ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il giudizio d'appello senza la prescrizione del reato di Carlo Citterio
Sommario:1. Tre premesse. Prescrizione del reato e ragionevole durata del processo. Obbligatorietà dell’azione penale, risorse e riti (i due codici vigenti), l’appello imbuto del processo penale. – 2. Il giudizio penale d’appello oggi. – 3. Il progetto Bonafede – 4. Punti fermi della “cultura della giurisdizione d’appello”.
Per i reati consumati dopo il primo gennaio 2020 la prescrizione non opera più dopo la sentenza di primo grado, di condanna ma pure di assoluzione. La preoccupazione diffusa è che si allunghino ulteriormente i tempi di trattazione dei processi nei tre gradi di giudizio, con il rischio di molti casi di ‘fine processo mai’. L’animato dibattito in corso sembra sovrapporre, a volte strumentalmente, temi che sono in realtà diversi: la prescrizione del reato come disinteresse dello Stato alla persecuzione del singolo fatto, la durata ragionevole che la Costituzione impone al legislatore di assicurare per ogni processo. Sono preannunciati alcuni interventi normativi per assicurarla. Finora l’ “imbuto” nel singolo procedimento è stato costituito dal giudizio di appello, grado di maggior morìa dei reati, una volta che l’azione penale sia stata esercitata. L’articolo propone, sulla base dell’esperienza quotidiana di giudice dell’impugnazione, spunti di riflessione sulle ragioni, passate ed attuali, di tale ‘effetto-imbuto’, sulle prospettive che gli interventi concretamente prospettati dall’Esecutivo consentono di intravedere e sulla loro adeguatezza allo scopo dichiarato, su altri possibili interventi, nell’intento di sollecitare l’indispensabile attenzione sulle problematiche odierne del giudizio penale di appello e nella convinzione che esso costituisca tutt’oggi un momento essenziale, e irrinunciabile, di garanzia del ‘giusto processo’, ma necessiti di un equilibrato e tuttavia indilazionabile efficace e responsabile intervento perché davvero ogni processo senza prescrizione del reato possa avere quella ‘ragionevole durata’ che la Costituzione impone.
1.Tre premesse. Prescrizione del reato e ragionevole durata del processo. Obbligatorietà dell’azione penale, risorse e riti (i due codici vigenti), l’appello imbuto del processo penale.
Ogni dibattito ‘politico’ sulla disciplina della prescrizione soffre di una sovrapposizione tecnicamente del tutto scorretta, quella tra la manifestazione dell’attualità dell’interesse dello Stato alla persecuzione di un reato commesso da una certa persona in un determinato giorno e la necessità che il processo abbia comunque una ragionevole durata (ora assunta a principio costituzionale con l’art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost.: si noti che il principio impone al legislatore di assicurare la ragionevole durata di ogni processo).
Ciò spiega la strumentalizzazione e rende palesi talune ipocrisie che caratterizzano, troppo spesso, il dibattito e gli interventi normativi, l’una e le altre saldandosi nell’evitare con cura ogni approccio sistematico in cui collocare le contingenti affermazioni. Del resto, si sa: ogni sistematicità presuppone un complesso di idee e scelte coordinate e consapevoli, delle quali occorre assumersi la responsabilità…
Dalla cd ex-Cirielli (la legge n. 251 del 2005 che significativamente reca una paternità rinnegata dal primo presentatore dell’originaria proposta) all’attuale nuovo art. 159, secondo comma, cod. pen. (come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. E, legge n. 3/2019, entrato in vigore il 01/01/2020, secondo la previsione del medesimo art. 1, comma 2) si è assistito al passaggio da un sistema per fasce temporali (quello che caratterizzava il testo originario dell’art. 157 cod. pen.) ad un sistema che privilegiava la pena edittale del singolo reato (naturalmente dando così significato determinante ad un dato, preesistente, che la saggezza del precedente legislatore tale non aveva ritenuto, scardinando il senso della precedente disciplina per contingenti esigenze processuali di taluno e imponendo i futuri occasionali e asistematici interventi sul massimo di pena per singoli reati al solo fine di contenere gli effetti proprio sui tempi di prescrizione invece che per autonome trasparenti valutazioni di rilevanza sociale e di adeguatezza all’art. 27 della Costituzione).
Ora, si è passati ad un sistema in cui la prescrizione non opera più dopo la sentenza di primo grado (anche di assoluzione: perché l’aspirazione alla sistematicità deve rimanere rigorosamente delusa; quale manifestazione attuale di volontà punitiva può avere una sentenza di assoluzione è domanda destinata ad essere ignorata, perché una risposta sarebbe faticosissima). Scelta, questa ultima, che, con contestuali parole, ha consegnato il tema della ragionevole durata dei processi (nonostante principio appunto oggi costituzionale) ad aerei interventi futuri.
Raccogliendo tra le ipocrisie. Ogni reato in materia di stupefacenti riconducibile all’art. 73, comma 1, dPR n. 309/1990 prevede(va) la prescrizione dopo venticinque (25) anni; ma anche la ricettazione di una bicicletta (art. 648, comma 2, cod. pen.) commessa dal recidivo reiterato specifico (con applicazione di recidiva spesso non oggetto di specifico motivo d’appello: ma questo è un altro tema su cui tornare) si prescrive in ventidue (22) anni due mesi venti giorni. Dove, già adesso, la ragionevole durata, in relazione alle alate parole sul cambiamento delle persone nel tempo, ecc.? I maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) si prescrivono ora in diciassette (17) anni e sei mesi (legge n. 69/2019; prima in 15; in entrambi i casi se con doppia condanna con l’aggiunta di possibili altri tre anni di sospensione), ma una risposta eventualmente sanzionatoria che in tale delicata materia intervenga dopo quel tempo che ‘efficacia’ specifica ottiene sulla situazione ‘familiare’? (certo, l’art. 132-bis disp. att. cod. proc. pen. prevede la trattazione prioritaria per tali reati: a ben vedere, proprio ciò da un lato segnala e conferma l’autonomia dei temi della prescrizione del reato e della durata ragionevole del processo, dall’altro spalanca l’approccio, essenziale, alla grave tematica della possibilità concreta di celebrare in tempi ragionevoli i processi).
I temi della prescrizione e della ragionevole durata del processo inevitabilmente coinvolgono il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.). Tema complesso, qui essendo consentito un solo rilievo: tale principio potenzialmente è l’unico che assicura la parità di trattamento tra i cittadini (art.3) e presuppone necessariamente che il legislatore scelga la sanzione penale per le sole condotte ed i soli eventi che effettivamente la richiedano e, al tempo stesso, assicuri in termini intelligenti ed equilibrati riti di procedimento e processo che ne permettano l’applicazione, previa verifica di un giudizio, provvedendo alle risorse umane e di mezzi necessari perché il giudizio si tratti in tempi ragionevoli.
La problematica della quantità e della qualità delle risorse messe a disposizione della funzione giudiziaria e giurisdizionale è pertanto assolutamente centrale: ipocrisia pura sarebbe infatti la pretesa della Politica istituzionale e dei Partiti (compresi i Movimenti) di tempi ragionevoli per la trattazione dei processi che si concludano tutti con decisione nel merito dell’accusa e non in rito, se quella stessa Politica non fornisse contestualmente risorse umane e materiali e norme processuali intelligenti ed equilibrate per trattare tutti i processi e ciascuno in tempi ragionevoli. Né la strada di ipotizzare responsabilità disciplinari a nastro dei magistrati anticiperebbe di un solo giorno la trattazione dei processi che, alle condizioni date, non si riesce a trattare.
Va detto con franchezza che l’abolizione della rilevanza della prescrizione dopo la sentenza (ma di condanna) in primo grado non può per sé suscitare scandalo. Se si tengono presenti le ricordate autonomie delle due tematiche (prescrizione e ragionevole durata del processo), non vi è dubbio che la sentenza di condanna in primo grado costituisca da un lato la massima possibile affermazione dell’attualità dell’interesse ‘persecutorio’ dello Stato e dall’altro un comunque autorevole, ancorché provvisorio, riconoscimento della sua fondatezza. Sicché il rilievo di parte della dottrina sul fatto della incompatibilità ad attestare disinteresse dello Stato quando il seguito del procedimento è determinato solo dalla legittima (ma non è questo il punto per quanto attiene all’attualità dell’interesse alla persecuzione) e assolutamente discrezionale iniziativa di chi contesta l’affermazione di responsabilità (sono paradossalmente paradigmatici dell’assunto gli appelli che contestino il solo trattamento sanzionatorio, ad esempio) non pare certo inconsistente o strumentale.
Il punto è invece l’altro, quello della ragionevole durata del processo. E qui spiace che la bella e meritoria iniziativa dell’Unione Camere penali con il presidio di voci e pensieri e idee per una settimana in piazza Cavour (iniziativa che forse per la prima volta, come impegno severo e visibilità, ha indicato una forma diversa di presenza associativa critica, rispetto allo stantio rito delle mere astensioni dalle udienze che a nessuno interessa, primi tra tutti legislatore e governo – ché altrimenti le risorse e i riti necessari ci sarebbero da tempo –, e che solo contribuiscono a vanificare ulteriormente gli sforzi di sopravvivenza del sistema), non sia stata accompagnata dall’affermazione netta che è interesse ed obiettivo anche dell’Avvocatura che tutti i processi penali si concludano con sentenze che deliberino sul merito dell’impugnazione, purché resa in tempi ragionevoli, dovendo quindi gli sforzi e le sollecitazioni, comuni, essere indirizzati sul come ottenere quel risultato. Sicché occorrerebbe aver chiaro se per l’Avvocatura la prescrizione del reato è comunque, per l’imputato dichiarato responsabile, una opportunità da tutelare ad ogni costo, in quanto soluzione certo più favorevole di una condanna pur ‘giusta’, ovvero se il tema è quello della costituzionale durata ragionevole dei processi, per il cui perseguimento si può lavorare insieme, con trasparenza, serietà, serenità (ovviamente con l’abbandono di certe posizioni di apparente pura ideologia, pure preoccupanti, anche dell’associazionismo dei magistrati, cui dopo brevemente si accennerà).
Va comunque detto che l’anticipazione della disciplina di irrilevanza della prescrizione a bocce ferme, senza alcun contestuale piano concreto relativo alla dotazione di risorse indispensabili (ed è tristemente significativo, in realtà decisamente allarmante, che i vincitori dell’ultimo concorso in magistratura abbiano problemi di ingresso in servizio per ragioni di copertura finanziaria) e senza che il tema-appello, quello dell’imbuto che rischia di affossare nel caos la riforma (risultato prevedibilmente certo in larga parte del territorio nazionale, ad oggi), trovi nel progetto-Bonafede indicazioni appaganti ed efficaci, ha giustificato la massima preoccupazione dell’Avvocatura e non solo. Che infatti essa sia la panacea dei mali di ingolfamento è pia e superficiale illusione.
La risposta giurisdizionale nel merito passa ovviamente per il giudizio di appello, la cui attivazione è allo stato lasciata all’insindacabile volontà dell’imputato o della parte soccombente (parte pubblica) anche solo per le statuizioni aventi esclusivo rilievo civilistico (responsabile civile e parte civile).
E’ asserzione condivisa che oggi proprio il giudizio d’appello (che normalmente riguarda il 30/40 % delle deliberazioni di primo grado, secondo le statistiche ministeriali) costituisce l’imbuto del processo. Fino ad oggi (con la possibile prescrizione del reato) tale imbuto ha determinato l’estinzione in rito di troppo numerosi processi; per i reati consumati dal 01/01/2020 l’imbuto determinerà sistematiche applicazioni dell’indennizzo previsto dalla cd. legge Pinto (n. 89/2001). L’art. 2, comma 2-sexies, prevede infatti che: “Si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria, nel caso di: a) dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato, limitatamente all'imputato;…”. Dal trascorso primo gennaio, venuta meno la presunzione di insussistenza di pregiudizio per il reato prescritto, ogni processo definito oltre i due anni dall’iscrizione nel registro d’appello potenzialmente darà per sé titolo all’indennizzo. Una ragione probabilmente sufficiente a mantenere gli appelli strumentali, insieme con quella connessa all’interesse contingente a dilazionare l’irrevocabilità di una deliberazione con pena da eseguire o con statuizione pur sospesa ma pregiudicante.
L’asserzione comune dell’appello/imbuto è fondata, con una essenziale precisazione (nella quale ammetto una vena polemica, lavorando nella Corte veneta): l’attribuzione delle pagelle di efficienza delle corti d’appello nei tempi di definizione della sopravvenienza e della pendenza dovrebbe essere, per elementari esigenze di serietà, sempre preceduta dall’indicazione dei dati numerici su sopravvenienze, pendenze, organico dei magistrati e del personale amministrativo addetti al settore penale nei diversi Uffici di corte. Altrimenti si fa solo opera di mistificazione e di copertura delle responsabilità della Politica istituzionale e dei Partiti che dovrebbe provvedere, per solo poi pretendere, e non lo fa.
Oggi infatti esistono due tipologie di Corti: quelle che hanno un organico di personale di magistratura e amministrativo potenzialmente congruo alle sopravvenienze/pendenze e quelle che radicalmente non lo hanno. Le prime applicano il codice, le seconde debbono anche ricorrere ad accorgimenti di formale scorrettezza tuttavia indispensabili per sperare di sopravvivere (per tutti, le sentenze predibattimentali di prescrizione quando non vi è parte civile: ora in realtà indirettamente in parte legittimate da Cass. SU sent. 28954/2017, che ha escluso l’annullamento con rinvio per violazione del contraddittorio).
Gli spazi di intervento organizzativo nelle prime premiano e contribuiscono a risolvere con efficacia i problemi, nelle seconde la sollecitazione alla capacità organizzativa è solo alibi per chi dovrebbe provvedere e non lo fa [il caso di Venezia: la mia Sezione ha pendenti circa 5.500 procedimenti, numerosissimi con parte civile, quindi da sempre destinati comunque a non ‘morire mai’ ed alla trattazione in udienza partecipata, con sopravvenienze sui 1500/1700 all’anno), e siamo sei magistrati: offro disponibilità massima e incuriosita per apprendere argute soluzioni organizzative efficaci a trattare la sopravvenienza nei due anni e contestualmente eliminare la pendenza]. L’irrilevanza sopravvenuta della prescrizione dopo la sentenza di primo grado nelle prime non dovrebbe determinare difficoltà insormontabili (con gli accorgimenti in rito di cui subito si dirà), porterà invece alla paralisi definitiva le seconde con un progressivo irrecuperabile affossamento (e con la conseguente esasperazione della tematica dei criteri di priorità nella trattazione).
2. Il giudizio penale d’appello oggi.
L’errore originario del codice Vassalli (la separazione negli approcci ai giudizi di primo e di secondo grado) sconta oggi tutte le sue pesanti implicazioni, mostrando l’assoluta inadeguatezza della originaria disciplina penale d’appello.
Tra queste. Un solo rito (l’udienza partecipata, camerale o dibattimentale poco importa) per tutti i casi, quindi quali che siano: i motivi d’appello, il titolo di reato, l’entità della pena, il rito con cui si è proceduto in primo grado.
E’ l’esperienza di udienza che attesta essere ormai solo anacronistico e vuoto formalismo la enunciazione di un’assoluta generale esigenza strutturale di applicare sempre l’anche solo potenziale diritto al contraddittorio orale ed al controllo del popolo sull’amministrazione della giurisdizione d’appello. Quell’esperienza che il legislatore, e la stessa Accademia, dovrebbe tener presente per una verifica dell’adeguatezza delle soluzioni immaginate e proposte. Sono infatti i numerosi fax che per ogni udienza pervengono dai difensori (di fiducia e d’ufficio) con richiesta di sostituzioni ex art. 97, comma 4, cod. proc. pen., ovvero le conclusioni formulate riportandosi seccamente ai motivi d’appello (eventualmente con presentazione della nota spese per l’assistenza in patrocinio a spese dello Stato da parte di un giovane sostituto ex art. 102 per la liquidazione anche della voce di partecipazione all’udienza), che plasticamente attestano che il diritto al contraddittorio orale può essere invece ricondotto serenamente alla categoria dei diritti disponibili (tenuto conto che la cognizione d’appello è limitata ai punti della decisione devoluti da motivi specifici scritti nell’originario atto d’impugnazione), la cui gestione correttamente può essere lasciata al difensore titolare. Né la stessa esperienza quotidiana segnala in genere code di cittadini che premono alle porte delle aule per assistere alle udienze.
Per contro, proprio la sistematica, obbligata, fissazione di tutti i processi d’appello in udienza partecipata per la solo potenziale eventualità di un utile contraddittorio orale [quale lo spazio per la discussione in appello a fronte del carattere rigorosamente devolutivo dell’atto introduttivo scritto? È altro tema su cui tornare] per sé costituisce un elemento determinante per l’ ‘imbuto’. Ecco quindi che la previsione anche di un rito partecipato con solo contraddittorio scritto si impone quale soluzione di equilibrio tra esigenze diritti e principi diversi, tutti tutelati costituzionalmente, lasciando all’esperienza, all’equilibrio ed alla saggezza degli apporti di magistrati, avvocati, accademici, insieme al discernimento del legislatore, la individuazione dei casi, con l’eventuale clausola di salvezza di una seria, discrezionale o meno, richiesta delle parti di trattazione con contradditorio orale.
Altro punto. La riforma Orlando (con il nuovo testo degli artt. 581 e 546, lett. E: legge n. 103 del 23/06/2017), insieme con la sentenza delle SU Galtelli (n.8825/2017, deliberata il 27/10/2016, depositata il 22/02/2017, quindi di poco precedente ma che a quei lavori preparatori poi confermati dal testo definitivo si rapportava), ha inciso in modo efficace per restituire serietà all’atto di impugnazione in appello, valorizzandone il senso strutturale di critica ad una decisione, pur nel contesto della contestuale sollecitazione ad un diverso apprezzamento di merito della deliberazione sul capo o sul punto della decisione ‘specificamente’ devoluto.
In realtà l’accentuazione condivisibile sulla specificità, intrinseca, ma anche estrinseca (il confronto argomentativo con le argomentazioni del giudice ‘impugnato’, cui tuttavia si possono, e debbono, affiancare poi appunto le deduzioni specifiche di merito per sostenere la diversa deliberazione sollecitata), non è sufficiente a selezionare gli appelli palesemente solo strumentali o meramente dilatori. E’ ineludibile porsi il problema dell’estensione al giudizio d’appello dell’istituto della inammissibilità del motivo per manifesta infondatezza, già conosciuto dal rito di legittimità. Sono ovviamente note le critiche di Avvocatura e parte di Accademia all’istituto, per come già opera in Cassazione, con le accuse di genericità della distinzione tra infondatezza e manifesta infondatezza e, anche, di strumentalità del suo uso in termini di interdizione dell’effetto prescrittivo del tempo decorso dopo la deliberazione d’appello. Ma due esempi specifici possono servire per comprendere che in realtà l’esigenza sussiste e, al solito, dall’equilibrio delle soluzioni in esito anche all’apporto delle categorie professionali interessate può giungersi ad esito attento ai diversi valori e appagante. Si pensi appunto al caso in cui in primo grado non siano state chieste le attenuanti generiche, il giudice non abbia ritenuto di applicarle e non abbia spiegato perché (d’altra parte non avendo obbligo di rispondere a una richiesta specifica che non vi era stata); il motivo che sollecitasse la loro applicazione in appello con unico argomento costituito dall’incensuratezza dell’imputato, sarebbe intrinsecamente specifico, non avrebbe problemi di confronto argomentativo con una motivazione che non vi è stata e non doveva necessariamente esserci, ma proporrebbe una richiesta che per come è formulata non può essere accolta perché contraria a specifica previsione normativa; ma davvero in questo caso risponde ad esigenze costituzionalmente tutelate dover fissare udienza per dire, nel contraddittorio orale, che la richiesta non può essere accolta perché vi osta una specifica norma di legge? Oppure si consideri il caso del motivo che sollecita la riduzione della pena quando già in primo grado è stato applicato il minimo edittale: richiesta specifica, ma manifestamente infondata.
Altro punto. Ha senso una generalizzata legittimazione del difensore, specialmente se d’ufficio ma anche se di fiducia, ad appellare nel caso di imputato che non è in concreto a conoscenza della pendenza processuale (ancorché si trovi in una situazione formalmente riconducibile all’ ‘assenza’) e poi dover rifare il processo una volta che la sentenza formalmente irrevocabile è divenuta esecutiva e l’ex-imputato è stato rinvenuto (si rammenti che l’insegnamento di SU sent. 6026/2008 è stato travolto dalla sentenza Corte costituzionale n. 317/2009)? E’ il tema della procura speciale per la proposizione dell’appello, successiva alla deliberazione di primo grado, che dovrebbe pure contenere una specifica rinnovata indicazione del luogo della notifica della fissazione del giudizio d’appello (anche non volendo attivare la soluzione della notifica presso il difensore, soluzione pur diversa dalla generalizzata notificazione presso il difensore di fiducia in ogni stato e grado del procedimento e del processo, posto che la procura speciale per impugnare, rilasciata dopo il primo giudizio, è inequivoco elemento di contatto attuale tra l’imputato, responsabilizzato sul punto, e il difensore, di fiducia o d’ufficio che sia).
Vi è poi il tema, paradossalmente sostanzialmente ignorato dalla dottrina e quantomeno sottovalutato dalla giurisprudenza, anche di legittimità, della sorte dell’azione civile esercitata, ‘accessoriamente’, nel giudizio penale, dopo che l’esercizio dell’azione penale (che, solo, aveva determinato la eccezionale cognizione del giudice penale anche sulla pretesa civilistica) si sia irrevocabilmente definito (reato prescritto; proscioglimento nel merito o in rito non impugnato dalla parte pubblica). La prosecuzione dell’azione (‘accessoria’) civile nella giurisdizione penale d’appello pur quando la ragione dell’attribuzione della cognizione sia venuta irrevocabilmente meno, e con pienezza di contraddittorio orale, è tema che appunto andrebbe efficacemente rivisitato, specialmente in una prospettiva nella quale il venir meno del rilievo della prescrizione imporrà comunque la massima concentrazione degli sforzi per la tempestiva trattazione di ciò che attiene all’interesse ‘penale’ in atto della Collettività [anche su questo tema se sarà consentito si ritornerà in altra sede].
Da ultimo, ma senza pretesa di esaustività, va segnalato il tema del ruolo della parte pubblica nel processo penale d’impugnazione. Sotto due solo apparentemente contrapposti profili.
Da un lato possono ritenersi maturi i tempi per escludere l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento. Lo aveva già fatto il legislatore con la legge n. 46 del 2006: ma in un contesto frettoloso, asistematico (si ricordi che avevano dovuto intervenire le Sezioni Unite per inventarsi una regola che spiegasse cosa era successo dell’impugnazione della parte civile: sentenza n. 27614/2007) e troppo pressato da esigenze personal/politiche contingenti. Ora, consolidatasi la giurisprudenza di legittimità sulle condizioni per un utile passaggio dalla sentenza di proscioglimento a quella di prima condanna in appello e, in particolare, sull’applicazione alla fattispecie del principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (in estrema sintesi, non essendo sufficiente la sola pur possibile e plausibile ricostruzione alternativa, sulla base del medesimo materiale probatorio, ma richiedendosi che la ricostruzione accusatoria d’appello sia l’unica sostenibile in ragione di errori logici/giuridici nel ragionamento probatorio del primo giudice ovvero di pretermissione dell’apprezzamento di prove determinante o della considerazione di prove inesistenti: per tutte, Cass. Sez.2 sent. 17812/2015 e Sez.5 sent. 54300/2017), è proprio il principio di diritto vigente ad indirizzare i presupposti per il ribaltamento della prima sentenza a quelli che sono, sostanzialmente, i casi di ricorso per cassazione previsti dall’art. 606 cod. proc. pen.. Sicché, ora, proprio il ricorso per cassazione risulta, nell’attuale diritto vivente, idoneo a soddisfare le ragioni di impugnazione, anche ‘nel merito’, della parte pubblica (e di quella privata civile…)
Dall’altro, occorre la restituzione alla parte pubblica dell’appello, principale o incidentale, sul trattamento sanzionatorio nei processi con rito dibattimentale. L’esclusione operata a seguito della legge Orlando, che probabilmente mirava ad anticipare un incompiuto complessivo riequilibrio del sistema delle impugnazioni, risulta ancor oggi francamente non giustificata (a differenza di quanto accaduto per il rito abbreviato dove le peculiarità delle rinunce dell’imputato giustificavano, anche secondo la Corte costituzionale, lo ‘squilibrio’), anzi avendo costituito l’inconsapevole presupposto per davvero inaccettabili proposte volte ad attribuire direttamente al giudice d’appello interventi sanzionatori dell’impugnazione temeraria attraverso l’aumento della pena determinata in primo grado per il ‘fastidioso’ appellante (tra breve un cenno sul tema).
3. il progetto Bonafede.
L’ultima bozza, ‘semiclandestina ma ufficiale’, del disegno di legge per le deleghe al Governo per l’efficienza del processo penale per superare l’ imbuto-appello (e quindi giungere alla ragionevole durata del processo in questa fase) prevede: la procura speciale, rilasciata successivamente alla pronuncia della sentenza, perché il difensore (di fiducia o d’ufficio) possa impugnare (parrebbe anche per le sentenze di non luogo a procedere); l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento per reati puniti con sola pena pecuniaria o alternativa, ad eccezione di alcuni reati di lesioni colpose e del reato di cui all’art. 604-bis cod. pen.; l’inappellabilità di sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità; il giudizio monocratico d’appello per i procedimenti a citazione diretta di cui all’art. 550 cod. proc. pen.; in questi casi il rito camerale non partecipato “qualora ne facciano richiesta l’imputato o il suo difensore e non vi sia la necessità di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”; il rito camerale non partecipato nei casi in cui si procede con udienza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 599 del codice di procedura penale, “salvo diversa richiesta della parte e sempre che non sia necessaria la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.
Francamente non sembra che si tratti di proposte ed interventi in grado di restituire al giudizio d’appello, in via generale, quella snellezza ed efficacia in grado di assicurare, in via generale, il rispetto dei due anni nella trattazione di ciascun processo sopravvenuto, invece essenziale dopo la ‘scomparsa’ della prescrizione in appello.
Condivisibile, benvenuta ed efficace la previsione auspicata della procura speciale per l’impugnazione, specialmente se accompagnata dalla ricordata previsione di una rinnovazione delle indicazioni puntuali per le successive notifiche all’imputato, e possibilmente in questo nuovo contesto per suo conto al difensore cui si è conferita la procura speciale.
Sono palliativi su casi statisticamente marginali le previsioni di inappellabilità.
Condivisibile ed auspicato il rito camerale non partecipato nei casi di cui all’art. 599 (ma potrebbero essere previsti termini per memorie rendendolo a contraddittorio scritto, che comunque consegue l’effetto di liberare il sempre più prezioso tempo di udienza di contraddittorio orale).
La previsione di tale rito anche per i processi di citazione diretta ex art. 550 cod. proc. pen. è efficace e condivisibile incidendo su una percentuale significativa di casi, non è condivisibile nel collegamento con la previsione di un giudizio d’appello monocratico, per quanto subito si dirà nel prossimo e ultimo paragrafo.
Tuttavia è ingenua e disarmante la previsione del rito camerale non partecipato quando ne facciano richiesta l’imputato o il difensore. Precedente formulazione chiariva che tale richiesta doveva avvenire nello stesso atto di impugnazione, deve comprendersi se la nuova formulazione superi o rimanga compatibile con quella specificazione. Orbene, subordinare il rito non partecipato (o nuovamente, a contraddittorio solo scritto) alla richiesta della parte privata, tanto più se solo contenuta nell’atto di impugnazione, parrebbe soluzione sorta senza la necessaria esperienza quotidiana di aule d’appello penale. Quale difensore chiederebbe subito il camerale non partecipato, anche per il processo che meno lo interessa, con il rischio di trovarsi un mese dopo la sentenza d’appello che conferma la prima condanna? Se si vuole che lo strumento processuale sia efficace e al tempo stesso rispettoso delle peculiarità dei casi la soluzione dovrebbe essere esattamente opposta: sempre, nei casi previsti, rito non partecipato o a contraddittorio scritto con facoltà di presentare motivi aggiunti o memorie in termini prefissati, fatta salva la rinnovazione istruttoria ovvero la trattazione in pubblica udienza disposta d’ufficio dalla corte e, eventualmente, fatta salva la richiesta di trattazione in udienza a contraddittorio orale da parte del difensore (con conseguenze disciplinari prefissate nel caso di successiva sua assenza in udienza o mero riportarsi ai motivi o comprovata assenza di effettive esigenze di discussione orale).
Il totale silenzio sui processi nei quali l’attivazione provenga dalla parte civile dopo la conclusione irrevocabile dell’esercizio dell’azione penale conferma la grave sottovalutazione del tema, con conseguenze nefaste sulla possibilità di trattare in tempi ragionevoli i processi per i quali vi è in atto un interesse penale specifico, specialmente se dovesse prevalere la discutibile interpretazione dell’applicazione dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. anche alla trattazione dell’appello proposto dalla sola parte civile, con la necessaria sistematica rinnovazione dell’istruttoria per la riassunzione delle prove dichiarative (che la norma, successiva alle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano, specificamente prevede per il solo appello della parte pubblica).
La mancata restituzione alla parte pubblica della legittimazione ad impugnare sul trattamento sanzionatorio nei processi con rito dibattimentale rinuncia a risolvere un disequilibrio di dubbia tenuta costituzionale e soprattutto nuovamente trascura l’unico rimedio sistematicamente corretto nei confronti degli appelli palesemente dilatori, che è l’attivazione della parte pubblica su cui poi il giudice, terzo rispetto alle parti, debba pronunciarsi.
Il silenzio sul conosciuto e dibattuto tema dell’inammissibilità del motivo per manifesta infondatezza conferma la timidezza e la sostanziale non decisività degli interventi proposti. Nonostante l’abolizione della prescrizione dopo la prima sentenza e l’appello-imbuto.
4. Punti fermi della “cultura della giurisdizione d’appello”.
Qualunque modifica al processo del secondo grado di merito deve confrontarsi con, e rispettare, alcuni ‘punti fermi’ della giurisdizione d’appello.
Tre proposte radicali sono state avanzate nel dibattito.
La prima è quella dell’abolizione del giudizio d’appello. E’ soluzione che, significativamente, proviene per lo più da esterni alla giurisdizione e da magistrati che non hanno fatto esperienza concreta del giudizio d’appello. Le polemiche sul vizio dei ‘ritocchini’ e per i tempi del giudizio di secondo grado e la sua funzione sostanzialmente solo dilatoria sono tanto diffuse quanto superficiali. In esse il rischio dell’autoreferenzialità di pubblici ministeri e giudici del primo grado è consistente. E’ pacifico che il giudice d’appello non è per ciò solo più bravo del giudice di primo grado. Anzi, la funzione di appello è forse oggi la sola cui, in realtà, si accede solo per anzianità, a prescindere dalle storie e dalle effettive attitudini professionali individuali. Il che non va. Tuttavia è in sé la funzione d’appello che forma, perché è lavoro che si confronta con il lavoro di tanti magistrati (tutti quelli del distretto), con le diverse impostazioni, con i diversi metodi di motivazione, con le diverse modalità di formulazione dei capi di imputazione, con le diverse soluzioni anche organizzative degli Uffici del distretto; ed è lavoro che si caratterizza per il fatto che una parte si lamenta di qualcosa: sia che si decida che la doglianza è fondata, sia che la si rigetti o la si dichiari inammissibile, ogni giudizio è sperimentazione di come si fa per lavorare bene e perché a volte si lavora meno bene. E l’esperienza quotidiana conferma che la qualità dell’adeguatezza dei giudizi di primo grado presenta percentuali ancora significative di inadeguatezza della deliberazione al caso, il più delle volte per l’evidente pressione del carico di lavoro, altre per un inadeguato contraddittorio di parti non del tutto preparate, altre per qualche occasionale carenza individuale (per lo più nei meccanismi di determinazione del trattamento sanzionatorio). Abolire l’appello come occasione di rivisitazione del merito della prima decisione, nell’ambito di ciò che concretamente e solo viene devoluto, sarebbe allora, oggi, solo una soluzione muscolare ideologica.
L’appello monocratico. E’ una falsa soluzione. Innanzitutto il numero di sentenze dei singoli magistrati rimarrebbe probabilmente il medesimo, perché oggi ciascuno dei componenti dei collegi d’appello scrive, negli uffici dove si lavora, un numero di sentenze oltre il quale solo in via assolutamente eccezionale si può andare, e che lo faccia come componente di collegio o come singolo poco cambia, in termini numerici: perché il lavoro del giudice d’appello è diverso da quello del primo grado, tendenzialmente in appello ogni processo trattato in udienza si conclude subito con una sentenza. Lasciando perdere l’aspetto logistico (non si riescono a fare udienze straordinarie perché, quando vi è generosa disponibilità contingente dei magistrati mancano aule e assistenti di udienza o non vi è personale per predisporre notificare e curare ulteriori decreti di fissazione di udienza e conseguenti tempestivi scarichi), in realtà si dimentica che la legittimazione del giudice d’appello, proprio perché non è per definizione e modalità di selezione ‘più bravo’ del collega del primo grado, si àncora all’esperienza ed alla collegialità, che rappresentano i più adeguati presupposti disponibili per giustificare eventuali modifiche di sentenze di primo grado che, in assenza di impugnazione, diverrebbero irrevocabili e legittima fonte di giudicato eseguibile.
L’abolizione del divieto di riforma in peggio (art. 597, comma 3) ha, sorprendentemente, ricevuto avallo anche dal Comitato Direttivo Centrale dell’ANM. Reputo personalmente tale adesione un momento gravemente negativo e preoccupante nella cd cultura della giurisdizione che la Magistratura sostiene e promuove da sempre: un cedimento alla ‘pancia’.
Dunque, a fronte di un legislatore in ipotesi ignavo che consente anche appelli strumentali o solo dilatori, che non ha il coraggio politico di affrontare il problema (ad esempio confrontandosi con l’estensione al giudizio d’appello della ricordata inammissibilità per manifesta infondatezza del motivo) e che toglie alla parte pubblica il potere di appellare la prima sentenza sul trattamento sanzionatorio pur in esito a rito dibattimentale, dovrebbe essere il giudice d’appello a ‘punire’, d’ufficio, l’appellante per aver egli osato esercitare un diritto processuale che il legislatore, quel legislatore, tuttora gli riconosce con discrezionale ampiezza. Ed a punirlo in assenza di alcun parametro normativo, quindi senza neppure la ‘copertura’ di legge che, sola secondo l’art. 101, comma 2, Cost., lo legittima alla funzione. Insomma, una punizione penale discrezionale e occasionale, esito di un intervento di tipo sovrano più che giurisdizionale. Quindi, un giudice che per definizione agisce con il ruolo funzionale di rispondere a censure specifiche proposte dalle parti, in esito alla propria deliberazione sulla censura si dovrebbe ergere, con assoluta e sovrana discrezionalità, a sanzionare penalmente l’esercizio di un diritto specificamente riconosciuto dal legislatore e il cui esercizio il legislatore non ha inteso modificare.
Pare davvero non possibile immaginare coerente alla Costituzione un giudice, un giudice secondo il titolo IV della seconda parte della nostra Costituzione, che fa il lavoro sporco per conto di un legislatore in ipotesi imbelle, lavoro che la parte pubblica, parte, potrebbe con una propria articolata e opportuna ‘pulita’ richiesta riportare all’alveo della funzione terza propria.
Pare una proposta ‘di pancia’ che, davvero, con la cultura della giurisdizione, necessariamente imperniata sul ruolo di terzietà del giudice rispetto alle parti, avrebbe poco a che fare.
I diritti fondamentali sono diritti di tutti?
Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti[1]
di Rita Russo
Sommario: 1.- Uguaglianza e diritti fondamentali. 2.- I diritti dei migranti, la solidarietà e gli stereotipi. 3.- Il ruolo del giudice e le aree di criticità del processo decisorio: la tipicità delle misure di protezione e l’horror vacui.
1. Uguaglianza e diritti fondamentali.
Il tema dei diritti fondamentali dei «non cittadini» e dei migranti in particolare, trova un suo spazio negli studi della dottrina, che si interroga anche su ciò che cambia nel nostro pensiero e nelle categorie giuridiche a noi familiari quando ci confrontiamo con fenomeni di massa come le migrazioni[2]. E chi opera nella pratica non sfugge a questi interrogativi, resi ancora più pressanti dalla necessità di trovare e mantenere un percorso dritto, nel sovrapporsi di disposizioni normative talora carenti, talora contradditorie, talora apparentemente superflue.
L'art. 3 della Costituzione italiana, nell'enunciare il principio di uguaglianza e di pari dignità sociale, si riferisce invero ai «cittadini»[3]. Sembra qui vedersi una traccia dell’incontro (o dello scontro) tra alcune delle tradizioni giuridico-filosofiche che hanno caratterizzato il dibattito costituente: la concezione universalistica dei diritti, incline a riconoscere un complesso di pretese originarie direttamente alla «persona umana» in quanto tale, di cui è espressione la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, e la concezione stato-centrica dei diritti, incline, invece, a considerare titolari di taluni diritti costituzionali i soli «cittadini».
La dottrina moderna e la stessa Corte Costituzionale avvertono però che i diritti fondamentali devono essere riconosciuti a tutti, incondizionatamente, poiché spettano «ai singoli, non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani»[4]. Se, infatti, si muove dalla premessa del carattere autenticamente fondamentale di alcuni diritti, obbligata è la conseguenza che essi, proprio perché tali, devono essere riconosciuti a tutti, e a tutti nel medesimo modo o grado senza, dunque, distinguere tra parte e parte dei diritti stessi[5].
Questo significa che il principio di uguaglianza sostanziale si applica in eguale misura a cittadini e non cittadini?
Il «non cittadino» infatti, può essere una persona che vive ed è integrata nel tessuto sociale nazionale senza alcuna particolare condizione di svantaggio, ma può essere anche una persona in condizione di speciale vulnerabilità. Per queste persone, il riconoscimento dei diritti fondamentali passa necessariamente attraverso l’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale. Ciò che più conta, infatti, non è l’enunciazione di un diritto, ma la misura in cui esso può farsi valere, una volta che sia astrattamente riconosciuto come tale, e ciò dipende da molti fattori, in specie dal contesto in cui si inscrive[6] .
Se conveniamo che anche per i non cittadini, in quanto persone, lo Stato deve agire per rimuovere gli ostacoli limitativi, dobbiamo però essere consapevoli che l'impegno che si deve spendere per tutelare i diritti dei soggetti vulnerabili, e dei migranti in particolare, potrebbe rivelarsi particolarmente oneroso. Se è alto l'ostacolo, deve essere alto anche il salto, ed è risaputo che le risorse non sono illimitate: questo non significa però che non devono essere investite, semmai, che non devono essere sprecate.
Non possiamo fare differenze di trattamento tra cittadini e non cittadini quando sono in gioco i diritti fondamentali.
La Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 avverte che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo e con questo si rimarca definitivamente la distanza tra gli ordinamenti fondati sui diritti umani e quelli fondati sugli status, questi ultimi sulla falsariga del diritto romano, dove il civis, libero, cittadino e anche maschio – pater familias o idoneo a esserlo- era al vertice della scala sociale: vir ac vere romanus. E' vero che non si trattava di un privilegio, nel senso in cui lo intendiamo oggi; l'essere civis era caratterizzato da incisivi doveri verso gruppi politico-sociali molto più importanti dell’individuo: la familia, la gens, la res publica. Nondimeno, lo status era ciò che faceva la differenza tra individuo e individuo, e talora anche tra soggetto e oggetto di diritto.
Oggi, invece, la dottrina avverte che i diritti fondamentali agiscono quali agenti dissolutori degli status[7] e che l’idea di persona umana, nel suo porsi al centro del disegno costituzionale, porta naturalmente a quest’esito[8].
I diritti fondamentali della persona dunque: diritti che sono inviolabili, nella accezione del termine data dall'art. 2 della Costituzione, e questo significa che essi attraversano le epoche storiche, pur se si storicizzano e positivizzano, caricandosi di valenze diverse da luogo a luogo e nel tempo.
I diritti devono necessariamente storicizzarsi e positivizzarsi: in primo luogo perché, come è stato autorevolmente osservato, occorre fissare degli argini, a presidio dei «veri» diritti fondamentali, avverso la innaturale conversione di certe pretese in diritti costituzionali, dal momento che un uso inflazionistico e dozzinale della categoria finirebbe con il ritorcersi proprio avverso i diritti stessi, con implicazioni negative a largo raggio nei riguardi dell’intero tessuto sociale ed ordinamentale[9].
Inoltre, il diritto fondamentale rappresenta un valore: l'ordinamento lo riconosce e lo tutela in quanto una certa collettività si riconosce in quel valore di cui esso è espressione.
Qui viene in rilievo una questione storicamente assai dibattuta, prima ancora che dai giuristi, dai filosofi, e cioè quale sia il fondamento dei diritti. Il dibattito è assai complesso, ma vale la pena di ricordare che è oggi abbandonata l’idea giusnaturalistica che i diritti si possano considerare giustificati perché dedotti da un dato obiettivo e costante quale la natura umana (che in altre prospettive, ad esempio quella teocratica, può essere sostituito dalla ragione divina), ovvero che costituiscano verità per sé stesse evidenti e cioè valori ultimi; oggi si ritiene invece di giustificare i diritti mostrando che sono poggiati sul consenso e quindi il diritto (e il valore) tanto più è fondato quanto più è acconsentito[10]. Il consenso è cristallizzato nelle Carte dei valori o Carte dei diritti fondamentali: basti qui ricordare la Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, ma senza per questo sminuire l'importanza della nostra Costituzione.
In queste Carte dei valori la persona è definita dal concetto di dignità umana: essa indica la qualità e il valore che appartengono all’individuo in quanto tale. In diverse decisioni della Corte Costituzionale appare il riferimento alla dignità: ad esempio, è stato detto che «le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana»[11].
Di recente, anche la Corte di giustizia dell’UE si è soffermata sul concetto di dignità, con particolare riferimento ai diritti dei migranti ed ha affermato che il divieto imposto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (proibizione di tortura e trattamenti inumani e degradanti) ha carattere generale ed assoluto ed è strettamente legato al rispetto della dignità umana. La Corte rileva che anche nei paesi dell’Unione possono darsi in concreto specifiche carenze sistematiche, generalizzate o che colpiscono gruppi determinati di persone (nella specie i migranti) che raggiungono livelli di gravità tali da integrare trattamento degradante. Ciò in quanto si superi, però, una certa «soglia» di gravità delle carenze[12].
Ed invero, i diritti fondamentali sono inviolabili, ma ciò non significa che non siano soggetti a limiti: la persona, in cui il diritto si immedesima e si concretizza, vive in un contesto sociale e la società moderna è una società pluralistica, con i suoi tipici fenomeni di interessi, bisogni, valori spesso in conflitto tra loro. Si deve allora operare un bilanciamento affinché l'esercizio di un diritto fondamentale non venga a confliggere con altri interessi e diritti di pari rilievo[13].
La Corte Costituzionale ha riconosciuto, ad esempio, la possibilità per il legislatore di introdurre norme limitative dei diritti degli stranieri, volte a regolare i flussi di immigrazione nel territorio dello Stato, purché il bilanciamento operato sia adeguato e ragionevole[14].
Né va trascurata la circostanza che il riconoscimento del diritto ha il suo speculare nell’adempimento del dovere, e che a tutti può chiedersi l'adempimento di doveri inderogabili, qual è quello di solidarietà, non solo sociale, ma anche economica e politica.
La solidarietà appunto: essa è stata definita come «il collante» che unisce e salda tutti i valori[15]. Questa potrebbe essere la risposta all'interrogativo -niente affatto retorico- che sopra si è posto: il principio di uguaglianza sostanziale si applica un eguale misura a cittadini e non cittadini? E se i «non cittadini» sono migranti irregolari?
Il contesto in cui si iscrivono i diritti dei migranti irregolari, è invero particolarmente complesso. La definizione di migrante irregolare non è di per sé indicativa di un centro di interessi definito. E' migrante irregolare colui che entra (o si trattiene) nel territorio dello Stato senza avere un permesso di soggiorno; ma all'interno di questo gruppo di persone genericamente definite dall'azione di varcare irregolarmente il confine dello Stato, possiamo individuare soggetti e centri di interessi diversi. Migrante irregolare può essere – nel momento in cui varca il confine- il rifugiato, la persona in fuga dalla guerra; la persona in cerca di una chance di lavoro e di successo economico; la donna rapita o adescata con promessa di lavoro e costretta alla prostituzione; il bambino rimasto privo dei genitori, deceduti durante il viaggio; il minorenne che, considerato adulto nel contesto di provenienza, è mandato dai parenti a cercar miglior fortuna altrove. Vi sono migranti che hanno diritto a ottenere il permesso di soggiorno nonostante l'ingresso irregolare nello Stato, e migranti che questo diritto non hanno. Il tutto poi è da inquadrarsi nel contesto delle regole comunitarie ed internazionali, degli accordi per la identificazione e redistribuzione dei migranti e delle esigenze di sicurezza e di regolamentazione dei flussi di migrazione economica, in relazione alle capacità del mercato interno di assorbire l'offerta di lavoro.
In questo scenario si muovono gli attori istituzionali: il legislatore, cui sono rimesse scelte discrezionali e politiche che tuttavia non possono eccedere quel margine di apprezzamento, oltre il quale si evidenzia il conflitto con le norme costituzionali o con le norme delle convenzioni e dei trattati internazionali; la dottrina, della cui importanza si è detto; e il giudice, chiamato a dare l’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa -ma anche orientata dalle altre Carte dei valori- e, in alcuni casi, anche a svolgere attività integrativa a fronte delle lacune, vere o apparenti, dell'ordinamento.
2.- I diritti dei migranti, la solidarietà e gli stereotipi
Muovendo quindi dall'idea che la solidarietà è il valore circolare che informa di sé gli altri valori costituzionali e che se non «prendiamo sul serio» la solidarietà[16] non possiamo neppure attuare il principio di uguaglianza sostanziale, proviamo a declinare in concreto la solidarietà nel contesto del fenomeno migratorio, o quantomeno in alcuni aspetti di esso.
E' stato autorevolmente affermato che il soccorso è la prima espressione di solidarietà offerta ai migranti; la seconda è l’accoglienza e la terza è (o meglio dovrebbe essere) lo smistamento[17].
E' facile intendere perché soccorso e accoglienza sono da considerare espressione di solidarietà, specie ove si pensi alle note e drammatiche modalità dell'ingresso, e all'obbligo di soccorso posto dalla Convenzione di Montego Bay del 1982, ratificata dallo Stato italiano con legge n. 689/1994.
Soccorso e accoglienza quindi; ma dopo di ciò anche lo smistamento, e qui qualcuno potrebbe chiedersi cosa questo ha a che fare con i diritti fondamentali, poiché la parola "smistamento" sembra evocare una operazione di distribuzione meramente pratica. Si tratta invece di uno snodo fondatamente per la tutela dei diritti, e per iscrivere la loro tutela nel contesto in cui viviamo e operiamo.
L'Agenda europea sulla migrazione rileva che l’attuale pressione migratoria è caratterizzata da un flusso misto di richiedenti asilo e migranti economici. Gli stereotipi tendenziosi, osserva la Commissione UE, preferiscono spesso guardare solo ai flussi di un determinato tipo, sorvolando sulla complessità intrinseca di un fenomeno che esercita molti e diversi effetti sulla società e che richiede molte e diverse risposte. Tra le risposte che l'UE si è proposta di dare, oltre al salvataggio delle vite in mare, vi è la riduzione degli incentivi alla migrazione irregolare, e una forte e comune politica dell'asilo. Se, in prospettiva, affrontare le cause profonde della migrazione irregolare e forzata direttamente nei paesi terzi può ridurre il flusso migratorio e contenere soprattutto la migrazione economica, non si può però e non si deve derogare al sistema dell’asilo, politica comune che deve anzi essere rafforzata[18].
Il diritto di asilo è uno di quei diritti che hanno un fondamento, da rinvenirsi non solo nell'art. 10 della Costituzione, ma anche negli artt. 18 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: l’art. 18, volto a proteggere il diritto d’asilo, nel rispetto delle norme poste dalla Convenzione di Ginevra; l’art. 19 sul divieto di allontanamento, espulsione e estradizione se la persona corre il serio di rischio di essere sottoposta a pena di morte, torture altri trattamenti inumani o degradanti. Da ricordare poi che l’art. 78 del TFUE stabilisce che l'Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. La Convenzione EDU, infine, rimarca il divieto di espulsioni collettive (art. 4 Prot.4); inoltre, il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, di cui all’art. 3 CEDU (che ha il suo corrispondente nell’art. 4 della Carta di Nizza), è inderogabile e pertanto in nessun caso e per nessuna ragione i migranti possono essere rinviati verso un paese ove corrono il rischio di subire un trattamento degradante.
Anche il diritto di asilo, come tutti i diritti fondamentali, è soggetto a bilanciamento con altri diritti di pari rango; si è però autorevolmente affermato che esso non può subire limitazioni intrinseche, cioè del suo contenuto, per effetto di considerazioni di carattere generale o generico. Per questo, come per tutti gli altri diritti fondamentali, le condizioni esterne non incidono sul contenuto dei diritti, ma solo sul grado di possibile attuazione pratica degli stessi[19].
Del resto, il diritto di asilo deve essere visto necessariamente nella sua dimensione dinamica. Esso si concretizza nel momento in cui allo straniero è impedito, nel suo paese, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche, e pertanto il suo contenuto è definito dal contenuto di altri diritti fondamentali, lesi o esposti a rischio nel paese di origine: la vita, la incolumità personale, la libertà religiosa, l’identità personale e di genere, solo per citarne alcuni, e naturalmente, la dignità umana, che è la radice stessa di tutti i diritti fondamentali. Questa è la ragione per la quale la legge nazionale, nel quadro delle norme sovranazionali di cui si è detto ed in attuazione delle Direttive UE in materia, prevede forme diverse di protezione, in relazione al rischio cui sono esposti i diritti dello straniero e prevede anche che, al cessare del rischio, termini la misura di protezione. Già questo dovrebbe rassicurare sulla non idoneità dell’asilo a divenire un «diritto tiranno»: si tratta di un diritto già di per sé limitato dal fattore tempo e dalla mutevolezza delle condizioni di rischio.
La Commissione UE, nella sopra citata Agenda sulla migrazione, indica la necessità di una forte politica comune dell'asilo e ci mette in guardia dagli «stereotipi tendenziosi». Vale la pena di soffermarsi su questo concetto, non per analizzare le ragioni dell'uso degli stereotipi da parte dei soggetti che a vario titolo si occupano di migrazione, quanto per avvertire dei rischi connessi all’uso dello stereotipo.
Identificare indistintamente tutti i migranti irregolari come migranti economici significa avviarli alla espulsione collettiva senza avere preso in adeguata considerazione la loro storia individuale e quindi, tra l'altro, rischiare le condanne della Corte EDU, come è avvenuto nel caso Hirsi[20].
Si deve considerare che la persona da tutelare come richiedente asilo non è solo la persona che ha presentato domanda di protezione internazionale, ma anche colui che manifestato la volontà di chiedere tale protezione, o ancora, in taluni casi, la persona per la quale sussistono «indicazioni» sul desiderio di richiedere protezione[21]. La Corte EDU ha in più occasioni rimarcato che «la mancanza di informazioni costituisce l'ostacolo maggiore all'accesso alle procedure d'asilo»[22]. Il migrante, infatti, non sempre è in condizione di esprimere una volontà libera, informata e consapevole: la sua volontà può essere viziata da ignoranza, da stati transitori di incapacità, spesso legati al trauma del viaggio, dalle altrui minacce o pressioni. Si pensi alle donne vittime di tratta, che sono molto restie a rivelare di essere state trattate per paura di ritorsioni -anche sulla famiglia rimasta in patria- o per superstiziosa soggezione a riti magici[23] e che ignorano che esistono percorsi di speciale tutela per la loro situazione. In questi casi è particolarmente importante prestare attenzione agli indicatori di una situazione di speciale vulnerabilità, offrire le informazioni pertinenti, ma anche dare tempo, per elaborare la decisione di svincolarsi dai trafficanti.
Altrettanto insidioso però, può essere lo stereotipo del migrante irregolare visto come soggetto avente diritto per definizione all'asilo o quantomeno da avviare, quasi automaticamente, alle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Anche per l'asilo vale infatti la profonda osservazione della dottrina,[24] già sopra esposta, sull'uso inflazionistico del diritto, che si ritorce avverso il diritto stesso, con implicazioni negative a largo raggio nei riguardi dell’intero tessuto sociale ed ordinamentale; avviare indistintamente tutti i migranti alle procedure di asilo rischia di rendere indistinta la configurazione del diritto stesso. Sul piano pratico poi, ciò contribuisce a rallentare le procedure di riconoscimento gonfiando a dismisura i ruoli degli organi giudicanti. Con l’effetto perverso finale che molte persone che vivono e soggiornano regolarmente in Italia (come richiedenti asilo) e quindi maturano in condizioni di piena legalità una integrazione sociale ed economica, si trovano, dopo sei o sette anni di regolare permanenza sul territorio, a dover fare i conti con la definitività di un rigetto della domanda di asilo e con un possibile rimpatrio. Con quel che segue, anche in termini di capacità del nostro Stato di rendere effettivo il rimpatrio: si tratta di persone che, se non rimpatriate, diventano fantasmi senza identità, facile preda di sfruttamento lavorativo e della criminalità organizzata.
3.- Il ruolo del giudice e le aree di criticità del processo decisorio: la tipicità delle misure di protezione e l’horror vacui.
Il ruolo del giudice in questa materia è particolarmente complesso.
In termini generali, il giudice è chiamato ad applicare la legge secondo una interpretazione orientata, oltre che dalla logica e dalla individuazione della ratio legis, anche dai principi e dai valori. La presenza di una pluralità di principi, dati da più Carte dei valori, comporta l'esigenza del bilanciamento, che è operato in primo luogo dalla Corte costituzionale, ma anche dal giudice comune[25].
Vi è poi un’area di possibile espansione dell’intervento del giudice e si tratta dei casi in cui, a causa della mancanza di norma di legge idonea a valere per la singola vicenda processuale, la norma stessa viene desunta dai principi costituzionali[26]. Nondimeno, avverte la Corte di legittimità, il compito del giudice non è quello di sostituirsi al legislatore: il giudice comune è «chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo, bisognoso di definizione, dai testi normativi e dal sistema»[27].
Alla luce di queste considerazioni, si può esaminare una rilevante area di criticità del processo decisorio che è quello della tutela dei soggetti specialmente vulnerabili nel sistema della protezione internazionale.
Prima del D.L. 113/2018 (decreto sicurezza) convertito con modificazioni dalla L. 132/2018, il sistema dell’asilo era considerato completo e perfettamente attuativo del disposto dell’art. 10 Cost., perché alle misure di protezione tipiche (status di rifugiato, protezione sussidiaria) se ne aggiungeva una atipica, ma avente comunque il suo fondamento nella legge, comunemente chiamata protezione umanitaria, dal nome del permesso di soggiorno previsto dall’art. 5, comma 6, del D.lgs. 286/1998 (oggi abrogato). Si trattava di una tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale. I motivi di carattere umanitario per il rilascio del permesso di soggiorno si identificavano con riferimento alle Convenzioni internazionali che autorizzano o impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, in forza dell'art. 2 Cost.[28].
La Corte di Cassazione, nell’esaminare il caso forse più discusso, e cioè l'inserimento sociale e lavorativo in Italia e l’inevitabile regresso socioeconomico che comporterebbe il rimpatrio, ha fatto riferimento alla dignità, quale parametro essenziale dei valutazione. In particolare si è affermato che il giudice deve operare una valutazione comparativa effettiva al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[29].
Questo era il quadro, fino alla emanazione del D.L. 113/2018, che ha disposto l’abrogazione dell’art. 5, comma 6, del TU immigrazione nella parte in cui consentiva il rilascio del permesso di soggiorno per «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Sono state, invece, mantenute alcune ipotesi tipiche di permesso di soggiorno: «per motivi di protezione sociale» (art. 18 TU), «per le vittime di violenza domestica» (art. 18 bis TU) e per «ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo» (art. 22, comma 12 quater TU). Unitamente a questi, sono stati inseriti nel TU altri casi speciali di permesso di soggiorno: il permesso «per cure mediche» (art. 19, comma 2, lett. d bis TU), «per calamità» (art. 20 bis TU) e «per atti di particolare valore civile» (art. 42 bis TU). Secondo la circolare del Ministero dell’Interno del 19.1.2019 è solo all’interno perimetrale di tali ipotesi che attualmente le forme di tutela complementare trovano applicazione, fatti salvi i casi di riconoscimento della protezione internazionale.
Una prima questione che la giurisprudenza ha affrontato è quella dell’applicazione di questa disciplina legislativa ai giudizi in corso e sulla quale vi è stato contrasto interno alla prima sezione della Corte di Cassazione; pertanto, su questo punto, l’ultima parola è stata rimessa alle sezioni unite[30]. Qui si deve osservare tuttavia che la questione sembra riguardare più il nomen iuris della misura di protezione, e quindi le modalità di rilascio del correlativo permesso di soggiorno, che il dovere dello Stato di tutelare, senza soluzioni di continuità temporale, il diritto fondamentale esposto a rischio. Autorevole dottrina osserva che il fatto costitutivo del diritto del richiedente non è la domanda, né il provvedimento dell’autorità, bensì il verificarsi delle condizioni del diritto al permesso di soggiorno[31]. Queste condizioni possono individuarsi anche in quei gravi motivi umanitari che determinano una situazione esistenziale di bisogno della persona; ma, nota sempre la stessa dottrina, oggi il quadro protettivo è incompleto, perché le ipotesi di permesso di soggiorno, come previste dal decreto sicurezza, sono specifiche e tassative[32].
E’ infatti da chiedersi se un sistema dell’asilo sfornito –come lo è oggi- di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, sia interamente attuativo dei principi costituzionali.
Nel nostro sistema, la tipicità delle fattispecie a rilevanza giuridica è propria del diritto penale, che ha finalità repressive. Il diritto civile è invece connotato dall’horror vacui: nella tutela dei diritti civili non si può escludere a priori che si diano nella realtà dei fatti casi non direttamente regolati dalla legge, ma comunque meritevoli di tutela e per i quali bisogna trovare la regola o mediante analogia oppure desumendola dai principi generali dell’ordinamento.
Possono farsi degli esempi.
I minori stranieri non accompagnati sono soggetti specialmente vulnerabili, e il nostro attuale sistema normativo prevede –fermo restando il diritto a chiedere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria ove ne sussistano i presupposti- che al minore migrante, che non si può espellere, è riconosciuto un permesso di soggiorno per minore età (legge n. 47/2017). I minori migranti, in attuazione del principio della preminenza dei best interests of the child, hanno diritto alla nomina di un tutore, al ricongiungimento familiare, all'assistenza sanitaria, all'istruzione e -a determinate condizioni- alla integrazione sociale con la conversione del permesso di soggiorno per minore età in permesso di soggiorno per studio e lavoro[33].
Deve però ricordarsi che non tutti i minori versano nella stessa condizione. Ci sono bambini in tenera età, anche neonati, che perdono i genitori durante il viaggio e che una volta giunti in Italia si avviano, con presumibile successo, ad un percorso di adozione. E poi ci sono minori che nel paese di provenienza sono considerati adulti o quasi e migrano perché privi di legami familiari o perché il contesto familiare è ostile, ovvero troppo povero per mantenerli. Per questi minori possono darsi situazioni di vulnerabilità atipiche: si pensi ad esempio a chi inizia il viaggio verso l'Europa da minorenne e giunge in Italia non appena compiuti i diciotto anni; si pensi a quei minori che una volta divenuti maggiorenni non riescono -per le più varie ragioni- a fruire della protezione dei tribunali minorili e della possibilità di affidamento ai servizi sociali fino all'età di anni ventuno[34].
Discorso analogo potrebbe farsi per le vittime di tratta e sfruttamento di prostituzione. Le vittime di tratta, come si è detto, spesso hanno una forte resistenza ad autoidentificarsi come tali e preferiscono (o sono indotte a) presentare richiesta di asilo sulla base di storie stereotipate quale ad esempio la fuga d'amore con un fidanzato inviso alla famiglia, liti familiari, vendette private. In questi casi, in precedenza, la vicenda poteva essere risolta riconoscendo -nelle more dell'avvio dell’appropriato percorso di tutela- un permesso di soggiorno per motivi umanitari[35].
Ma oggi, in simili casi, quid iuris?
Parte della dottrina ha evidenziato possibili profili di incostituzionalità del decreto sicurezza in particolare per la «sostituzione» del permesso di soggiorno per motivi umanitari con i permessi di soggiorno speciali[36]. E’ stato osservato che ogni scelta legislativa che impedisce al giudice di valutare la concreta sussistenza dei diritti riconosciuti, imbrigliandole nella rete di clausole chiuse o di tipizzazione, rende irragionevoli la norme introdotte, esponendole alla sanzione di incostituzionalità[37].
Tuttavia, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale, il giudice è obbligato a verificare se sussiste la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata[38].
Il Consiglio Superiore della Magistratura, nel parere sul decreto sicurezza reso il 21 novembre 2018, avverte che l'abrogazione dell'istituto della protezione per motivi umanitari potrebbe condurre ad una riespansione dell’ambito di operatività dell’art. 10, comma 3 della Costituzione, immediatamente azionabile innanzi al giudice ordinario, ricordando che prima della introduzione nella legge nazionale della tutela umanitaria, era data attuazione all’asilo costituzionale mediante l’applicazione diretta dell’art. 10, configurato dalla giurisprudenza come un «vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento».[39] Solo il successivo recepimento delle direttive europee, infatti, aveva portato la giurisprudenza di affermare che, una volta resa esaustiva la tutela normativa, non sussisteva più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui al citato art. 10.[40]
Anche il Presidente della Repubblica, nella sua lettera di accompagnamento all’emanazione del decreto sicurezza, ha autorevolmente notato che il decreto non può far venire meno «gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia».
Sembra concretizzarsi qui un paradosso: perseguendo l'obiettivo di rendere certi e predefiniti i casi di permessi di soggiorno, e di ridurne il numero, si apre un ambito di discrezionalità ancora più ampio, pari all’intera area coperta dall’ombrello dell’art. 10 Cost. Ma non è priva di asperità la via della diretta applicazione della norma costituzionale: tra l’altro, è necessario evitare ingiustificate disparità di trattamento, e individuare in concreto quale permesso di soggiorno, con quale durata e quali diritti conseguirebbe al riconoscimento diretto del diritto di asilo costituzionale[41].
Interessante sembra invece lo sviluppo del principio di non respingimento, sulla falsariga sentenza della CGUE sopra ricordata[42]. Il principio di non respingimento opera anche in assenza del riconoscimento dello status di rifugiato, ed è strettamente legato al rischio che siano violati i diritti fondamentali sanciti dall’articolo 4 e dall’articolo 19 della Carta di Nizza[43]. Con la sentenza del marzo 2019, la Corte europea offre una interpretazione dell’art. 4, vincolante per il giudice nazionale, che include nel concetto di trattamento inumano e degradante anche la situazione di estrema deprivazione materiale, non dipendente dalla volontà del soggetto, ma dalla sua condizione di vulnerabilità. Il permesso di soggiorno per protezione speciale, di cui all’art. 32 del D.lgs. n. 25/2008, come modificato dal decreto sicurezza, potrebbe quindi essere rilasciato in tutti quei casi in cui il rinvio al paese di origine comporterebbe una estrema deprivazione materiale, gravemente lesiva della dignità umana.
[1] Contributo destinato agli scritti in onore di Antonio Ruggeri
[2] A. RUGGERI, Note introduttive ad uno studio sui diritti e i doveri costituzionali degli stranieri in Rivista AIC, 2/2001; A. RUGGERI I diritti dei non cittadini tra modello costituzionale e politiche nazionali, in Consulta on line 1/2015; A. RUGGERI, I diritti fondamentali degli immigrati e dei migranti, tra linearità del modello costituzionale e le oscillazioni della esperienza in Consulta on line, 2/2017; A. RUGGERI, Il principio di solidarietà alla prova del fenomeno migratorio, in Consulta on line 3/2017; A. RUGGERI, I diritti sociali al tempo delle migrazioni in Rivista AIC, 2/2018 M. LOSANA, “Stranieri” e principio costituzionale di eguaglianza, in Rivista AIC, 1/2016; G. BASCHERINI, Immigrazione e diritti fondamentali. L’esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Jovene, Napoli 2007;
[3] Sul concetto di cittadinanza, v. L. PANELLA, La cittadinanza e le cittadinanze nel diritto internazionale, Napoli, 2008
[4] Corte Cost. sent. n. 105/2001; v. anche sent. n. 120/1967; sent. n. 104/1969; sent. 249/2010
[5] A. RUGGERI: Note introduttive ad uno studio sui diritti e i doveri costituzionali degli stranieri, op. cit. 10,ss.
[6] A. RUGGERI I diritti sociali al tempo delle migrazioni, op. cit., 12 ss.
[7] C. CAMARDI, Diritti fondamentali e “status” della persona, in Riv. crit. dir. priv., 1/2015, 7 ss.
[8] A. RUGGERI, I diritti fondamentali degli immigrati e dei migranti, tra linearità del modello costituzionale e le oscillazioni della esperienza, op.cit., 370 ss.
[9] A. RUGGERI, I diritti sociali al tempo delle migrazioni, op. cit., 3 ss.
[10] N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, 19 ss. In termini di consenso fondato sulla lezione della Storia si esprime anche la Dichiarazione del 1948 laddove premette che “il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità”.
[11] Corte Cost. sent. n. 309/1999
[12] CGUE, sentt. del 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre. Nella fattispecie si trattava di migranti che contestavano il rinvio rispettivamente verso l’Italia e la Bulgaria, da loro ritenuti paesi con gravi carenze sistemiche nelle procedure per il riconoscimento dell’asilo e nell’accoglienza. Secondo la Corte, è possibile che in concreto si abbia tale livello di gravità quando “una persona completamente dipendente dall’assistenza pubblica si verrebbe a trovare, a prescindere dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale che non le consentirebbe di far fronte ai suoi bisogni più elementari quali, segnatamente, nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudicherebbe la sua salute fisica o psichica o che la porrebbe in uno stato di degrado incompatibile con la dignità umana”.
[13] Corte Cost. sent. n. 1/1956, ove si afferma che il limite è insisto nel concetto stesso di diritto.
[14] V. Corte Cost. sent. n. 62/1994; Coste Cost. sent. n. 254/2011; Corte Cost. sent. 306/2008; Corte Cost. sent. n. 187/2010; Corte Cost. sent. n. 329/2011; Corte Cost. sent. n. 40/2013.
[15] A. RUGGERI, Il principio di solidarietà alla prova del fenomeno migratorio, op. cit., 450 ss. v. anche J. HABERMAS, Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà, Roma- Bari, 2013 ove si ipotizza che la solidarietà, ponendo fine all’odio tra paesi creditori e paesi debitori, potrebbe risolvere l’attuale crisi europea. Ancora, v. S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari 2016, 23 ss.; l’A. evidenzia lo stretto nesso tra principio di solidarietà e principio di dignità, e che il sacrificio del primo si converte immediatamente in violazioni del secondo.
[16] A. MORELLI Solidarietà, diritti sociali e immigrazione nello Stato sociale, in Consulta on line, 3/2018, 533 ss.
[17] A. RUGGERI, Il principio di solidarietà alla prova del fenomeno migratorio, op. cit., 451 ss.
[18] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda sulla migrazione, 13.5.2015, in https://eur-lex.europa.eu
[19] G. SILVESTRI, Il diritto fondamentale di asilo e alla protezione internazionale, relazione all'incontro della Scuola Superiore della Magistratura: Il diritto ad una tutela giudiziaria effettiva dei richiedenti protezione internazionale, Catania, 14.9. 2018 , in Questione Giustizia, ottobre 2018.
[20] Corte EDU, Grande Chambre, 23.2.2012, Hirsi Jamaa vs. Italia
[21] Cass. civ. sent. n.5926/2015; ord. n. 10743/2017
[22] Corte EDU, M.S.S. vs. Belgio e Grecia 21.1. 2011; la già ricordata Hirsi vs. Italia; Khlaifia vs. Italia, Grande Camera, 16.12.2016
[23] Report EASO ottobre 2015, Country of Origin Information. Nigeria, sex trafficking of women
[24] A. RUGGERI, I diritti sociali al tempo delle migrazioni, op. cit.
[25] v. Cass. civ. sez. un. sent. n. 217999/2010; R. CONTI, L'interpretazione conforme e il giudice dai tre cappelli, in La Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, Roma 2011
[26] Cass. civ. sent. 21748/2007
[27] Cass.civ. sez. un. sent. n. 1946/2017
[28] Cass. civ. sez. un. sent. n. 19393/2009; Cass. civ. sent. n. 4139/2011; Cass. civ. sent. n. 15466/2014; Cass. civ. sent. n. 15466/2014
[29] Cass. civ. sent. n. 4455/2018
[30] Cass. civ. sent. n. 4890/2019 si esprime per la irretroattività; contra Cass. civ. n. 11750/2019. Le sezioni unite hanno ritenuto corretta la soluzione della irretroattività, per cui le domande presentate prima della entrata in vigore della nuova legge saranno scrutinate sulla base della normativa precedentemente in vigore quanto all’accertamento dei presupposti, pur se ciò comporterà il rilascio di un permesso di soggiorno per “casi speciali”(Cass. s.u. 29459/2019).
[31] C.M. BIANCA La legge non dispone che per l’avvenire (art. 11 disp. prel. c.c.): a proposito del decreto sicurezza, in Questione giustizia, 17.6.,2019
[32] C.M. BIANCA La legge non dispone che per l’avvenire, cit.
[33] Sul tema si veda: M.CIRESE, Minori migranti, in IlFamiliarista (Giuffrè), 2.1.2019; M. QUATTROCCHI I minori senza famiglia davanti ai giudici, 8.6.2013 in www.gruppodipisa.it
[34] In tema di diritti dei giovani adulti a mantenere l’integrazione sociale e condizioni di vita dignitose, si esprimono App. Catania 27.11.2018 e App. Catania 16.1.2017, inedite.
[35] Trib. Firenze 14.12.2017, in Questione Giustizia, 12.2.2019.
[36] M. RUOTOLO Brevi note sui possibili vizi formali e sostanziali del D.L. n. 113 del 2018 (c.d. decreto “sicurezza e immigrazione) Rivista AIC, Fasc. 3/2018 del 17.10. 2018; G. AZZARITI A proposito della nuova normativa in materia di migrazioni: le incostituzionalità non discusse. Questione Giustizia, 18.1.2019. Si veda anche Corte Cost. sent. n. 49/2000 in tema di abrogazione delle norme dirette a “rendere effettivo un diritto fondamentale della persona”.
[37] F. MANGANO L’interpretazione dei giudici nella disciplina dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, in Questione giustizia, dicembre 2019
[38] La Corte Costituzionale avverte che l’applicazione della nuova normtiva in conformità ai principi costituzionali potrebbe far sì che il “paventato effetto restrittivo” sia contenuto entro margini costituzionalmente accettabili, diversamente dovrebbe sollevarsi la questione di costituzionalità (Corte Cost. n. 194/2019)
[39] Cass. civ. sez. un. n. 4674/1997; BENVENUTI in Il dito e la luna. La protezione delle esigenze di carattere umanitario degli stranieri, in Dir., Imm., Citt. 1/2019, parla di un possibile “grande ritorno” nelle aule giudiziarie del diritto di asilo costituzionale.
[40] Cass. civ. n. 10686/2012.
[41] v. S. ALBANO, relazione al convegno “Abrogazione della protezione umanitaria, asilo costituzionale ed obblighi internazionali dell’Italia” Roma, 12.3.2019.
[42] CGUE, sent. 19.3.2019 cit.
[43]CGUE, gande sezione, cause riunite C-8209; 391/16 e altre
Per Giustizia Insieme si chiude un anno per molti aspetti esaltante, nel quale i lettori hanno mostrato interesse per il lavoro di squadra che ha consentito non solo il coinvolgimento di giuristi di alto profilo, ai quali rivolgiamo un ringraziamento speciale per le energie profuse, ma anche l'apertura di diversi focus sul mondo, variegato e complesso, della giustizia. Ci piace ricordare, tra i tantissimi altri, i contributi che hanno iniziato a disegnare alcune "storie di tribunali" e, con esse, le esperienze dei giovani che tirano avanti il carro giustizia con fresco entusiasmo e dedizione. Non meno importante ci è sembrato "fare memoria" su alcuni tragici fatti della nostra storia, in una prospettiva in movimento di ricerca della verità che ha coinvolto anche il mondo forense.
L'anno che si apre sarà dunque certamente complesso, non solo per tentare di mantenere lo stesso entusiasmo attorno a Giustizia Insieme e consolidare l'interesse dei lettori, ma anche per sperimentare nuove strade di comunicazione sulla scia della fortunata formula delle interviste a più voci, in modo da arricchire le occasioni di dialogo anche con altre riviste di settore che condividono le istanze di base di questa piazza virtuale.
Buon anno nuovo dal Comitato scientifico e dal Comitato di redazione ed appuntamento al 7 gennaio 2020 per la ripresa delle pubblicazioni.
Il Comitato scientifico
Alfonso Amatucci, Corrado Caruso, Giorgio Costantino, Mariella De Masellis, Giacomo Fumu, Gabriella Luccioli, Dino Petralia, Oreste Pollicino, Giuseppe Santalucia, Giorgio Spangher.
Il Comitato di redazione
Ernesto Aghina, Cristina Amoroso, Marta Agostini, Gabriele Allieri, Giuseppe Amara, Andrea Apollonio, Elisa Asprone, Marcello Basilico, Beatrice Bernabei, Chiara Bicchielli, Raffaella Calò, Franco Caroleo, Carlo Citterio, Marco Dell'Utri, Costantino De Robbio, Valentina Gallo, Bruno Giordano, Riccardo Ionta, Giovanni Liberati, Lorenzo Miazzi, Luca Marzullo, Werner Mussner, Morena Plazzi, Alessandro Nastri, Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Elisabetta Pierazzi, Laura Reale, Federica Salvatore, Filippo Ruggiero, Sandro Saba, Giuseppe Santalucia, Lucia Spirito, Assunta Tillo, Luigi Tirone, Enrico Villani.
Roberto Conti e Paola Filippi
Associazione italiana
fra gli studiosi del processo civile
Al signor Ministro della Giustizia On. Alfonso Bonafede
PARERE DEL CONSIGLIO DIRETTIVO DELL'ASSOCIAZIONE ITALIANA FRA GLI STUDIOSI DEL PROCESSO CIVILE
in relazione al d.d.l. di riforma del processo civile
Con il presente parere saranno sviluppate, da un lato, considerazioni di carattere generale e preliminare; dall'altro lato, riflessioni specifiche relative ai singoli articoli del progetto di legge. Ciò, peraltro, non senza avere tenuto in debita considerazione i principi enunciati dalla relazione di accompagnamento al d.d.l.
Prendendo avvio dal primo profilo, si deve evidenziare, preliminarmente ad ogni altra valutazione, come sia inutile, per non dire dannoso, intervenire ancora sulle regole del processo, quando invece è noto che i problemi, che incidono sull'efficienza della macchina della giustizia civile, emergono, quasi esclusivamente, sul piano strutturale e organizzativo. La ragionevole durata del processo - obiettivo che il legislatore delegante intende dichiaratamente perseguire - non si ottiene con interventi sulle norme, i quali potrebbero tutt'al più comportare una qualche utilità sul piano del chiarimento o della semplificazione di singoli istituti, ma non certo avere ricadute positive sul versante della celerità dei processi.
Infatti, è generalmente condiviso che la ragione dell'eccessiva durata del processo risiede non tanto nelle norme che lo regolano, quanto in fattori di carattere organizzativo, e in particolare nel rapporto assolutamente inadeguato tra il volume complessivo del contenzioso civile ed il numero dei magistrati, togati e non, sui quali esso grava. A ciò si lega anche il problema della composizione/organizzazione degli uffici e della formazione dei dirigenti. Prova ne è, a tacere d'altro, che il fattore principale di efficienza, com'è dimostrato nell'attuale assetto, è costituito dalle pratiche virtuose adottate e applicate da taluni uffici giudiziari.
Si deve ancora rilevare come l'incessante moto riformatore, che ha interessato la giustizia civile nell'ultimo decennio, non solo non ha prodotto risultati positivi in termini di durata e di efficienza del processo, ma ha comportato un senso di diffuso disagio tra gli operatori, in quanto è principio pacificamente riconosciuto che la stabilità delle regole processuali costituisce fattore primario per una più virtuosa attività degli avvocati e del giudice.
Di tutto questo, inoltre, è convinta non soltanto la generalità degli studiosi del processo civile, ma
anche la stragrande maggioranza degli avvocati, dei magistrati e più in generale degli operatori.
Sempre in termini generali, in secondo luogo, la proposta di predisporre un unico rito di cognizione dinanzi al tribunale in composizione monocratica è, probabilmente, obiettivo condivisibile. Tuttavia, suscita non poche perplessità - anche rispetto all'idoneità a perseguire l'obiettivo della ragionevole durata - la scelta ipotizzata nel progetto legislativo, che sembra contemplare un rito sommario per così dire spurio o, secondo altra definizione, un rito ordinario semplificato, destinato a governare tutte la cause (eccetto le poche affidate al collegio), a prescindere dal grado della loro complessità. In particolare, il rito immaginato nel d.d.l. rappresenta una sorta di combinazione tra l'attuale procedimento sommario di cognizione, il procedimento ordinario davanti al tribunale e il rito del lavoro; esso si caratterizza per un rigido sistema di preclusioni.
Pur nell'ottica di semplificazione delle regole e di perseguimento dell'obiettivo della ragionevole durata, è necessario assicurare la predeterminazione delle regole del processo, il quale, come afferma la Carta costituzionale, è "giusto" se "regolato dalla legge"; d'altro canto, non è irrigidendo il sistema delle preclusioni che si riescono a conciliare le esigenze della celerità con quelle legate ai diritti di difesa delle parti; un inasprimento in tal senso, viceversa, comporta il rischio di un allontanamento dell'esito del processo da quello che dovrebbe essere il suo sbocco naturale, ossia la maggior approssimazione possibile alla verità materiale. Ancora: il sistema di preclusioni anticipate e rigorose può realizzare forse un'economia endoprocessuale, ma porta con sé, quasi inevitabilmente, conseguenze negative dal punto di vista dell'economia extraprocessuale, posto che quelle modificazioni e quei mutamenti delle domande, che il meccanismo preclusivo vieta di svolgere nel corso del processo, per forza di cose, restano suscettibili di valorizzazione in successivi e ulteriori giudizi. È perduto il riferimento "alla vicenda sostanziale", che, invece, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza n. 12310/2015, hanno posto ad oggetto del contraddittorio delle parti e dell'accertamento giudiziale.
D'altronde, non sembra avvertita né in dottrina, né dagli operatori giudiziari, l'esigenza di un radicale mutamento dell'attuale rito di cognizione ordinaria, peraltro già semplificato con la riforma
del 2006 con risultati comunemente valutati in modo positivo, rito che oggi ha regole e principi consolidati, anche alla luce delle interpretazioni giurisprudenziali intervenute, e costituisce un punto di equilibrio tra il sistema delle preclusioni e quello imperniato sul pieno sviluppo del diritto di difesa alle parti. Forse, la sola modifica opportuna potrebbe essere costituita dal prevedere maggiore flessibilità circa le memorie e i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., in considerazione delle specificità del caso concreto.
Infine, si è ritenuto opportuno evitare di proporre modifiche e interventi diversi da quelli individuati nel d.d.l. in commento; l'unico suggerimento che si può avanzare attiene alla opportunità di un intervento legislativo, per così dire, di adeguamento periodico, che recepisca ogni anno, nella nostra materia, le novità derivanti dal diritto dell'Unione europea e dalle sentenze della Corte costituzionale.
***
Passando ora alla disamina dei singoli articoli che compongono il d.d.l., appare opportuno effettuare le considerazioni che seguono.
1)Sull'art. 2 (strumenti di risoluzione alternativa delle controversie)
Ciò detto, è da auspicare un intervento più incisivo, che passi dall'eliminazione dell'obbligo della mediazione di cui al d.lgs 28/201O e dalla incentivazione di forme di mediazione volontaria ovvero delegata; parallelamente o alternativamente, negli ambiti nei quali si ritenesse di dover conservare il meccanismo della mediazione obbligatoria, occorre sopprimere la rilevabilità d'ufficio del mancato esperimento e inserire una previsione che consenta alle parti di optare, in alternativa al
procedimento di mediazione, per un procedimento di negoziazione assistita. A tale riguardo, può apparire utile, da un lato, la previsione di una fungibilità trasversale e totale tra l'utilizzo dell'uno o dell'altro strumento di ADR, nel senso che, una volta che sia stato attivato l'uno, si deve considerare integrata l'eventuale condizione di procedibilità prevista in relazione all'altro; dall'altro lato, l'inserimento di strumenti di risoluzione delle controversie affidati ad organi terzi e imparziali e
dotati di specifica competenza nella materia.
2) Sull'art.3 (processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica).
Tra le maglie della disciplina stabilita dalla disposizione in esame, debbono essere denunciate alcune criticità, in particolare:
la forma del ricorso dell'atto introduttivo: la proposta di generalizzare l'adozione del ricorso, se può essere apprezzata sul piano della semplificazione, soprattutto con riferimento al processo telematico, non sembra essere in grado di incidere realmente sulla ragionevole durata del processo; la previsione del d.d.l. - secondo cui l'udienza di prima comparizione deve essere fissata entro quattro mesi - rischia di determinare una dilatazione dei tempi rispetto al quadro attuale, nel quale, con l'utilizzo della citazione a udienza fissa, in molti casi - ad es. allorché la notifica della citazione può essere effettuata a mezzo pec - è effettivamente possibile che la prima udienza si svolga nel termine di novanta giorni dalla notifica stessa. Non possono neppure essere sottaciuti i timori circa, per così dire, la sensibilità degli uffici giudiziari ad attenersi alle indicazioni relative al termine entro cui fissare l'udienza, ritenendosi necessaria in tale ottica l'individuazione di strumenti in grado di rendere effettivo e cogente il rispetto del termine.
le preclusioni: rinviando a quanto già rilevato in precedenza, occorre ora rimarcare come sia da valutare negativamente, con riferimento in specie all'economia extraprocessuale, la previsione - lettera b, n. 5) - che limita la possibilità di precisazione e modificazione delle domande e delle eccezioni e conclusioni a quanto necessario in conseguenza delle domande ed eccezioni proposte dalle altre parti; l'esclusione dello ius variandi, oltre a porsi in netto contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità, non incide in senso positivo sulla semplificazione, poiché conduce a limitare la portata preclusiva del giudicato.
la fase decisoria: desta perplessità anche la previsione di cui al comma l, lettera c) [valevole, ai sensi dell'art. 4, comma l, lettera d), pure per le decisioni collegiali], che contempla una udienza finale di discussione, tenuto conto della difficoltà di individuare apposite udienze in termini ragionevoli, soprattutto allorché si tratta di causa collegiale. Non si può infine non rilevare come sia discutibile la proposta di modifica della disciplina dei rapporti tra collegio e giudice monocratico, nella parte in cui (lettera d, punto 2) non contempla la possibilità di richiesta di discussione orale dinanzi al collegio, nel caso in cui il giudice monocratico rilevi che una causa già riservata per la decisione davanti a sé debba invece essere decisa dal tribunale in composizione collegiale.
3) Sull'art. 4 (processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale).
Pur riconoscendosi l'opportunità del ricorso a un differente criterio e metodo di individuazione dei casi in cui il tribunale decida in composizione collegiale, non convince, anche in ragione della sua genericità, la previsione volta a ridurre i casi di decisione collegiale (ferma restando l'esigenza di una razionalizzazione delle ipotesi previste dall'art. 50-bis c.p.c.); le cause particolarmente complesse - e non solo quella davanti alle sezioni specializzate - richiedono uno scambio di opinioni possibile solo nella camera di consiglio collegiale.
Inoltre non si avverte la necessità di un intervento sul rito applicabile, specie se realizzato nella direzione di un appiattimento del procedimento dinanzi al tribunale collegiale su quello davanti al tribunale monocratico.
Infine, l'intervento sull'art. 50-bis c.p.c. dovrebbe essere coordinato con la disciplina prevista per le sezioni specializzate in materia di impresa, immigrazione, nonché con il modello processuale contemplato per la tutela collettiva.
4) Sull'art.5 (processo di cognizione di primo grado davanti al giudice di pace).
È da valutare positivamente quanto stabilito alla lettera b), ossia l'eliminazione della previsione dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, mentre è reputata inopportuna la proposta di cui alla lettera a), ossia di uniformare il processo dinanzi al giudice di pace al procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica, ritenendosi che, per le controversie trattate e per la costituzione del giudice, l'attuale procedimento maggiormente deformalizzato sia da preferire.
5) Sull'art.6 (giudizio di appello)
Opportuna è la scelta di eliminare il c.d. filtro in appello, dunque non solo l'art. 348-bis, ma anche gli artt. 348-ter; la previsione dovrebbe essere completata mediante il riferimento all'art. 436-bis c.p.c.
Con riguardo alla lettera b), è forse da auspicare una riformulazione dell'art. 346 c.p.c. con la conseguente precisazione dei termini e dei modi per la riproposizone delle questioni e per la proposizione dell'appello incidentale, con riferimento vuoi ai casi di assorbimento, vuoi a quelli di decisione della questione. Non è agevole comprendere le conseguenze e dunque gli eventuali vantaggi di quanto previsto alla lettera c), mentre sono da valutare positivamente le modifiche in punto di inibitoria [lettera f)].
Per quanto poi concerne la lettera e), pare opportuno modificare la previsione nella parte in cui: i) attribuisce al collegio la facoltà di fissare altra udienza per la discussione anche laddove le parti non ne facciano richiesta (in evidente spregio del principio di ragionevole durata); ii) sembra subordinare il dovere del collegio di concedere alle parti richiedenti termine per note soltanto al previo esercizio della predetta facoltà, salva l'ipotesi in cui sia stato proposto appello incidentale.
6) Sull'art.7 (disposizioni per l'efficienza dei procedimenti civili).
Relativamente al processo telematica, occorre prevedere una specifica disciplina, che contempli anche i profili per così patologici; inoltre, si fa presente che l'estensione a tutti gli atti e documenti può apparire eccessiva e inopportuna per quei documenti il cui deposito è pressoché impossibile (vuoi per il numero dei documenti, vuoi per la natura degli stessi). In parte qua, allora, deve essere prevista la possibilità per il giudice di autorizzare, in presenza di giustificati motivi, il deposito cartaceo dei documenti.
7) Sull'art.8 (notificazioni).
Per quanto riguarda la lettera b) dell'articolo in esame, al fine di non penalizzare irragionevolmente la parte il cui avvocato non sia riuscito a notificare a mezzo posta elettronica, costringendo lo stesso a fare affermazioni sfavorevoli alla parte da esso assistita, si ritiene opportuno sostituire le parole «non è risultata possibile o non ha avuto esito positivo per cause non imputabili al destinatario» con le parole «non è risultata possibile o non ha avuto esito positivo per cause che potrebbero non essere imputabili al destinatario». Appare infatti irragionevole subordinare il diritto della parte ad ottenere l'effettuazione della notifica a mezzo ufficiale giudiziario alla dichiarazione di fatti verificatisi al di fuori della sua sfera di dominio, tanto più se si tratta di fatti favorevoli all'altra parte, la cui attestazione finirebbe soltanto per avvantaggiare quest'ultima.
8) Sull’art.10 (procedimento di espropriazione immobiliare)
L'intervento non è apprezzabile perché rischia di sortire effetti divergenti rispetto a quelli perseguiti, specialmente in punto di tutela del debitore debole. Infatti, la possibilità del debitore di chiedere al giudice dell'esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell'immobile pignorato per un prezzo non inferiore al suo valore di mercato, da un lato, si presta ad essere utilizzato in modo fraudolento delle ragioni del creditore, e, dall'altro lato, potendo comportare un danno per il creditore, e in particolare per quello ipotecario, rischia di indurre il sistema bancario a restringere la concessione di mutui ipotecari, in specie prima casa, necessari invece per i cittadini meno abbienti.
9) Sugli artt. 9 (giudizio di scioglimento delle comunioni) e 11 (doveri di collaborazione delle parti e dei terzi).
Si tratta di interventi da ritenere per lo più condivisibili, nell'ottica di chiarimento e di risoluzione di aspetti discussi e discutibili, sebbene non in grado di incidere sulla durata del processo.
Bologna, 18 novembre 2019
di Giuseppe Amara
Il presente contributo è inteso ad esaminare il contenuto della recente pronuncia della Consulta n. 68/19 dello scorso 29/3/19, redattore Viganò, afferente il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, dell’art. 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), e dell’art. 657-bis del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, con ordinanza del 12 aprile 2018. La pronuncia si ritiene di particolare interesse, cristallizzando ratio e funzioni dell’istituto della messa alla prova minorile, in un raffronto con l’omologo istituto del rito dei maggiorenni.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Istituto della messa alla prova minorile.- 3. Vicenda processuale.-- 4. Profili di ipotizzata illegittimità costituzionale.-5. Soluzione del Giudice delle Leggi.- 6. Conclusioni.
1. Premessa
Dietro ogni fascicolo processuale si cela la storia degli autori del fatto che lo hanno generato. La storia dell’indagato e del suo disagio che lo ha condotto a trasgredire ad un precetto penale e la storia della persona offesa che, da detta trasgressione, ha subito una lesione, più o meno tangibile, della propria sfera di interessi. Ciò nondimeno, nel rito ordinario, in ossequio al principio di materialità del reato, il fatto rimane attore principale e pressoché unico protagonista del procedimento, dall’iscrizione alla definitività della pronuncia che quel fatto deve valutare. Ogni sforamento nella vita dell’autore è funzionale all’applicazione – o meno – di istituti processuali, quali possono essere le misure cautelari, piuttosto che l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, piuttosto che la concessione di benefici correlati alla pena. Di qui “l’invidia” del Pubblico Ministero ordinario che, chiamato a determinarsi sul fascicolo processuale, potrà e dovrà senz’altro farsi carico della soggettività delle vicende, ma si troverà comunque a percorrere una traccia segnata, esclusivamente, dal codice sostanziale e da quello di rito, ove le sorti processuali della vicenda, pur nella difficoltà correlate al permanere di aree di interpretazione del fatto, specie nei reati complessi, prescindono dall’analisi personalistica dell’autore. Di qui la previsione di cui all’art. 90 c.p. che esclude la rilevanza, ai fini dell’imputabilità, degli stati emotivi e passionali, piuttosto che il divieto di cui al comma 2 dell’art. 220 c.p.p. di svolgere approfondimenti di natura tecnica, evidentemente facendo ricorso alle scienze psicologiche, per stabilire l’abitualità, piuttosto che la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche se indipendenti da cause patologiche. Il rito minorile è un processo a ruoli invertite, il fatto retrocede e lascia il ruolo da protagonista all’autore. Il Tribunale è per il Minorenne ed il procedimento non può che essere incentrato sulla sua figura. Il senso dell’intervento dell’autorità giudiziaria è quello della rieducazione e della risocializzazione, nel presupposto, non sempre valido, di un’immaturità che può essere corretta, guidata, verso uno sviluppo rispettoso dei limiti imposti dalla convivenza civile. Ormai da venticinque anni, con la riforma del processo minorile che fonda la sua matrice in atti sovranazionali (Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile, O.N.U., New York, 29 novembre 1985, anche note come “Regole di Pechino”, Convenzione dei diritti del fanciullo dell’ONU del 20/11/89, Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dell’infanzia di Strasburgo del 25/1/96), la finalità del legislatore è stata quella di positivizzare l’intervento pedagogico, anche con finalità correttive, funzione a cui cede il passo un “modello giurisdizionale di tipo cognitivo”[1]. In termini chiarissimi, Pazè: “Lo Stato dunque processa un giovane per definire la sua responsabilità per un reato e, anche, per stimolarlo a cambiare la sua condotta e a orientare diversamente la sua vita”[2]. Questo è un obiettivo che va di pari passo con quello, egualmente meritorio, di addivenire alla composizione del conflitto con la vittima, attraverso un processo che passa dalla mediazione, alla riparazione del danno arrecato, previo riconoscimento interiore del disvalore dell’offesa causata. Entra in gioco, in questa fase, ove possibile, il nucleo familiare del minore, secondo il metodo noto come quello della Family group conference, nel quale la famiglia allargata (comprese persone ritenute significative indicate dal minore) può elaborare il progetto della misura rieducativa e condividerlo con il minore.[3]
2. Istituto della messa alla prova minorile
Tutti gli istituti del rito minorile sono funzionali alla realizzazione del fine sopra indicato. Non fa eccezione quello della sospensione con messa alla prova, regolamentato dagli artt. 28-29 d.Pr. n. 448/88 e ripreso dall’art. 27 del d.lgs. 272/89, norma che ne disciplina, in via attuativa, i contenuti, valorizzando il ruolo dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e quello, ineludibile, dei servizi socio-assistenziale degli enti locali.
Con la messa alla prova, ammissibile per tutti i reati, l’educazione entra nel processo: oggetto del processo non è più il fatto-reato, ma la persona, si assiste alla “possibilità che davanti all’esigenza del recupero sociale del minore, la stessa realizzazione della pretesa punitiva possa arretrare”[4].
L’istituto della probation è esemplificativo del superiore interesse del minore, in un’ottica di proporzionalità e minimo intervento, quali criteri privilegiati di tutte le decisioni che riguardano la privazione della libertà, in ossequio anche alle Regole Europee per i minori autori di reato adottate dal Consiglio d’Europa nel 2008. Anche la messa alla prova, come altri strumenti peculiari del rito minorile (si pensi, ad esempio, all’irrilevanza del fatto – art. 27 d.Pr. 448/88, alla disciplina delle misure cautelari – art. 19 e ss. d.Pr. 448/88, regime dell’udienza preliminare – art. 31 d.Pr. 448/88, ai provvedimenti in materia di libertà personale art. 16 e ss. d.Pr. 448/88, all’accertamento della personalità minore di cui all’art. 9 d.Pr. 448/88), mira a realizzare l’idea di un processo penale che sia un “modello basato sulla rapida uscita dal circuito penale (c.d. diversion) e sul concetto di responsabilizzazione del minore anche attraverso forme di confronto con la vittima (c.d. mediation)”[5]. Sul punto, Pricoco: “Le finalità rieducative e riparative, in sostanza, non riguardano soltanto una rielaborazione della condotta e la conseguente responsabilizzazione del minore autore di reati rispetto alla vittima ma, si ribadisce, sono dirette al cambiamento dell’atteggiamento del detto minore rispetto alla società nel suo complesso, alle ragioni della legge, alle regole della convivenza civile, cambiamento che dalla occasione del processo può derivargli”[6].
La collocazione sistematica dell’istituto e la sua piena convergenza con i principi fondanti il rito minorile trovano ulteriore conferma dai dati. Nel rimandare alle interessanti statistiche redatte dal Dipartimento per la Giustizia minorile ed comunità del Ministero della Giustizia e consultabili sulla rete[7], si vuole evidenziare come, dal 1992 al primo semestre 2019, vi sia stato un aumento pressoché costante, sia in termini di valori assoluti che in termini di variazioni percentuali, ovvero dai 788 provvedimenti ammissivi del 1992, si è passati ai 3653 del 2018 ed ai 2.382 del primo semestre 2019, con speculare aumento percentuale per ogni annualità.
Venendo ora alla pronuncia qui in esame, si segnala come la stessa, ripercorrendo la ratio dell’istituto e la sua sostanziale diversità dell’omologa previsione per gli imputati maggiorenni, si sofferma sul tema del rilievo – o meno – del presofferto, ai fini della determinazione pena, in caso di esito negativo della messa alla prova. Infatti, mentre per la sospensione per i maggiorenni l’ipotesi è espressamente disciplinata dall’art. 657 bis c.p.p. che, come noto, prevede, in caso di revoca o esito negativo della messa alla prova, una rideterminazione della pena che tenga conto del periodo corrispondente a quello di prova eseguita, indicando, quale criterio di “conversione” quello per cui tre giorni di messa alla prova corrispondono ad un giorno di reclusione o di arresto, ovvero ad euro 250 di multa o di ammenda, non vi è analoga disciplina per l’istituto della sospensione minorile.
3. Vicenda processuale
Con ordinanza del 12 aprile 2018, la Corte di Cassazione, prima sezione penale, sollevava, in riferimento agli artt. 3, 31 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), e 657 bis c.p.p., “nella parte in cui non prevedono che, in caso di esito negativo della messa alla prova di soggetto minorenne, il giudice determina la pena da eseguire tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova”[8].
La Suprema Corte aveva sollevato la questione in occasione della disamina di un ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Milano che, in veste di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la richiesta, formulata da un condannato, di riconoscimento in suo favore dello scomputo di pena prevista dall’art. 657 bis c.p.p. Ed in particolare: il minore, imputato in due distinti procedimenti (uno per ricettazione ed uno per violenza sessuale), era stato originariamente ammesso alla probation in entrambi i casi ma, dopo un periodo di iniziale adesione all’articolato programma predisposto ai sensi dell’art. 27 d.lgs. 272/89[9], si era allontanato dai progetti, incorrendo, di conseguenza, nella declaratoria di esito negativo della messa alla prova, con sequenziale ripresa del giudizio. I due processi si concludevano con la condanna dell’imputato minorenne (7 mesi e 4 giorni, per i fatti di ricettazione e 2 anni e 6 mesi, per i fatti di violenza sessuale). Le due condanne erano unificate con provvedimento di cumulo da parte del Procuratore del Tribunale per i Minorenni di Milano, con pena da espiare determinata complessivamente in tre anni, un mese e quattro giorni di reclusione. Il difensore dell’indagato, dopo aver avuto un diniego su analoga istanza avanzata al Procuratore minorile, proponeva incidente di esecuzione, richiedendo, ai sensi dell’art. 657 bis c.p.p., un ricalcolo della pena applicata al minore, previa decurtazione del presofferto di due anni e mezzo di messa alla prova effettivamente svolta (seppur con esito negativo). Il Tribunale per i Minorenni di Milano in funzione, appunto, di giudice dell’esecuzione, rigettava la richiesta, ritenendo che la disposizione invocata non fosse applicabile nel caso di specie. Avverso tale ordinanza, il Difensore del condannato proponeva ricorso per cassazione, ove veniva poi sollevata la questione di legittimità costituzionale, discussa dalla Consulta.
4. Profili di ipotizzata illegittimità costituzionale
In estrema sintesi, la Corte di Cassazione, pur traendo le mosse dalla distinzione fra l’istituto della messa alla prova nel processo ordinario, ove prevale la funzione afflittiva che si sostanzia nella necessità di svolgere lavori di pubblica utilità, da quello omologo del processo minorile, ove, di converso, prevale la finalità educativa del minore, con sequenziale inapplicabilità a quest’ultimo dell’art. 657 bis c.p.p., riteneva, comunque, che escludere il conteggio del presofferto per il minore, equivale ad una sostanziale violazione dell’art. 3 Cost., trattandosi di un regime ingiustificatamente deteriore rispetto all’assetto regolativo che caratterizza l’omologo istituto per gli imputati maggiorenni. Tali considerazioni, peraltro, muovevano anche da una valutazione del regime particolarmente afflittivo delle modalità esecutive della messa alla prova minorile (vedasi, ad esempio, inserimento comunitario all’interno di una struttura, con significative limitazioni alla libertà di movimento).
Un altro profilo di ipotizzata illegittimità costituzionale era quello relativo all’art. 31 Cost.; in particolare, il Giudice rimettente, lo argomentava richiamando la giurisprudenza della Consulta secondo cui: “il processo minorile deve essere ispirato alla prevalente esigenza educativa del minore (sentenza n. 222 del 1983), da attuarsi mediante la «specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono» (sentenza n. 109 del 1997)”[10].
Ancora, un ulteriore profilo di criticità sarebbe quella derivante dalla violazione del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 comma 3 Cost., principio che: “impone l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, al fine prioritario della rieducazione e del reinserimento sociale del condannato minorenne all’epoca del fatto (così, ancora, sentenza n. 222 del 1983)”[11].
Nel giudizio di costituzionalità interveniva, per il Consiglio dei Ministri, l’Avvocatura dello Stato che argomentava la propria tesi sull’inapplicabilità dell’art. 657 bis c.p.p. alla probation minorile, rappresentando che: “Tale mancata previsione sarebbe giustificata dalla preminenza dell’esigenza di recupero del minore, che non consentirebbe di attribuire natura sanzionatoria all’istituto; natura sanzionatoria che, invece, sarebbe propria della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, cui si riferisce la sentenza n. 343 del 1987 invocata dal rimettente”[12]. Interessante, inoltre, quanto precisato successivamente dall’Avvocatura che, nel chiedere il rigetto per inammissibilità del ricorso, riteneva come, un eventuale accoglimento, si sarebbe concretizzato in un’additiva non consentita alla Corte, dal momento che il giudice a quo invocherebbe l’introduzione di un sistema di computo della pena ulteriore e diverso da quello regolato per gli adulti, ovvero “un intervento additivo mirante ad introdurre nell’ordinamento giuridico una disciplina non costituente l’unica soluzione costituzionalmente obbligata”[13].
5. Soluzione del Giudice delle Leggi
Preliminarmente, la Consulta rigettava l’eccezione di inamissibilità dell’Avvocatura dello Stato ritenendo come, quanto richiesto dal Giudice remittente, non era una diretta estensione della disciplina dell’art. 657 bis c.p.p. al rito minorile bensì la: “attribuzione al giudice di un potere discrezionale, in forza del quale egli dovrebbe essere posto in grado di determinare la residua pena da espiare «tenuto conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del comportamento tenuto dal minorenne durante il periodo di sottoposizione alla messa alla prova»: al di fuori, dunque, di ogni automatismo.”[14], attribuendo, pertanto, analoga estensione al potere interpretativo della Corte di quello utilizzato nella sentenza n. 343 del 1987 in tema di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova, per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova e relativi poteri del Tribunale di sorveglianza in punto di determinazione della residua pena detentiva da espiare.
Venendo al merito della pronuncia, si evince come, sin dai primi passaggi della motivazione, la Consulta rimarchi la differenza strutturale che intercorre tra la probation del rito minorile e l’omologo istituto previsto per imputati maggiorenni, nonché la misura alternativa alla detenzione dell’affidamento in prova al servizio sociale, citata dalla Corte rimettente (con il richiamo alla sentenza n. 343 del 1987), ed indicata quale: “strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)”[15]. Queste due misure, pur mirando alla risocializzazione del condannato, non possono rimanere scollegate dalla connotazione prettamente sanzionatoria che le ancora al fatto di reato per cui si procede.
La Consulta prosegue esaminando l’istituto della messa alla prova per i maggiorenni, citando il precedente della Corte n. 91/18 che ha richiamato, affermandola, la duplice natura, processuale e sostanziale, dell’istituto[16] che, in ogni caso, assume la valenza di un vero e proprio “trattamento sanzionatorio” che persegue lo scopo della risocializzazione del reo, in ossequio al disposto di cui all’art. 27 comma 3 Cost.. Trattamento la cui esecuzione è rimessa allo spontaneo adempimento dell’interessato e che si colloca in via anticipata rispetto all’ordinario accertamento del fatto e della responsabilità dell’imputato; infatti, per ammetterlo, esaminati gli atti del fascicolo del Pubblico Ministero, il Giudice, in base all’art. 464 quater c.p.p., dovrà soltanto verificare che non ricorrano le condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.
A conferma della valenza sanzionatoria della probation per gli imputati maggiorenni, la Corte rimarca la presenza di elementi di peculiare afflittività che la connotano, quale l’obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto – art. 168 bis c.p. – di prestare lavoro non retribuito di pubblica utilità cui si affianca la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno.
La Consulta poi ritorna sulla messa alla prova per i minorenni, istituto radicalmente diverso dall’omologo previsto per gli imputati maggiorenni. In modo tranchant, viene detto, nella sentenza qui in commento che, alla stessa “non può essere ascritta alcuna funzione sanzionatoria”. Tale assunto si evidenzia da numerose considerazioni: innanzi tutto, una volta accertata – seppur sommariamente – l’esistenza del fatto di reato attribuibile all’imputato, la messa alla prova è consentita in relazione a qualsiasi tipo reato (in astratto anche quelli puniti con l’ergastolo[17]), variando solo la durata (da dodici mesi, sino a tre anni).
Ancora, altro argomento di interesse sottolineato dalla Consulta è quello per cui, all’art. 27 comma 2 d.lgs. 272/89 non si rinviene alcun obbligo di prevedere prestazioni di lavoro di pubblica utilità, né “compare alcun riferimento, qui, ai criteri generali di commisurazione della pena di cui all’art. 133 cod. pen. per orientare la discrezionalità del giudice e dei servizi sociali nella definizione delle prescrizioni, a differenza di quanto si è visto accadere nella disciplina della messa alla prova per gli adulti”[18].
Una sintesi delle argomentazioni svolte dalla Consulta, conduce ad individuare il significato delle prescrizioni contenuto nel programma della messa alla prova come stimolo ad un percorso rieducativo del minore, in un’ottica di sviluppo della personalità. Anche le prescrizioni che limitano la sfera di agire del minore (si pensi alla frequenza a corsi scolastici e/o professionali, ovvero ai momenti terapeutici) non possono essere considerate a carattere sanzionatorio, ma fungono da “occasioni educative” funzionali a stimolare il cambiamento e la revisione critica della propria condotta; il loro contenuto precettivo-impositivo è espressione proprio della finalità educativa e, pertanto, in alcun modo potranno essere intese come sanzioni anticipate rispetto alla pena per il fatto di reato commesso, bensì come vere e proprie occasioni di riscatto e formazione.
6. Conclusioni
Questo passaggio conclusivo della pronuncia, richiama alla mente un’interessante considerazione letta in un contributo edito su Cassazione Penale, elaborato dal gruppo di lavoro sulla giustizia penale minorile milanese, passaggio che qui si vuol riportare e che, sostanzialmente, si ritiene racchiudere il senso del condivisibile assunto della pronuncia della Consulta, in questa sede esaminata: “L’obbiettivo centrale della messa alla prova per l’adolescente antisociale è la progressiva acquisizione di un apparato per pensare i pensieri che consenta di elaborare le esperienze emotive per tradurle in significato come cibo per la mente, piuttosto che relegarle in un accumulo di disagio destinato ad essere estroflesso ed evacuato con l’agito delinquenziale. Lo sviluppo della capacità pensante è la condizione necessaria e preliminare al superamento delle difficoltà maturative manifestate nella tendenza all’agire. In altre parole è l’acquisizione di una compiuta capacità simbolica che consente di trasferire dal registro operatorio-concreto brutale ed invasivo dell’azione criminosa, al registro linguistico e condiviso, la negoziazione del soddisfacimento degli stati del Sé, dove l’Altro può essere considerato nella sua separatezza e nella sua integrità. È possibile con ciò il raggiungimento di una dimensione etica, dove la preservazione e il benessere dell’Altro possono essere percepiti anche come benessere per il sé, e dove è possibile la fuoriuscita dalla dimensione depauperativa del “mors tua vita mea” per orientarsi in quella reciprocamente valorizzante del “vita tua vita mea”, foriera di una crescita autentica e reciproca”[19].
[1] Giostra G., Il processo penale minorile. Commento al D.PR. 448/1988, Milano, Giuffrè, 2009;
[2] Pazè, Il sistema della giustizia minorile in Italia, Rassegna Italiana di Criminologia, 4/2013, p. 210;
[3] I. Maci, Per un penale minorile partecipato: il modello delle Family group conference, in Minorigiustizia, 2013, 1, pp. 128-138;
[4] E. Fraccarollo, Intervista a Piercarlo Pazè, direttore della rivista minorigiustizia, sulla pratica della messa alla prova in Italia, in www.minoriefamiglia.it;
[5] L. Fadiga, Le origini del processo penale minorile: i lavori preparatori del dpr 448/1988, in rivista Diritto Minorile, n. 1/2009, p. 2
[6] Pricoco Maria Francesca, Il processo penale minorile: educare e riparare, in XXVIII Convegno nazionale "Infanzia e diritti al tempo della crisi: verso una nuova giustizia per i minori e la famiglia”, Milano, 13 -14 novembre 2009;
[7] http://www.centrostudinisida.it/Statistica/index.html
[8] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[9] In relazione al processo per fatti di ricettazione, erano previsti interventi quali: orientamento formativo e lavorativo, sostegno per il conseguimento del patentino per il ciclomotore, per il mantenimento della frequenza di uno sport di squadra, per lo svolgimento di attività di utilità sociale, colloqui di monitoraggio con l’assistente sociale e di sostegno psicologico dell’équipe penale; in relazione al secondo processo per fatti di violenza sessuale, di converso, erano previsti interventi quali: mantenimento della frequenza scolastica, con profitto e buon comportamento, colloqui di sostegno psicologico, con cadenza quantomeno quindicinale, finalizzati anche alla rielaborazione dei reati e dei sottesi stili di vita e relazionali con i pari; svolgimento di attività socialmente utili inizialmente presso un oratorio e successivamente presso altri contesti al fine di incentivare “sentimenti di condivisione e di empatia”, attività di servizio alla persona, con l’inserimento, ove possibile, in gruppi rivolti alla presa in carico di minori coinvolti in reati di stampo sessuale, nonché colloqui di verifica e di sostegno con l’assistente sociale, con il coinvolgimento dei familiari – evidentemente, nell’ottica della Family group conference cui prima si faceva riferimento;
[10]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[11]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[12]Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[13] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[14] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[15] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[16] Istituto che:“«[d]a un lato, nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall’altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272)” - Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[17] L. Camaldo, Sospensione del processo e messa alla prova del minore imputato di omicidio : una recente decisione del Tribunale per i minorenni di Milano, Cass. Pen., 2006, pp. 1589-1598.
[18] Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2019 del 29/3/19.
[19] Gruppo di Lavoro del Tribunale per i Minorenni di Milano, Il trattamento dei minori sottoposti alla messa alla prova: griglia per i servizi psico-sociali, Cass.Pen., 5/2012, p. 729 e ss.
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