Le Interviste di Giustizia Insieme a D. Galliani, V. Militello e G. Silvestri, a cura di R.G. Conti.
[50] Si rinvia, ancora, alle riflessioni espresse da G. Silvestri in Il giudice disobbediente nel terzo millennio, interviste a D. Galliani, V. Militello e G. Silvestri, a cura di R.G. Conti, in www.giustiziainsieme.it. V. anche sul medesimo sito, le interviste rese da G. Canzio, E. Lupo, G. Luccioli e R. Rordorf sul tema Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, sempre a cura di R. G. Conti.
[51] F. Ippolito, Il ruolo del diritto e l’impegno dei magistrati, Considerazioni conclusive, in Speciale Questione giustizia, Terrorismo interazionale. Politiche della sicurezza. Diritti fondamentali, 2016.
[52] Sul punto, a più riprese, A. Ruggeri, da ultimo nella intervista su Giudice o giudici nell’Italia postmoderna, a cura di R.G. Conti, in www.giustiziainsieme.it, 10 aprile 2019.
Nota a Cass. pen., Sez. III, 3 agosto 2019, n. 1854 di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premesse. – 2. I principali snodi argomentativi della sentenza. – 3. Cenni sul fatto e sul tema dell’errore scusabile. – 4. La rilevata non fondatezza della q.l.c. alla luce della sent. Corte cost. n. 63/2016. – 5. Alcuni profili di criticità ancora aperti.
1. Premesse
La sentenza della Cassazione penale che qui si annota tocca profili molto delicati non solo per il penalista, ma anche per il cultore del diritto pubblico tout court. Non è un caso che uno degli elaborati di diritto amministrativo (non estratto) al penultimo concorso in magistratura vertesse proprio su tali tematiche.
La questione verrà brevemente trattata da chi scrive cercando proprio di evocare tali più ampie prospettive.
In questo senso essa sembra connessa a uno scenario più generale in cui nel riparto di competenze Stato/Regioni ex art. 117 Cost. si gioca una partita decisiva con riferimento al modo di inquadrare le politiche pubbliche in materia di immigrazione e sicurezza. Ciò in quanto, come vedremo, la questione esaminata dal giudice penale sottende strettamente il complesso scenario dell’integrazione, sociale culturale e religiosa, che si vive quotidianamente nelle nostre metropoli (e non solo), specie se entrano in gioco questioni legate alla pratica della religione islamica.
Si pensi al tema della cd. sicurezza urbana. Qui la Consulta ha giocato un ruolo decisivo nell’ammettere l’intervento statale, di fatto sdoganando un discutibile concetto di sicurezza urbana come “sicurezza pubblica minore” (Corte cost., n. 196/2009) e finendo per esautorare molte competenze regionali in materia (dal governo del territorio alla lotta al disagio sociale)[1].
D’altra parte si sono verificati anche fenomeni eguali e contrari. Si pensi a certe leggi regionali (della Lombardia, del Veneto, della Liguria) che hanno cercato di territorializzare questioni legate al tema della legittima difesa, prevedendo fondi per garantire le spese di patrocinio legale di coloro che sono accusati di eccesso colposo di legittima difesa. Qui la Corte ha invece escluso la competenza regionale, poiché tali normative intervengono sulla disciplina del patrocinio penale e del diritto di difesa, incidendo di conseguenza su di un ambito materiale riservato dall’art. 117, co. 2, lett. l) Cost. alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (Corte cost., n. 81/2017).
Venendo al tema oggetto della presente nota, la questione è da declinare partendo da un assunto: negli ultimi anni la “leva urbanistica” ha avuto il compito di gestire la pianificazione sul territorio dell’edilizia di culto[2]. Anche in dottrina si ritiene che l’edilizia di culto, connessa alla tutela del diritto costituzionale alla disponibilità di un edificio come luogo di preghiera e aggregazione sociale, costituisca una dimensione ulteriore del governo del territorio[3].
Emblematica proprio la legge regionale lombarda n. 12 del 2005, in quanto il fatto per il quale vi è stata condanna (mutamento di destinazione d’uso con opere edilizie per la creazione di un luogo di culto senza permesso di costruire, in locali originariamente destinati a magazzino) è avvenuto a Milano, nei locali della Bangladesh Cultural and Welfare Association. In questa legge si poneva una radicale separazione tra confessioni, stabilendosi il principio secondo cui le disposizioni del capo III si applicavano sì alle confessioni religiose diverse dalla Chiesa Cattolica, a condizione tuttavia che queste possedessero il triplice presupposto dell’essere qualificate come tali in base a criteri desumibili dall’ordinamento, caratterizzate da una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito comunale e dotate di statuti che ne esprimano le finalità religiose (art. 70, co. 2). Con la successiva legge regionale n. 2 del 2015 si assiste a un nuovo, più sostanzioso, corpo di modifiche caratterizzato dalla volontà di estendere ulteriormente le potenzialità della scelta del legislatore del 2005 di ricorrere alla leva urbanistica per gestire il fenomeno della edilizia di culto.
Su tale modifica è intervenuta la Corte cost., con sentenza n. 63/2016, contenente per un verso importanti principi sul piano della libertà religiosa, per altro verso non intaccando in modo radicale l’assetto della legislazione regionale, in nome probabilmente di una recente volontà di individuare precisi limiti alla libertà religiose (v. anche Corte cost. n. 52/2016, su cui si tornerà infra), ascrivibile al clima terroristico che stiamo vivendo.
Da qui bisogna partire per inquadrare la questione che ha impegnato i giudici penali, che non a caso richiamano proprio Corte cost. n. 63/2016, e dalla consapevolezza che in dottrina è piuttosto pacifica l’idea del diritto costituzionale ad un bene immobile come presupposto fisico del diritto costituzionale di libertà religiosa (art. 19 Cost.). In questo quadro, peraltro, la stessa Corte Edu ha accertato la violazione dell’art. 9 Cedu nella condanna a pena detentiva e nella sanzione della chiusura di un locale, inflitte per l’utilizzazione come luogo di culto, in assenza di una autorizzazione ministeriale (Corte Edu, Sez. I, 29 settembre 1996, Manoussakis e altri c. Grecia).
Nella nostra vicenda, come si dirà subito appresso, entra pure in gioco soprattutto quest’ultimo aspetto, che ha portato alla sentenza della Corte Edu: il “corno” edilizio della questione, insomma, che evoca il problema dei mutamenti di destinazione d’uso.
Sotto questo punto di vista la legge regionale n. 12 del 2005, art. 52, comma 3-bis, ha previsto che i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza opere, finalizzati alla creazione di luoghi di culto, sono assoggettati a permesso di costruire.
Inquadrata la vicenda in questo scenario più ampio, siamo in grado a questo punto di scendere all’esame più specifico della pronuncia annotata.
2. I principali snodi argomentativi della sentenza
La sentenza n. 1854/2019 della Cassazione si dipana attraverso i seguenti passaggi argomentativi: i) il sig. P. ha effettuato un mutamento di destinazione d’uso al fine della creazione di un luogo di culto; esso da un lato è stato adibito ad una funzione diversa, come si evince dalla presenza di 400 persone al momento di un sopralluogo, dall’altro è stato anche oggetto di esecuzione di opere, consistenti nel dividere gli spazi per riservarne una parte alle donne, nella costruzione di nuovi servizi igienici, nella zona di abluzione dei piedi; ii) questa valutazione “in fatto” viene ripresa nella parte relativa alla valutazione della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., esclusa proprio perché vi sarebbe stato un aggravio del carico urbanistico a causa dei lavori fatti; iii) viene esclusa poi la sussistenza dell’errore incolpevole sulla base del seguente argomento, ricorrente nella giurisprudenza penale: la difficoltà nel determinare il significato univoco della disposizione normativa, anche a causa di dissidi giurisprudenziali, avrebbe dovuto spingere l’imputato a non agire piuttosto che ad eseguire comunque i lavori; iv) viene quindi ritenuta infondata la q.l.c. della legge regionale lombarda sulla scorta di richiami alla giurisprudenza costituzionale (sentt. nn. 52 e 63 del 2016) e (nonostante) Corte Edu sul punto; v) sotto questo aspetto un ruolo centrale, nell’interpretazione adeguatrice della normativa regionale, assume il test di proporzionalità e il “rinvio” al giudice amministrativo dell’opera di bilanciamento di interessi (libertà religiosa vs ordine e sicurezza pubblica, ordinato assetto del territorio, etc.).
Ragionare sugli ultimi aspetti è evidentemente molto importante. E qui, forse, il cultore del diritto amministrativo può dare un, seppur minimo, contributo anche al penalista.
La via estemporanea del mutamento ex post di destinazione d’uso, infatti, quale improprio strumento di attuazione del diritto costituzionale ad un edificio di culto, appare angusta e incerta, essendo a monte impedita o limitata da scelte legislative e di piano. In quest’ottica il bisogno insito nel diritto costituzionale a un edificio di culto finisce per trovare sfogo nella fattualità di luoghi occasionali (capannoni industriali, garage, scantinati, etc.) in assenza di titolo e di legittimazione per il mutamento[4], ed è quotidianamente esposto a poteri amministrativi sanzionatori o – come è avvenuto nel nostro caso – ad incorrere nella fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 44, co. 1, T.U. edilizia.
In questo senso non appare un fuor d’opera mantenere qualche dubbio sulla legislazione regionale che si colloca a monte della sua appendice penalistica, nonostante le sentenze della Consulta del 2016.
3. Cenni sul fatto e sul tema dell’errore scusabile
Per le ragioni appena indicate vorrei soffermarmi, da amministrativista, soprattutto sui punti iv) e iv).
Non che i precedenti punti siano privi di rilievo. Solo che riguardano essenzialmente accertamenti di fatto sui quali ho poco da aggiungere. Anche la giurisprudenza amministrativa richiamata appare piuttosto piana, nella parte in cui ritiene che di “uso incompatibile” possa parlarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera non sia riservato ai soli membri dell’associazione, ma “indiscriminato”. In tal senso esso dovrebbe alterare, anche senza opere, la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa. Tanto si è ritenuto accadere nella nostra vicenda, con valutazione di merito resa dalla Corte d’appello ritenuta non passibile di alcuna censura.
Piuttosto, colpisce la sensibilità del cultore del diritto amministrativo l’idea di ritenere ostativi rispetto alla configurabilità di un errore incolpevole eventuali contrasti giurisprudenziali. In effetti tale assunto è ricorrente nella giurisprudenza penale, ad esempio è stato ribadito in materia di illegale coltivazione di marijuana[5]. Peraltro, proprio in tema di reati edilizi, la giurisprudenza penale è piuttosto rigida nel ritenere non ricorrente la buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale[6], quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in conseguenza di un'erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di consultare il competente ufficio, formando il suo convincimento personale sull'insussistenza dell'obbligo di munirsi di apposito titolo abilitativo sulla base di un provvedimento della p.a. riguardante un diverso manufatto rispetto a quello abusivamente realizzato[7]. Senza parlare, perché qui non direttamente rilevante, del tradizionale rigore (teoricamente poco giustificato)[8] della giurisprudenza penale in tema di disapplicazione in malam partem ai fini della configurabilità del reato di costruzione senza permesso di costruire.
E tuttavia lascia stupiti questa attenuazione della portata della fondamentale sentenza della Consulta del 1988, peraltro in una temperie storico-culturale propensa ad accrescere, per esigenze di certezza del diritto, il peso nomofilattico delle Corti Supreme, non soltanto civile (art. 374 c.p.c.) amministrativa (art. 99 c.p.a.) e contabile (art. 11 d.lgs. n. 174/2016), ma ora anche penale (art. 618 c.p.p., dopo la legge n. 103/2017)[9].
Insomma negli ultimi anni la rilevanza penale di alcune fattispecie ha fatto sì che alcune garanzie di quel settore fossero estese anche al procedimento e al processo amministrativo. Si pensi alla materia sanzionatoria, ed alla rilevanza in tal senso della giurisprudenza della Corte Edu sulla nozione di sanzione “sostanzialmente” penale[10]. Qui invece assistiamo ad una situazione inversa, nella quale la rilevanza dell’errore scusabile è maggiore nel settore amministrativistico rispetto a quello penalistico. Faccio solo due esempi: la rilevanza dell’errore scusabile quanto al termine per la proposizione del ricorso (anche ai sensi dell’art. 37 c.p.a.)[11] ovvero per escludere la responsabilità della p.a., appunto ove il provvedimento sia stato adottato in una situazione di contrasto giurisprudenziale, di quadro normativo incerto, di situazione di fatto complessa[12].
Il particolare rilievo dell’interesse pubblico (che per il giudice penale diviene “il bene” protetto) dall’art. 9 Cost. non può giustificare indebite sostituzioni nei confronti dell’amministrazione e forzature del principio di legalità/tipicità di cui all’art. 25 Cost., né interpretazioni restrittive, in tema di elemento soggettivo del reato, della sentenza n. 364/1988[13]. La quale, come noto, qualificava l’ignoranza inevitabile della legge penale ricorrendo anche al criterio oggettivo del grave contrasto interpretativo giurisprudenziale.
Ma, ripeto, tale discorso ci porterebbe da tutt’altra parte, nella rivalutazione dell’approccio del giudice penale sulla pubblica amministrativo e sul provvedimento amministrativo.
Non è questa la sede per compiere tale impegnativa, ma sicuramente affascinante e sempre più urgente, operazione ricostruttiva[14].
4. La rilevata non fondatezza della q.l.c. alla luce della sentenza Corte cost. n. 63/2016
Veniamo quindi ai profili sui quali vorrei con più attenzione soffermarmi.
Come accennato in precedenza, la Cassazione si pone il problema se sollevare q.l.c. della normativa lombarda rilevante nel caso di specie.
Prima di arrivare a escludere ciò premette che il libero esercizio del culto costituisce un aspetto essenziale della libertà di religione, da riconoscersi a tutte le confessioni religiose a prescindere dalla stipulazione di un’intesa con lo Stato. L’intesa, infatti, non può rappresentare un fattore di discriminazione nell’applicazione della disciplina volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini costituzionalmente garantito[15].
Viene pure richiamato Association de solidarité avec les temoins de jehovah e altri c. Turchia, recente caso in cui una legge nazionale sulla pianificazione urbana vietava l’apertura di luoghi di culto in spazi non destinati a tale scopo, prevedendo particolari condizioni per la costruzione di edifici di culto. Anche in questo caso la Corte di Strasburgo ha ritenuto che, sebbene gli Stati dispongano sul punto di un ampio margine di apprezzamento, i tribunali nazionali non avevano adeguatamente valutato la proporzionalità dell’inferenza sulla libertà religiosa, così violando l’art. 9 Cost.
D’altra parte sul punto la sent. del 2016 della Corte costituzionale non costituisce un inedito assoluto. Anzi. Proprio in tema di edilizia di culto la Corte ha ritenuto in passato illegittime leggi regionali tese a privilegiare i bisogni religiosi di spazi urbani della maggioranza o di confessioni fortemente radicate o a fortiori il cui peso sia provato dalla stipulazione di un’intesa ex art. 8, co. 3, Cost.[16]
Nulla questio, in tal senso, sul richiamo adesivo che Cass. pen. fa alla sent. n. 63/2016 della Consulta nella parte in cui essa rileva che: «il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione ed è pertanto riconosciuto a tutti e a tutte le confessioni a prescindere dalla stipulazione di una intesa, 2) il legislatore non può operare discriminazioni tra confessione in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato ex art. 8, comma 3, 3) l’apertura di luoghi di culto ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., 4) la condizione di minoranza di alcune confessioni non può giustificare un minor livello di protezione della loro libertà religiosa (anche se ciò non vuol dire che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili)».
Sulla base di queste premesse la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune disposizioni, come ad esempio la scelta del legislatore lombardo di prevedere un regime diverso per la Chiesa cattolica e le confessioni religiose con intesa, da una parte, e le confessioni religiose senza intesa, dall’altra, dove per le seconde erano richiesti ulteriori e specifici requisiti; la richiesta di un vaglio consultivo di una apposita consulta regionale, da nominarsi da parte della Giunta regionale e non ancora nominata dopo più di un anno dall’entrata in vigore della legge; la previsione secondo cui nel procedimento teso alla approvazione del piano per le attrezzature religiose fosse eseguita specifica istruttoria sui possibili problemi di ordine pubblico. In questi casi ha ritenuto violato il principio di eguaglianza nella libertà religiosa e di culto, ovvero ha ritenuto invasa la competenza statale in materia di ordine e sicurezza pubblica (art. 117, co. 2, lett. h).
D’altra parte la Corte ha poi emanato due decisioni interpretative di rigetto dichiarando la questione non fondata “nei sensi di cui in motivazione”: la convenzione prevista dall’art. 70, comma 2-ter, con possibilità di revoca, non è infatti incostituzionale a patto che nello svolgimento dell’azione amministrativa essa rimanga ispirata alla finalità di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati e la revoca sia prevista come rimedio estremo da attuarsi in assenza di alternative meno severe e meno pregiudizievoli per la libertà di culto (rinviando poi al contenzioso amministrativo nei casi di cattiva ponderazione nell’uso di questo potere); così come non è incostituzionale il riferimento alla “congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo” di cui all’art. 72, comma 7, lett. g), se letto, assieme alla
restante parte della disposizione, come una norma che esige che “nel valutare la conformità paesaggistica degli edifici di culto, si debba avere riguardo, non a considerazioni estetiche soggettive, occasionali ed estemporanee, come tali suscettibili di applicazioni arbitrarie e discriminatorie, bensì
alle indicazioni predeterminate dalle pertinenti previsioni del piano territoriale regionale” (rinviando anche qui eventualmente al sindacato sul cattivo uso della discrezionalità dinanzi al giudice amministrativo).
5. Alcuni profili di criticità ancora aperti
Per concludere vorrei segnalare alcuni profili di potenziale criticità di tale pronuncia della Consulta del 2016[17]. Come detto, infatti, il giudice penale, al netto della ricostruzione del fatto e delle affermazioni sull’errore scusabile, si è trovato ad esaminare il “corno” edilizio della vicenda: l’appendice fattuale, lo sfogo occasionale, di una questione più problematica che si colloca a monte, e che merita tre rilievi conclusivi.
i) i distinguo fatti dalla Consulta nel 2016, con la sentenza n. 63, fanno emergere una particolare attenzione sui limiti della libertà religiosa, a fronte del difficile contesto terroristico che viviamo. Si pensi alla dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni della legge regionale lombarda relative alla sicurezza e all’ordine pubblico: in esse non si esclude che tali interventi possano essere legittimi se presi dallo Stato che ha competenza esclusiva in materia, anzi tra gli interessi costituzionali che possono essere invocati per modulare (in stretta proporzionalità) la libertà religiosa vengono invocati proprio ordine pubblico e sicurezza, nozioni alquanto lasche e vaghe, molto delicate da maneggiare a fronte delle libertà tutelate in Costituzione, anche di quella religiosa.
Non è un caso che la coeva sentenza n. 52/2016, nell’ammettere la natura politica dell’atto volto a negare l’avvio delle trattative del Governo con l’Unione degli Atei Agnostici Razionalisti, al netto del ribaltamento della precedente giurisprudenza sul punto del giudice amministrativo, delle Sezioni Unite e della stessa Consulta[18], da alcuni sia stata letta come un atto di “politica giurisprudenziale” per prevenire avvii di intese ben più delicate per il Governo, come quella con la chiesa sunnita[19].
ii) è inoltre previsto un temperamento delle esigenze egualitarie, nella parte in cui si fa notare che le risorse sono finite (siano essi contributi economici siano parti di suolo). Orbene il punto è che a fronte di minoranze l’art. 3, co. 2, Cost. implica proprio trattamenti di favore finalizzati a rimuovere ostacoli di tipo economico e sociale e la condizione delle minoranze religiose in relazione all’edilizia di culto secondo molti integrerebbe una di quelle situazioni di svantaggio da rimuovere.
iii) si nota una certa tendenza a rinviare alle scelte amministrative e alla giurisdizione amministrativa – con l’utilizzo della sentenza interpretativa di rigetto – la concretizzazione di disposizioni che possono essere foriere di discriminazioni confidando in sviluppi positivi in quelle sedi. Ora, se sul piano della teoria generale delle situazioni giuridiche soggettive è forse corretto parlare del diritto costituzionale ad un bene immobile destinato al culto come interesse legittimo costituzionale plurisoggettivo, nel senso che l’esercizio discrezionale del potere pianificatorio non viene meno dinanzi all’art. 19 Cost., pur dovendo essere conforme al suo contenuto minimo essenziale[20], il problema è più complesso quando entra in gioco quella che dovrebbe essere l’extrema ratio rappresentata dal diritto penale.
La vicenda qui commentata conferma che la logica della proporzionalità, se può andar bene nei rapporti fra legislazione regionale – amministrazione – giudice amministrativo, appare forse inadeguata quando una legislazione troppo spesso ideologicamente connotata costringe il bisogno insito nel diritto costituzionale a un edificio di culto a trovare sfogo nella fattualità di luoghi occasionali (capannoni industriali, garage, scantinati, etc.) in assenza di titolo e di legittimazione. Il reato è integrato, ma il problema che lo determina a monte, che si dipana lungo l’asse legislazione-giudice costituzionale e amministrazione-giudice amministrativo, rimane. Ed è piuttosto delicato, impattando direttamente sulla libertà religiosa nelle nostre società multiculturali.
[1] Sul tema sia consentito il rinvio a G. Tropea, Sicurezza e sussidiarietà, Napoli, 2010.
[2] L. Spallino, Edifici di culto: la disciplina urbanistica lombarda dopo l’intervento della Corte costituzionale, Urb. app., 2016, 770.
[3] N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, in Federalismi.it, n. 24/2015, 16.
[4] N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, cit., 39.
[5] Cass. pen., Sez. IV, n. 33176/2012.
[6] Corte Cost. n. 364/1988.
[7] Cass. pen., Sez. III, n. 10797/2018.
[8] Per tutti v. R. Villata, Un problema non ancora (o, forse meglio, erroneamente) risolto dalla giurisprudenza della Cassazione penale, Dir. proc. amm., 2015, 1152 ss., che sottolinea il “tradimento” dei principi espressi dalle S.U. Borgia da parte dell’orientamento “di moda” fra i giudici penali.
[9] Sia consentito il rinvio, anche per più approfondite indicazioni bibliografiche, a G. Tropea, Diritto alla sicurezza giuridica nel dialogo ‘interno’ ed ‘esterno’ tra corti, Dir. proc. amm., 2018, 1244 ss.
[10] Cfr. M. Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012; F. Goisis, La full jurisdiction nel contesto della giustizia amministrativa: concetto, funzione e nodi irrisolti, Dir. proc. amm., 2015, 546 ss.
[11] Cfr. ad es. TAR Lazio, Roma, 9 gennaio 2019, n. 297.
[12] Cfr. ad es. TAR Sardegna, Sez. II, 24 luglio 2019, n. 668.
[13] Cfr. da ultimo M. Luciani, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in Atti del Convegno di Modanella (Siena), 24-25 maggio 2019, Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, Napoli, 2019, 34, il quale arriva a chiedersi se, viste le condizioni penose in cui versano vasti settori dell’ordinamento, non sia da superare l’opinione di Puchta che escludeva la scusabilità dell’errore “per i giurisperiti”.
[14] Si v. da ultimo G.D. Comporti, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 128 ss.
[15] V. Corte cost. n. 52/2016.
[16] Sentt. nn. 195/1993; 346/2002.
[17] Sul punto v. amplius M. Croce, L’edilizia di culto dopo la sentenza n. 63/2016: esigenze di libertà, ragionevoli limitazioni e riparto di competenze fra Stato e Regioni, Formucostituzionale.it, 3 maggio 2016.
[18] Sent. n. 81/2012.
[19] Sia consentito il rinvio a G. Tropea, Aree di non sindacabilità e principio di giustiziabilità dell’azione amministrativa, Dir. cost., 2018, 129 ss., spec. 148.
[20] Seguendo la convince ricostruzione di N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, cit., 10 e passim.
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