ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le Sezioni Unite sull'aggravante dell'agevolazione mafiosa e sul concorso esterno
di Andrea Apollonio
Sommario:1. Attività giudiziale e fenomeno mafioso - 2. Le Sezioni Unite "Chioccini" - 3. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Thyssen" - 4. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Demitry" e "Mannino" - 5. La complessiva ricostruzione - criminologica e dogmatica - dell'area della contiguità mafiosa.
1.Attività giudiziale e fenomeno mafioso
Uno dei più autorevoli studiosi del diritto penale e delle sue interazioni con l'ambito giudiziale metteva in luce qualche anno addietro come le disposizioni si estendano «per analogia con la costruzione di una nuova "dispositio": vale altrimenti (se non c’è analogia) la vecchia disposizione arricchita di casi nuovi»[1]. Partendo cioè dalle disposizioni, che sono enunciati normativi, si arriva al loro contenuto reale tramite l'interpretazione e l'applicazione ai casi. La norma, pertanto, è solo il risultato dell'interpretazione della disposizione astratta.
Nonostante la distinzione tra disposizione e norma risalga le basi del pensiero giuridico moderno ed involga l'intera teoria generale del diritto[2], è sopratutto nella materia criminale che i meccanismi giudiziali razionali, di tipo puramente sillogistico, rappresentano illusioni (e retaggi storici) di esatta calcolabilità del diritto[3]. Invero, l'esercizio del diritto giurisprudenziale, teso a riempire di significato precettivo la fattispecie a partire dal suo dato testuale, è - al di là del suo «indiscutibile successo»[4] di cui si parla in termini non rassicuranti in dottrina - inevitabile, per quei tipi giuridici che sintetizzano un universo criminologico estremamente denso e complesso.
E' sicuramente il caso della congerie di norme volte a contrastare il pervicace fenomeno mafioso, secondo alcuni interpreti configurate tramite una «tecnica di tipizzazione [che] sconta un certo grado di genericità»[5]. A ben vedere, poiché lo scarso rilievo semantico cade direttamente dai contorni poco nitidi della figura-madre, quella di cui all'art. 416-bis c.p. (metodo mafioso e agevolazione della consorteria), che fa riferimento ad un paradigma criminologico - quello appunto di "mafia" introdotto nel 1982 - di per sé poco definibile.
In questo panorama normativo assumono una decisiva rilevanza ermeneutica gli arresti delle Sezioni Unite (persino più che in altri campi del diritto penale): basti solo pensare che due fattispecie satellite del reato di associazione mafiosa - il c.d. "concorso esterno" e l'aggravante di cui all'art. 416-bis.1 c.p. - hanno visto ciascuna pronunciarsi tre volte il supremo consesso della Cassazione. Di talché, decisiva rilevanza assume la sentenza delle Sezioni unite penali, n. 8545 del 19 dicembre 2019 (dep. 2 marzo 2020), imp. Chioccini, dal momento che, pur dovendo affrontare una questio iuris attinente l'aggravante della c.d. "agevolazione" mafiosa, riapre cruciali questioni interpretative anche riguardo al concorso esterno: su cui, come noto, nell'ultimo ventennio si sono scatenate vere e proprie "guerre di religione"[6].
Adottata una tale prospettiva duplice, questa sentenza diviene giocoforza un riferimento interpretativo tra i più rilevanti degli ultimi anni: tanto che con i principi affermati su queste due figure (sebbene nel caso del concorso esterno valgano quali obiter dicta, non essendo questo il thema decidendum rimesso alle Sezioni Unite), l'ampia area della contiguità alla mafia può dirsi aver cambiato - per l'ennesima volta - le proprie fattezze.
2. Le Sezioni Unite "Chioccini"
L'art. 416-bis.1 c.p., prevede che «Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416 bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà». Come detto, le Sezioni Unite intervengono per la terza volta sulla circostanza aggravante, affrontando adesso la questione che più d'ogni altra ha tenuto impegnati gli interpreti, se cioè la figura dell'agevolazione «abbia natura soggettiva concernendo le modalità dell'azione, ovvero abbia natura soggettiva concernendo la direzione della volontà». Sebbene infatti la struttura duplice della fattispecie faciliti una differente lettura delle condizioni delittuose - da un lato ci si deve oggettivamente valere del metodo mafioso, dall'altro le modalità dell'azione devono essere rivolte in senso teleologico all'agevolazione dell'attività dell'associazione mafiosa - ciò legittimando la dottrina a ribadire, con poche eccezioni[7], che «la prima ipotesi si connota in termini oggettivi, mentre quella consistente nella finalità agevolatoria è, all'opposto, da qualificarsi come soggettiva»[8], non mancano pronunce della Cassazione che hanno affermato per entrambe le figure la natura oggettiva, poiché la previsione de qua riguarderebbe, a ben vedere, una modalità dell'azione rivolta ad agevolare l'associazione mafiosa.
A seconda dall'inquadramento teorico prescelto discendono conseguenze pratiche di grande rilievo sotto il profilo concorsuale, perché ritenendo la circostanza oggettiva, attinente cioè alle modalità dell'azione ai sensi dell'art. 70 c.p., essa può essere estesa ai correi; diversamente, sottolineando la necessità di un atteggiamento di tipo psicologico dell'agente, tale da richiamare i motivi a delinquere, andrebbe applicata la regola di cui all'art. 118 c.p., secondo cui, versando in questo caso, la circostanza è valutata soltanto alla persona a cui si riferisce.
La sentenza dunque evidenzia anzitutto l'assenza di un chiaro statuto applicativo dell'aggravante in parola, emergendo per questa via problemi legati da un lato alla prevedibilità e all' accessibilità della norma penale nei suoi effettivi contenuti precettivi, dall'altro, sotto il profilo della colpevolezza, al rischio di configurare una responsabilità oggettiva, da posizione[9], volta a punire - aggravando il reato base perpetrato - la mera prossimità, anche in forme collaborative, con soggetti che, dal canto loro, agevolano gruppi mafiosi.
Si affronta quindi in prima battuta la questione della natura giuridica rimessa: «Non vi è dubbio [...] che il fine agevolativo costituisca un motivo a delinquere», dovendosi pertanto ritenere che «il dato testuale imponga la qualificazione della circostanza nell'ambito di quelle di natura soggettiva». Secondo la Corte, infatti, valutando più attentamente gli orientamenti giurisprudenziali si evince che la maggior parte delle posizioni ermeneutiche non arrivano al punto di escludere che la circostanza possa essere inquadrata tra quelle relative ai motivi a delinquere. Quando - proseguono i giudici sul loro filo argomentativo -sul piano dell'accertamento è richiesto - pur considerando l'aggravante di natura soggettiva - un ulteriore elemento di natura oggettiva, attinente alle modalità (recte: all'idoneità) dell'azione, questo non viene configurato come elemento costitutivo della fattispecie, ma come fatto da cui desumere la prova della sussistenza dell'elemento psicologico: non trattandosi quindi di un ulteriore elemento strutturale, nulla preclude la riconducibilità della previsione ai "motivi a delinquere" di cui all'art. 118 c.p. E, si aggiunge in sentenza, un tale approdo non sarebbe impedito neppure da chi valorizza l'elemento obiettivo «non a meri fini di prova del dolo specifico, bensì quale ulteriore elemento costitutivo dell'aggravante, nell'ottica di rendere la disposizione di cui all'art. 416-bis.1 c.p. maggiormente aderente al principio di offensività», postulando quindi - al più - una natura "mista" dell'aggravante.
E' solo adesso, accertata la natura soggettiva dell'aggravante, che la Corte può approcciarsi alla dommatica della figura circostanziale: si incarica pertanto di tracciare una linea di demarcazione, da un lato rispetto al tipo di dolo che deve caratterizzare colui che agisce per agevolare la compagine mafiosa, e dall'altro - più che per l'integrazione in sé della circostanza - ai fini dell'estensione della stessa ai concorrenti nel reato. In questo senso, la Corte prende atto dell'esigenza di riordino degli elementi costitutivi e di disciplina dell'aggravante in parola e differenzia le due forme di accertamento giudiziale.
Anzitutto, un accertamento di "primo livello", riguardante l'elemento soggettivo necessario ad integrare l'aggravante, che secondo alcuni - per lo più i fautori della teoria soggettivista - si sostanzierebbe in un marcato dolo specifico, in cui l'agente, oltre alla coscienza e volontà del fatto integrante l'elemento soggettivo del reato base, agisce per il fine particolare di agevolare l'associazione (a cui possono anche sommarsi altre finalità, più personali ed egoistiche), secondo altri - per lo più i fautori della teoria oggettivista - può ridursi alla mera consapevolezza della direzione della condotta e della sua idoneità ad agevolare l'attività della compagine. Si tratta quindi di stabilire, fuori dal problema dell'estensibilità ai concorrenti, la veste tassonomica del dolo proprio della circostanza aggravante - ontologicamente differente da quello del reato base - posto che, in ogni caso, tutte le chiavi di lettura proposte conferiscono rilievo ad una ricaduta oggettiva dell'aspirazione dell'agente, nel senso cioè che l'azione debba risultare oggettivamente idonea al perseguimento del fine agevolativo.
Un accertamento di "secondo livello" investe invece i concorrenti nel reato aggravato. In questo caso, rispetto al requisito necessario ad estendere a costoro l'aggravante, possono enumerarsi tre diverse possibilità applicative: la condotta del concorrente è improntata ad un dolo specifico uguale, simmetrico a quello che caratterizza la condotta effettivamente agevolativa dell'agente principale (entrambi quindi agiscono col fine particolare di agevolare l'associazione, oppure, postulando un diverso gradiente soggettivo, con il medesimo dolo diretto); il concorrente agisce nella consapevolezza che il proprio contributo stia accedendo ad una condotta altrui caratterizzata da dolo intenzionale, che sta agevolando un'associazione mafiosa (in questo caso differenziandosi i gradi del dolo nell'ambito del concorso di persone); in ultimo, il concorrente potrebbe versare in una mera ignoranza colposa (ed è questa la soluzione prospettata, in particolare, dai fautori della tesi oggettivista, che ritengono sufficiente - ex art. 59 c.p. - per tutti i correi l'ignoranza colposa dell'agevolazione della compagine mafiosa).
Occorre quindi chiedersi, in primo luogo, quale sia la forma del dolo richiesta dall'art. 416-bis.1, sub specie dell'agevolazione, e conseguentemente quanto debba essere rilevante presso i concorrenti del reato aggravato la copertura volitiva della funzionalizzazione dell'attività criminosa verso l'associazione mafiosa. In questo senso, la Corte è chiamata a configurare uno statuto applicativo che abbracci tanto la natura e il coefficiente psicologico della circostanza, in sé considerata, tanto il problema dell'estensione della stessa ai correi, alla luce della disciplina di cui all'art. 118 c.p.
3. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Thyssen"
E' interessante notare che nel ripercorrere l'elemento soggettivo come sopra declinato, si fa riferimento alle note Sezioni Unite "Thyssen"[10] applicandone i principi; o, per meglio dire, declinando in maniera più netta le speculazioni sul dolo: «che nella forma diretta si limita alla rappresentazione e non alla volizione, oltre che dell'azione delle sue conseguenze».
Per il vero, la distinzione avanzata nella "Thyssen" all'interno dell'elemento psicologico più marcato - seppure in motivazione ed in guisa di obiter dictum: perché, anche lì, non era esattamente la distinzione tra dolo diretto e dolo intenzionale la questione da affrontare - la si potrebbe così sintetizzare: nel dolo intenzionale l'evento di reato è lo scopo stesso dell'azione, nel dolo diretto esso si pone come collaterale del fine perseguito, non direttamente voluto ma come tale senza dubbio accettato; in altre parole, questo si ha quando l'evento è ritenuto dall'agente altamente probabile o certo, e l'autore non si limita ad accettarne il rischio, ma accetta l'evento stesso, cioè lo vuole e con un'intensità evidentemente maggiore che nel dolo eventuale. E' dato comprendere che, nell'alveo della "Thyssen", nel dolo diretto coabitano ancora l'elemento rappresentativo e quello volitivo, sebbene il concetto stesso di "accettazione" diluisca inevitabilmente il secondo a favore del primo.
Come detto, la pronuncia in esame rielabora diversamente l'elemento doloso, con un passaggio che mostra di emanciparsi dalle più tradizionali letture dottrinali che hanno sempre interpretato il rapporto psicologico con l'evento in termini - pressoché inscindibili - di rappresentazione e volontà, persino con riferimento al dolo eventuale[11].
Questa scissione interna al dolo, questo - per meglio intenderci - ribaltamento delle letture tradizionali, che le Sezioni Unite "Thyssen" non avevano portato a compimento, rimanendo sul punto come sospese, preferendo giostrare il proprio percorso motivazionale sul bilanciamento tra rappresentazione e volontà (con particolare riguardo al primo elemento senza mai privarsi del tutto, nel campo del dolo non eventuale, del secondo), sembra invece essere stata conseguita - e scientemente perseguita - nella pronuncia in commento, in cui molti passaggi - finanche nel principio di diritto rassegnato - si riferiscono al dolo diretto in termini di mera consapevolezza (che l'azione arrivi obiettivamente ad agevolare l'associazione mafiosa).
Anche perché una ricostruzione "separata" di rappresentazione e volontà nel caso in esame si dimostra funzionale ad elaborare i principi di diritto infine rassegnati, connessi da un lato alla struttura dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa, dall'altro alla sua estensibilità ai correi: «L'aggravante agevolatrice dell'attività mafiosa prevista dall'art. 416-bis.1 c.p. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo intenzionale; nel reato concorsuale si applica al concorrente non animato da tale scopo, che risulti consapevole dell'altrui finalità». Dolo intenzionale da un lato; dolo diretto (per il concorrente) dall'altro.
E' di tutta evidenza come, a dover essere approfondita alla luce dei principi generali, è sopratutto la posizione del concorrente, per la cui affermazione di responsabilità penale è sufficiente un gradiente psichico inferiore rispetto all'agente, per così dire, principale (l'autore del reato monosoggettivo).
E' anzitutto lumeggiato come l'insieme dei precetti che governano il tema delle circostanze aggravanti sia stato ridisegnato dalla novella contenuta nella legge 7 febbraio 1990, n. 19, che ha quale scopo precipuo quello di estirpare ogni residuo di responsabilità oggettiva, anche su elementi non costitutivi del reato: da ciò deve discendere un'attenzione costante al principio di colpevolezza nell'estendere la circostanza aggravante, che tuttavia - afferma la Corte - non impedisce di intendere in senso meno rigoroso il portato applicativo dell'art. 118 c.p., che «non prevede l'impossibilità di estensione delle circostanze soggettive tout court, ma opera un'indicazione autonoma», nella misura in cui questo tipo di circostanze, come afferma la norma, devono essere «valutate soltanto con riguardo alla persona a cui si riferiscono».
Occorre dunque - sembra dire la Corte - una valutazione in astratto sul tipo di circostanza ed una in concreto sulla vicenda delittuosa - da cui si possa evincere «la possibilità di estrinsecazione della circostanza all'esterno». E l'agevolazione mafiosa permetterebbe, in sostanza, una tale estrinsecazione. Cosicché, «qualora si rinvengano elementi di fatto suscettibili di dimostrare che l'intento dell'agente sia stato riconosciuto dal concorrente, e tale consapevolezza non lo abbia dissuaso dalla collaborazione, non vi è ragione per escludere l'estensione della sua applicazione, posto che lo specifico motivo a delinquere viene in tal modo reso oggettivo»[12].
La soluzione ermeneutica relativa alla comunicabilità della circostanza passa quindi da una vistosa deroga del principio scolpito all'art. 118 c.p., che fa rivivere la meno rigorosa dinamica estensiva di cui all'art. 59 cpv., ed è tutta improntata sul concetto già espresso di consapevolezza (recte: su una condotta caratterizzata da dolo diretto): il reato aggravato ex art. 416-bis.1 c.p. si applica al concorrente non animato da tale scopo ma che risulti consapevole dell'altrui finalità.
La regola di imputazione soggettiva (ex art. 59 c.p.) è dunque quel dolo diretto inteso come mera rappresentazione, priva del controcanto volitivo; definito, in altri termini, come rappresentazione e consapevolezza dello scopo altrui, con la doverosa specificazione che una siffatta cognizione delle cose non abbia frenato l'agire delittuoso. Una specificazione che tanto ricorda le molte formule adattabili al dolo eventuale, e che forse la include, se è vero che - come si premura di specificare la Corte - «per il coautore del reato, non coinvolto nella finalità agevolatrice, è sufficiente il dolo diretto, che comprende anche le forme del dolo eventuale».
4. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Demitry" e "Mannino"
Dolo diretto del concorrente, che sembra essere lo stesso che caratterizza il concorso esterno nell'associazione mafiosa, figura con cui la Corte intende confrontarsi[13]. La sentenza infatti costruisce la differenza tra le due fattispecie considerate dalla dottrina prossime e promiscue[14], prendendo però in esame un modello di concorso esterno non armonico a quello di riferimento nell'attuale panorama interpretativo, quello delle Sezioni Unite "Mannino"[15]: sentenza rispetto ai cui principi essenziali il "diritto vivente" elaborato in seguito, pur specificando molte questioni lasciate aperte, aderisce con poche divergenze.
In particolare, rispetto all'elemento oggettivo del reato concorsuale, nella sentenza in commento si afferma che «elemento differenziale della condotta è l'intervento non tipico dell'attività associativa, ma maturato in condizioni particolari (la c.d. fibrillazione o altrimenti definita situazione di potenziale capacità di crisi della struttura)»: una forma di agevolazione in particolari frangenti temporali della vita associativa, quella cui ci si rifà, ritenuta qualificante dalle Sezioni Unite "Demitry" nel 1994 (le prime intervenute sull'istituto)[16], secondo cui è proprio nei momenti di crisi dell'associazione che l'apporto del concorrente (eventuale) raggiunge il suo scopo rafforzativo; tesi che tuttavia, per evidenti aporie logiche, era stata ampiamente superata - e di fatto mai più ripresa - dalla giurisprudenza successiva, infine cassata dall'ultimo approdo delle Sezioni Unite del 2005, secondo cui il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa costituisce il normale modus operandi delle organizzazioni e non è invece legato, in alcun modo, a momenti di fibrillazione o a difficoltà contingenti.
Dalle Sezioni Unite "Mannino" sembra discostarsi anche l'affermazione per cui il concorso esterno necessita del dolo diretto, diversamente dalla figura circostanziale che è, come detto, legata al dolo intenzionale, sopratutto ove si consideri che in questa pronuncia la Corte si rifà ad un dolo diretto che, come già sottolineato, si limita alla rappresentazione e non alla volizione: una prospettazione, anch'essa, più vicina a quanto si diceva nella "Demitry" piuttosto che alle operazioni di puntellamento dell'elemento soggettivo eseguite nella "Mannino", che nettamente esclude forme psicologiche di mera rappresentazione nell'integrazione del concorso eventuale.
Anche questa interpretazione del concorso esterno, che sembra risalire agli esordi del processo di definizione pretoria della fattispecie, può essere intesa come il prodotto - forse, la conseguenza - della ricostruzione separata del dolo, che si emancipa dalla volizione dell'evento e delle conseguenze della propria condotta, pur senza sfociare (almeno da un punto di vista formale e tassonomico) nel problematico campo del dolo eventuale: sarebbe proprio questa forma di dolo diretto, secondo la Corte, il coefficiente di imputazione soggettiva sufficiente ad integrare il reato di concorso esterno, diversamente dalla circostanza de qua, che richiederebbe il combinato soggettivo di rappresentazione e volontà nella sua veste di dolo intenzionale (e specularmente, come già evidenziato, il dolo diretto per il concorrente).
5. La complessiva ricostruzione - criminologica e dogmatica - dell'area della contiguità mafiosa
La disamina della sentenza suscita taluni rilievi critici da avanzarsi rispetto alla necessità che alcuni passaggi fossero corredati da un più ampio apparato motivazionale. Necessità avvertita rispetto alla rivisitazione dei principi in tema di dolo delle Sezioni Unite "Thyssen", che comporta, proprio perché espresso dalle stesse Sezioni Unite qualche anno più tardi, un'oscillazione giurisprudenziale fatalmente oggetto di nuovo dibattito pretorio; come pure, qualche perplessità rimane nel tratteggio del concorso esterno effettuato dalla sentenza in commento, che sembra rimettere in pista una giurisprudenza abbandonata dagli interpreti da oltre un ventennio: così amplificando l'esigenza, da tempo pressante, di un intervento legislativo chiaro e puntuale sul concorso esterno[17].
Nondimeno, appaga la complessiva ricostruzione - giuridica e criminologica, l'una natura discendendo dall'altra - dell'area della contiguità mafiosa. Quel cordone di contenimento dell'agevolazione mafiosa, steso dal legislatore penale del 1991 (anche) con l'introduzione di questa peculiare figura aggravatrice, non può dunque limitarsi a comprendere le condotte di chi abbia un collegamento diretto con l’associazione e voglia attivamente sostenerne gli obiettivi, ma deve coinvolgere e sanzionare anche altre categorie di agenti: anzitutto chi, sulla base di risultanze probatorie obiettive, risulti consapevole che il proprio contributo vada ad agevolare, seppur occasionalmente, seppur con un'unica condotta perpetrata, la compagine mafiosa.
Con quest'ampliamento casistico ci si avvicina molto – sempre discorrendo sul piano criminologico - alla cerchia dei professionisti, dei colletti bianchi, a cui il mondo mafioso si appoggia con notevole profitto, sopratutto con riguardo alle attività economiche poste in essere dalle "mafie imprenditrici". E' anche a questi tipi d'autore, fortemente caratterizzati (e basti solo pensare ai riciclatori dei capitali mafiosi), che la Corte pone mente definendo la circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa in senso soggettivo, agganciandola però ad elementi obiettivi di condotta che lumeggino tanto il profilo offensivo tanto il grado di dolo mostrato, e soprattutto permettendone l’estensione, veicolandola attraverso un elemento soggettivo meno marcato ma comunque doloso: in tal modo, le Sezioni Unite scolpiscono su una norma che «rappresenta garanzia di maggiore efficacia della funzione preventivo-repressiva del fenomeno mafioso» (così la Corte, nella sua premessa), un principio di diritto dall'elevato tasso general-preventivo, sopratutto rispetto al vasto mondo dei "consigliori", dei professionisti e dei funzionari pubblici "a disposizione"[18], i cui comportamenti contigui all'associazione mafiosa saranno adesso valutati, tra l'altro, nel largo alveo interpretativo dell'art. 416-bis.1 c.p., sub specie dell'agevolazione.
Da quest'approccio teorico-applicativo a base criminologica si dipana la ricostruzione dogmatica della circostanza, da trattare - almeno rispetto ai suoi elementi di struttura - come fattispecie autonoma, dal momento che essa non vale soltanto a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva, con riferimento al peculiare bene protetto, ma spesso riesce ad assorbire il disvalore del reato a cui accede[19], tanto da determinare - la circostanza - conseguenze di grande rilievo sostanziale, processuale, penitenziario[20].
Emerge una figura circostanziale caratterizzata, per quanto appena detto, da pericolo astratto, nondimeno costruita su di una condotta offensiva, obiettivamente idonea allo scopo, e, sul versante soggettivo, da dolo (anche) di pericolo, nonché da un dolo specifico marcatamente anticipatorio[21]. Ciò, volendosi sanzionare quell'agevolazione che produca «l'effetto del rafforzamento, se non concretamente della compagine, del pericolo della sua espansione»: non si spiegherebbero altrimenti i condivisibili richiami ad un altro scopo della norma: quello di evitare «fenomeni emulativi, essi stessi forieri di un rafforzamento della tipica struttura mafiosa», ad ulteriore riprova della collocazione della fattispecie nel campo del pericolo astratto. Il tema dei fenomeni "emulativi" richiamati in sentenza ha un connotato criminologico che, in questo senso, è davvero illuminante, perché chi emula opera su di un piano parallelo a quello dell'associazione, ritenendo possibile il contatto e l'apporto materiale: ciò può avvenire, ma è più logico che non accada.
D'altronde, si tratta di un'anticipazione della tutela penale necessitata dalla fisionomia dell'oggetto di tutela[22] che nel caso di specie notoriamente richiede, accanto ad un'attività di elaborazione delle leggi e della loro interpretazione, il massimo grado di attenzione e di sforzo delle istituzioni politiche e sociali.
[1] Donini, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell'illecito interpretativo, in Dir. pen. cont., 3, 2016, p. 8.
[2] Cfr. Crisafulli, Disposizione (e norma) (voce), in Enc. Dir., XIII, 1964, p. 195 ss.
[3] Sul punto sia sufficiente il pensiero ad un noto teorico della "crisi della fattispecie": Irti, Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, p. 987 ss.; Id., Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., 2016, p. 917 ss.
[4] Donini, Il diritto giurisprudenziale, cit., p. 4.
[5] Così Fiandaca, Commento all'art. 1 della Legge 13 settembre 1982, n. 646 (Norme antimafia), in Leg. pen., 1983, p. 263
[6] Il riferimento testuale è al lucido contributo di Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, in Dir. pen. cont., 1, 2012, p. 252
[7] Ad esempio si concentra sull'aspetto più concreto ed immediato dell'offesa Fondaroli, Commento sub art. 7 D.L. 152/91, in Palazzo – Paliero (diretto da), Commentario breve alle leggi penali complementari, Cedam, 2007, p. 820; vd. anche Squillaci, La circostanza aggravante della c.d. agevolazione mafiosa nel prisma del principio costituzionale di offensività, in Arch. pen., 2011, p. 15.
[8] Guerini - Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Giappichelli, 2019, p. 132.
[9] Una forma di responsabilità che si pone, come noto, in contrasto con i principi di legalità e colpevolezza: sul punto si veda Pelissero, Il concorso doloso mediante omissione: tracce di responsabilità di posizione, in Giur. it., 2010, p. 978 ss.; con riferimento alle forme di responsabilità da posizione nel contesto associativo e mafioso, cfr. Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazioni per delinquere, in Cass. pen., 1995, p. 263.
[10] Sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343, in Cass. pen., 2015, p. 4624 ss., con nota di De Francesco, Dolo eventuale e dintorni: tra riflessioni teoriche e problematiche applicative, che, come noto, ha suscitato un variegato dibattito nel campo dottrinale: cfr. anche Bartoli, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni unite sul caso "Thyssenkrupp", in Giur. it., 2014, p. 2566 ss.; De Vero, Dolo eventuale e colpa cosciente: un confine tuttora incerto. Considerazioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 77 ss.
[11] Bricola, Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di accertamento e di oggetto del dolo, Giuffré, 1960, p. 28; Pecoraro Albani, Il dolo, Jovene, 1955, p. 325 ss.; da ultimo Pulitanò, Diritto penale, V° ed., Giappichelli, 2013, p. 315: «Il contenuto tipico del dolo eventuale deve avere un afferrabile contenuto intellettivo e volitivo». Peraltro, una ricostruzione in questo senso della nozione di dolo eventuale sarebbe operativa già sul terreno della tipicità penale, ex artt. 42 e 43 c.p.: così Raffaele, op. cit., p. 420, anche sulla scorta del pensiero di Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Giuffré, 1999, p. 71.
[12] Ad una simile conclusione applicativa era giunto il Pubblico Ministero nelle sue note d'udienza, passando però da una diversa lettura della norma, che non transitava dai "motivi a delinquere": la circostanza dovrebbe essere classificata «come “oggettiva” in quanto ex art. 70 c.p. afferente a “la gravità del danno o del pericolo”, se si facesse riferimento al bene giuridico preso in considerazione nella previsione normativa», applicando in tal modo ai compartecipi «il generale regime di imputazione minimo delle aggravanti di cui al secondo comma dell'art. 59 c.p.».
[13] Confronto che d'altro canto era stato sollecitato dal Pubblico Ministero, per cui la Corte avrebbe dovuto vagliare, tra l'altro, la questione dei «rapporti tra la ritenuta necessità di un dolo specifico dell’aggravante qualificata, come soggettiva e la giurisprudenza di codeste sezioni unite che hanno considerato il dolo specifico di agevolazione dell’associazione come componente strutturale del reato di concorso esterno in associazione mafiosa».
[14] Ad es. Siracusano, Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, p. 1875, afferma che una volta elaborato per via giurisprudenziale o addirittura tipizzato, il concorso esterno potrebbe soppiantare la speculare figura circostanziale di carattere agevolativo.
[15] Sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, in Cass. pen., 2005, p. 3732 ss.
[16] Sez. un., 5 ottobre 1994, n. 16, in Cass. pen., 1995, p. 842 ss.
[17] Sul punto De Vero, Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, in Dir. pen. e proc., 2003, p. 1327 ss.; Maiello, Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge in AA.VV. Scenari di mafia, a cura di Fiandaca e Visconti, Giappichelli, 2010, p. 172; volendo, si veda inoltre Apollonio, Potere politico e leggi antimafia nella Seconda Repubblica, in Apollonio (a cura di), Processo e legge penale nella Seconda Repubblica, Carocci, 2015, p. 142.
[18] Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico criminali, dommatici e applicativi, Dike, 2016, p. 62, afferma che l'ampiezza applicativa dell'aggravante in parola generalmente riesce a fornire una «risposta sanzionatoria proporzionata alla gravità dei fatti rispetto a tutte le condotte, oggettivamente o soggettivamente, riconducibili nella sfera della contiguità politico-mafiosa». Un'affermazione che oggi rinviene nuova linfa nella sentenza in commento.
[19] Sarebbe limitativo, non fosse altro che per il disvalore che promana ed il bene giuridico protetto (lo stesso del reato di associazione mafiosa), indicarla come un elemento che sta "attorno" al reato, al pari di qualsiasi altra circostanza.
[20] Una tesi che, volendo, è già stata evocata in Apollonio, Il metodo mafioso nello spazio transfrontaliero. Il problema dei rapporti tra l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152/1991 e quella della transnazionalità (art. 4 L. 146/2006), in Dir. pen. cont., 1, 2018, p. 11.
[21] Una tale tecnica compilativa nei reati a sfondo mafioso, con riferimento alla tipizzazione dell'elemento soggettivo, è stata presa in esame da Marino, "Il "filo di Arianna". Dolo specifico e pericolo nel diritto penale della sicurezza, in Dir. pen. cont., 6, 2018, p. 61: «l’apicalità dei beni coinvolti nei settori, ad esempio, della mafia e del terrorismo, spiega il ricorso legislativo al paradigma anticipatorio».
[22] Se è vero che occorre sempre calibrare il giudizio sul bene giuridico tutelato, sfuggendo alla tentazione - che da sempre aleggia nel campo dei reati di pericolo astratto o presunto - di giungere a conclusioni perentorie «su base ontologica»: così Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Giappichelli, 2005, p. 289; Fiandaca, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 454 ss.
Lo smart working in tempo di covid-19
di Antonella Occhino - prof. ordinario diritto del lavoro facoltà di economia Università Cattolica del Sacro Cuore
Sommario: 1. Smart working, lavoro subordinato a distanza e patto di lavoro agile. - 2. Smart working e fase 2 Covid-19 nel sistema delle fonti. - 3. Concertazione sociale e contrattazione collettiva per la disciplina del lavoro a distanza. – 4. La tenuta della legge 81/2017 sul contratto di lavoro agile. - 5. Prove tecniche di subordinazione a distanza.
1. Smart working, lavoro subordinato a distanza e patto di lavoro agile.
L’applicazione straordinaria in tempo di Covid-19 dello smart working è senza dubbio una situazione eccezionale per l’estensione della misura e per l’incrocio delle fonti che regolano in Italia il lavoro a distanza. La disciplina di tutela, per espresso rinvio delle fonti che nel frattempo sono intervenute, rimane quella prevista dalla legge 81/2017 che regola il lavoro cd. agile nel quadro dei rapporti particolari di lavoro subordinato in virtù di una clausola individuale pattuita tra le parti e che determina adattamenti coerenti delle tutele applicabili, in primis in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, incluso il rispetto della disciplina sui riposi come estensione del diritto alla salute, e poi circa i limiti ai poteri datoriali, con particolare riferimento ai controlli a distanza. L’avvio della modalità a distanza nel lavoro subordinato, cd. smart working, resta così affidata dalla legge all’apposizione consensuale di un “patto di lavoro agile” al contratto di lavoro subordinato, qualunque altra clausola lo caratterizzi ulteriormente, ovvero sia esso a tempo indeterminato o determinato, a tempo pieno o parziale, in apprendistato – in tal caso con gli adattamenti necessari all’assolvimento dell’obbligo formativo - o altrimenti qualificato dalla volontà delle parti.
2. Smart working e fase 2 Covid-19 nel sistema delle fonti.
Nella stretta attualità dell’avvio della cd. fase 2 delle misure di contrasto e contenimento del contagio da Covid-19 due documenti di rilievo nazionale hanno affrontato il tema dello smart working per le imprese del settore privato, a valle della tenuta della legge n. 81/2017. Rispetto ad essi la disciplina di legge si integra con quanto viene concordato nei testi prodotti dalla concertazione tripartita tra Governo e Parti sociali (Protocollo del 24 aprile 2020) e dalla contrattazione bilaterale di ogni livello (CCNL e contratti collettivi decentrati, cui lo stesso Protocollo rinvia) e con una fonte di rango regolamentare (DPCM) del 26 aprile 2020, G.U. n. 108 del 27 aprile 2020) che ne adatta i contenuti senza poterla contraddire, non avendo la “forza di legge” necessaria (come hanno i DL e i D.LGS). A conferma, quando il legislatore ha inteso modificare la disciplina dello smart working in deroga alla legge 81/2017 ha operato tramite DL, come è avvenuto per le sole pubbliche amministrazioni con l’art. 87, commi 1-4, DL 18/2017.
Nel Protocollo del 24 aprile 2020 si promuove la diffusione del lavoro agile nel rispetto del principio della consensualità della trasformazione del contratto dalla modalità in presenza a quella a distanza, secondo formule totali o alternate. Ad esempio vi si afferma che “il documento contiene linee guida”, che si tratta della “possibilità per l’azienda di ricorrere al lavoro agile”, che nel DPCM dell’11 marzo 2020 si era previsto che per le attività di produzione “tali misure raccomandano: sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere volte al proprio domicilio o in modalità a distanza”. L’efficacia del Protocollo è affidata alla implementazione tramite i vincoli associativi che legano le imprese alle associazioni firmatarie, rafforzate dalla affermazione che “le imprese adottano il presente Protocollo”.
Il DPCM del 26 aprile 2020 esclude l’acquisizione del consenso del lavoratore come momento necessario per il passaggio dalla modalità in presenza a quella a distanza, là dove all’art. 1, comma 1, lettera gg) dispone che “fermo restando quanto previsto dall’art. 87 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, per i datori di lavoro pubblici, la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata dai datori di lavoro privati a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti” (aggiungendosi solo che “gli obblighi di informativa di cui all’art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro”), con una disposizione che, ferme le ragioni emergenziali, modifica tuttavia un aspetto fondamentale dell’istituto come previsto dalla legge 81/2017, ovvero la necessaria contrattualità del passaggio alla modalità a distanza, tipica del “patto di lavoro agile”. E’ pur vero che la fattispecie del lavoro agile è definita dalla legge 81/2017 (art. 1) “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Benché non sia del tutto coerente al sistema delle fonti che una disposizione regolamentare deroghi alla legge sulla necessaria consensualità del passaggio dalla modalità in presenza alla modalità a distanza (vista la previsione del DPCM per cui “la modalità di lavoro agile … può essere applicata … a ogni rapporto di lavoro subordinato .. anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti”) è pur vero che la ratio della norma si giustifica sia nel quadro delle misure sulla limitazione degli spostamenti, incluso il commuting casa-lavoro, sia di quelle che impongono il distanziamento fisico nei luoghi di lavoro, con conseguente riduzione dei possibili spazi di compresenza effettiva negli ambienti di lavoro. Ed è anche da considerare che l’implementazione della modalità a distanza definisce a contrario i presupposti di ricorso alla Cassa integrazione guadagni in deroga (cd. CIGD), poiché essi sussistono a fronte di sospensioni dell’attività lavorativa che invece lo smart working, almeno in parte, consente di evitare.
3. Concertazione sociale e contrattazione collettiva per la disciplina del lavoro a distanza.
Il Protocollo del 24 aprile 2020 si intitola “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, ed è stato firmato dal Presidente del Consiglio e dai Ministri del lavoro e delle politiche sociali, dello sviluppo economico e della salute, da Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Confindustria, Rete Imprese Italia (Confesercenti, Casartigiani, CNA, Confartigianato, Confcommercio), Confapi, Alleanza Cooperative (Legacoop, Confcooperative, AGCI), Confimi, Federdistribuzione, Confprofessioni, ad integrazione dell’omonimo Protocollo del 14 marzo 2020. Si tratta di un documento di concertazione sociale tripartita condiviso da tutte le principali sigle associative rappresentative del mondo del lavoro e delle imprese, il che conferisce indubbiamente ai suoi contenuti una ampia legittimazione sociale.
Al punto 8 - organizzazione aziendale (turnazioni, trasferte e smart working, rimodulazione dei livelli produttivi) - si prevede che “in riferimento al DPCM 11 marzo 2020, punto 7, limitatamente al periodo della emergenza dovuta al COVID-19, le imprese potranno, avendo a riferimento quanto previsto dai CCNL e favorendo così le intese con le rappresentanze sindacali aziendali:” (ex plurimis): “disporre la chiusura di tutti i reparti diversi dalla produzione o, comunque, di quelli dei quali è possibile il funzionamento mediante il ricorso allo smart work, o comunque a distanza”; “utilizzare lo smart working per tutte quelle attività che possono essere svolte presso il domicilio o a distanza nel caso vengano utilizzati ammortizzatori sociali, anche in deroga, valutare sempre la possibilità di assicurare che gli stessi riguardino l’intera compagine aziendale, se del caso anche con opportune rotazioni”.
Il rinvio alla contrattazione collettiva per la effettiva implementazione dello smart working – cui anche il Protocollo fa espresso riferimento - si conferma come la via più efficace per la realizzazione degli obiettivi dichiarati, sia perché in assenza di una propria forza normativa il Protocollo non potrebbe incidere sugli obblighi delle imprese se non per via del vincolo associativo con l’organizzazione firmataria, sia perché sul piano sostanziale la contrattazione collettiva si conferma la fonte di origine sociale reciprocamente complementare di quella statuale/regionale per ogni aspetto di disciplina dei rapporti di lavoro. D’altronde proprio in tema di smart working la contrattazione collettiva è stata la vera protagonista delle prassi aziendali che già prima della legge 81/2017 ne avevano promosso la diffusione, benché la legge abbia omesso - sia per l’apposizione del patto di lavoro agile sia per la relativa disciplina – il rinvio ai contratti collettivi - passati, presenti, futuri - senza per questo escluderne l’efficacia sui singoli rapporti di lavoro, in virtù dei meccanismi normali che presiedono alla loro applicazione.
In effetti lo smart working in Italia origina proprio dall’esperienza di alcune grandi imprese, agli inizi prevalentemente nel settore del credito (banche e assicurazioni), ma anche in altri importanti settori del secondario (alimentari) e del terziario (trasporti), dove si era già sviluppata - prima della legge 81/2017 - una vivace contrattazione aziendale sullo smart working, destinato agli inizi per lo più al personale impiegatizio e direttivo, e poi estesa a tutti i lavoratori, nei limiti del possibile, secondo diversi piani di HRM. Se l’informatica ha indubbiamente favorito le prime e ancora attuali applicazioni del lavoro a distanza, la robotica in prospettiva può incrementare ulteriormente la diffusione dello smart working anche nelle fasi più operative dei processi produttivi.
4. La tenuta della legge 81/2017 sul contratto di lavoro agile.
L’espressione smart working, tipicamente italiana, equivale a quella in uso nei paesi anglosassoni cd. home working o working at home, e si è affermata nel nostro ordinamento come una derivazione del telelavoro, anche in linea con l’aumento delle aspettative delle persone di fruire maggiormente di tempi e spazi di libertà, sia per obiettivi classici come la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sia per obiettivi diversi, dichiarati in alcuni contratti aziendali, come la tutela ambientale legata alla riduzione degli spostamenti casa-lavoro, e quindi dell’inquinamento. E la legge 81/2017 avrebbe raccolto queste indicazioni definendo la modalità agile in relazione allo “scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (art. 18, comma 1).
L’ampiezza del fenomeno del lavoro a distanza si coglie a partire dal dato che il luogo di lavoro nei rapporti di lavoro subordinato è modificabile per decisione unilaterale del datore di lavoro senza altro limite che le “comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive” previste dall’art. 2103 c.c. (anche dopo la modifica operata dall’art. 3, d. lgs. 81/2015, che ha modificato i limiti dello jus variandi con riguardo alle mansioni), dove ai commi 9 e 10 si prevede che “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive” e che “… (omissis) ogni patto contrario è nullo”. Tuttavia il riconoscimento di un potere unilaterale di modifica del luogo della prestazione da parte del datore di lavoro trova fondamento nel suo potere organizzativo come riflesso della libertà di iniziativa economica privata di cui all’ art. 41 Cost., in modo che alle decisioni di investimento corrisponda il potere di disegnare i luoghi di lavoro e la assegnazione ad essi dei singoli lavoratori: principio utile quanto meno nei casi di delocalizzazione degli impianti sul territorio e anche di riorganizzazione logistica o in attuazione di policies di HRM che comportino il mutamento del luogo di lavoro anche in linea con eventuali modifiche delle mansioni.
Ora come allora la disposizione dell’art. 2103 c.c. vale ad impedire i trasferimenti disciplinari, discriminatori e comunque arbitrari, col richiedere le “comprovate ragioni” per l’esercizio del potere di variazione del luogo di lavoro senza il consenso del lavoratore, ma di un potere da intendersi limitato agli spostamenti decisi all’interno dei luoghi aziendali (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, secondo la definizione di unità produttiva di cui all’art. 35 dello Statuto dei lavoratori), non arrivando a permettere il potere unilaterale di variazione della modalità di lavoro da quella in presenza a quella a distanza, intesa come da svolgersi in un luogo di disponibilità del lavoratore. Lo conferma la legge 81/2017 che per tale passaggio impone che al contratto di lavoro sia annessa una specifica clausola individuale pattuita tra le parti, che è appunto il “patto di lavoro agile”.
5. Prove tecniche di subordinazione a distanza.
Le origini della legislazione italiana sul lavoro a distanza affondano le radici nel lavoro a domicilio. Ancora diffuso nel manifatturiero si tratta di una modalità di svolgimento a distanza dell’attività lavorativa senza quel collegamento telematico che invece caratterizza il telelavoro e il lavoro agile. Per esso la nozione di subordinazione fu corretta, in deroga all’art. 2094 c.c., dalla legge 877/1973, che la limitò a “quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione e le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel completamento o nell’intera lavorazione oggetto dell’attività dell’imprenditore committente” (art. 1, comma 2).
Nel lavoro a distanza (telelavoro o lavoro agile, ovvero smart working nel lessico comune) la subordinazione può riconoscersi normalmente, poiché il collegamento telematico compensa la distanza fisica permettendo l’interazione costante tra il datore di lavoro e il lavoratore e quindi l’esercizio dei poteri datoriali che qualificano la sub-ordinazione, intesa come etero-direzione (potere direttivo e di riflesso potere di controllo e disciplinare) e la dipendenza di cui all’art. 2094 c.c. Fuori dalla nozione normale di subordinazione e quindi fuori dall’esercizio dei poteri datoriali, sono solo i collaboratori coordinati e continuativi, cd. co.co.co. (per i quali la legge 81/2017 ha integrato la nozione dell’art. 409, n. 3, c.p.c. aggiungendo che “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”) cui, in presenza o a distanza, normalmente le tutele della subordinazione non sono riconosciute, per la naturale differenza tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo.
Poiché la diffusione dello smart working, da un lato, e la reciproca diffusione delle co.co.co. che si svolgono nei locali aziendali sono due fenomeni che hanno posto al centro dell’attenzione la questione del luogo di lavoro in modo diverso dal passato (subordinati in azienda vs. autonomi altrove), nel riaffermare che lo smart workging appartiene all’area del lavoro subordinato per completezza va ricordato che un giudizio di equivalenza del pari bisogno di tutela è stato alla base della disposizione che (art. 2, d. lgs. 81/2015) per cui “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente” (ovvero ai co.co.co. cd. etero-organizzati), aggiungendosi che “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
Il collegamento a distanza e la modalità telematica di esecuzione del lavoro, lungi dall’attrarre nella subordinazione casi che di per loro non lo sarebbero (e quindi restando autonome le collaborazioni non caratterizzate dagli indici della subordinazione né considerate equivalenti per meritevolezza delle tutele in quanto etero-organizzate ai sensi dell’art. 2 d. lgs. 81/2015), diventa una modalità alternativa alla presenza del lavoratore nella sede aziendale e rappresenta un carattere modale della prestazione di lavoro che circa il luogo, e quindi anche il tempo, viene considerata compatibile con la fattispecie e gli effetti della subordinazione, con le varianti specificamente previste dalla legge.
L’indicazione del legislatore sarebbe proprio quella di ammettere una subordinazione a distanza caratterizzata dall’allentamento del legame temporale e spaziale della prestazione di lavoro e tuttavia, espressamente, riconducibile alla nozione dell’art. 2094 c.c., di subordinazione a tutti gli effetti, con la precisa intenzione di trattenere i lavoratori agili all’interno dello schema del lavoro subordinato e pertanto garantendo loro la conservazione delle tutele tipiche della subordinazione, in un certo senso, per questa via, rafforzando la loro posizione, e non il suo contrario. In tale scenario lo smart working, riferendosi a fattispecie sicure di subordinazione del tipo del telelavoro e del lavoro agile, può contribuire ad un possibile ripensamento delle categorie fondamentali del diritto del lavoro, che si è costruito in un periodo storico dove era netta la distinzione tra il bisogno di tutela di chi svolge la propria attività lavorativa all’interno dell’azienda, in condizioni classiche di subordinazione ai poteri datoriali, e di chi lavora in luoghi di propria disponibilità, in condizioni classiche di autonomia, sebbene non solo occasionalmente ma anche con una certa continuità.
L’emergenza in quanto tale non modifica la struttura normativa del diritto dei rapporti di lavoro, ma offre certamente elementi normativi e fattuali che sollecitano una riflessione a partire dagli attuali “campi” di applicazione delle tutele, i quali in misura piena riguardano sia i lavoratori subordinati, anche se a distanza, sia gli autonomi continuativi etero-organizzati, non gli altri co.co.co. né gli autonomi occasionali. Se la subordinazione a distanza sembra attenuata, tanto quanto l’autonomia in presenza, il tema della coerenza complessiva tra fattispecie astratte e bisogni concreti apre ad una riflessione ampia sul riassetto delle tutele che non potrà non tener conto, nel quadro dei fenomeni economici e sociali del tempo, della importante diffusione dello smart working (rectius telelavoro e ora lavoro agile) che è già in atto e che si annuncia in espansione nel breve, medio e forse anche lungo periodo.
Diritto e sentimento: le ragioni di un ritorno al principio di effettività.
di Paolo Spaziani
Al mio caro Maestro, il Prof. Cesare Massimo Bianca, da cui ho appreso che il diritto, nella sua dimensione effettiva e vivente, trova fondamento nei valori eterni espressi dal sentimento umano.
La sensazione che la normativa emergenziale, resa necessaria dall’esigenza di contenere la diffusione della pandemia, abbia determinato una incolmabile cesura tra le norme giuridiche e i valori morali del sentimento umano socialmente avvertiti, costituisce la ragione di una rinnovata indagine sui rapporti tra sentimento e diritto, che devono essere analizzati, con metodo dogmatico, sia con riguardo al diritto oggettivo che con riguardo al diritto in senso soggettivo. L’indagine muove dalla considerazione del principio di effettività che, in quanto principio direttamente desumibile dalla fenomenologia sociale della giuridicità, ne costituisce il connotato essenziale. Accedendo dunque ad una concezione del diritto nella sua dimensione effettiva, quale diritto socialmente accettato ed applicato, si evidenzia la rilevanza giuridica del sentimento nel momento in cui da coscienza di un valore (o disvalore) meramente individuale si trasforma in coscienza di un valore (o disvalore) sociale. Quale valore (o disvalore) sociale il sentimento diviene possibile oggetto di interesse meritevole di tutela nell’ambito del diritto in senso soggettivo e costituisce il fondamento ultimo legittimante del diritto in senso oggettivo.
SOMMARIO: 1. Diritto e sentimento: le ragioni di una rinnovata indagine. - 2. I rapporti tra diritto e sentimento con riguardo al diritto in senso oggettivo. Il principio di effettività nelle dottrine sociologiche ed istituzionali. - 3. Limiti concettuali dell’effettività sociologica e di quella istituzionale. - 4. Il principio di effettività quale principio direttamente desumibile dalla fenomenologia sociale della giuridicità. - 5. L’effettività quale connotato essenziale della giuridicità. Nozione del diritto effettivo come diritto socialmente accettato ed applicato. - 6. L’incidenza del sentimento della società sul diritto effettivo. Il problema della rilevanza giuridica del sentimento. - 7. Sentimento e diritto in senso soggettivo. Ordinaria irrilevanza giuridica del sentimento sia come fatto giuridico sia come interesse giuridicamente rilevante. - 8. Eccezionale rilevanza del sentimento quale interesse tutelato dal diritto in senso soggettivo. Il sentimento come fondamento del diritto oggettivo effettivo.
1. Diritto e sentimento: le ragioni di una rinnovata indagine.
La ragione - direi quasi la necessità - di tornare ad indagare sui rapporti tra diritto e sentimento[1] è data dal tempo in cui si scrivono queste brevi pagine.
In questo tempo, che le cronache giornaliere, con espressione efficacemente evocativa, indicano come “il tempo della pandemia”, è rapidamente sorto e altrettanto rapidamente (e confusamente) si è sviluppato il c.d. diritto dell’emergenza: una congerie di norme poste attraverso alcuni decreti-legge (in parte convertiti in parte in corso di conversione in parte persino abrogati), numerosi DPCM, e una serie indefinita di ordinanze regionali e comunali.
L’affastellarsi di questi provvedimenti d’urgenza, giustificati dall’esigenza di prevenire o mitigare il contagio, ha ripresentato all’attenzione dei giuristi, oltre ai ricorrenti problemi del coordinamento di fonti distinte per posizione gerarchica e competenza, anche il tema fondamentale del rapporto tra autorità e libertà.
La limitazione operata con questi provvedimenti a talune libertà costituzionalmente garantite, come quelle di riunione e di circolazione, ha riproposto la questione della possibilità dello Stato-apparato di conculcare alcune basilari garanzie dello Stato-comunità; dei confini entro i quali i cittadini, anche in funzione della tutela di interessi preminenti di rilievo costituzionale come quello alla salute, possono vedere compressi i loro diritti fondamentali; delle modalità con cui tale costrizione, nei limiti in cui dovesse reputarsi possibile, possa in concreto essere attuata; della legittimità o meno di una limitazione dei diritti fondamentali operata quasi esclusivamente dal potere esecutivo, attraverso il ricorso alla decretazione d’urgenza o addirittura a fonti di rango secondario, e con una sostanziale marginalizzazione del ruolo del Parlamento.
Su un piano più generale, l’esigenza di fronteggiare la pandemia con strumenti normativi straordinari di carattere emergenziale, ha indotto nuovamente i giuristi ad interrogarsi sul ‹‹volto violento›› del diritto e, direi, sulla cinica disumanità che anima la produzione giuridica, la quale proprio nei momenti di massima afflizione dei consociati, rivela il suo lato oscuro, trasformandosi da strumento di garanzia dei diritti a strumento di sospensione degli stessi[2].
Su queste questioni, che sono state già trattate in numerosi scritti e hanno suscitato una rosa variegata di opinioni, come sempre accade sulle tematiche giuridiche[3], chi scrive non ha intenzione di ritornare, non possedendo gli strumenti del costituzionalista[4].
In questa sede, si vuole invece prendere le mosse da una specifica sensazione, ridestata dal diritto dell’emergenza nei cittadini che sono chiamati ad osservarlo.
La sensazione è che la normativa emergenziale, pur perseguendo, con tutti i limiti della fallace azione umana, le finalità, corrispondenti all’‹‹intima essenza›› della Costituzione, di ‹‹assicurare la vita, la salute e la dignità delle persone››[5], non sfugga, a prescindere dal giudizio di legittimità formale, a quello di arbitrarietà di fronte alle incomprimibili esigenze morali dell’individuo.
L’esigenza, manifestata da più parti, di un allentamento dei vincoli apposti dai pubblici poteri al normale svolgimento della vita di relazione, sembra trovare fondamento, più che in convinte ragioni di illegittimità costituzionale della normativa emergenziale, nel rinnovato conflitto tra la legge umana e la coscienza morale.
Uno degli esempi più rilevanti e umanamente toccanti, in tal senso, è dato dalla norma che ha vietato, durante l’emergenza pandemica, la celebrazione dei funerali, privando le vittime, destinate alla cremazione, dell’ultimo saluto dei parenti, del calore delle lacrime dei familiari, della vicinanza delle loro preghiere.
Dinanzi alle tristi immagini, diffuse attraverso i telegiornali, delle lunghe file di convogli militari incaricati del trasporto delle bare, la coscienza sociale ha rivissuto, anche visivamente, la crisi antigoniana dello Stato che sacrifica irragionevolmente l’interesse morale espresso dal sentimento umano della pietà per i defunti all’arbitrio della legge positiva.
Non si tratta, propriamente, di un contrasto tra norme giuridiche e norme morali, quanto piuttosto di un visibile scollamento delle prime dal tessuto morale della società, dal sentimento collettivo di questa.
Risuona, questa sensazione, nelle denunce provenienti da diversi esponenti della cultura e della società, anche molto eterogenei tra loro.
In un recente articolo[6], Giorgio Agamben si è chiesto come fosse potuto avvenire il crollo etico e politico di un intero paese di fronte a una malattia, indicando un aspetto (‹‹forse il più grave››) dell’abdicazione dello Stato ‹‹ai propri principi etici e politici›› proprio nel destino riservato dalla legge dell’emergenza ai corpi delle persone morte.
‹‹Come abbiamo potuto accettare - si è chiesto Agamben - che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma anche - cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi - che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?››.
Non è una recriminazione contro l’illegittimità formale di una norma giuridica né, più in generale, il rilievo della mancanza di un fondamento costituzionale del diritto dell’emergenza. È, piuttosto, la denuncia di una cesura incolmabile tra il diritto positivo e i valori irrinunciabili del sentimento umano.
Negli stessi giorni dell’emergenza sanitaria, il cantautore americano Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura, ha pubblicato, dopo diversi anni di silenzio artistico, due nuove canzoni, l’una dedicata alla rievocazione narrativa dell’assassinio di Kennedy[7], l’altra ad una riflessione introspettiva sull’animo umano[8].
La meditata scelta poetica di mettere in posizione di simmetria ortogonale la dimensione descrittiva e quella espressiva, il racconto e la lirica, il foro interno e il foro esterno, appare in perfetta sintonia con le istanze esistenziali sollecitate dalla legislazione emergenziale in tempi di pandemia.
Con questa scelta, ponendo in relazione una delle vicende in cui la storia, secondo l’autore, ha registrato la sconfitta della verità e della giustizia (e dunque il naufragio delle ragioni del diritto) con la varietà delle forme in cui la realtà esterna, introiettata nella profondità della coscienza individuale, viene da questa riconosciuta e valutata attraverso la moltitudine dei processi emozionali, il poeta di Duluth ha manifestato l’esigenza umana di ricercare, nel diritto, la proiezione del sentimento.
Un sentimento che, lasciando la coscienza individuale per entrare in quella collettiva, assume dimensione sociale e diviene, tecnicamente, interesse.
Un interesse il quale, come individuo vivo, nello specchio di se stesso invoca la presenza dell’altro; e nella ricerca della tutela giuridica, richiama all’infinita e infungibile solidarietà umana.
2. I rapporti tra diritto e sentimento con riguardo al diritto in senso oggettivo. Il principio di effettività nelle dottrine sociologiche ed istituzionali.
I rapporti tra sentimento e diritto vanno indagati sia con riguardo al diritto in senso oggettivo sia con riguardo al diritto in senso soggettivo.
Nel diritto in senso obiettivo, inteso come insieme di norme giuridiche (ordinamento giuridico) avente la funzione di regolare i rapporti tra soggetti portatori di interessi potenzialmente confliggenti nell’ambito di un gruppo sociale[9], si soleva tradizionalmente distinguere un profilo formale da uno sostanziale.
Per il Frosini, tali distinti profili corrispondevano, rispettivamente, alla lettera e allo spirito della legge[10].
Lo spirito della legge era ravvisabile nell’intenzione (voluntas o mens) del legislatore. Esso andava ricercato, peraltro, non nell’intenzione storica del legislatore, ma nella sua volontà attuale, nello ‹‹spirito vivente dell’ordinamento››[11].
L’aspetto sostanziale del diritto obiettivo aveva avuto il sopravvento sull’aspetto formale nelle dottrine sociologiche e in quelle istituzionali.
Nelle dottrine sociologiche aveva assunto per la prima volta rilevanza semantica l’espressione, oggi di diffuso e talora abusato utilizzo, ‹‹diritto vivente››[12].
Il diritto vivente - si diceva - va identificato in quello che, non positivizzato in proposizioni normative, regola tuttavia la vita sociale[13].
Si riconosceva, in tal modo, la possibilità che il diritto prendesse forma dalla realtà sociale, vale a dire che fatti o rapporti socialmente rilevanti potessero assumere valore normativo, cioè determinare la nascita di norme giuridiche socialmente riconosciute come tali, ancorché prive di validità formale, in quanto non introdotte da fonti di produzione legalmente istituite o riconosciute.
Si rivestiva, allo stesso modo, di nuovi e più moderni significati l’antico aforisma ex facto oritur ius[14].
L’origine del diritto obiettivo, nel suo aspetto sostanziale, veniva individuata nel fatto, ma questo fatto non era il fatto (comprensivo degli atti) che l’ordinamento qualificava formalmente come fonte del diritto (fonti-atto o fonti-atto), bensì il fatto materiale, inteso come ‹‹realtà viva dei rapporti e dei comportamenti umani››[15].
In questa concezione, l’effetto regolatorio non costituiva il risultato della validità formale della norma giuridica, quale introdotta dalla fonte di produzione, ma la conseguenza del sommarsi di una serie di fatti materiali, percepiti a livello sociale (leggi, sentenze, provvedimenti), di cui il giurista doveva cogliere, non la regolazione positiva, ma il rapporto di causa e ed effetto tra loro intercorrente[16].
Oltre che dalla dottrina sull’effettività sociologica, il sopravvento del profilo sostanziale sul profilo formale del diritto obiettivo era stato affermato da quella sull’effettività istituzionale.
Secondo questa dottrina, un ordinamento giuridico o, più precisamente, un’istituzione assumeva connotati di giuridica validità nel momento in cui si fosse affermato come effettivamente esistente ed avesse svolto in concreto le sue funzioni. La legittimità dell’istituzione - si diceva - non dipende da un giudizio di conformità della stessa ad un modello etico o giuridico predefinito, ma dalla effettività del suo funzionamento[17].
3. Limiti concettuali dell’effettività sociologica e di quella istituzionale.
L’effettività istituzionale non ha incontrato significativi dissensi nell’elaborazione dottrinale, poiché risultava fondata su un presupposto difficilmente contestabile: il presupposto per cui l’istituzione statale effettivamente e stabilmente affermatasi in un dato territorio trova la propria legittimazione proprio in tale stabilità ed effettività. Si tratta - come rilevava Santi Romano - di ‹‹autolegittimazione››, in quanto l’origine dell’istituzione statale non è un procedimento regolato da una norma giuridica; lo Stato ‹‹esiste perché esiste e dal momento in cui ha vita››[18]. La nascita coincide con l’effettività dell’istituzione e la sua vita dura finché dura tale effettività.
I limiti dell’effettività istituzionale sono tuttavia emersi proprio dalla sua esclusiva riferibilità all’istituzione, e cioè all’ordinamento nel suo complesso.
Se l’ordinamento ripete la propria legittimazione dalla sua affermazione effettiva, ciò non vale per le singole norme le quali, al contrario, proprio nelle fonti di produzione istituite da quell’ordinamento autolegittimantesi, trovano la loro validità formale.
Il giuspubblicista può muovere dal dato di esperienza tratto dai rapporti costituzionali e internazionali che riconosce autolegittimazione all’istituzione statale la quale abbia la forza di affermarsi stabilmente nel governo di un certo territorio.
Ma le singole norme che regolano la vita dei consociati in quel territorio traggono la loro validità formale dalle fonti di produzione che quello stesso ordinamento, nel momento in cui si autolegittima, istituisce e riconosce.
L’effettività, in una parola, vale per l’ordinamento nel suo complesso, inteso come istituzione, non per le singole norme[19], ed in particolare per quelle volte a regolare i rapporti tra privati[20].
Diversamente che nella dottrina istituzionale, in quella sociologica il principio di effettività era riferito ad ogni singola norma giuridica.
L’effettività sociologica ha peraltro trovato il suo limite nell’estremizzazione della materialità del fatto, ridotto a fenomeno naturale governato dalla legge di causalità.
Questa estremizzazione era infatti tale da escludere l’in sé della giuridicità poiché l’effetto giuridico del fatto non veniva fatto dipendere da una scelta ordinamentale fondata su un giudizio di valutazione e di contemperamento di interessi, ma da una concatenazione meramente meccanicistica di fenomeni naturali.
In questo ordine di fenomeni naturali non trovava più posto la norma giuridica, intesa come effetto regolatorio dipendente da un giudizio, ma soltanto la conseguenza necessitata di una premessa causale materiale, che si traduceva nella negazione dell’esistenza stessa del diritto[21].
L’elaborazione dell’effettività sociologica ha pertanto incontrato il dissenso sia delle dottrine normativistiche che di quelle giusnaturalistiche, non potendo essere ammessa dalle prime l’idea di una riduzione dell’ordine giuridico ad ordine naturale[22] e non essendo concepibile dalle seconde una regolazione dei rapporti sociali fondata su una meccanicistica ripetizione di fenomeni naturali causalmente collegati, indipendentemente dal giudizio di conformità a principi sovraordinati.
4. Il principio di effettività quale principio direttamente desumibile dalla fenomenologia sociale della giuridicità.
I limiti concettuali delle dottrine che hanno individuato sul piano sociologico ed istituzionale il fondamento del principio di effettività non minano tuttavia l’ontologica fondatezza del principio medesimo, quale principio direttamente desumibile dalla fenomenologia sociale della giuridicità.
Tale fenomenologia dimostra che nella concreta applicazione giurisprudenziale le norme giuridiche assumono un significato di volta in volta diverso e che tale significato non coincide con quello ad esse originariamente attribuito dal legislatore storico, dal quale anzi tende a differenziarsi progressivamente nel corso del tempo.
La continua evoluzione degli istituti giuridici nel corso del tempo, attraverso l’applicazione giudiziale delle norme scritte, non incide sulle esigenze di uniformità e certezza del diritto, in quanto, per ripetere le parole di Piero Calamandrei, «uniformità del diritto non vuol dire immobilità del diritto, il quale, come tutte le manifestazioni dello spirito umano, si svolge ininterrottamente attraverso un continuo divenire»[23].
La cangiante evoluzione del significato della norma, resa evidente dall’esperienza applicativa, non può essere accettata dalla dottrina del normativismo puro: secondo questa dottrina, infatti, il significato della norma giuridica non può variare nel corso del tempo, dovendo essere identificato, sino all’eventuale sua abrogazione ad opera di una norma successiva, con quello attribuitole dall’organo legislativo da cui ha tratto validità formale, fondamento, a propria volta, del suo carattere giuridico.
Dinanzi all’inconciliabilità del dato derivante dalla esperienza applicativa con il sistema kelseniano che vuole la norma sempre eguale a sé medesima[24], il normativista è costretto, alternativamente, a fingere che l’evoluzione del diritto non è altro che manifestazione tardiva del suo (unico) significato, reso perspicuo dall’operazione interpretativa[25], oppure a qualificare come arbitraria tale ultima operazione, anche quando si consolidi nell’applicazione giurisprudenziale generalizzata, e conseguentemente ritenere viziate da violazione o falsa applicazione di legge tutte le sentenze che ne costituiscono il prodotto.
Poiché infatti il significato della norma non può essere mutato dal fatto della sua interpretazione, quest’ultima deve limitarsi a disvelarne il contenuto autentico, già ricompreso nella formulazione positiva ed in essa cristallizzato una volta per sempre; ove invece si ritenga che il significato della norma accolto nell’applicazione generalizzata non ne rispetti il precetto originario, si deve escludere la validità formale di tale applicazione, poiché viziata dall’abuso dell’interprete.
5. L’effettività quale connotato essenziale della giuridicità. Nozione del diritto effettivo come diritto socialmente accettato ed applicato.
L’alternativa tra la fictio della negazione della vicenda modificativa della norma e l’idea dell’abusività dell’applicazione generalizzata della stessa secondo nuovi significati, può essere superata se si accede all’idea che il significato della norma giuridica non si identifica con quello risultante dalla disposizione scritta ma con quello che essa assume nella coscienza sociale in un determinato momento storico.
L’operazione interpretativa, quando si consolida nell’applicazione generalizzata della giurisprudenza, non può essere qualificata né alla stregua di un atto arbitrariamente creativo o modificativo del contenuto autentico e invariabile della norma scritta né alla stregua di atto “neutro”, meramente disvelatore di tale contenuto, rimasto sinora miracolosamente celato.
Essa operazione, piuttosto, proprio in quanto non isolata ma generalmente condivisa, consente di individuare il contenuto che la norma assume in un certo momento storico in una data società, perché consente di circoscrivere il significato, la misura e i limiti con cui la coscienza sociale, in quel preciso momento, è disposta ad accettarla ed eventualmente il significato la misura e i limiti in cui, al contrario, la rifiuta.
Dalla misura e i limiti di tale accettazione sociale deriva lo stesso attributo della giuridicità: la norma, infatti, è giuridica se viene accettata ed applicata come tale dal corpo sociale, il quale può respingerla (facendola cadere in desuetudine), accettarla nella sua totalità oppure recepirla in un’accezione differente da quella corrispondente alla disposizione scritta, un’accezione che può anche mutare nel corso del tempo, assumendo significati nuovi e diversi.
In questa prospettiva il carattere di effettività non ha bisogno di essere giustificato sul piano sociologico o istituzionale poiché costituisce connotato essenziale della giuridicità[26].
Esulano, dunque, dalla nozione stessa di diritto, perché prive di effettività, le norme che il corpo sociale non accetta e non applica come tali, quand’anche formalmente valide.
Alla prevedibile obiezione che l’inosservanza delle norme non ne esclude la giuridicità poiché la violazione del diritto è un dato esperienziale non meno notorio della sua evoluzione nel tempo, può altrettanto agevolmente replicarsi che l’accettazione e l’applicazione sociale della norma non ne presuppone necessariamente la diuturna e irrefutabile osservanza da parte di tutti i consociati: perché la norma cessi di essere giuridica non basta infatti che uno o più consociati omettano di osservarla (giacché la conseguente reintegrazione del diritto leso nei confronti di chi se ne è reso responsabile è una modalità della sua accettazione ed applicazione sociale) ma occorre che tale inosservanza non sia socialmente valutata come violazione del diritto, talché la coscienza sociale, cessando di pretendere l’applicazione delle sanzioni per essa previste, sancisca la cessazione della concreta vigenza della norma, come regola effettiva dei rapporti sociali[27].
Esula dal diritto effettivo anche il significato originario attribuito alla norma dal legislatore quando essa, nell’accettazione del corpo sociale, ne abbia assunto uno diverso, al quale soltanto deve aversi riguardo per ricostruirne il contenuto giuridico, sebbene non coincida con quello desumibile dal testo scritto.
Questo diritto effettivo - o, come anche si suole chiamarlo, diritto «vivente» - può desumersi in primo luogo dagli orientamenti giurisprudenziali consolidati e particolarmente dalle massime della giurisprudenza di legittimità, in quanto la concreta applicazione giudiziale della norma costituisce indice della sua accettazione sociale e in quanto la massima giurisprudenziale riflette il significato dalla stessa assunto nella coscienza sociale[28].
6. L’incidenza del sentimento della società sul diritto effettivo. Il problema della rilevanza giuridica del sentimento.
Il rilievo che il contenuto della norma giuridica non coincide con quello risultante dal testo scritto posto dalla fonte di produzione ma con quello socialmente accettato ed applicato, di cui sono indici gli orientamenti giurisprudenziali consolidati, induce ad indagare sui criteri in ragione dei quali avviene tale accettazione sociale.
Il giurista, precisamente, deve chiedersi in base a quali principi e valori la coscienza sociale attribuisca alla norma giuridica un certo significato, eventualmente diverso rispetto a quello che il legislatore aveva voluto imprimerle, o comunque non coincidente con quello desumibile dalla sua originaria formulazione; o, addirittura, cessi di riconoscere come tali una o più norme giuridiche, privandole di effettiva efficacia regolatrice sebbene le stesse non vengano abrogate e mantengano inalterata la loro validità formale.
La risposta a questa questione consente, ad un tempo, di individuare le ragioni per le quali gli istituti giuridici si evolvono continuamente nel corso del tempo ed il senso di tale evoluzione, cioè di identificare la direzione di tale continuo mutamento, la linea di tendenza dell’ordinamento.
Se il significato della norma giuridica non coincide con quello, immutabile, espresso dalla disposizione scritta ma con quello, mutevole, attribuitole dalla coscienza sociale, vuol dire che il diritto si muove con la società[29] ed è animata dallo spirito di questa.
Si torna, dunque, alla terminologia di Vittorio Frosini: esiste, nell’ordinamento, uno spirito vivente rinvenibile nella voluntas del legislatore attuale, che si distacca dalla lettera della legge, scolpita nella proposizione normativa dal legislatore storico[30].
Il contenuto effettivo della norma è dato dal suo spirito, non dalla sua lettera, e questo spirito che anima la norma è lo stesso che anima la società e si evolve con essa.
Di spirito animante ebbe a parlare anche Lodovico Mortara, nella sua più famosa sentenza, con la quale fu attribuito alle donne il diritto di elettorato politico con quaranta anni di anticipo sul suo espresso riconoscimento legislativo[31].
«La legge - scrisse il Mortara - è formula di precetto generale destinato a governare i bisogni e le contingenze della vita sociale per un tempo illimitato, adattandosi alla loro variabilità in modo da rispondere sempre al suo alto fine di tutela dell’ordinamento civile. Essa non si cristallizza in una forma iniziale per sempre irriducibile ma vive la vita stessa della civiltà, ed è animata dallo spirito di questa (il corsivo è nostro)».
Il riferimento allo spirito della civiltà che impedisce la cristallizzazione del significato della legge, adeguandone il contenuto alle istanze della vita sociale, consentì al Mortara di superare la tradizionale interpretazione della legge elettorale in vigore (l. n. 999 del 1882) che attribuiva il diritto di voto politico ai soli uomini.
Il contenuto effettivo della norma, secondo Mortara, doveva infatti essere ricostruito tenendo conto del sentimento che anima e vivifica la coscienza dei popoli civili, tradottosi in un principio di tensione ideale proprio degli ordinamenti moderni: il principio di uguaglianza[32].
Interpretata in conformità a tale principio, incompatibile con il mantenimento della discriminazione di genere tradizionalmente desunta dal suo disposto testuale, la norma giuridica si evolveva così verso nuovi contenuti, nei quali venivano riflessi i valori espressi dal sentimento della società.
Dunque, nell’applicazione pratica mortariana come nella terminologia frosiniana, la norma giuridica, nella sua dimensione vivente, è la regola che recepisce il sentimento della società assumendo il significato dettato dallo spirito di questa.
Sulla base di tali indicazioni il contenuto del diritto effettivo dovrebbe essere ricondotto al sentimento: un sentimento penetrato a tal punto nella coscienza sociale da essersi tradotto in un preciso interesse che l’ordinamento, inteso nella sua dimensione effettiva, individua come meritevole di tutela e qualifica come suo fine.
La continua evoluzione del significato delle norme giuridiche nella coscienza sociale si spiegherebbe, dunque, in funzione della necessità della loro diuturna conformazione al sentimento di questa.
La possibilità della riconduzione del contenuto del diritto effettivo al sentimento prevalso nel corpo sociale va tuttavia verificata, sul piano dogmatico, alla stregua del problema della rilevanza giuridica del sentimento. Se, infatti, il sentimento è estraneo al diritto, non ne può costituire il contenuto[33].
7. Sentimento e diritto in senso soggettivo. Ordinaria irrilevanza giuridica del sentimento sia come fatto giuridico sia come interesse giuridicamente rilevante.
Occorre allora spostare l’indagine dal diritto in senso obiettivo al diritto in senso soggettivo.
Inteso in senso soggettivo, il diritto è una posizione giuridica di vantaggio, e cioè una situazione soggettiva attribuita dall’ordinamento ad un soggetto per la protezione di un interesse ritenuto meritevole di tutela[34].
Il sentimento è un processo emozionale interno della psiche umana in cui si riflette il valore attribuito dalla coscienza individuale alla realtà esterna, sia essa realtà naturale (ad es. l’amore per gli animali, la paura dei temporali), sia essa realtà sociale (ad es. l’amore per una persona; l’orrore per la guerra)[35].
Tanto il diritto quanto il sentimento si rapportano ad un interesse[36], ma il diritto si rapporta ad un interesse corrispondente ad un valore di rilevanza superindividuale (come tale degno di essere tutelato dall’ordinamento, eventualmente anche mediante la coercizione, sanzionando le condotte lesive dell’interesse medesimo), mentre il sentimento si rapporta ad un interesse corrispondente ad un valore meramente individuale, come tale giuridicamente irrilevante.
L’assunto della irrilevanza giuridica del sentimento va verificato sia sotto il profilo della teoria del fatto giuridico che sotto il profilo della teoria dell’interesse.
Sotto il primo profilo, l’assunto trova agevole conferma in quanto si tende ad escludere che il sentimento costituisca ex se un fatto produttivo di effetti giuridici, e cioè un fatto che determina modificazioni sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, attive o passive, delle persone interessate dal fatto stesso. Si evidenzia, infatti, che, se il sentimento rimane un fatto interno alla psiche della persona, non interferisce nei rapporti intersoggettivi e non si traduce in una modificazione della realtà materiale e di quella giuridica[37]. Se invece il sentimento si esteriorizzi al di fuori della psiche umana, traducendosi in una precisa condotta (attiva od omissiva), gli eventuali effetti giuridici prodottisi nella sfera giuridica dell’autore o del destinatario di essa (e consistenti nella nascita di nuove situazioni soggettive o nella estinzione o modificazione di quelle preesistenti), vanno ricondotti a tale condotta e non al sentimento che l’ha ispirata[38].
Sotto il secondo profilo, escluso che il sentimento possa costituire presupposto della nascita di situazioni giuridiche soggettive, ci si deve chiedere se possa peraltro integrarne l’oggetto, e cioè se possa essere qualificato come punto di riferimento oggettivo di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Sotto tale specifico profilo, il sentimento va considerato come un bene della vita idoneo a soddisfare un bisogno umano e il problema che si pone al giurista è se l’interesse ad ottenere questo bene della vita sia – o possa essere, al verificarsi di determinate condizioni – un interesse giuridicamente protetto, e cioè un interesse per la cui tutela l’ordinamento attribuisce al titolare una specifica situazione giuridica soggettiva attiva, eventualmente consistente in un vero e proprio diritto soggettivo.
Per essere tutelato dal diritto l’interesse, si è detto, deve corrispondere ad un valore non meramente individuale, e cioè ad un valore socialmente rilevante.
Così, ad es., l’interesse del proprietario a godere dei propri beni al riparo da indebite ingerenze altrui è un interesse socialmente rilevante e l’ordinamento lo protegge nella misura massima consentita, attraverso l’attribuzione di un diritto soggettivo assoluto (art.832 c.c.); al contrario, l’interesse a divenire milionario non è avvertito socialmente come valore da tutelare e resta dunque un mero interesse di fatto, giuridicamente non protetto, la cui realizzazione non è influenzata dall’ordinamento ma esclusivamente da fattori extragiuridici (caso, fortuna, abilità individuale, ecc.).
Il sentimento, quale processo emozionale interno con cui la coscienza individuale attribuisce un valore ai fenomeni della realtà esterna, riflette, di norma, un valore meramente individuale.
Ciò accade anche nelle ipotesi in cui il fenomeno esterno valutato dalla coscienza individuale abbia natura sociale, attribuendosi un valore ad una relazione intersoggettiva e, quindi, al terminale umano di tale relazione, costituito dall’altrui persona[39].
Il valore attribuito attraverso il sentimento all’altrui persona (e alla relazione intersoggettiva con essa) non supera, infatti, i confini della coscienza individuale e non diviene valore socialmente apprezzabile.
Esso, dunque, non è preso in considerazione dal diritto, non solo quando si tratti di valore negativo (antipatia, avversione, odio) ma anche quando si tratti di valore positivo (interesse, simpatia, amore).
La conferma di ciò si trova se si prenda ad esempio il sentimento di amore, con cui viene attribuito il massimo valore positivo possibile ad una relazione umana.
L’interesse ad amare una persona e ad essere da essa riamata non si traduce, infatti, di norma, in un interesse giuridicamente protetto e non può dar luogo all’attribuzione di una situazione soggettiva di vantaggio, tanto meno di quella che assicura la massima forma di tutela, vale a dire il diritto soggettivo.
Nelle relazioni d’amore, il sentimento non impegna né positivamente (come valore) né negativamente (come disvalore) il sistema di valori elaborato dalla coscienza comune e recepito dall’ordinamento giuridico, il quale resta del tutto indifferente rispetto all’ interesse del singolo ad amare una persona e ad essere amato da essa.
L’analisi del diritto vivente conferma l’insussistenza del riconoscimento, in generale, di un diritto soggettivo all’amore.
Nella relazione tra fidanzati, l’interesse dell’una persona alla continuazione del rapporto affettivo è soddisfatto unicamente nei limiti in cui vi sia - e per il tempo in cui permanga - l’omologo interesse dell’altra, e non è coperto, ovviamente, da alcuna forma di tutela giuridica.
L’ordinamento giuridico resta del tutto indifferente rispetto all’ interesse del singolo ad amare una persona e ad essere amato da essa, senza che assuma rilevanza la circostanza, pur socialmente frequente, in cui l’innamoramento e la disponibilità a proseguire nel rapporto affettivo sia stata formalizzata in una dichiarazione d’amore.
In tale ipotesi, infatti, la dichiarazione può bensì determinare, nella sfera psichica del destinatario, l’insorgenza di stati d’animo ed aspettative, ma deve escludersi che ad essa possano ricollegarsi effetti propriamente giuridici, in assenza del compimento di atti ulteriori, leciti od illeciti (es.: donazioni, promessa di matrimonio, molestie ecc.)[40].
L’interesse all’amore, isolatamente considerato, non assume giuridica rilevanza neppure nella relazione tra coniugi o conviventi.
La comunione morale e spirituale dei coniugi (c.d. affectio coniugalis) trova ovviamente il suo ultimo fondamento nell’amore reciproco, ma la persistenza nel tempo di tale comunione non è tutelata dal diritto.
Al contrario, il venir meno di essa, ove si traduca in una disaffezione tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza anche rispetto ad un solo coniuge, determina la nascita del diritto di quest’ultimo alla separazione personale, pur a prescindere da elementi di addebitabilità all’altro coniuge[41].
La mancanza di amore, la carenza affettiva, la freddezza sentimentale del coniuge non assumono ex se alcuna rilevanza giuridica, né all’interno del diritto di famiglia (eventualmente ai fini dell’addebito della separazione), né nel più generale ambito del diritto della responsabilità (ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale subìto dall’altro coniuge in seguito al pregiudizio del suo interesse ad essere amato), occorrendo, ad entrambi i fini, un quid pluris consistente nella lesione di altri beni e valori distintamente tutelati come oggetto di autonomi diritti soggettivi (ad es. la dignità, l’onore, il decoro, la personalità morale del coniuge)[42].
L’irrilevanza della cessazione dell’apporto affettivo, ai fini di eventuali sanzioni, si dsvela anche nella relazione tra conviventi, oggi tutelata, unitamente all’unione civile tra persone dello stesso sesso, dalla l. n. 76 del 2016: in questa relazione, tra l’altro, l’assistenza morale e materiale costituisce un elemento fattuale costitutivo della fattispecie della convivenza e non un obbligo nascente da essa[43].
L’interesse all’affetto coniugale (o familiare tra prossimi congiunti adulti) non è tutelato giuridicamente neppure nella vita di relazione, in quanto la lesione di tale interesse a causa di un fatto dannoso imputabile ad un terzo non costituisce danno ingiusto ai sensi dell’art.2043 c.c., se non nell’ipotesi estrema dell’uccisione del coniuge o del familiare. In questa ipotesi estrema, peraltro, il danno ingiusto non è ravvisabile nella lesione dell’interesse alla prestazione affettiva ma piuttosto nella violazione del vincolo familiare[44] o, secondo una terminologia ormai tralatizia nelle massime giurisprudenziali, nella perdita del rapporto matrimoniale o parentale, secondo che la lesione concerna il rapporto con il coniuge o con i prossimi congiunti[45].
8. Eccezionale rilevanza del sentimento quale interesse tutelato dal diritto in senso soggettivo. Il sentimento come fondamento del diritto oggettivo effettivo.
Vi sono tuttavia dei casi in cui il sentimento non rimane soltanto coscienza di un valore meramente individuale ma diviene coscienza di un valore sociale.
Ciò accade allorché la valutazione della realtà, compiuta attraverso il sentimento dalla coscienza individuale, formi oggetto di un’ulteriore valutazione da parte della coscienza comune ad una pluralità di persone o all’intera collettività[46].
In questa ipotesi, il sistema di valori elaborato dalla coscienza sociale e recepito nell’ordinamento giuridico non resta indifferente ai valori espressi nel sentimento, il quale, varcando i confini della coscienza individuale per assurgere a valore o disvalore sociale – e, quindi, a valore o disvalore sanzionato dal diritto –, diviene oggetto di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Per continuare nell’esempio del sentimento di amore, si può notare una peculiare relazione intersoggettiva in cui la valutazione positiva attribuita all’altrui persona dalla coscienza individuale viene replicata da un’analoga valutazione compiuta dalla coscienza sociale: si tratta della relazione di filiazione e, più precisamente, del rapporto tra genitore e figlio minore.
In questo rapporto l’interesse del figlio ad essere amato dal genitore non resta confinato nel campo del “giuridicamente irrilevante”, in quanto alla valutazione positiva compiuta con il sentimento di amore da parte della coscienza individuale si sovrappone un’ulteriore valutazione formulata dalla coscienza sociale, per effetto della quale il sentimento medesimo cessa di essere un valore puramente interno per inserirsi nel sistema dei valori dell’ordinamento giuridico.
Il sistema dei valori elaborati dalla coscienza sociale e recepiti nell’ordinamento giuridico esprime infatti l’esigenza che la persona umana trascorra la delicata fase della sua crescita all’interno della propria famiglia e riceva da questa - ed in particolare dai propri genitori - l’apporto affettivo indispensabile ai fini della propria maturazione.
L’interesse del figlio all’amore del genitore assume allora rilevanza per il diritto in quanto questo prende atto dell’irrinunciabilità della prestazione affettiva genitoriale ai fini della crescita del figlio, la quale deve essere intesa non solo come sviluppo fisico ma anche come maturazione psichica e come formazione morale, spirituale e culturale della persona.
L’esigenza, socialmente avvertita, di tutelare adeguatamente, sotto il profilo giuridico, l’interesse del figlio minore alla prestazione affettiva da parte dei genitori si è tradotta nell’attribuzione di uno specifico diritto soggettivo, già previsto in fonti settoriali (art.2, comma 1; art.6, comma 2; art.8, comma 1, della legge n.184/1983 sull’adozione), e di recente proclamato in via generale nell’ambito del nuovo statuto dei diritti del figlio, enunciato nell’art.315-bis c.c., inserito dalla legge n.219/2012.
Si tratta del diritto che la legge ha codificato come diritto all’assistenza morale, ma che la più autorevole dottrina ha incisivamente denominato diritto all’amore, dando enfasi al sentimento umano che ne costituisce il fondamento[47].
L’esempio del rapporto di filiazione consente, in generale, di concludere che, in riferimento al diritto in senso soggettivo, il sentimento può eccezionalmente uscire dall’ambito del “giuridicamente irrilevante” per assurgere ad interesse tutelato mediante l’attribuzione di una situazione soggettiva di vantaggio, allorché i valori da esso espressi vengano riconosciuti e positivamente valutati, oltre che dalla coscienza individuale, anche dalla coscienza sociale.
Tale conclusione permette, peraltro, un ulteriore rilievo, che riconduce ai rapporti tra sentimento e diritto in senso oggettivo, nella sua accezione di diritto effettivo, e cioè di diritto socialmente accettato ed applicato.
Se, infatti, la tutela giuridica del sentimento ne presuppone la necessaria sua approvazione sociale in aggiunta a quella individuale, deve ammettersi, in senso inverso che, nell’ipotesi in cui alla valutazione individuale segua invece una disapprovazione sociale, dovrà trovare giuridica tutela l’interesse opposto alla repressione del sentimento socialmente disapprovato.
Il sistema di valori elaborato dalla coscienza sociale, in altre parole, può restare indifferente ai valori espressi nel sentimento oppure può approvarli o riprovarli.
Nella prima ipotesi il sentimento resta un fatto meramente soggettivo e non si traduce in un valore oggettivo dell’ordinamento.
Nella seconda ipotesi il sentimento trascende la subiettività della coscienza individuale per divenire un valore positivo o negativo dell’ordinamento, per assurgere a valore o disvalore sociale.
Il sentimento, allora, diviene oggetto di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, interesse che può avere contenuto positivo (ad es: l’interesse alla protezione del sentimento del pudore: artt.527 e 528 c.p.; l’interesse alla protezione del sentimento dell’onore: artt.594 e 595 c.p.) o negativo (ad es.: l’interesse alla repressione del sentimento di disprezzo per le istituzioni: art.290 c.p.; l’interesse alla repressione del sentimento dell’odio tra le classi sociali: art.415 c.p.).
Tanto l’approvazione sociale del sentimento (che sfocia nella tutela giuridica dell’interesse alla protezione del sentimento) quanto la disapprovazione sociale (che sfocia nella tutela giuridica dell’interesse alla repressione dello stesso) si traducono in norme giuridiche.
Ma l’approvazione o la disapprovazione sociale, sia quando si appuntino su sentimenti individuali, come replica al moto emozionale interno della coscienza della singola persona, sia quando riguardino sentimenti generati da eventi emozionali collettivi (guerre, calamità, pandemie) che impegnino le coscienze di tutti o di gran parte degli appartenenti ad un gruppo sociale, sono processi emozionali collettivi enormemente più rapidi ed incisivi delle procedure formalmente deputate alla produzione normativa.
Tali processi emozionali incidono dunque, in via effettiva, sul contenuto delle norme giuridiche, il cui significato si conforma al sentimento della società, divaricandosi, anche sensibilmente, da quello loro impresso dal legislatore storico.
Il riferimento alla coscienza sociale quale elemento capace di plasmare il diritto positivo, va allora precisato nel senso che il fondamento della continua evoluzione degli istituti e delle norme giuridiche, nella loro dimensione effettiva, è costituito dal sentimento della società, e cioè dal risultato di quel processo emozionale collettivo con cui il corpo sociale riconosce i valori positivi e i valori negativi, rispettivamente da tutelare o da reprimere, attraverso il diritto.
In tale accezione il sentimento costituisce il fondamento del diritto oggettivo, inteso nella sua dimensione di diritto effettivo.
Questo fondamento, oggi più che mai, è costituito dal riconoscimento del valore assoluto della persona e dei suoi diritti fondamentali, dal rilievo dei principi di uguaglianza, di solidarietà, di reciproco riconoscimento e rispetto, e della pari dignità di tutti gli esseri umani.
Si tratta di quell’insieme sentimenti che, ‹‹instillati nelle coscienze dei popoli civili››, per ripetere le incisive parole di Lodovico Mortara, non solo si sono tradotti in valori formalmente espressi dalle carte costituzionali e sovranazionali, ma costituiscono la bussola ordinamentale e la guida morale nell’incessante opera di costruzione di un diritto vivente più giusto e umano.
[1] Sul problema della rilevanza giuridica dei sentimenti, v., in generale, A. FALZEA, Fatto di sentimento, in Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1985, pp. 539 e ss.; M. PARADISO, La comunità familiare, Milano, 1984; F. GAZZONI, Amore e diritto, ovverosia i diritti dell’amore, Napoli, 1994.
[2] Sul tema si veda, ad es., il saggio di amplissimo respiro culturale di M. DELL’UTRI, Saepe in periculis. Note in tema di persona e comunità, in www.giustiziainsieme.it.
[3] Queste opinioni oscillano tra le due tesi contrapposte di chi ha evocato lo schmittiano “stato d’eccezione” (tra gli altri, G. AGAMBEN, Una domanda, in www.quodlibet.it), sia pure “in senso debole” (T. EPIDENDIO, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus, in www.giustiziainsieme.it), e chi ha invece sottolineato la piena conformità a Costituzione dell’operato del governo (M. BIGNAMI, Chiacchiericcio sulle libertà costituzionali al tempo del coronavirus, in www.questionegiustizia.it).
[4] Oltre agli scritti citati alle note precedenti, si veda, con particolare riguardo alla compatibilità degli interventi normativi emergenziali con l’art. 16 della Costituzione, che tutela la libertà di circolazione, l’ampio e rigoroso studio di S.G. GUIZZI, Stato costituzionale di diritto ed emergenza COVID-19: note minime, in www.dirittovivente.it.
[5] Così, M. BIGNAMI, Chiacchiericcio sulle libertà costituzionali al tempo del coronavirus, cit..
[6] G. AGAMBEN, Una domanda, cit..
[7] B. DYLAN, Murder Most Foul. Il brano può essere ascoltato accedendo ad uno dei link indicati nel sito ufficiale del cantautore americano: www.bobdylan.com.
[8] B. DYLAN, I Contain Moltitudes. Anche questo brano può essere ascoltato accedendo ad uno dei link indicati nel sito ufficiale del cantautore americano: www.bobdylan.com.
[9] H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, (trad. it.), Milano, 1959, 4; N. BOBBIO, Teoria della norma giuridica, Torino, 1958 e Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino 1960; F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma 1951, 69; F. MODUGNO, Norma (teoria generale), in Enc. dir., XXVIII, 328; M. MAZZIOTTI di CELSO; Norma giuridica, in Enc. giur. Treccani, XXI.
[10] V. FROSINI, La lettera e lo spirito della legge, Milano, 1994, 3 ss., 137 ss..
[11] V. Frosini, ult. cit..
[12] E. EHRLICH, I fondamenti della sociologia del diritto (trad it.), Milano, 1976, 53, 585.
[13] E. EHRLICH, ult. cit..
[14] Cfr. C.M. Bianca, Ex facto oritur ius, in Riv. dir. civ., 1995, 787 ss., particolarmente 789, secondo cui, a prescindere dalle origini dell’aforisma - che, sebbene reso famoso da Baldo degli Ubaldi nella Glossa al passo di Alfeno in D. 9.2.5.52, deve la sua prima formulazione a giuristi di epoca ancora precedente, verosimilmente Guglielmo da Cugno o Guglielmo Durante -, nel diritto moderno ‹‹particolarmente suggestivo appare il detto per esprimere il principio di effettività››.
[15] Così già L. PROSDOCIMI, Ex facto oritur ius, in Studi senesi, LXVI-VII (1954-55), 808.
[16] E. EHRLICH, cit., 572.
[17] Santi ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1962, 49 ss., secondo cui l’origine dell’istituzione, ed in particolare dello Stato, non è determinata da una norma preesistente, ma dal fatto stesso di esistere e di esercitare effettivamente il proprio potere. L’effettività istituzionale veniva particolarmente notata a livello degli ordinamenti statuali e, in genere, degli ordinamenti dotati di personalità giuridica di diritto internazionale, con riguardo ai quali era agevole ritenere che anche i governi autoritari fossero tuttavia governi legittimi, traendo tale legittimità dall’effettività del potere e conservandola sino al momento in cui, con il loro rovesciamento, tale effettività fosse andata perduta: sul punto, v. C.M. Bianca, Ex facto oritur ius, cit., 792.
[18] Santi ROMANO, ult. cit..
[19] P. PIOVANI, Effettività (principio di), in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 430.
[20] Sul principio di effettività, riferito alla norma di diritto privato, v. invece C.M. BIANCA, Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo, in Estudios Castan Tobeñas, II, Pamplona, 1969, nonché C.M. Bianca, Ex facto oritur ius, cit., 787 ss., particolarmente 792, secondo cui la norma, al pari dell’istituzione, deve «avere un connotato di effettività per potere essere qualificata come norma di diritto privato».
[21] La negazione dell’esistenza stessa del diritto è riconosciuta dallo stesso E. EHRLICH, cit., 106, con l’affermazione che esso esiste ‹‹solo nelle menti degli uomini››.
[22] H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, (trad. it.) Torino, 1952, 51: ‹‹La norma è una categoria che non trova applicazione nel campo della natura››.
[23] P. CALAMANDREI, La Cassazione civile. Parte seconda, Milano – Torino – Roma, 1920, ora in Opere giuridiche, VII, Roma, 2019, 60.
[24] Se la norma coincide con il comando introdotto (positum) dalla fonte di produzione (la legge) - la quale trae validità dalla norma costituzionale, a sua volta legittimata da ‹‹una costituzione più antica›› sino a risalire a ‹‹quella storicamente originaria che fu promulgata da un singolo usurpatore o da un’assemblea formatasi in un modo qualsiasi›› (così H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., 97) - è evidente che tutto ciò che è al di fuori di questo comando, compresa l’interpretazione giudiziale compiuta nella sentenza, appartiene alla sfera del fatto e, restando giuridicamente irrilevante, non può modificare il contenuto della norma, che rimane dunque invariabile.
[25] Cfr. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria generale e dogmatica), Milano, 1949, 3 ss., 47 ss., il quale, pur dovendo riconoscere il dato esperienziale della continua evoluzione del diritto grazie all’opera assidua dell’interprete, afferma recisamente che in ragione di tale evoluzione non si crea tuttavia una nuova norma giuridica, poiché l’interpretazione, per quanto attività creativa (‹‹come ogni attività spirituale che, pur riferendosi ad un atto precedente, non ne è una semplice ricezione passiva››), non modifica il contenuto originario dell’atto a cui si riferisce: l’evoluzione del diritto, piuttosto, risponde ad un processo di ‹‹autointegrazione›› e il diritto ‹‹evoluto›› non è altro che esplicitazione di un contenuto giuridico già ricompreso nella legge originaria. La caparbia difesa dell’invariabilità del contenuto della norma da parte della dottrina normativista pur dinanzi all’incontestabilità dell’evoluzione degli istituti giuridici nella loro concreta applicazione, ha suscitato la rispettosa ironia di Cesare Massimo Bianca (Ex facto oritur ius, cit., 794, nota 32): ‹‹Questa norma che conserva la propria identità pur crescendo sino al punto da divenire irriconoscibile, richiama alla mente l’analoga vicenda del capretto di pirandelliana memoria, che rimane il medesimo oggetto di proprietà dell’ingenua turista pur essendosi trasformato in un villoso animale (“un mostruoso caprone”) in cui la proprietaria non ravvisa più la gentile creatura a suo tempo comprata›› (il riferimento del mio Maestro è a L. PIRANDELLO, Il capretto nero, in Novelle per un anno, II, ed. Mondadori, Milano, 1943).
[26] V. C.M. BIANCA, Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo, cit., 61 ss., il quale individua la realtà sociale della norma giuridica nel suo essere effettivamente regolatrice dei rapporti dei consociati. Cfr. anche C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 796, 798, 799: ‹‹L’effettività è il momento essenziale della giuridicità in quanto le norme che sono effettivamente applicate possono dirsi ordinatrici di rapporti sociali, mentre le norme generalmente disapplicate non regolano i rapporti sociali e possono quindi avere solo l’apparenza di norme giuridiche›› Ed ancora: ‹‹il diritto effettivo … deve … essere colto nel fatto obiettivo che la norma viene socialmente accettata come norma giuridica secondo determinati significati e contenuti, cioè nel fatto della sua reale operatività. L’accettazione sociale della norma è il fatto dal quale scaturisce il diritto (corsivo dell’autore)››.
[27] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 796-797: ‹‹l’effettività della norna non è data dalla misura della sua osservanza, ma dalla sua accettazione da parte del corpo sociale come norma giuridica: accettazione che si evidenzia nella valutazione sociale della sua inosservanza come violazione del diritto, e nell’applicazione delle sanzioni da parte degli organi costituiti per applicarle. Se però la norma è generalmente inosservata senza che ciò dia luogo a sanzioni, se le posizioni di vantaggio che essa nominalmente conferisce non sono più riconosciute come tali nella vita di relazione e non trovano tutela presso le istituzioni, quella norna non è più regola giuridica di rapporti sociali››.
[28] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 799, 802, ove si rileva che l’importanza del diritto vivente giurisprudenziale emerge anche dai giudizi di costituzionalità, i quali assumono ad oggetto le norme ordinarie così come interpretate dalla giurisprudenza.
[29] C.M. BIANCA, ult. cit., 803: ‹‹A chi afferma l’immutabilità del diritto, fissato nel testo scritto, deve invece dirsi che esso “si muove”, che esso è nella realtà della sua esistenza e questa realtà trascende i testi di legge per immedesimarsi nella vita dell’ordinamento che si evolve nella società e con la società››.
[30] V. FROSINI, La lettera e lo spirito della legge, cit., 137.
[31] App. Ancona, 25 luglio 1906, in Foro it., 1906, I, 1060 e in Giur. it., 1906, III, 389.
[32] Nel gennaio del 1889, proludendo dalla cattedra di diritto costituzionale della facoltà giuridica di Pisa, Mortara aveva affermato che le rivoluzioni francese e americana, pur non avendolo creato, avevano reso perspicuo, alla coscienza dei popoli civili, un nuovo principio: il principio dell’uguaglianza di diritto tra gli uomini. Questo nuovo principio, fondamento indispensabile al progressivo consolidarsi del dominio della forza intellettuale su quella materiale, non conteneva l’uguaglianza di fatto, anzi aveva valore pratico solo in quanto ne supponeva necessariamente la mancanza. Ma il principio dell’uguaglianza di diritto, applicato ad uno stato di disuguaglianza di fatto, avrebbe stabilito una ineluttabile tendenza alla diminuzione di quest’ultima e un’ineluttabile aspirazione al suo cancellamento. In questa tendenza e in questa aspirazione era il fine ultimo di giustizia che l’ordinamento persegue con tutti i suoi istituti e le sue norme. Le norme giuridiche, siano esse quelle costituzionali siano esse quelle legislative - aveva affermato Mortara -, vanno quindi lette, interpretate ed applicate alla luce di questo principio che è penetrato nelle società civili e le sta guidando dal dominio della forza materiale («signora del passato») a quello della forza intellettuale (che «dominerà l’avvenire»). Poiché «con l’impronta del nuovo principio» la «Costituzione», «tutta la legislazione» e persino l’attività esecutiva («l’opera governativa») riceveranno «indirizzi nuovi per le vie della civiltà e del progresso» (cfr. L. MORTARA, La lotta per l’uguaglianza (1889), in Quaderni fiorentini, 19, Milano, 145 ss., particolarmente, 160-161).
[33] Sul problema della rilevanza giuridica del sentimento, oltre agli autori già citati alla nota 1, si veda, con particolare riguardo al sentimento d’amore, S. RODOTA’, Diritto d’amore, Roma-Bari, 2015, ove si rileva che tale sentimento, non solo nella dimensione relazionale ma anche nei rapporti con l’autorità, tende a diffondersi oltre il suo perimetro tradizionale, per richiamare i principi della dignità e dell’uguaglianza tra le persone.
[34] C.M. BIANCA, Diritto civile, 1, La norma giuridica. I soggetti, Milano, 2002, 4; C.M. BIANCA, Diritto civile, 6, La proprietà, Milano, 1 e ss.; W. CESARINI SFORZA, Diritto soggettivo, in Enc. dir., XII, 1964, 659 e ss.; V. FROSINI, Diritto soggettivo, in Nuov. dig. it., V, 1047 e ss.. C. MAIORCA, Diritto soggettivo, in Enc. giur. Treccani, XI, 1989; P.G. MONATERI, Diritto soggettivo, in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione civile, VI, 1990, 411 e ss.
[35] A. FALZEA, cit., 545 e ss., definisce, precisamente, il sentimento come fatto di coscienza, e, più precisamente, come fatto o processo attuale della coscienza valutante, la quale, attraverso il sentimento, guarda il mondo esterno e prende posizione rispetto ad esso. Nel sentimento, dunque, vi è il dispiegarsi di un processo consapevole con cui la coscienza offre una valutazione della realtà esterna ad essa. Secondo il F., cit., 545, «il sentimento è … l’organo attraverso cui la coscienza individuale si mette in rapporto con i valori»; E ancora, cit., 548-549: «ogni processo attuale della nostra vita interiore cosciente è un sentimento … e lo è, ancora più caratteristicamente, nella misura in cui riflette la polarizzazione della nostra coscienza valutante tra valori positivi e valori negativi, tra beni e mali della esistenza».
[36] In teoria generale la nozione di valore e quella di interesse sono intimamente legate: l’interesse è infatti la manifestazione di un bisogno della persona in relazione ad un bene della vita, ma tale bisogno sorge soltanto se a quel bene viene attribuito un certo valore e varia al variare del valore riconosciuto al bene medesimo.
[37] Cfr. Mir. BIANCA, Il diritto del minore all’ «amore» dei nonni, in Riv. dir. civ., 2006, 2, 155: «La quasi totale irrilevanza giuridica dei sentimenti deve attribuirsi in primo luogo alla considerazione degli stessi quali elementi interni della psiche umana e come tali inafferrabili».
[38] Così, ad es., se il sentimento di amore provato per una persona ha ispirato un atto di liberalità nei suoi confronti, gli effetti giuridici vanno ricondotti a tale comportamento, che concreta un vero e proprio negozio giuridico di donazione (art. 769 c.c.) e non al sentimento positivo provato per il donatario; allo stesso modo, se il sentimento di odio provato per una persona ha ispirato un atto di danneggiamento di un bene di sua proprietà, gli effetti giuridici vanno ricondotti a tale comportamento, che concreta un atto illecito (art.2043 c.c.) e non al sentimento negativo provato per il danneggiato. Sul tema cfr., in via generale, A. FALZEA, cit., 627: «Il sentimento non emerge al livello del diritto se non in virtù della sua esteriorizzazione e questa, a sua volta, avviene, se non esclusivamente, di prevalenza mediante il comportamento».
[39] Per il FALZEA, cit., p.556, «il mondo reale esterno a cui la coscienza guarda attraverso il sentimento comprende ogni tipo di realtà: realtà naturale e realtà sociale», ma «dal punto di vista delle scienze umane, psicologiche, politiche e giuridiche, … il piano di riferimento più frequente e caratteristico è proprio la realtà sociale, in primo luogo la specifica realtà delle relazioni dirette tra persone umane». In queste relazioni, prosegue il F., «i due sentimenti fondamentali in cui si riflette la presa di posizione emotiva di una persona verso un’altra persona sono senza dubbio l’amore e l’odio», il primo quale sentimento del valore positivo attribuito alla persona altrui, il secondo quale sentimento del valore negativo attribuito alla medesima persona. È peraltro evidente che tra questi due sentimenti estremi ve ne possono essere diversi intermedi, che possono consistere, a loro volta, in sentimenti di valori positivi o in sentimenti di valori negativi.
[40] L’irrilevanza giuridica della dichiarazione di amore, sia sul piano del diritto civile che su quello del diritto penale, è affermata da Cass, sez. lav., 8 agosto 1997, n.7380, in Riv. dir. lav., 1998, II, 795, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta da una segretaria nei confronti del datore di lavoro, e fondata sull’asserito carattere molesto del comportamento da lui tenuto in occasione di una trasferta lavorativa, durante la quale egli l’aveva invitata a cena, le aveva dichiarato il proprio innamoramento e le aveva regalato un anello, ottenendo peraltro il rifiuto della donna, rifiuto perdurato successivamente al rientro dalla trasferta, allorché egli le aveva consegnato una lettera in cui aveva nuovamente esternato i propri sentimenti. La Suprema Corte ha ritenuto incensurabile la pronuncia del giudice del merito il quale - esclusa la prova degli ulteriori episodi denunciati dalla lavoratrice (in particolare di un tentativo di bacio contestuale alla dichiarazione di amore, nonché di ulteriori e non meglio precisate richieste che l’uomo le avrebbe rivolto dopo il rientro) - aveva ritenuto l’inesistenza di «condotte illecite dal punto di vista penale o civilistico, riconducibili alla sfera sessuale o comunque esulanti dal rapporto di lavoro», non essendo connotata la condotta dell’uomo «da violenza, da petulanza, da maleducazione o superficialità», ed essendosi anzi questa esaurita in atteggiamenti tipici di una persona innamorata, quali l’interessamento affettivo e il conseguente corteggiamento; atteggiamenti confinati di norma nel giuridicamente irrilevante, i quali non possono essere reputati illeciti (e non si traducono automaticamente in una molestia sessuale) per il solo fatto di essere attuati sul luogo di lavoro o tra persone legate da vincolo di lavoro.
[41] Cfr. già Cass., Sez. I, 14 febbraio 2007, n.3356, in Foro it., 2008, I, 128; v, anche Cass., Sez. I, 29 marzo 2011 n.7125 e Cass., Sez. I, 21 gennaio 2014 n.1164.
[42] Cfr. Cass., Sez. I, 23 marzo 2005, n.6276, in Giust. civ., 2006, I, 2910, la quale ha ritenuto integrata la violazione del dovere di assistenza morale sancito dall’art.143 c.c., ai fini dell’addebito della separazione, nel persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge, rifiuto che, «provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psico-fisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner». Cfr., inoltre, Cass., Sez. I, 12 giugno 2006 n.13592, in Italgiure Web - Corte di Cassazione, la quale, sempre ai fini dell’addebito della separazione, ha attribuito rilevanza alla sistematica violazione del dovere di fedeltà, attuata «attraverso una stabile relazione extraconiugale». Con riguardo all’ordinamento antecedente alla Riforma del 1975, cfr. Cass., Sez. I, 10 ottobre 1974 n.2759, la quale aveva ritenuto causa di separazione personale per ingiuria grave, ai sensi dell’art.151 c.c. nella sua formulazione originaria, la coltivazione di relazioni omosessuali «in modo continuativo e pubblico» da parte di uno dei coniugi. Ai fini del giudizio di addebito della separazione personale – e delle conseguenze giuridiche sfavorevoli ad esso connesse – non è dunque sufficiente, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il dato negativo del difetto di slancio amoroso, del distacco sentimentale, della disaffezione, ma occorre che si integri uno specifico comportamento positivo (sistematica infedeltà, ostentata coltivazione di relazioni extraconiugali, continuato rifiuto di intrattenere rapporti sessuali) che, trascendendo l’aspetto puramente affettivo, si traduce nell’offesa alla dignità, all’onore, alla personalità del coniuge.
[43] M. TRIMARCHI, Unioni civili e convivenze, in Fam. e dir., 2016, 10, 859.
[44] C.M. BIANCA, Diritto civile, 5, La responsabilità, Milano, 1994, 608.
[45] Cfr. già Cass., Sez. III, 1° dicembre 2004 n.22593, in Mass. giust. civ., 2005, 1 e Cass., Sez. III, 15 luglio 2005 n.15022, in Dir. e giust., 2005, fasc. 40, 43; v. anche Cass., Sez. III, 16 marzo 2012 n.4253, in Giur.it., 2012, 2519 e Cass., Sez. III, 17 aprile 2013 n.9231, in Danno e resp., 2013, 595.
[46] Questa ulteriore valutazione è qualificata dal FALZEA, cit., 559, come «valutazione di secondo grado»: in forza di questa ulteriore valutazione «ogni sentimento (con tutti i suoi valori interni) è suscettibile di essere valutato (ab extra) in funzione di quel sistema di valori che è un ordinamento giuridico».
[47] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2014, 335. Per il B., enunciando il diritto all’assistenza morale, il legislatore ‹‹ha inteso sancire il diritto del figlio ad essere amato dai suoi genitori›› poiché ‹‹assistere moralmente il figlio significa … averne cura amorevole››. Il diritto all’amore - precisa l’insigne Maestro - è un diritto fondamentale del minore. Con riguardo all’ordinamento vigente prima della riforma della disciplina della filiazione, v. C.M. BIANCA, Commento all’art.1, commi 1°, 2° e 4°, della l. 28 marzo 2001, n.149, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n.184, recante disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, in NLCC, 2002, 909, ove, per un verso, si evidenzia il legame strumentale esistente tra il diritto del minore alla propria famiglia, proclamato dall’art.1 della legge sull’adozione - ed oggi ribadito dal secondo comma dell’art.315-bis c.c. - e il diritto dello stesso minore all’assistenza morale («il minore ha diritto di crescere nella sua famiglia in quanto riceva da questa l’assistenza morale necessaria per la serena ed equilibrata formazione») e, per altro verso, incisivamente si identifica il diritto del minore all’assistenza morale con il diritto all’amore, sul presupposto che «la principale componente dell’assistenza morale è costituita dal rapporto di affetto che deve instaurarsi tra genitori e figli».
Tragic choices, 42 anni dopo. Philip Bobbitt riflette sulla pandemia.
Intervista di Roberto Conti
1.La scelta del tema. 2. Le risposte 3.Le conclusioni. 4.Versione in lingua inglese. 5.Documento integrale in pdf
1.La scelta del tema.
Giustizia Insieme ha chiesto a Philip Bobbitt, coautore insieme a Guido Calabresi del libro divenuto un classico - come lo ha giustamente indicato Stefano Rodotà nella prefazione alla traduzione italiana Scelte tragiche, a cura di C.M.Mazzoni e V. Varano, Milano, 2006 di rivisitare gli scenari allora proposti sul tema delle decisioni dilemmatiche alla luce della recente crisi pandemica da Covid-19.
Lo spunto offerto dal saggio, già sviluppato nell’intervista a più voci (L. Eusebi, L. Ferrajoli, A. Ruggeri, G. Trizzino, L. Eusebi) raccolta dalla rivista su Scelte tragiche e Covid-19 quando il nostro Paese era nel pieno dela fase 1 dell'emergenza pandemica, ha dato il “la” ad una riflessione generale sulle vicende che in Italia e negli Stati Uniti, come in molti altri Paesi, hanno riguardato la gestione della crisi epidemiologica e del passaggio alla c.d. fase 2, orientando l’attenzione dapprima sulle scelte operate dal personale medico in ragione della scarsa disponibilità di presidi salva-vita e, progressivamente, sulle decisioni dei singoli Paesi in tema di allocazione delle risorse in ambito non solo sanitario, ma anche rispetto all’intera popolazione divenuta destinataria, a vari livelli, di fortissime limitazioni delle proprie libertà, comprese quella di iniziativa economica.
Un fascio di tragicità avvertite, fin dai primi giorni dell’epidemia, dai singoli operatori per la consapevolezza di non potere offrire contemporanea assistenza sanitaria a tutti i malati che ricorrevano alle cure mediche, a causa dell’insufficienza delle strutture sanitarie.
Drammaticità che, nella gestione dell’emergenza, ha correlativamente orientato le scelte primarie dei governanti volte, da una parte, a predisporre, spasmodicamente, nuove terapie intensive , poiché quelle esistenti si erano rivelate insufficienti a coprire le richieste di cure dei malati più gravi in vista dell’ulteriore previsto aggravamento degli effetti prodotti dall’emergenza epidemiologica, e dall’altra, a disporre la forzata riduzione delle attività economiche per ridurne la diffusione, con evidenti ricadute sulle condizioni di vita di una parte della popolazione. Ma senza che ciò abbia potuto eliminare la parimenti difficile condizione dei medici che, impossibilitati ad offrire le terapie a tutti i malati, hanno per un certo periodo di tempo verosimilmente dovuto “scegliere” a chi aprire le porte delle terapie intensive, trovandosi di fronte ad un dilemma destinato, una volta risolto, a condurre a morte quasi certa qualcuno e a dare un’opportunità di vita a qualcun altro.
Erano stati, del resto, Calabresi e Bobbitt a chiedersi se realtà ordinamentali e sociali diverse, come quelle italiana e statunitense, potessero considerare le stesse scelte come tragiche ed affrontare i dilemmi medesimi nello stesso modo (Scelte tragiche, cit., pag.174).
Da qui nasce la griglia di domande rivolte a Bobbitt, non più solo orientata ad indagare il tema sotto il versante medico-sanitario, ma considerando il fascio di scelte tragiche che in diversi settori la pandemia continua a determinare negli USA e in Italia.
Un particolare ringraziamento va a Guido Calabresi che, contattato grazie alla preziosa intermediazione del Prof. Enrico Al Mureden, ha con generosa disponibilità facilitato la realizzazione dell’intervista ed ha poi revisionato la traduzione in italiano resa dal Dott. Calogero Ferrara, da Lui molto apprezzata per essere riuscita ad esprimere in modo fedele e preciso il pensiero di Philip Bobbitt, al quale Giustizia Insieme rivolge un caloroso grazie!
3. Le risposte.
1.Professore Bobbitt, il suo celebre libro, scritto insieme al Prof. Guido Calabresi, ha costituito la base di studi in campo etico, economico e giuridico. Cosa cambierebbe e cosa confermerebbe, oggi, dopo la pandemia che ha colpito il mondo, rispetto alle conclusioni alle quali eravate giunti?
Penso che ancora oggi l'analisi complessiva effettuata in Tragic Choices regga: che le società mascherino con vari sotterfugi sia il razionamento che gli scambi che sono inevitabili per preservare un senso di inestimabilità di determinati valori; che poiché le società hanno un eccesso di valori, ad un tale livello che neppure i loro valori più profondi possono essere protetti simultaneamente, le scelte tragiche sono inevitabili; che questo eccesso di valori si riflette nel circuito dei vari metodi di allocazione, con la conseguenza che alcuni valori vengono dapprima esaltati e in seguito scartati o declassati; che non esiste un "punto di equilibrio" che bilanciando i diversi valori in competizione riesca a massimizzarli tutti contemporaneamente; e forse, soprattutto, che è proprio il modo in cui una società risolve le sue tragiche scelte che definisce quella stessa società.
Penso che la nostra esperienza con la crisi del coronavirus conferma questa analisi. Tuttavia ci sono enfatizzazioni che io personalmente potrei cambiare. Ad esempio, il ruolo della leadership politica potrebbe essere sottoposto a pressione in misura maggiore. Abbiamo fatto riferimento al capro espiatorio e persino alla xenofobia, ma dubito che qualcuno di noi avrebbe potuto immaginare la profondità del fallimento del leader politico che questa crisi avrebbe svelato.
2. Nel vostro libro voi fate una bipartizione fra decisioni di primo e di secondo grado. Ritiene che questa distinzione possa essere applicata all’emergenza epidemiologica in corso?
Ritengo di si. Tragic Choices ha descritto due diversi tipi di decisioni: scelte di primo grado come quanti test produrre, quanti ventilatori e così via, e scelte di secondo grado che equivalgono ai protocolli che stabiliscono le varie priorità -- chi avrà accesso ai ventilatori, chi viene testato e dove, chi deve essere messo in quarantena, chi viene rianimato, chi viene vaccinato e chi deve essere tirato fuori dall'intubazione.
Va da sé che prendere le decisioni di primo grado solo a condizione che comportino un miglioramento delle prospettive politiche del capo del governo è insopportabile, ma non sarebbe da meno prendere decisioni di secondo grado solo nei confronti di quelle regioni o di quelle città in cui i destinatari di quella decisione siano ritenuti più favorevoli in funzione di una particolare agenda politica.
3.I processi di allocazione delle risorse in ambito sanitario nei paesi del mondo occidentale hanno visto confrontarsi diversi modelli. Quello italiano è fondato, essenzialmente, sul criterio universalistico ma ha mostrato grandissima difficoltà a reggere l’emergenza pandemica per il divario esistente tra diverse aree del Paese. Cosa può dirci del modello statunitense rispetto all’emergenza? Come ha retto?
Non sono sicuro che gli Stati Uniti abbiano un "approccio". Il nostro sistema politico è così decentralizzato e la nostra leadership nazionale è stata così indecisa che penso che sarebbe un errore ritenere che esista un piano americano. L'approccio che sembra emergere, guidato principalmente da alcuni Stati, è quello di una strategia di isolamento, con vari gradi di rigore, che mira a rallentare il ritmo delle nuove infezioni. Le scuole e le imprese sono state chiuse in modo che gli ospedali e le infrastrutture mediche non venissero travolti. Inoltre, forse, c'è stata la speranza che se fossimo riusciti a guadagnare tempo con queste misure, sarebbe potuto emergere un vaccino o addirittura una cura.
L'America è una società molto ricca e può darsi che possa permettersi una strategia così costosa; ma l'America è anche una società piuttosto stratificata e se pure questa strategia potrebbe avere successo nel suo insieme non significa che certi gruppi - gli anziani nelle case di cura, le persone nelle carceri, i poveri nei quartieri densamente popolati e sottoccupati e vari gruppi razziali ed etnici che sono strutturalmente sfavoriti - non siano costretti a sopportare una percentuale maggiore ed ingiusta del peso di queste scelte.
E questo può anche significare che non ne verremo fuori come società "nel suo insieme".
4.Il divario fra strutture sanitarie esistenti nel nostro Paese ha messo a dura prova quelle del Nord Italia, meno quelle del sud. Esistono negli Stati Uniti fenomeni analoghi fra i diversi Stati federali?
Il contrasto tra le varie regioni degli Stati Uniti ha mostrato che alcune aree sono state maggiormente colpite - - New York in particolare - - ma il vero contrasto è stato nel modo in cui i diversi Stati hanno reagito alla crisi. Questo si è tradotto nella proposta di Accordo interstatale che ha visto stati diversi proporre le stesse strategie generali di contrasto. Pertanto, le regioni costiere del Nordest, tra cui in particolare New York e gli stati circostanti, hanno lavorato attraverso i loro governatori per collegarsi con gli stati costieri occidentali, in particolare con la California e Washington. Questi stati hanno introdotto i programmi più aggressivi per ridurre il contatto interpersonale. Allo stesso tempo, gli Stati del Midwest e del profondo Sud hanno proposto piani tra loro simili che si basano su normative un po' meno rigide. Queste differenze rispecchiano affinità più profonde che il sistema federale tende a coltivare e temo che, a seguito dell'esperienza del coronavirus, tali alleanze potranno determinare una perdita di coerenza nazionale.
5. In Italia, ma anche in Spagna e in Francia, si è acceso il dibattito sulle prassi esistenti negli ospedali che non sono in grado di reggere alla domanda di pazienti da inviare nelle unità di terapia intensiva. Rispetto ai criteri in astratto utilizzabili per queste scelte dilemmatiche – criterio utilitarista, criterio cronologico (c.d. first come, first served) criterio casuale (c.d. lottery), criterio terapeutico correlato alle maggiori probabilità di successo dell’intervento medico o della maggiore speranza di vita (i.e. Le 'Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili) – cosa si è fatto negli Stati Uniti?
Anche negli Stati Uniti si è avuto lo stesso dibattito. Diversi ospedali, anche nella stessa città, hanno adottato protocolli diversi; alcuni protocolli, una volta resi pubblici, sono stati ritirati a seguito delle proteste del pubblico. Alcuni medici hanno rifiutato di applicare i protocolli prescritti. Ma generalmente non c’è stato un insieme coerente di priorità. Né credo che alcuno dei criteri descritti nella sua domanda sopravvivrebbe a lungo al controllo pubblico negli Stati Uniti.
6. Se un medico si trovasse a dovere scegliere a chi destinare le cure intensive tra il luminare che sta scoprendo il vaccino del covid-19 ed un giovane con maggiore speranza di vita cosa dovrebbe fare un medico statunitense. E un medico italiano?
Anche se ho viaggiato a lungo in Italia e ho persino scritto un libro su uno dei suoi più grandi pensatori (The Garments of Court and Palace: Machiavelli and the World that He Made *), e sebbene gli italiani mi abbiano sempre fatto sentire a casa quando sono stato in loro compagnia, non ho la presunzione di dire quale dovrebbe essere la decisione di un medico italiano nelle circostanze che mi ha sottoposto nella sua domanda.
Se fossi un medico americano - un vero medico, un MD e non un semplice dottore di ricerca - immagino che preferirei salvare la persona di qualsiasi età che sta scoprendo il vaccino contro il covid-19 rispetto a qualcuno anche molto più giovane perché, così facendo, potrei essere in grado di salvare in futuro la vita di molti uomini più giovani anziché quella solamente di uno. Chiamiamolo "pragmatismo americano", se vi piace.
Ma se il giovane fosse mio figlio, Pasha di 7 anni, io scapperei da questa decisione.
7. Lei pensa che le scelte tragiche di cui discutiamo debbano essere prese dai medici liberamente, ovvero occorrono dei protocolli che prendano in esame le posizioni di varie professionalità in campo medico etico filosofico e giuridico?
Come ho sottinteso nella mia risposta a una domanda precedente, credo che un pluralismo di protocolli troverà attuazione, anche se uno di questi sarà quello di rinviare alle decisioni individuali prese dai singoli medici. Le scelte tragiche sono per loro natura insoddisfacenti e instabili, ma devono essere fatte.
Le decisioni lasciate ai singoli dottori devono far fronte a quello che potrebbe essere chiamato il paradosso di Ippocrate: prendersi cura instancabilmente del paziente che ha immediato bisogno potrebbe portare alla lunga a gravi disuguaglianze basate su ricchezza, razza, etnia, posizione sociale e così via e quindi sacrificare il benessere della società considerato nel suo insieme.
Per molte ragioni culturali e storiche, gli Stati Uniti sono una società il cui rispetto verso sé stessa è diventato sempre più dipendente da come vengono trattati i più deboli e i più vulnerabili.
8.Quanto le scelte della politica sulle allocazioni delle risorse in materia sanitaria vanno lasciate al mercato e quante devono essere riservate alla sfera pubblica?
Penso che sarebbe un esercizio deprecabile del potere statale se una società dovesse rinviare interamente al mercato la decisione sulla distribuzione di beni di primaria importanza.
Anche se si potesse dimostrare che, in linea di principio, tale rinvio al mercato crea una maggiore ricchezza, che a sua volta potrebbe essere utilizzata per compensare quelle persone che non possono avere accesso a quel bene primario, in pratica tali forme di compensazione raramente si verificano e, in ogni caso, l'impronta del materialismo che rimarrebbe su una siffatta società sarebbe indelebile.
Stavo tentando di distinguere tra uno stato che semplicemente rinuncia al suo ruolo per deferenza verso il mercato --- come hanno fatto per larga parte gli Stati Uniti in tema di assistenza sanitaria e prima dell'amministrazione Johnson che ha adottato Medicare (per gli anziani) e Medicaid (per i poveri) --- in contrasto con i programmi statali che utilizzano il mercato, come ha fatto l'amministrazione Obama rispetto all'Affordable Health Care Act che ha tentato di ampliare la copertura assicurativa medica.
Un altro esempio potrebbe porre in contrasto la opzione di acquistare un proprio "sostituto" durante la guerra civile americana da parte di persone che volevano evitare la leva militare, con il passaggio negli anni '70 dalla coscrizione obbligatoria al solo arruolamento volontario per reclutare il personale militare. Nel primo caso, lo stato rinvia al mercato permettendo a una persona arruolata di acquistare la sua via d'uscita, scavalcando il meccanismo politico della leva; nell'altro caso, lo stato sta usando il mercato per aumentare la forza dell’esercito così come usa il mercato per acquistare armi.
9. Professore Bobbitt, qual è il valore economico di una vita umana nel suo Paese?
Questa domanda è senza risposta, almeno da parte mia, perché ritengo che il termine "valore economico" sia sottostimato. Come ho scritto al mio caro amico e coautore giudice Calabresi, sarebbe come porre la seguente domanda: - date alcune variabili sulla velocità delle automobili, il consumo di carburante, la abilità e la fatica del conducente, limiti di velocità e così via, quanto tempo sarà necessario alla macchina per viaggiare dalla Casa Bianca alla sua destinazione?
"Valore economico" significa - almeno nella tua domanda - il prezzo più efficiente di un particolare bene (vita umana). Ma non posso determinare ciò che è più efficiente se non viene specificato l'obiettivo. È la vita più lunga? La vita più soddisfacente? La vita che contribuisce maggiormente alla società?
10. Quanto l’universalismo dei valori e il principio di eguaglianza possono condizionare le scelte primaria dei decisori politici in materia sanitaria?
Temo di avere una difficoltà simile con il principio di uguaglianza. Senza un valore preventivamente specificato l'uguaglianza, come è stata osservata alcuni anni fa da Peter Westen, è un'idea vuota.
Dobbiamo prima determinare "uguali rispetto a che cosa" tra i molti tipi di uguaglianza che entrano tra loro in competizione. Ad esempio, quando parliamo di uguaglianza davanti alla legge, facciamo affidamento sulle molte differenze che la legge fa (colpevoli o non colpevoli, responsabili o non responsabili, aventi diritto o meno) tra persone che teoricamente sono uguali. Una lotteria è più rispettosa della uguaglianza perché è casuale (e tratta tutti alla cieca e quindi allo stesso modo) o è probabile che sia considerata meno equa, come metodo di allocazione, perché senza un insieme predeterminato di priorità, tratta invariabilmente persone di condizioni molto diverse come se fossero uguali?
11. La scelta del lockdown per salvare da morte quasi sicura una parte consistente di popolazione per l’assenza di strutture sanitarie adeguate incide in maniera decisiva su fattori economici vitali. Essa rischia di determinare effetti collaterali anche “mortali” per un’altra fetta di popolazione. Può anch’essa definirsi una scelta tragica di primo grado? Dove è il punto di equilibrio fra le due esigenze?
Sì, tale decisione è nella nostra terminologia una determinazione di "primo grado ". Non ho un algoritmo che determina il giusto equilibrio tra la protezione della salute di varie persone in una società rispetto alla produttività dell'economia di quella stessa società. Sono propenso, tuttavia, a pensare che non esista una regola. Vale a dire che la regola su cui si fonda una società sarà invariabilmente imperfetta.
12. L’emergenza pandemica ha riacceso il dibattito su Stato sociale e mercato. In Italia, dalla dichiarazione dello stato di emergenza di fine gennaio 2020 non vi è ancora oggi la possibilità di dotare la popolazione di mascherine perché le imprese italiane non ritenevano conveniente la produzione. Secondo lei l’intervento statale quando è in gioco la salute pubblica è una possibilità o un dovere?
Ritengo che esistono pochi doveri che possono ritenersi più importanti della protezione da parte dello stato del benessere della sua gente.
* Che, a proposito, è dedicato al giudice Calabresi.
4.Le conclusioni
La riflessione che Giustizia Insieme ha inteso rilanciare nel pieno della crisi pandemica a proposito delle scelte tragiche alle quali i sanitari sono stati ripetutamente chiamati nei confronti dei malati più fragili e vulnerabili, dapprima con le riflessioni di Eusebi, Ferrajoli, Ruggeri e Trizzino già ricordate all’inizio e, oggi, con quelle di Bobbitt rappresenta il punto di inizio di un ragionamento che è partito da casi specifici ed ha quasi inevitabilmente visto ampliarsi, nel corso del tempo della pandemia l’orizzonte, dispiegandosi in modo chiara la consapevolezza che la tragicità delle decisioni in situazioni di emergenza avrebbe condotto i plurimi decisori ad affrontare dilemmi non agevolmente risolvibili, destinati ad essere esaminati, criticati, condivisi od osteggiati. A monte di tutto questo un bisogno estremo di agganciarsi a qualcosa capace di dare un senso, una giustificazione, una razionale spiegazione del perché quella scelta fosse stata o non fosse stata presa.
Il rinvio al corpo dei diritti fondamentali è apparso tanto naturale quanto complicato, comprendendosi fin dall’inizio che al sacrificio dell’uno avrebbe fatto la contrappeso l’espansione dell’altro. Da qui l’amara constatazione di quanto fosse agevole evocare il quadro dei valori fondamentali ma assai più oneroso applicarlo sul campo, sacrificarne uno in nome dell’altro.
Nihil sub sole novi, si potrebbe dire rispetto alle ordinarie operazioni di bilanciamento alle quali i decisori sono chiamati quotidianamente.
Ma il punto è che le scelte tragiche di cui si è detto hanno con la crudezza che si è verificata cagionato la fine della vita dei malati impossibilitati ad accedere nelle terapie intensive insufficienti.
Questa immediatezza della tragicità delle decisioni si è andata poi solo lievemente dissolvendo quando l’emergenza ha determinato la necessità di adottare scelte solo in apparenza meno traumatiche nella c.d. fase 2, via via che il problema delle terapie intensive si andava attenuandosi per effetto delle misure di contenimento della pandemia adottate a livello nazionale.
Solo in apparenza, si diceva, meno traumatiche poiché quelle ulteriori scelte, destinate a regolare la vita di una intera collettività nel persistente rischio di contagio del virus, hanno progressivamente messo in evidenza la capacità delle misure stesse di colpire al cuore, nel breve o medio tempo, gli interessi ed i diritti di un numero ancora superiore di persone, imprese, attività, coinvolte dalle misure emergenziali.
Conferma autentica di quanto fin qui affermato e della centralità dell’analisi di Calabresi e Bobbitt è venuta, qualche giorno fa, dall’esplicito riferimento operato dal Presidente del Consiglio dei Ministri al Senato della Repubblica alla tragicità delle decisioni incidenti sulla ripresa del Paese ed alla figura di Guido Calabresi- G. Conte, Una sfida epocale per l’Europa, in Ilsole24ore, 28 marzo 2020-.
Ora, le articolate e argute risposte di Bobbitt hanno offerto, per un verso, uno spaccato irripetibile sulla gestione della crisi epidemiologica da parte delle autorità statunitensi e, per altro verso, confermano l’estrema attualità delle intuizioni espresse nel volume edito molti anni fa.
Emergono, forse in modo inaspettato, fortissime analogie fra quanto è accaduto e continua ad accadere nel nostro Paese, nel quale le relazioni fra misure nazionali disposte a livello centrale e provvedimenti regionali hanno fatto emergere notevoli criticità – già sfociate in contenziosi giudiziari non ancora esauriti- v., a titolo meramente esemplificativo, TAR Calabria 9 maggio 2020, n.841, sul tema dei rapporti fra potere centrale e potestà regionale – e la situazione americana, in cui ci si interroga, allo stesso modo, sui rischi e le conseguenze che possono derivare dalle varie politiche adottate -dall’autorità centrale piuttosto che dalle singole “regioni” - sulla diverse fasce della popolazione- anziani, detenuti, lavoratori, senza casa-. Ciò che conferma che anche il metodo politico per la gestione di alcune scelte di primo grado e l’opzione fra decentramento e centralizzazione delle scelte di cui si è appena detto- Scelte tragiche, cit., 52 ss.- ha un coefficiente di dilemmaticità non indifferente in società pur diverse quali sono quelle italiana e statunitense.
Nella ricerca delle scelte ottimali, rese spesso difficili dalla scarsità dei beni disponibili, le opzioni che si delineano presuppongono un apprezzamento in forma per così dire graduata di valori meritevoli di essere protetti integralmente e simultaneamente.
Questo complesso bilanciamento, che risente delle scelte politiche e del giudizio dell’opinione pubblica, che indiscutibilmente le condiziona sembra, nelle parole di Bobbitt, non potere prescindere in alcun modo dal valore uomo, pur difficile da identificare economicamente in relazione a diverse variabili e pur portatore di una pluralità di bisogni parimenti fondamentali, ma comunque necessariamente presente come bene primario da difendere e soddisfare nei suoi bisogni. Il punto è, semmai, che in nome della tutela del bene vita e salute si assiste, talvolta, a “scelte” formalmente indirizzate a proteggere la salute pubblica con scarsa ponderazione delle ricadute di quelle stesse decisioni sui soggetti più vulnerabili.
Si pensi alla scelta del decisore politico della regione italiana più colpita dal coronavirus nel mondo di indirizzare i malati anziani di covid-19 verso le residenze sanitarie assistite al fine di ridurre il peso sulle terapie intensive. Decisioni che hanno poi dato il la alle stragi di anziani verificatesi all’interno di quelle strutture – v. G.Savagnone, I Chiaroscuri – Non è un continente per vecchi –.
Nessuno si vuol qui ergere a censore di valutazioni sicuramente ardue da adottare.
Si è piuttosto cercato di porre in evidenza come la mancata ponderazione delle ricadute che una scelta del tipo di quella sopra ricordata avrebbe avuto su un vastissimo numero di persone già in condizioni di vulnerabilità, ha determinato un risultato non rispettoso di tutti i valori fondamentali coinvolti dalla pandemia.
Sembra dunque evidente che il piano delle responsabilità politiche si leghi a quello delle scelte operative e attuative, mostrando la drammaticità tanto delle une che delle altre.
Si arriva, così, quasi inconsapevolmente al piano delle responsabilità, di vario ordine, che ricadono sugli autori – di primo e di secondo grado - delle scelte tragiche, responsabilità che rimandano al piano economico, filosofico, etico, culturale e appunto politico.
E le responsabilità di ordine giuridico? E il ruolo del diritto?
Le risposte di Bobbitt forse dimostrano che il diritto - e la legge - che pure nasce per offrire alla società risposte anche rispetto a situazioni estremamente complesse, non può avere la pretesa di confezionare da sé, muovendo da una prospettiva meramente giuridica una regola, caratterizzata da certezza e prevedibilità, valida per ogni situazione, ma ha nondimeno il dovere di aprirsi alla scienza, quando occorre nella gestione del rischio – esemplare, sul punto, l’analisi svolta su questa Rivista da G. Pitruzzella, La società globale del rischio e i limiti alle libertà costituzionali. Brevi riflessioni a partire dal divieto di sport e attività motorie all’aperto; v., altresì, Scelte tragiche, cit.,138 – predisporre un sistema nel quale quelle scelte difficili, proprio perché spesso incidenti su diritti fondamentali contrapposti, di qualunque livello siano, possano collocarsi perseguendo i valori dell’eguaglianza, formale e sostanziale, e dell’onestà di chi le adotta, pur nelle accezioni ambivalenti che tali nozioni possono avere Scelte tragiche, cit., 15, 17, 215 . E pur con un ineliminabile sentimento di angosciosa insoddisfazione per gli esiti di quelle scelte, per le morti silenziose, drammaticamente destinate ad essere dimenticate e confinate nel quasi ineliminabile costo sociale della pandemia che una società deve comunque sostenere. Condizione che, del resto, Calabresi e Bobbitt avevano già descritto proprio riflettendo sulle decisioni di includere o meno alcuni soggetti in un gruppo in quarantena – Scelte tragiche , 177–.
Passando poi ad indagare il ruolo dello Stato nel suo complesso rispetto alla pandemia, ci si accorge che proprio la centralità del “valore uomo” di cui si diceva impone al decisore politico di non lasciare integralmente alle regole di mercato puro le scelte che incidono sul bene vita della sua popolazione, dovendo avvalersi del mercato in maniera accorta, anche per salvaguardare quei valori di cui si diceva, così evitando che uno sfrenato liberismo possa determinare pregiudizi inaccettabili e incalcolabili.
Ciò potrà dunque rendere accettabili e digeribili decisioni che comunque sono destinate a rimanere inappaganti per alcuni, anche se rimane difficile trovare, quando vi è, a monte, una scarsità di risorse, il “metodo dei metodi” per realizzare scelte ottimali e, quindi, risposte univoche a prevedibili.
La posizione di Bobbitt a proposito della scelta che avrebbe compiuto, da medico, se fosse stato chiamato a salvare un anziano luminare che stava per scoprire il vaccino anti Covid-19 o una persona più giovane o, ancora, suo figlio di sette anni, segue il solco tracciato da Scelte tragiche, prendendo come base il tema dell'allocazione dei reni artificiali.
Trovano così conferma, a distanza di poco meno di cinquant’anni, le intuizioni che Calabresi e Bobbitt avevano preconizzato su quanto diverse variabili potessero incidere sulle decisioni e sui metodi per giungere alle decisioni tragiche (criterio utilitarista, criterio cronologico (c.d. first come, first served, criterio casuale -c.d. lottery- o criterio terapeutico correlato alle maggiori probabilità di successo dell’intervento medico o della maggiore speranza di vita (v. Scelte tragiche, 38, 39)- rendendole più o meno accettabili in relazione al contesto nel quale esse maturano (Scelte tragiche, pag. 173).
Qui si comprende in modo forse ancora più marcato quanto la dimensione giuridica che pure è indispensabile per garantire situazioni informate a principi di certezza e prevedibilità non possa essere da sola appagante, dovendo coabitare con l’analisi economica del diritto, da essa traendo alimento e linfa anche ai fini interpretativi -v. G. Alpa, Il futuro di Law and Economics nel pensiero di Guido Calabresi. La Costituzione economica e i diritti fondamentali, in Contratto e impresa, 2013, f.3-. Un percorso, quest’ultimo, capace di alimentare un sistema giuridico in modo più accorto e consapevole tanto rispetto alle regole del legislatore, quanto a quelle di chi è chiamato ad applicare quelle regole. Un percorso, in definitiva, capace di valorizzare il passato senza scadere nel moto rivoluzionario che, pur in voga in questo periodo, rischia di essere distruttivo se privo di una visione programmatica che misuri e apprezzi il modo con il quale le scelte sono considerate dalla società nella quale viviamo.
Le riflessioni di Bobbitt sulle decisioni adottate negli Stati Uniti ed in Italia durante la crisi epidemiologica sembrano dunque avvolgere le prime da un mantello nel quale i valori della persona protetti dalle Carte dei diritti fondamentali devono godere di una protezione particolarmente intensa pur dovendo convivere, inesorabilmente, con le regole del mercato che pure lo Stato deve sapere usare in modo accorto.
Rimangono nelle coscienze dei familiari che hanno perso i loro cari per la scarsità di strutture e nei sanitari, chiamati a destreggiarsi all’interno di un sistema condizionato da risorse inadeguate, dei pesi difficilmente sostenibili che il corpo sociale dovrà cercare di valorizzare, considerare e condividere – v.le considerazioni esposte sul punto da L. Cocucci, Il diritto alla salute ai tempi del coronavirus e la scomparsa di una generazione tradita. Recensione a “L’Ovulo Rosso nel Sottobosco” di Nico Cocucci , pure pubblicato in versione pdf all’interno di questa Rivista –. E ciò non tanto o soltanto in una prospettiva “risarcitoria” – v., sul punto, l’intervista di Michela Petrini a G.Travaglino e C. Cupelli su Responsabilità Medica e Covid 19. Nubi all’orizzonte per gli eroi in corsia?, in questa Rivista, 7 maggio 2020 – ma anche quando“…in nome della solidarietà, la collettività assuma su di sé, totalmente o parzialmente, le conseguenze di eventi dannosi fortuiti e comunque indipendenti da decisioni che la società stessa abbia preso nel proprio interesse.” –cfr.Corte cost.n.118/1996–.
E il giudice di fronte all’esame delle scelte tragiche adottate dai decisori come si comporterà? Da cosa sarà a sua volta condizionato nel ponderare la portata e la conformità di quelle scelte al paradigma normativo di riferimento? Quanto la tragicità di una scelta può spettare al giudice, quando si trova davanti una persona ed è chiamato a decidere se rimanere al mondo o cessare di vivere? –v., sul tema, S. Rossi, Il diritto in equilibrio: il mestiere dei giudici e i “casi tragici” di tutti i giorni, in Diritto e società, 2013, I, 127 ss.–
Abbiamo lasciato alla fine qualche riflessione sul tema.
Ci si accorge, in verità, che la tragicità delle decisioni, anche giudiziarie, è tema talmente risalente nella storia della persona umana e della letteratura da mostrare quanto l’intervista di Bobbitt – insieme al testo dei due giuristi americani – sia di estrema attualità in un contesto ben più ampio rispetto a quello di partenza, toccando dalle fondamenta il ruolo del giudicare e dei diritti fondamentali nell’attuale contesto storico. E proprio negli hard cases che la tragicità della scelta del giudice tende ad alimentarsi della riflessione dei due studiosi americani qui più volte ricordati, ancorché non collegata alla scarsità dei beni da allocare, ma al contrasto dei valori sotteso a talune di queste scelte tragiche e della necessità di giungere, ad in via ermeneutica, ad un bilanciamento che cerchi di preservare comunque quei valori. Riflessione, quest’ultima, che è del resto lo stesso Guido Calabresi a svolgere nella prefazione alla seconda edizione italiana del volume – v. Scelte tragiche, XXII –.
Non è dunque casuale che le Università abbiano affrontato, ben prima della crisi epidemiologica, il tema delle scelte tragiche del giudice, costituzionale e non, ponendo al centro delle loro indagini il volume qui già ricordato e alcuni casi giudiziari ormai storici- caso Englaro, caso Welby, caso Cappato, maternità surrogata, vaccinazioni( per cui v., da ultimo, Corte coost.n.118/1996 e Corte cost.n.5/2018) nei quali vengono in gioco la vita delle persone più vulnerabili, il rapporto fra il diritto alla vita e quello alla dignità delle persone delle stesse, alla nozione che di dignità si intende offrire – cfr. Le scelte tragiche della Corte costituzionale italiana. Incontro dibattito con Daria De Pretis, Giudice della Corte costituzionale. Incontro organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza della Facoltà di giurisprudenza di Messina, 25 novembre 2019, in https://www.facebook.com/dirittocostituzionale/videos/629317840933320/ – poi espressamente tornando a riflettere sul tema del giudicare sulle scelte tragiche ai tempi del Covid-19- webinar su "Giudicare in tempo di crisi. Le scelte tragiche di fronte al Covid-19", organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza delle sedi di Messina e Priolo Gargallo il 29 aprile 2020 con la partecipazione dei Professori Alessio Lo Giudice e Luigi Manconi, in https://www.facebook.com/338415109925730/videos/605642656707478--
Anzi, drammaticamente, il Covid-19 ha dimostrato quanto sia stato lungimirante l’approfondimento del tema dei diritti fondamentali a livello accademico e giudiziario, del loro peso, della loro valenza interpretativa nei processi decisionali dei giudici (id est, nelle loro scelte).
Non vi è stato, in questi mesi, alcun operatore, teorico e pratico, che non abbia avvertito la necessità di richiamare i temi dei diritti, delle libertà, del bilanciamento per giustificare o criticare le misure restrittive adottate.
Ci si è accorti, forse in maniera più concreta che in altre, di quanto il ruolo del giudicare sulle scelte tragiche si alimenti di queste prospettive, di quanto il tema della disobbedienza del giudice sul quale Gaetano Silvestri, Vincenzo Militello e Davide Galliani si erano già soffermati sulla pagine di questa Rivista- Il giudice disobbediente nel terzo millennio, 5 giugno 2019, ora pubblicato ne “Il mestiere del giudice”, a cura di R.G.Conti, Padova, 2020, con prefazione di P. Grossi-.
L’intervista a Philip Bobbitt si arresta qui ma sembra aprire nuovi scenari anche sul concetto stesso di “risposta giudiziaria” e sulla capacità del sistema di offrire decisioni rapide e capaci di considerare le ricadute di tale rapidità in termini economici.
Chi scrive non ha la capacità e la forza di imbarcarsi su questioni di natura processuale. Ma sente quasi istintivamente che uno dei temi che non potrà trascurarsi sarà proprio quello del ruolo delle Corte di Cassazione, di come essa potrà svolgere la funzione che l’ordinamento le assegna se i meccanismi di accesso alla sua giurisdizione continueranno ad essere informati, spesso si suol dire, al canone dell’eguaglianza al quale fa da pendant l’accesso “libero” ed indiscriminato a difesa del diritto alla giustizia. Un’eguaglianza che, tuttavia, rischia di risolversi, in gravissime diseguaglianze se si guarda al peso ed al valore economico delle diverse decisioni che il giudice di legittimità è chiamato ad adottare e che, forse, richiederà uno sforzo aggiuntivo di riflessione sull’egualitarismo al quale Calabresi e Bobbitt hanno dedicato notevole attenzione – Scelte tragiche, cit., 17 –
Insomma, il dilemma che sta alla base della scelta di primo grado se consentire l’accesso alla giustizia di legittimità a tutti coloro che lo richiedono o solo ad alcuni, in un sistema di scarsità di risorse sarà uno dei temi centrali nel futuro del nostro Paese.
Come lo sarà quello correlato alle scelte di secondo grado che chiameranno il giudice di legittimità a selezionare, nel caleidoscopio delle decine di migliaia di ricorsi in ingresso, quelli che meritano di essere decise con priorità, riproponendosi i dilemmi che i due studiosi americani hanno richiamato sul metodo migliore per rispondere alla scelta tragica “di turno”.
Scelte che, a ben considerare, non possono ritenersi circoscritte, quanto alla soluzione, al mondo dei giudici che compongono la Corte, poiché la Giustizia non appartiene soltanto a loro, ma è della società nel suo insieme, risente dei valori e della cultura che lì si ritrova.
Un fascio di questioni che si mostrano certo “tragiche” per chi dovesse non avere accesso al giudice di ultima istanza o dovesse averlo con grande ritardo perché ritenuto meno meritevole di quella tutela rispetto ad altro.
Ritorna, ancora una volta, il ruolo del e dei metodi di allocazione delle risorse ed il loro grado di accettabilità da parte di una società.
Quanto la nostra società sarà capace di sopportare una giustizia lenta che consente l’accesso egalitario e quanto preferirà una giustizia pronta, capace di incidere sulle questioni nodali o vitali mettendo al primo posto il canone dell’eguaglianza nell’accesso? All'orizzonte ecco affacciarsi un futuro costellato, in Italia come negli Stati Uniti e nel mondo, da scelte dilemmatiche di primo e di secondo grado che, combinandosi secondo vari metodi, chiameranno i decisori ed i destinatari delle decisioni a verificarne i contenuti, le modalità, l’incisività, l’utilità e ad assumerne, ciascuno, il peso in modo responsabile.
Il saggio di accettabilità di queste scelte da parte della società dipenderà, per un verso, dal grado di onestà e limpidezza con il quale esse saranno adottate all’interno di assai delicate operazioni di bilanciamento fra diritti fondamentali – A. Buratti, Quale bilanciamento tra i diritti nell’emergenza sanitaria? Due recentissime posizioni di Marta Cartabia e Giuseppe Conte, in Diritticomparati e le condivisibili riflessioni successive di G. Martinico, Due dottrine dei diritti?, ib., 5 maggio 2020 – e di appropriatezza, proporzionalità e temporaneità delle misure intraprese che vede comunque nella Costituzione lo strumento capace di “offrire alle Istituzioni e ai cittadini la bussola necessaria a navigare «per l’alto mare aperto» dell’emergenza e del dopo-emergenza che ci attende” -M.Cartabia, Relazione annuale sull’attività della Corte del 2019 , 28 aprile 2020-.
Peraltro, la tenuta del futuro prossimo dipenderà anche dalla capacità di mettere davvero al primo posto nelle operazioni di bilanciamento fra valori – e dunque nelle scelte di secondo grado dei giudici – la vita e la dignità della persona nelle dimensioni plurali che esse assumono in funzione della pluralità dei soggetti coinvolti, in modo comunque da evitare, in nome della protezione della salute della collettività tanto la rottamazione delle persone in nome di una sconsiderata ricerca del voluttuario, del bello ma non utile (Eusebi, Scelte tragiche e Covid-19, cit.) quanto la “cultura dello scarto” in danno dei “meno utili” per la società che Papa Francesco ha stigmatizzato qualche tempo addietro – Il Papa: una società è “civile” se combatte la “cultura dello scarto"; v. pure L. Manconi, L’età dello scarto, La Repubblica, 19 aprile 2020, 1–.
Non sembra casuale che il Presidente del Bundestag tedesco Schäuble abbia di recente evocato il rispetto della dignità umana come valore fondante del suo paese, proprio per sottolineare la continua opera di bilanciamento che va ricercata per soddisfare e contemperare le prerogative più espressive della persona umana, in Germania come in Italia –v. l’intervista di chi scrive da V.Elbling, Italia-Germania, unite in un'Europa più solidale solidale e "sovrana". Parola d'ambasciatore! su questa Rivista, 9 maggio 2020 –.
Si comprende, così, come il filosofo Jürgen Habermas, in una recente intervista rilasciata a N.Truong per il quotidiano Le Monde, 15 aprile 2020, – Europa, hai l’ultima chance per salvarti l’anima – si sia posto di fronte al seguente quesito: “Si deve accettare il rischio di sovraccaricare il sistema sanitario e, quindi, aumentare il tasso di mortalità per far ripartire prima l’economia e ridurre così anche la miseria sociale causata dalla crisi economica?”
A questo punto il discorso si mostra in tutta la sua circolarità rispetto a quanto si è qui detto e sembra complicarsi enormemente, rinviando ancora una volta al tema del “giudicare” e delle sfide etiche alle quali occorrerà dare risposte.
E sarà, dunque, il giudice interprete – costituzionale e non – a dovere tentare di rispondere al quesito se la dignità rappresenti un valore a sé incomprimibile, attorno al quale ruotano gli altri valori come si è sostenuto da una parte della dottrina (per tutti, da ultimo, v. A. Ruggeri, La dignità dell’uomo e il diritto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi, in Consulta on line, 3 giugno 2018) o se in nome della dignità anche la vita possa essere sacrificata, ovvero ancora se la dignità rappresenti unicamente uno dei tanti valori, comprimibile allo stesso modo degli altri ( v., per tutti, M. Luciani, da ultimo in La pandemia aggredisce anche il diritto?, intervista di F. De Stefano a C.Caruso, G.Lattanzi, G. Luccioli e M.Luciani, in questa Rivista, 2 aprile 2020).
Comunque la si pensi su tale questione sarà necessario confrontarsi per risolvere gli ulteriori dilemmi che riguardano il bilanciamento fra diritti fondamentali – come testimoniato dalla già ricordata Corte cost. n.2/2015 e questa fame di dignità che sembra a più riprese emergere – v. S. Petitti, Il giudice è garante della dignità umana?, in questa Rivista, 14 settembre 2019; C. Salazar, Il giudice è garante della dignità della persona?, in questa Rivista, 3 ottobre 2019: R. Conti, Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere, in questa Rivista, 29 gennaio 2019; id. Scelte di vita o di morte, Il giudice è garante della dignità umana? Roma, 2019 –, tenendo presente il dovere di solidarietà nel suo fare tutt’uno con quello di fedeltà alla Repubblica (A. Ruggeri, Scelte tragiche e Covid-19, cit.).
Le risposte offerte da Bobbitt potrebbero essere utili nella direzione qui indicata.
R. Conti
Versione originale(trad. domande a cura del dott. Calogero Ferrara)
Tragic choices, after 42 years. Bobbitt thinks over pandemic emergency.
1.Professor Bobbitt, you celebrated book, coauthored with Prof. Guido Calabresi, formed the basis of ethical, economic and legal studies. Nowadays, after the pandemic that hit the world, what would change and what would confirm, comparing with the conclusions you had reached at that time?
I think the overall analysis of Tragic Choices holds up: that societies disguise through various subterfuges the rationing and trade-offs that are inevitable in order to preserve a sense of the pricelessness of certain values; that because societies have a surfeit of values such that even their most deeply held values cannot be instantiated simultaneously, tragic choices are inevitable; that this surfeit of values is reflected in the cycling of various methods of allocation so that some values are exalted and then discarded or downgraded; that there is no “saddle point” that by balancing competing values, maximizes them; and perhaps most importantly, that how a society resolves its tragic choices defines that society. I think that our experience with the coronavirus crisis confirms this analysis. Still there are emphases that I might change. For example, the role of political leadership could be stressed to a greater degree. We referred to scapegoating and even xenophobia, but I doubt that either of us imagined the depths of the failure of character in a leader that this crisis would expose.
2. In your book you a bipartition between first and second degree decisions. Do you think this division can apply to the ongoing epidemiological emergency?
Indeed I do. Tragic Choices described two different kinds of decisions: first order choices such as how many tests to produce, how many ventilators, and so on and second order choices that amount to protocols setting various priorities – – who will get access to ventilators, who gets tested and where, who must be quarantined, who gets resuscitated, who gets vaccinated, and who is removed from intubation. It ought to go without saying that making the first order decisions turn on whether they enhance the political prospects of the head of government is unspeakable though no less so than making second order decisions like what regions and cities will be favored depend on whether the recipients are deemed supportive of any particular political agenda.
3. In the Western world, the procedures for allocating resources in the health system have registered different models of action. The Italian model is essentially based on the universalistic criterion but, at the same time, it has shown great difficulty in dealing with the pandemic emergency, due to the gaps between different areas of the country. Can you explain us the US approach towards the emergency? Do you think it worked and was successful?
I’m not sure that the United States has an “approach.” Our political system is so decentralized and our national leadership has been so indecisive that I think it would be a mistake to conclude that there is an American plan. The approach that seems to be emerging, driven primarily by some states, is a shelter-in-place strategy, with varying degrees of rigor, that aims to slow the pace of new infections. Schools and businesses have been closed so that hospitals and medical infrastructure would not be overwhelmed. Also, perhaps, there has been the hope that if we could buy time with these measures, a vaccine or even a cure might emerge. America is a very wealthy society, and it may be that we can afford such an expensive strategy; but America is also a rather stratified society and whether we can emerge successfully as a whole does not mean that certain groups – – the elderly in care homes, incarcerated persons in prisons, the poor in dense and underemployed neighborhoods, and various racial and ethnic groups that are disfavored structurally – – won’t bear an unfair share the burden. It may even mean that we will not emerge “as a whole.”
4. The gap between existing health structures in Italy put a strain on those in Northern Italy and much less in the Southern regions. Were there similar phenomena in the United States between the various federal states?
The contrast among regions in the United States has shown some areas as harder hit – – New York in particular – – but the real contrast has been in how the states have responded to the crisis. This is reflected in proposed interstate compacts that would link different states with the same general strategies of coping. Thus coastal regions in the Northeast, including especially New York and its surrounding states, have worked through their governors to link up with coastal states in the West, notably California and Washington. These states have had the most aggressive programs to reduce interpersonal contact. At the same time, states in the Midwest and the deep South have proposed similar plans that rely on somewhat looser regulations. These differences mirror deeper affinities that the federal system tends to nurture and I fear that, as a result of the coronavirus experience, such alliances will bring about a loss of national coherence.
5. In Italy as well as in Spain and France, it was debated the effectiveness of existing practices in hospitals when they are not able to cope with the demand for intensive care units. Many different criteria could be used for these dramatic choices: utilitarian criterion, chronological criterion (so called first come, first served), random criterion (i.e. lottery), therapeutic criterion based on the greater probability of success of the medical intervention or greater life expectancy- i.e. Le 'Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili', just to mention the most important ones. What kind of approach was adopted in the United States?
All of the above. Different hospitals even in the same city have adopted different protocols; some protocols, once they were made public, have been withdrawn in the face of public outcry. Some physicians have refused to apply the prescribed protocols. But generally there is no consistent set of priorities. Nor do I believe that any one of the criteria described in your question would long survive public scrutiny in the United States.
6. In case of a necessary choose to put under intensive care the old luminary who is discovering the covid-19 vaccine or a young man with greater life expectancy, what should be the decision of an American doctor? And of an Italian doctor?
Although I have traveled in Italy and even written a book on one of its greatest thinkers (The Garments of Court and Palace: Machiavelli and the World that He Made*), and although Italians have always made me feel at home in their company, I would not presume to say what the decision of an Italian doctor should be in the circumstances you posit. If I were an American doctor – – a real doctor, an MD, and not a mere PhD – – I imagine I would prefer the person of whatever age who is discovering the covid-19 vaccine over someone much younger because by doing so I might be able to save the lives of many younger men rather than just one. Call it “American pragmatism,” if you like. But if the young man were my son, Pasha aged 7, I should shrink from such a decision.
7. Do you think that the tragic choices we are discussing about should be freely taken only by doctors, or do we need protocols taking into consideration the positions of various professionals in the ethical, philosophical and legal medical field?
As I implied in my answer to a preceding question, I believe that a pluralism of protocols will eventuate even if one of these is to defer to individual decisions taken by treating physicians. Tragic choices are by their nature unsatisfying and unstable, but they must be made. Decisions left to individual doctors must cope with what might be called the Hippocratic paradox: that unswervingly serving the immediate patient could lead to gross inequalities based on wealth, race, ethnicity, social standing and so on and thus sacrifice the well-being of the society taken as a whole. For many cultural and historical reasons, the United States is a society whose self-respect has increasingly come to depend on how the weakest and most vulnerable among us are treated.
I think it would be an egregious exercise of state power were a society to defer entirely to the market in the distribution of tragic goods. Even if it could be shown that, in principle, such deference created greater wealth that in turn could be used to compensate those persons who could not successfully bid for the tragic good, in practice such reparations seldom take place and, in any event, the stamp of oppressive materialism upon the face of such a society would be indelible. The question rather should be: to what extent should public power and regulation use the market to achieve social aims?
8. To what extent the political choices on the allocation of health resources should be regulated only by the market? Or should they be reserved to the public powers and regulations?
I think it would be an egregious exercise of state power were a society to defer entirely to the market in the distribution of tragic goods. Even if it could be shown that, in principle, such deference created greater wealth that in turn could be used to compensate those persons who could not successfully bid for the tragic good, in practice such reparations seldom take place and, in any event, the stamp of oppressive materialism upon the face of such a society would be indelible. I was attempting to distinguish between a state that simply abdicates its role in deference to the market---as the United States largely did with respect to medical care before the Johnson administration that adopted Medicare (for the elderly) and Medicaid (for the poor)---as contrasted with state programs that use the market, as the Obama administration did with respect to the Affordable Health Care Act that attempted to broaden medical insurance coverage. Another example might contrast the option to purchase a “substitute” during the American Civil War by persons who wished to avoid the draft, with the switch from conscription in the 1970’s to an all- volunteer force to raise military personnel. In the former case, the state is deferring to the market by allowing a conscripted person to buy his way out, overriding the political mechanism of a draft; in the latter case, the state is using the market to raise armies much as it uses the market to purchase arms.
9. Professor Bobbitt, what is the economic value of a human life in your country?
This question is unanswerable, at least by me, because I believe the term “economic value” is underspecified. As I wrote my dear friend and co-author, Judge Calabresi: it is like asking the following question – – Given certain assumptions about automobile speeds, gas consumption, driver skills and fatigue, speed limits and so on, how long will it take a car to travel from the White House to its destination? “Economic value” means – – in your question, at least – – the most efficient pricing of a particular good (human life). But I cannot determine what is most efficient unless the objective is specified. Is it the longest life? The most satisfying life? The life that contributes most to society?
10. Should the universalism of values and the principle of equality affect the political decisions on the public health protection field ? And to what extent ?
And I’m afraid I have a similar difficulty with the principle of equality. Without a specified value, equality as was observed some years ago by Peter Westen, is an empty idea. We must first determine “equal in what respect” for the many kinds of equality that compete. For example, when we speak of equality before the law we rely on the many differentiations that the law makes (guilty or not guilty, responsible or not responsible, entitled or not entitled) as to which persons are equal. Is a lottery more equal because it is random (and treats everyone blindly and thus the same) or is it likely to be considered less equal as a method of allocation because without an overriding set of priorities, it invariably treats people of very different conditions as if they were the same?
11. The choice of lockdown to spare the probable death of a substantial part of the population, due to the absence of adequate health facilities, determined a strong impact on vital economic factors. Thus, it risks leading to "fatal" side effects for another bigger part of the population. Can this kind of decision be defined as a first degree tragic choice? How can be identified the balance between these two different and contrasting needs?
Yes, such a decision is in our terminology a “first order” determination. I don’t have an algorithm that would determine the proper balance between the protection of the health of various persons in a society versus the productivity of that society’s economy. I’m inclined, however, to think that there is no one rule. That is to say, that the rule on which a society settles will invariably be an imperfect one.
12. The pandemic emergency switched on again the debate on the welfare state and the market. In Italy there is still no possibility to equip the whole population with protective masks due to the fact that Italian factories did not consider this production economically convenient. In your opinion, whereas public health is at stake, the State intervention should be just a possibility or a duty?
I should think there are few more important duties than the protection by the state of the well-being of its people.
*Which, by the way, is dedicated to Judge Calabresi.
Termini a ritroso e “sospensione per pandemia”[1]
di Marco De Cristofaro Prof. Ordinario di Diritto Processuale Civile nell’Università di Padova
Un tema che solleva problematiche molto intricate è quello dei termini a ritroso a cui il legislatore del D.L. n. 18/2020, a differenza di quello del D.L. n. 11/2020, ha dedicato espressa attenzione (v. https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1036-covid-19-e-sospensione-dei-termini-sostanziali)
L’art. 83, co. 2, D.L. 18/2020 prevede nel proprio quarto periodo che, «quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte entro il periodo di sospensione» (periodo di sospensione come noto prorogato fino all’11.5 dall’art. 36 D.L. n. 23/2020), allora devono essere differite le date delle udienze in connessione alle quali si calcola a ritroso il termine[2].
Quando al sintagma: “il termine … ricade in tutto o in parte”, è ineluttabile ritenere che esso faccia riferimento al “decorso del termine”. Posto che il termine “cade” sempre in un giorno unico, e quindi o scade entro il periodo di sospensione o scade al di fuori dello stesso, è solo il “decorso” dello stesso che può “ricadere” in tutto o in parte in detto periodo.
Posta questa premessa, per comprendere le potenzialità applicative della disposizione diviene necessario formulare una serie di ipotesi sia con riguardo agli atti introduttivi, sia con riguardo a memorie o comparse endo-processuali (queste ultime, per solito, ricollegate ad un’udienza di discussione o ad un’adunanza camerale, ex artt. 281 sexies, 429, 378, 380 bis, 380 bis.1 c.p.c.).
a) Se il termine, che il convenuto deve rispettare ai fini della tempestiva costituzione in giudizio[3], cade entro il periodo di sospensione, nulla quaestio, l’udienza dovrà essere rinviata.
Se il decorso del termine ricade anche solo per una parte entro il periodo di sospensione, il convenuto ha diritto alla fissazione di una nuova prima udienza, perché ha diritto a godere per intero dello spazio a difesa minimo che il legislatore gli ha concesso. Immaginiamo quindi il termine dell’art. 163 bis c.p.c., con citazione notificata a febbraio ed udienza fissata a metà giugno: il convenuto dovrebbe avere un termine a difesa minimo che è di 90 giorni liberi meno i 20 per la costituzione tempestiva per sottrarsi alla decadenza concernente riconvenzionali, eccezioni “in senso stretto”, chiamate di terzi (ossia un termine minimo di 71 giorni per predisporre le proprie difese); ebbene, se questi 71 giorni decorrono anche in parte nel periodo che va dal 9.3 fino all’11.5 maggio, l’udienza dovrà essere necessariamente rinviata.
Pertanto, ove già non abbia provveduto al rinvio d’ufficio (cui si accompagnerà sempre ed in ogni caso il differimento anche del termine di costituzione[4]), all’udienza il giudice, nella contumacia del convenuto, dovrà fissare una nuova prima udienza. Non dovrà invero a nostro avviso tecnicamente rilevare la nullità della citazione, perché la citazione di per sé era valida – l’attore aveva fissato correttamente la data di prima udienza, venendo a propria volta “colto di sorpresa” da sospensione da pandemia –, ma solo fissare una nuova prima udienza con finalità di rimessione del convenuto nella pienezza del termine a difesa, in applicazione analogica dell’art. 164, co. 2, c.p.c. (ed a prescindere da un’apposita istanza in tal senso, da cui appunto il co. 2 dell’art. 164 reputa di poter prescindere allorché la lesione delle prerogative difensive della parte sia avvenuta nella fase introduttiva).
Se invece il convenuto si è costituito, subentra l’art. 164, co. 3, c.p.c. richiamato del resto nella relazione illustrativa al D.L. n. 18/2020[5], il giudice dovrà fissare una nuova data di prima udienza per consentire il godimento integrale del termine minimo a difesa previsto dalla legge: anche se ciò presupporrà ex necesse la richiesta del convenuto, perché è sempre necessaria un’apposita istanza del convenuto costituito, sia ai sensi della norma testé evocata, sia ai sensi dell’art. 157 c.p.c.
Resta il tema di verificare – per entrambe le ipotesi considerate (termine che scade entro il periodo di sospensione, termine che decorre parzialmente entro il periodo di sospensione) – quale sia l’ambito del rinvio, ossia se esso deve offrire al convenuto ulteriori 90 giorni che decorrano successivamente all’11.5.2020, ovvero se si possano cumulare i giorni decorsi prima dell’inizio della sospensione da pandemia con quelli che saranno decorsi dopo la fine della sospensione. Questa verifica però ci pare opportuno condurla a valle della considerazione di altri termini, più contenuti rispetto a quello ordinario ex art. 163 bis c.p.c.
b) Se immaginiamo invece che l’udienza sia quella ex art. 702-ter c.p.c. oppure quella ex art. 420 c.p.c. nel rito del lavoro, in linea di principio valgono le soluzioni sopra viste.
Diviene qui però più agevole focalizzare una situazione assai particolare, di ben più facile realizzazione rispetto a quanto accade per il “lungo” termine ordinario fissato in citazione. Accade non del tutto infrequentemente che il ricorso, depositato magari ad inizio febbraio, abbia visto la fissazione dell’udienza ad inizio luglio; l’attore, pur avendo la possibilità di ritardare fino all’ultimo la notifica (ossia fino al quarantesimo giorno prima dell’udienza nel sommario[6], fino al trentesimo giorno prima dell’udienza nel rito del lavoro[7]), ha invece proceduto immediatamente alla notifica, prima dell’inizio del periodo di sospensione da pandemia. Qui il termine per la costituzione del convenuto “è decorso” durante detto periodo; tuttavia il termine “minimo” concessogli a difesa (i 30 giorni del sommario piuttosto che i 20 giorni del rito laburistico) si dipana per intero nel periodo post 11 maggio.
Se dunque i termini minimi a difesa decorrono integralmente dopo la fine della sospensione, in questo caso l’udienza fissata ad una distanza che è superiore ai 40 giorni, per il rito sommario, e superiore ai 30 giorni, per quanto riguarda il rito del lavoro, ben potrà essere confermata, perché comunque il convenuto ha avuto modo di beneficiare, dopo la fine della sospensione, dell’intero spazio a difesa minimo che il legislatore ha ritenuto essere incomprimibile per queste situazioni.
Del resto, la notifica del ricorso con pedissequo decreto di fissazione d’udienza (anziché, ad es., il 25 febbraio) fosse arrivata il 12 maggio, il convenuto avrebbe avuto i giorni minimi indispensabili per predisporre la propria difesa; ed allora non diversamente si dovrà concludere allorché la notifica di ricorso e decreto di fissazione d’udienza sia stata fatta, anticipatamente, già a fine febbraio-inizio marzo, poiché il convenuto avrà comunque, dopo l’11 maggio, tutto lo spazio a difesa che il legislatore ha inteso assicurargli.
Sorge però qui il quesito su come affrontare il caso in cui, dopo la fine della sospensione, non vi sia spazio sufficiente per garantire detti termini minimi. L’ipotesi è dunque quella in cui, successivamente alla notifica, il termine sia in parte decorso e sia ripreso successivamente all’11 maggio, per compiersi con il rispetto dei minimi, nella somma della decorrenza ante e post.
Qui, in linea puramente logico-matematica, non vi sarebbe uopo a differimento dell’udienza. Tuttavia la risposta non pare più così semplice ove si consideri il caso affine in cui – avvenuta la notifica con ampio anticipo, tale da consentire il decorso dei termini minimi anteriormente all’inizio del periodo di sospensione da pandemia – l’udienza si trovi fissata al 18 maggio, con il termine che, originariamente, doveva ritenersi in scadenza l’8 maggio precedente, in pieno periodo di sospensione.
In tale ultima fattispecie è indiscusso che l’udienza debba essere differita. Il che porta però a chiedersi se – con notifica effettuata il 24 gennaio – abbia senso che venga differita l’udienza fissata il 21 maggio, con il termine di costituzione in scadenza l’ultimo giorno della disposta sospensione, e non debba invece esserlo quella del giorno successivo, 22 maggio, poiché in tal caso il convenuto avrebbe avuto la possibilità di usufruire, prima dell’inizio della sospensione, tutto il termine minimo a difesa assicuratogli dalla legge.
È evidente che questa conclusione – in sé palesemente iniqua e contra tenorem rationis (perché, ammettendo che scadano termini persino il giorno successivo al venir meno della sospensione, costringe a realizzare gli incontri preparatori ed a predisporre lo scritto difensivo in costanza di sospensione) – pretermette altresì il modo in cui si struttura e si dipana l’attività difensiva nella vita reale. Nel senso che, se il cliente comunica al legale di aver ricevuto a gennaio una notifica per un’udienza di metà maggio, trattandosi di un termine ante quam, quel legale “scadenzierà” la memoria difensiva per il decimo giorno anteriore a quell’udienza, né si può pretendere che abbia provveduto a predisporre tale memoria nel termine a quo decorrente dalla notifica.
Detto altrimenti, per quanto in anticipo si sia ricevuta la notifica, è ineluttabile che vi sia un “settaggio” dell’attività del difensore che lo porta a calendarizzare le attività funzionali alla difesa in funzione della data da cui decorre, a ritroso, il termine di costituzione; e tale “settaggio” resta ineluttabilmente disorientato nel momento del sopravvenire, ex post, dell’evento del tutto imprevedibile del Covid-19, e della conseguente sospensione del termine disposta dai D.L. n. 18 e n. 23/2020.
A questo punto la conclusione ci pare necessitata. Il decorso del termine «ricade in tutto o in parte entro il periodo di sospensione» in tutte le ipotesi in cui, muovendo a ritroso dalla data dell’udienza, risulta che non solo il termine di costituzione, ma anche l’intero termine minimo a difesa si dipani successivamente al venir meno della sospensione; e ciò non solo nei casi dei termini “più brevi”, di cui agli artt. 415 o 702 bis c.p.c., ma anche – qui sciogliendo il dubbio che abbiamo lasciato aperto prima – con riguardo al termine dell’art. 163 bis c.p.c.
Il termine cui ha riguardo il legislatore è dunque l’intero termine a difesa, calcolato a ritroso dalla data d’udienza, che deve tutto decorrere successivamente al venir meno della sospensione. Se ci fosse anche sola una sua frazione che risulti esser decorsa nel periodo di sospensione, le udienze debbono essere rinviate.
Quanto al profilo della comunicazione al convenuto del differimento d’udienza, ove il modello introduttivo sia quello del ricorso, trattandosi della modifica di un decreto di fissazione d'udienza, che è stato notificato insieme al ricorso, il nuovo provvedimento del giudice dovrà essere parimenti oggetto di comunicazione; nel caso in cui invece il modello introduttivo sia costituito dalla citazione, a motivo del fatto che neppure l’art. 168 bis, co. 5, c.p.c., prevede la comunicazione dello spostamento d'udienza disposto dal giudice, non pare necessaria alcuna ulteriore modifica[8].
c) Questo approdo si pone invero a nostro avviso – diversamente da quanto sostenuto nella Relazione del Massimario della Cassazione, n. 28 del 1°.4.2020 – in coerenza con i principi giurisprudenziali elaborati in materia di computo dei termini a ritroso, allorché il loro decorso venga a cadere in costanza del periodo feriale “ordinario” ex lege n. 742/1969 (coincidente, dal 2015, con il periodo tra il 1° ed il 31 agosto): è noto infatti che, per tale caso, si è ritenuto che la costituzione tempestiva del convenuto debba svolgersi “neutralizzando” l’intero periodo feriale, sì che – fissata udienza al 5 settembre – il termine a ritroso dovrà essere calcolato senza contare il mese di agosto, andando così a cadere (seconda del rito, ordinario ovvero sommario/laburistico) il 15 ovvero il 25 luglio (così come, nell’ottica dell’attore, la fissazione dell’udienza libellata dovrà non tener conto dei giorni agostani ai fini del rispetto del termine minimo a comparire dell’art. 163 bis c.p.c.)[9].
Un siffatto principio però può valere in tanto in quanto l’esistenza e la durata del periodo di sospensione siano conoscibili ex ante, di modo che la parte interessata possa prevedere i propri comportamenti; là dove invece la sospensione sopravvenga in modo del tutto imprevedibile, è chiaro che non si può ascrivere al convenuto di non aver provveduto all’attività difensiva in modo da costituirsi … prima della sospensione. Anzi proprio per rimanere coerenti con la ratio del principio – per cui né il convenuto (ed il suo legale), né l’attore (ed il suo legale) debbono vedersi coartati a profondere il proprio impegno, difensivo od in replica, nel periodo di sospensione – si dovrà questa volta concedere alla parte interessata l’intero decorso del termine successivamente al venir meno della sospensione, senza che il convenuto debba computare nemmeno un giorno al suo interno.
Né con tale approdo modo si entra in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale in base al quale, nel caso di necessità di fissazione di nuova udienza ex art. 164, co. 3, c.p.c., il giudice ben può tener conto del tempo trascorso dalla notifica[10]. La tesi qui sostenuta non mette in dubbio che, rispetto ad un’udienza originariamente calendarizzata per il 29 maggio, il giudice possa fissare la nuova udienza in una data che consideri anche il periodo a partire dall’11 maggio nel computo dei 90 giorni liberi complessivi prima della successiva udienza[11]; quel che rileva è che comunque vengano conteggiati solamente i giorni successivi all’11 maggio, poiché i giorni che fossero eventualmente decorsi prima dell’8 marzo non sono rilevanti in quanto la sola decorrenza che rileva è quello che si sarebbe dipanata a ritroso rispetto all’udienza per l’intero termine minimo a difesa.
d) Altro ordine di situazioni che richiede approfondimento, sulla base della nuova regola sui termini a ritroso, è quello in cui il giudice, ad es. a fine gennaio, per un’udienza di discussione ex art. 281 sexies, per un’udienza di discussione finale ex art. 702 ter, per un’udienza di discussione nel rito del lavoro ex art. 429 c.p.c., abbia fissato l’udienza finale verso fine maggio, dando un termine per note conclusive per 10 o 15 giorni prima. In questo caso la “scadenza” del termine si colloca dopo la fine del periodo di sospensione, e si potrebbe essere indotti, in linea di principio, a ritenere che essa sia sempre “congrua”, poiché non vi sono termini minimi incomprimibili, ed altresì perché il giudice ha fissato quel termine di norma in funzione delle esigenze del ruolo e non certo per aver valutato che quello spatium temporis fosse l’unico adeguato all’approfondimento difensivo ad opera delle parti.
Tuttavia ci possiamo chiedere, in questo caso come in quello che abbiamo visto prima del termine di costituzione che decorre in parte prima e in parte dopo la fine del periodo di sospensione, se non vi sia da salvaguardare una aspettativa del difensore che, in qualche modo, ha “settato” la propria organizzazione di studio sapendo che l’udienza di discussione ex art. 429 od ex 281 sexies c.p.c., era a circa 4 mesi di distanza, non certo prevedendo di dedicarsi alla redazione delle note conclusive immediatamente dopo la concessione del termine. Anche in quest’ipotesi, per un verso, la parte è rimasta privata del decorso di almeno due mesi circa, per la sospensione da pandemia di cui ai D.L. n. 18 e 23/2020; per altro verso, il difensore potrebbe trovarsi a dover predisporre le note conclusive nei pochissimi giorni successivi al venir meno della sospensione, trovandosi disorientato e soprattutto costretto – contra tenorem rationis dell’intervento urgente del legislatore – a contatti con il cliente o con la cancelleria[12] ed alla predisposizione dell’atto ancora nei giorni di sospensione e di “distanziamento sociale”.
Va tuttavia operata una precisazione: in assenza di termini legali da rispettare, la parte non ha un diritto quesito alla lunghezza del termine (ad es. di quattro mesi, nell’esempio fatto) in ragione dell’originaria fissazione dell’udienza di discussione. Ciò significa che non riteniamo sia obbligatorio disporre il rinvio d’udienza allorché la parte possa comunque disporre per la predisposizione delle note conclusive, dal venir meno della sospensione da pandemia alla data dell’udienza, di un numero di giorni che siano almeno pari a quelli minimi che la legge le conferisce per la prima costituzione in giudizio: se cioè, per predisporre la difesa “a freddo”, appena ricevuta la notifica dell’atto introduttivo e con l’incombere delle preclusioni, il legislatore reputa sufficiente un termine di costituzione di 20 giorni (nel rito del lavoro) o di 30 giorni (nel rito sommario, probabilmente estendibili anche all’opposizione a stato passivo), l’udienza non dovrà essere differita nella misura in cui la prevista scadenza delle note conclusive consenta alle parti di usufruire, dopo l’11 maggio, di un numero di giorni quanto meno equivalente a quello indicato (dovendo considerarsi in linea di principio meno complicata, rispetto alla difesa iniziale, appunto a preclusioni incombenti, la ricapitolazione dei fatti di causa e delle questioni di diritto, entro un atto che non può avere contenuto diverso dal «compiuto svolgimento delle ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano» le conclusioni rassegnate[13]).
Il che significa altresì che, non essendovi qui termini legali da rispettare, ma essendo lo spatium temporis originariamente assegnato per le note conclusive per regola indipendente da valutazioni circa la complessità difensiva della causa, il giudice ha ampia discrezionalità nel fissare la nuova udienza, a condizione che venga rispettata la garanzia sopra indicata. Per quanto invece riguarda i procedimenti cautelari e possessori (se ed in quanto non rientranti tra le eccezioni alla sospensione ex art. 83, co. 3, D.L. n. 18/2020), in ragione della loro natura intrinsecamente urgente, il giudice non avrà in linea di principio alcun vincolo (se non quello degli almeno 7 giorni ricavabile dall’art. 669 octies, co. 2, c.p.c.), ma avrà il dovere di compiere un’adeguata ponderazione delle rispettive esigenze (celerità nel provvedere, garanzia del contraddittorio)[14].
e) Con riguardo al giudizio in Cassazione, infine, sappiamo che, con provvedimento del 10.4.2020, il Primo Presidente ha rinviato a nuovo ruolo tutte le udienze pubbliche fissate entro il 30 giugno e tutte le adunanze camerali fissate entro il 31 maggio.
Se si tiene conto che in Cassazione l’unico termine endo-processuale fissato in relazione ad un’udienza è quello per il deposito della memoria illustrativa ex artt. 378, 380 bis e 380 bis.1 c.p.c., in questo modo il tema del decorso parziale dei termini entro il periodo di sospensione è pressoché per intero superato; e trova altresì conferma l’impostazione che abbiamo sin qui sostenuto.
Siccome infatti la parte ha diritto ad avere comunicazione della data dell’udienza pubblica o dell’adunanza camerale «almeno venti giorni prima» (art. 377, co. 2, ed art. 380 bis, co. 2, c.p.c.), il rinvio di tutte le attività a dopo il 31 maggio assicura per intero il termine minimo a difesa, poiché dopo l’11 maggio decorreranno senz’altro i 20 giorni prima dell’udienza pubblica o dell’adunanza camerale in Sez. VI, e si avranno comunque i 15 giorni incomprimibili concessi per la preparazione ed il deposito (oggi possibile anche in via telematica[15]) della memoria.
Resterebbe invece scoperto il maggior termine per le adunanze camerali in Sezione ordinaria, ex artt. 375, ult. co., e 380 bis.1 c.p.c. Per queste, infatti, la comunicazione dell’adunanza dev’essere data alle parti ed alla Procura Generale «almeno quaranta giorni prima», per consentire la dialettica tra le conclusioni scritte del P.M., che potranno esser depositate venti giorni prima dell’adunanza, e le successive memorie di parte, che potranno esser depositate non oltre dieci giorni prima.
È vero che il provvedimento del Primo Presidente del 10.4.2020 prevede che le adunanze ex art. 380 bis.1 c.p.c. si possano svolgere solo a partire dal 22 giugno, di modo che sia assicurato anche qui l’intero decorso del termine successivamente alla sospensione. Resta però un piccolo difetto di coordinamento là dove il rinvio generalizzato a nuovo ruolo delle adunanze camerali è previsto solo per quelle fissate entro il 31 maggio: essendo evidente che, per quelle in Sezione ordinaria, tale rinvio dovrà ricomprendere anche i giorni fino al 22 giungo, potendosi solo da quest’ultima data procedere alla nuova trattazione dei ricorsi in “adunanza camerale non partecipata” secondo il modello elettivo dell’art. 375, ult. co., c.p.c.
[1] Relazione tenuta alla conferenza-zoom “I processi ai tempi dell’emergenza”, organizzata dall’Ordine degli Avvocati di Padova in data 9.4.2020.
[2] Sul punto non vi è stata modifica ad opera della legge di conversione, approvata definitivamente il 24.4.2020 ed in attesa di pubblicazione.
[3] Stiamo tuttavia parlando di tutti i termini a ritroso, ivi compresi quelli per la presentazione della domanda di ammissione al passivo ex art. 93 l.fall. V. Cass., 24.7.2012, n. 12960: «il termine perentorio per la presentazione delle domande di insinuazione al passivo fallimentare, sancito dagli artt. 16, co. 1, n. 5, e 93, co. 1, l.fall., è soggetto alla sospensione feriale, sulla base delle indicazioni desumibili dagli artt. 92 R.D. n. 12/ 1941 e 36 bis l.fall., in quanto si tratta di termine processuale, entro il quale il giudizio deve necessariamente essere proposto, non essendo concessa altra forma di tutela del diritto».
Dovendosi intendere sospesi tutti i termini di natura processuale, non credo che tra gli stessi possa farsi rientrare il termine dilatorio dei 10 gg. del precetto, di cui all’art. 480, co. 1, c.p.c.: il precetto è atto prodromico all'esecuzione, e pone al debitore un termine per procedere ad un atto, il pagamento, che è di pura natura sostanziale; ed i termini di natura sostanziale sono sospesi solo quando – per rispettarli – si renda necessaria la proposizione di una domanda o comunque il compimento di un’attività giudiziale. E certo il pagamento non è una domanda giudiziale. Viceversa, e coerentemente, deve ritenersi sospeso il termine di perenzione del precetto, ex art. 481 c.p.c. (così come quello per la notifica del decreto ingiuntivo, ex art. 644 c.p.c.).
[4] V. anche Panzarola-Farina, L’emergenza Coronavirus ed il processo civile. Osservazioni a prima lettura, in Giustizia civile.com, par. 4, in fine.
[5] Sebbene a nostro avviso non si possa sostenere che, in linea generale, l’intero meccanismo “ricalchi” quello dell’art. 164, co. 3, c.p.c.
[6] Co. 3 dell’art. 702 bis c.p.c.: «il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto almeno 30 gg. prima della data fissata per la sua costituzione», coincidente – questa data – con i 10 giorni anteriori all’udienza.
[7] Co. 5 dell’art. 415 c.p.c.: «tra la data di notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di 30 gg.», dovendosi il convenuto costituire «almeno 10 gg. prima dell’udienza» (art. 416, co. 1, c.p.c.). Per tutte Cass., 29.11.2005, n. 26039: «in materia di controversie di lavoro, il termine di dieci giorni assegnato al ricorrente per la notificazione del ricorso e del decreto giudiziale di fissazione dell'udienza di discussione al convenuto, ai sensi dell'art. 415, co. 4, c.p.c., non è perentorio, ma ordinatorio, con la conseguenza che la sua inosservanza non produce alcuna decadenza né implica la vulnerazione della costituzione del rapporto processuale a condizione che risulti garantito al convenuto il termine per la sua costituzione in giudizio non inferiore ai trenta giorni, come stabilito dal co. 5 della stessa norma (ovvero a quaranta giorni nell'ipotesi prevista dal successivo co. 6)». E fermo restando pure il mancato rispetto di questo termine non comporta l’improcedibilità del giudizio (in particolare d’opposizione a decreto ingiuntivo o d’impugnazione, nel caso dell’art. 435 c.p.c.), «bensì la nullità di quest’ultima, sanabile ex tunc per effetto di spontanea costituzione dell’appellato o di rinnovazione, disposta dal giudice ex art. 291 c.p.c.» (Cass., 17.4.2018, n. 9404; Cass., 12.9.2018, n. 22166; Cass., 7.1.2019, n. 172).
[8] Altra questione è, invece, quella su cui si soffermano Panzarola-Farina, L’emergenza Coronavirus ed il processo civile. Osservazioni a prima lettura, in Giustizia civile.com, par. 4, in fine, con riguardo all’ipotesi di udienze fissate dopo l’8 marzo, rispetto alle quali il termine di tempestiva costituzione sia scaduto anteriormente alla sospensione da epidemia: per queste ipotesi va in effetti condivisa la tesi per cui – essendo il termine venuto a compimento prima della sospensione – non dovrebbe darsi spazio per una rimessione in termini del convenuto.
[9] V. Cass., 17.5.2010, n. 12044; già Cass., 17.10.2005, n. 19530.
[10] Cass., 20.11.2018, n. 29839: «la fissazione della nuova udienza, ai sensi dell'art. 164, co. 3, c.p.c., deve essere disposta dal giudice facendo riferimento, quale dies a quo del nuovo termine, alla data della notificazione dell'atto di citazione, che segna il momento a partire dal quale il convenuto, acquisita la conoscenza legale dell'atto, ha diritto al termine per approntare una congrua difesa, dovendosi invece escludere – perché non trova riscontro nella legge e perché in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo – la necessità che il giudice provveda all'assegnazione, ex novo, dell'intero termine di comparizione, senza tener conto del tempo già trascorso».
[11] Sebbene qualche perplessità possa covarsi con riguardo ai termini di comparizione più brevi (nel rito sommario o laburistico), poiché il calcolo del periodo precedente rispetto al rilievo della mancata concessione del termine minimo a comparire rischia di sfociare nell’assegnazione di un termine di pochissimi giorni (nell’esempio del testo, con udienza fissata al 29 maggio, nel rito del lavoro il giudice potrebbe limitarsi a rinviarla all’11 giugno, con termine per costituzione del convenuto che scadrebbe il 1° giugno, dopo due soli giorni (uno prefestivo ed uno festivo) a disposizione per la predisposizione della memoria di costituzione ex art. 416 c.p.c.
Se si tiene conto di siffatte ipotesi – nonché di quelle in cui l’errore nel computo del termine per la fissazione dell’udienza libellata– risulta che l’evocato orientamento della Suprema Corte, pur comprensibile per ragioni di celerità (nel rito ordinario: in quelli speciali la normale cadenza dei rinvii rende alquanto più agevole un differimento a data successiva pari all’intero termine minimo a difesa), risulti quanto mai astratto e rigido, e sia probabilmente da respingersi a vantaggio di un rinvio che conceda sempre al convenuto la possibilità di usufruire di un nuovo intero termine di comparizione.
[12] Per la consultazione di eventuali documenti depositati in cartaceo, essendo prevista la garanzia del deposito telematico solo in costanza di sospensione da pandemia.
[13] Questo il contenuto delle comparse conclusionali secondo il co. 2 dell’art. 190 c.p.c., poi abrogato – ma non nella sostanza – con la riforma del 1990.
[14] Peraltro il problema non dovrebbe avere occasione di porsi, in linea di principio: non dovrebbe infatti essere accaduto che, con un ricorso depositato prima dell’8 marzo, la data d’udienza risultasse stabilita solo a maggio; se l’udienza fosse stata stabilita nel periodo di sospensione, il differimento sarà ineluttabile; per i ricorsi depositati nel periodo di sospensione, il giudice avrà già proceduto alla fissazione d’udienza tenendo in considerazione il nuovo panorama determinato dai D.L. nn. 18 e 23/2020.
[15] Provvedimento del Primo Presidente della Corte di cassazione del 31.3.2020, punto C, lett. f); nonché art. 83, co. 11 bis, D.L. n. 18/2020, come modificato dalla legge di conversione.
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