ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La nuova proroga delle disposizioni emergenziali per i processi civili (d.l. 14 gennaio 2021, n.2). Una scheda di Franco Caroleo
Per il processo dell’emergenza, la stagione delle proroghe (a differenza di quella dell’amore cantata da Battiato) non conosce tregua. Lo scorso 14 gennaio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 2/2021 che, nel prorogare lo stato di emergenza epidemiologica, interviene indirettamente anche sul comparto giustizia.
La breve scheda che segue analizza le disposizioni del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
Decreto-legge 14 gennaio 2021, n. 2, “Ulteriori disposizioni urgenti in materia di contenimento e prevenzione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 e di svolgimento delle elezioni per l’anno 2021”. (21G00002) (GU Serie Generale n. 10 del 14 gennaio 2021).
Le norme (indirettamente) riguardanti il processo civile
- art. 1, co.1.
La proroga delle disposizioni processuali di cui agli artt. 23 d.l. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020
L’art. 1, co. 1, del d.l. n. 2/2021 recita: “All’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, le parole «31 gennaio 2021» sono sostituite dalle seguenti: «30 aprile 2021»”.
Il termine dello stato di emergenza (originariamente fissato al 31 gennaio 2021) è dunque prorogato al 30 aprile 2021.
Detto termine era stato individuato dall’art. 23, co. 1, d.l. n. 137/2020, così come modificato dalla legge di conversione n. 176/2020, quale termine ultimo per l’applicazione dei commi da 2 a 9 ter del medesimo art. 23 nonché delle disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020 (questo il testo dell’art. 23, co. 1: “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla scadenza del termine di cui all'articolo 1 del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35 si applicano le disposizioni di cui ai commi da 2 a 9-ter. Resta ferma fino alla scadenza del medesimo termine l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ove non espressamente derogate dalle disposizioni del presente articolo”).
Conseguentemente, dalla proroga del termine fissato dall’art. 1, co. 1, d.l. n. 19/2020 deriva la proroga dell’operatività delle disposizioni emergenziali di cui agli artt. 23 d.l. n. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020.
Devono quindi ritenersi prorogati al 30 aprile 2021:
- l’obbligo del deposito telematico di tutti gli atti (anche quelli introduttivi) e documenti, per come previsto dall’art. 221, co. 3, d.l. n. 34/2020;
- la celebrazione a porte chiuse che il giudice può disporre per le udienze pubbliche, per come previsto dall’art. 23, co. 3, d.l. n. 137/2020;
- la trattazione scritta che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, per come previsto dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020; tale modalità di trattazione può essere adottata anche per le udienze in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente, come ammesso dall’art. 23, co. 6, d.l. n. 137/2020;
- la celebrazione con collegamento da remoto che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, per come previsto dall’art. 221, co. 7, d.l. n. 34/2020; in questi casi, il giudice può essere collegato anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, co. 7, d.l. n. 137/2020);
- il giuramento telematico del c.t.u., con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (in luogo dell’udienza all’uopo fissata), per come previsto dall’art. 221, co. 8, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità per gli organi collegiali di assumere le deliberazioni in camera di consiglio mediante collegamenti da remoto, per come previsto dall’art. 23, co. 9, d.l. n. 137/2020;
- la possibilità di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, per come previsto dall’art. 221, co. 5, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità del cancelliere di rilasciare in forma di documento informatico la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c., previa istanza telematica dell’interessato, per come previsto dall’art. 23, co. 9 bis, d.l. n. 137/2020.
Alessandro Pizzorusso e le riforme dell’ordinamento giudiziario: un ricordo a cinque anni dalla sua scomparsa[1]
di Francesco Dal Canto
Sommario: 1. Premessa - 2. La recente ripubblicazione di alcuni dei suoi numerosi scritti - 3. Il senso e l’obiettivo delle riforme in materia di ordinamento giudiziario - 4. La stagione delle riforme Castelli-Mastella - 5. Il Consiglio superiore della magistratura e la sua “politicizzazione” - 6. In conclusione.
1. Premessa
È per me un’emozione e un onore ricordare Alessandro Pizzorusso a cinque anni dalla sua scomparsa.
Ho avuto la fortuna di condividere con lui alcune esperienze professionali nella parte conclusiva della sua carriera e ho potuto sperimentare ciò che chiunque lo abbia incrociato ha senz’altro avvertito, ovvero la sua straordinaria cultura, la grande passione civile e l’integrità morale.
La sua sapienza sarebbe oggi molto utile per capire la delicata fase in cui si trova la magistratura all’indomani della gravissima crisi di legittimazione che l’ha investita dopo gli scandali dell’estate del 2019.
2. La recente ripubblicazione di alcuni dei suoi numerosi scritti
Di recente, soprattutto grazie al lavoro di Roberto Romboli, sono stati pubblicati, per i tipi dell’Editoriale scientifica, i due volumi de L’ordinamento giudiziario ove si raccolgono alcuni dei numerosissimi lavori che Pizzorusso ha dedicato a tale tema.
Il primo volume costituisce la ripubblicazione de L’organizzazione della giustizia in Italia, uscito per la prima volta nel 1982 e più volte rieditato per il grande successo riscontrato sia nella dottrina sia nella stessa magistratura; con tale opera, di impostazione manualistica, il Maestro intendeva recuperare una tradizione di studi risalente a Lodovico Mortara - autore del celebre Istituzioni di ordinamento giudiziario, pubblicato nel 1890 per l’editore Barbera - da lui ritenuto “il principale modello cui si debba guardare ai fini della realizzazione di una compiuta esposizione dei problemi dell’organizzazione della giustizia”[2].
Il secondo volume contiene invece una non semplice selezione - data la straordinaria prolificità di Pizzorusso - dei suoi contributi dedicati alla magistratura, raccolti in quattro principali aree: il modello italiano di ordinamento giudiziario, il ruolo della magistratura italiana nel sistema costituzionale, l’organizzazione degli uffici giudiziari e infine le riforme dell’ordinamento giudiziario.
A quest’ultima parte, ovvero al capitolo sesto del volume secondo de L’ordinamento giudiziario, è dedicato il presente intervento, in un periodo storico, a circa tredici anni dalla riforma Castelli-Mastella, in cui il tema è tornato prepotentemente al centro del dibattito. Si tratta di otto saggi, scritti tra il 1984 e il 2008, alcuni originariamente destinati ad essere pubblicati in riviste giuridiche, altri riproduttivi di interventi svolti in occasione di manifestazioni pubbliche, caratterizzati da un registro più vivace, talora pungente.
Pizzorusso spazia da un argomento all’altro dell’ordinamento giudiziario dando prova di una capacità incredibile di intrecciare le contingenze storico-politiche con le esperienze della propria vita, di magistrato, di docente, di componente del Consiglio superiore della magistratura, di intellettuale a tutto tondo, unitamente ad una mirabile capacità di inquadramento teorico-generale, sempre arricchito da una prospettiva alta, attenta alla storia e al diritto comparato. Colpisce la sua capacità di muoversi tra i diversi piani con padronanza e leggerezza.
Dalla rilettura di questi saggi risultano confermati due aspetti, uno oggettivo, l’altro soggettivo.
In primo luogo, appare evidente che l’ordinamento giudiziario è una materia dove tutto si tiene, dove è difficile parlare di un aspetto, e dunque anche incidere su di esso, senza dover prendere in considerazione anche altri; i suoi istituti sono fortemente interconnessi e dunque, come Pizzorusso spesso ricorda, necessitano di un intervento legislativo organico, ovvero di una legge generale e completa, come del resto è implicitamente richiesto dalla stessa Costituzione quando, in più occasioni, si riferisce alla legge sull’ordinamento giudiziario. Obiettivo che, purtroppo, come ancora Pizzorusso stigmatizza, non si è mai compiutamente realizzato; si è per lo più trattato di una “promessa non mantenuta”[3].
In secondo luogo, viene in risalto un aspetto più intimo. Tanto Pizzorusso era morbido e conciliante nelle relazioni personali quanto era rigido e severo nel giudicare la realtà intorno a lui. Un uomo mite e rigoroso, talora disincantato, ma mai rassegnato né indifferente, anzi capace in certi momenti di una passione civile che sapeva trasformarsi in rabbia; un sentimento che, sul piano intellettuale, dovrebbe probabilmente essere talora rivalutato.
3. Il senso e l’obiettivo delle riforme in materia di ordinamento giudiziario
Rileggendo i saggi sulle riforme, scelgo di mettere brevemente a fuoco tre temi ricorrenti e oggi di particolare attualità: a) il senso e l’obiettivo che dovrebbero avere le riforme; b) la riforma Castelli-Mastella del 2005-2007; c) il Consiglio Superiore della Magistratura.
Iniziando dal primo tema, può innanzi tutto dirsi che le prospettive di revisione costituzionale riguardanti il titolo IV della Parte II della Costituzione sono sempre guardate da Alessandro Pizzorusso con grande diffidenza e con toni sovente aspri e liquidatori, come si evince, ad esempio, dai pochi passaggi dedicati soprattutto ai lavori della Commissione bicamerale D’Alema del 1997[4].
Delle riforme legislative, invece, Pizzorusso si occupa spesso. Egli osserva che il principale obiettivo che con esse dovrebbe essere perseguito è quello della “difesa del modello” di ordinamento giudiziario delineato nella Costituzione, il quale, semplicemente, prevede “una certa figura di giudice e di pubblico ministero e affida al Consiglio Superiore della Magistratura le funzioni strumentali per realizzare tali figure”; mentre “non merita certamente di essere difesa una realtà di fatto che è ancora in larga misura informata all’ordinamento burocratico della magistratura quale era prevista negli ordinamenti anteriori, con le loro logiche carrieristiche e con la loro visione riduttiva del ruolo del diritto”[5].
Il modello da difendere è quello concepito dai Costituenti in continuità con un’importante tradizione di pensiero che ha avuto prima in Lodovico Mortara e successivamente in Piero Calamandrei i suoi principali teorici, in una sorta di staffetta ideale[6]. Sulla base di tali idee, l’ordinamento giudiziario italiano ha potuto progressivamente emanciparsi dal modello burocratico-amministrativo dal quale era derivato, assumendo, seppur con varie difficoltà e attraverso numerose tappe, una sua precisa identità a partire dall’entrata in vigore della Costituzione.
L’impostazione data ai problemi dell’ordinamento giudiziario dal Titolo IV deve essere per Pizzorusso assolutamente tutelata; egli chiosa, sconsolatamente, che in fondo quella dell’Assemblea costituente è stata “la sola breve stagione in cui il nostro paese si è indirizzato unitariamente e con entusiasmo sulla via della libertà e della democrazia”[7].
Le riforme, dunque, devono porsi come obiettivo quello di proseguire nell’attuazione dei principi costituzionali laddove essa è stata interrotta, deviata o in alcuni casi neppure iniziata. Se certamente molti passi in avanti si sono compiuti dal 1948, ciò è stato possibile più che per opera del legislatore, intervenuto quasi sempre senza una visione unitaria, grazie soprattutto al Consiglio Superiore della Magistratura, che ha tenacemente sottoposto, tra le molte critiche e qualche battuta d’arresto, le regole dell’ordinamento giudiziario ad una costante lettura adeguatrice rispetto ai principi costituzionali[8].
Pizzorusso riconosce che un’apprezzabile spinta riformista si è in verità registrata soprattutto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta[9], ovvero in un periodo di grande fermento culturale nel quale, anche grazie all’associazionismo dei magistrati che stava vivendo “il suo momento migliore”, si è realizzata l’idea moderna di giudice e di giurisdizione, in parallelo con il consolidarsi dei principi di autonomia e indipendenza della magistratura e con la democratizzazione interna della stessa.
Successivamente tale spinta si è indebolita e ha preso forza, sia in alcuni ambienti politici sia in una parte della stessa magistratura, uno “schieramento trasversale conservatore”, che non soltanto ha ostacolato le riforme legislative ma ha anche talora frenato, o non adeguatamente valorizzato, i tentativi dell’organo di governo della magistratura di implementare la Costituzione attraverso “misure amministrative specifiche”; la politica, in tale frangente, ha spesso preferito “dare una cattiva immagine del Consiglio Superiore della Magistratura”, con “luoghi comuni e frasi fatte”[10].
4. La stagione delle riforme Castelli-Mastella
Con riguardo alla stagione delle riforme Castelli-Mastella, l’idea di Pizzorusso è chiara.
Tale stagione è stata accompagnata da un massaggio ingannevole, ovvero quello secondo cui con tali provvedimenti si dava finalmente attuazione, a distanza di quasi sessant’anni, all’art. 108 Cost., a mente della quale “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni altra magistratura sono stabilite con legge”, e alla VII disposizione transitoria e finale, ai sensi della quale, “fino a quando non sia emanata la nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione, continuano ad osservarsi le norme dell’ordinamento vigente”. Del resto, doveva riconoscersi che nessuno dei governi succedutisi dal 1948 al 2005 aveva mai presentato alle Camere neppure un disegno di legge volto ad assolvere tale impegno; l’attesa di una legge generale sull’ordinamento giudiziario si era protratta quindi negli anni e la Costituzione era rimasta, per tutto questo tempo, almeno in parte, disattesa. La legge Castelli, dunque, aveva buon gioco a presentarsi come l’attesa legge organica sull’ordinamento giudiziario.
E tuttavia, come anticipato, Pizzorusso osserva, senza mezzi termini, che “tale modo di presentare la vicenda, fatto proprio dalla maggioranza politica del tempo, presenta aspetti assolutamente paradossali”[11]. L’ordinamento giudiziario del 2005, infatti, come sopra ricordato, era assai diverso da quello ereditato nel 1948 e, nonostante la mancata attuazione della VII disposizione transitoria, esso si era progressivamente trasformato in un modello del tutto inedito e soprattutto assai più conforme ai “nuovi” principi costituzionali.
La legge n. 150 del 2005, dunque, non era affatto la legge da tempo attesa.
Anzi, essa affrontava alcune criticità reali dell’ordinamento giudiziario con soluzioni non allineate con i principi costituzionali, con il chiaro obiettivo di “ripristinare il vecchio ordinamento Grandi del 1941, ossia il modello francese di ordinamento giudiziario”; si trattava pertanto di una legge “irrimediabilmente incostituzionale”, un “tentativo di restaurazione di un passato che rifiutava alla magistratura un’adeguata condizione di indipendenza”[12].
E anche nei confronti delle due successive leggi Mastella (n. 269 del 2006 e n. 111 del 2007) il giudizio non è particolarmente generoso. A tale proposito, Pizzorusso ricorda che nel programma elettorale del centrosinistra si era esplicitamente riconosciuto che la legge Castelli aveva delineato una figura di magistrato “non in linea con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura” e che, per tale ragione, occorreva elaborare una nuova disciplina per “rimuovere gli aspetti del nuovo ordinamento in contrasto con i principi costituzionali”[13].
Per Pizzorusso tale promessa non è stata del tutto mantenuta: egli non nasconde la propria insoddisfazione dinanzi alle leggi Mastella, che valuta come una sorta di “razionalizzazione dell’architettura introdotta” in precedenza, mentre sarebbe stata necessaria l’abrogazione totale della disciplina del 2005 e una riscrittura complessiva della riforma.
5. Il Consiglio superiore della magistratura e la sua “politicizzazione”
Vengo ora ai saggi nei quali si affronta il tema del Consiglio Superiore della Magistratura.
In un contributo del 1984[14], Pizzorusso esamina un disegno di legge volto a modificare il sistema elettorale per il rinnovo dei componenti togati, introdotto nel 1975, al fine dichiarato di superare il sistema proporzionale per liste concorrenti e contrastare l’eccessiva “politicizzazione” dell’organo di governo della magistratura.
Pizzorusso saluta questo tentativo di riforma, che poi non sarà approvato, in modo lapidario: “giorni bui si annunciano”[15].
Egli si domanda quale tipo di politicizzazione intenda in realtà contrastare il progetto e, a tale proposito, osserva: l’obiettivo non è tanto quello del “collegamento di questo o quel magistrato con questo o quel partito”, bensì “l’atteggiamento culturale che la maggioranza dei magistrati italiani ha assunto da quando essi hanno compreso che il ruolo dei giudici indipendenti non deve essere quello di un corpo di funzionari che esprime ad occhi più o meno bendati la volontà degli altri poteri dello Stato, bensì quello di un gruppo di tecnici del diritto capaci non soltanto di leggere e interpretare le disposizioni legislative ma anche di cogliere e perseguire i valori in base ai quali devono essere risolte le alternative proposte dall’impiego delle varie tecniche interpretative e per tradurre risultati di questa elaborazione culturale in decisioni quanto più è possibile appropriate alle particolarità dei fatti sottoposti al loro esame”.
In altre parole, sebbene esistesse, già allora, una politicizzazione da combattere, il timore di Pizzorusso era che la riforma, riducendo il ruolo delle correnti nel C.S.M., si ponesse come vero obiettivo quello di invertire la tendenza rispetto alla “maturazione culturale” che aveva caratterizzato la magistratura negli ultimi anni; ciò che si era potuto realizzare proprio grazie alla vita associativa e alle correnti, che avevano costituito la linfa essenziale della crescita culturale dei magistrati.
Com’è evidente, si tratta di una riflessione drammaticamente attuale.
Certo, Pizzorusso non ha vissuto, per sua fortuna, il declino che hanno conosciuto le correnti negli ultimi anni, trasformatesi in larga parte da motori di pluralismo ideale all’interno della magistratura a centri di interessi particolari e corporativi. E tuttavia, il suo approccio è ancora valido: una cosa è il pluralismo culturale, che è un valore da preservare, altro è la lottizzazione, che è una degenerazione da combattere. Il collegamento tra associazionismo giudiziario e designazione dei componenti togati deve essere preservato perché, ora come allora, trova la sua principale ragione proprio nella garanzia del pluralismo all’interno del collegio, senza contare che tale nesso rileva anche sul piano della responsabilizzazione degli eletti, che si traduce in una forma di pur lato “controllo” (in senso atecnico) del modo con il quale viene esercitata la funzione.
Pizzorusso ritiene che, per tali ragioni, la migliore legge elettorale per il C.S.M. sia quella proporzionale, perché occorre una “rappresentatività quanto più possibile diffusa” e “l’associazionismo deve esercitare un ruolo determinante, anche se vanno eliminati gli inconvenienti”[16].
E ancora, Pizzorusso precisa che “non serve un C.S.M. di notabili ma di rappresentanti”[17].
E il pensiero corre ancora una volta all’attualità e, in particolare, al disegno di legge Bonafede (A.C. 2681), presentato alla Camera il 28 settembre 2020, laddove esso persegue l’idea di un sistema prevalentemente basato su candidature individuali - in continuità con la soluzione già oggi prevista dalla legge n. 44/2002 - e collegi elettorali uninominali molto ristretti. Si tratta, nel dettaglio, di una formula estremamente sofisticata, a tratti quasi fantasiosa; e tuttavia, è evidente che tale sistema, favorendo un legame molto stretto tra eletto e territorio, comporta il rischio dell’insorgenza di rapporti molto ripiegati sul territorio[18]. Tuttavia, come Pizzorusso sottolineava molto tempo fa, il “ritorno al territorio” può determinare un vizio non meno grave di quello rappresentato dallo strapotere delle associazioni: ovvero quello del localismo e, appunto, del notabilato.
6. In conclusione
Concludo questo breve ricordo osservando come Alessandro Pizzorusso si sia trovato molto spesso in anticipo sui tempi e che, per tale ragione, le sue considerazioni sui temi dell’ordinamento giudiziario e della giustizia rimangono oggi di straordinaria forza e attualità.
Lo sottolineo, ancora una volta, pensando alla citata proposta Bonafede; sebbene il principale obiettivo che ha mosso il legislatore sia stato quello, come detto, di modificare la legge elettorale per il rinnovo dei componenti togati del C.S.M., si tratta di una riforma vastissima e delicata, che tocca numerosi aspetti della disciplina dell’ordinamento giudiziario.
Assai utile allora tornare ai lavori di Pizzorusso. A volte, per trovare le chiavi per comprendere la realtà, non c’è nulla da inventare, è sufficiente “rileggere”.
[1] Il contributo costituisce la rielaborazione di un intervento tenuto il 15 dicembre 2020 al seminario organizzato dal Corso di dottorato in Scienze giuridiche dell’Università di Pisa intitolato Ricordando Alessandro Pizzorusso.
Tale ricordo ha preso spunto dalla lettura di due volumi, recentemente pubblicati, A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, Vol. I e II, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, nei quali sono stati riprodotti alcuni dei moltissimi lavori che Pizzorusso ha dedicato a tale settore.
[2] A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1982, 5.
[3] A. Pizzorusso, La magistratura nella situazione politica italiana, in Foro it., 1997, V, 113ss. e in L’ordinamento giudiziario, vol. II, Napoli, 2019, 1121ss.
[4] A. Pizzorusso, Magistrature e nuove domande di giustizia, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Milano. 1994, 131ss e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1102ss.
[5] A. Pizzorusso, Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), in Questione giustizia, 1993, 757ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1087.
[6] A. Pizzorusso, La magistratura nella situazione politica italiana, cit., 1110ss.
[7] A. Pizzorusso, Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), cit., 1092.
[8] A. Pizzorusso, Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), cit., 1086ss.
[9] A. Pizzorusso, La magistratura nella situazione politica italiana, cit., 1115s., che cita G. Maranini (a cura di), Magistrati o funzionari? Milano, 1962.
[10] Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), cit., 1086.
[11] A. Pizzorusso, La riforma con legge ordinaria del Titolo IV della Costituzione, in Foro it., 2006, V, 1ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1121ss.
[12] A. Pizzorusso, La riforma con legge ordinaria del Titolo IV della Costituzione, cit., 1128.
[13] A. Pizzorusso, Non ancora maturi i tempi per un ordinamento giudiziario che attui il Titolo IV della parte seconda della Costituzione, in AA.VV., La riforma dell’ordinamento giudiziario, in Legislazione penale, 2006, 683ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1132.
[14] A. Pizzorusso, Su alcune recenti proposte di riforma del C.S.M., in Legalità e giustizia, 1984, 878ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1058.
[15] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quaderni costituzionali, 1989, 471ss. e in L’ordinamento giudiziario, cit., 1082.
[16] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., cit., 1080ss.
[17] A. Pizzorusso, Inaugurazione anno giudiziario 1994 (Corte d’Appello di Genova), cit., 1090.
[18] In argomento, volendo, F. Dal Canto, Le prospettive di riforma elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in corso di pubblicazione negli atti del convegno del “Gruppo di Pisa” del 23 ottobre 2020 su Il Consiglio Superiore della Magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma.
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell’Avvocatura in Turchia
Un reportage di Barbara Spinelli
Parte Terza: Ebru e noi
Ebru ci ha lasciato un’eredità impegnativa, interrogarci sul ruolo dell’avvocatura nella difesa dei diritti e dello stato di diritto.
Pubblichiamo oggi la terza parte del reportage in ricordo della Giornata Internazionale dedicata all'Avvocatura in pericolo che si celebra il 24 gennaio di ogni anno per commemorare il massacro di Atocha, a Madrid, del 24 gennaio 1977, in cui furono uccisi 5 avvocati esperti di diritto del lavoro, nel periodo di transizione tra la dittatura franchista e la democrazia, e che per due anni è stata dedicata all'avvocatura turca, nel 2010 e nel 2019.
(Alla fine dell'articolo i link della parte prima e della parte seconda del reportage e i pdf della parte terza e dell'intero reportage)
Sommario: 1. La scelta di Ebru e le responsabilità di stato - 2. La lotta per la difesa del giusto processo e delle giuste condizioni detentive - 3. Il nuovo arresto di Aytaç Ünsal - 4. Conclusioni.
1. La scelta di Ebru e le responsabilità di stato
«Dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli posti vicino casa, così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti su nessuna mappa del mondo. Ma essi sono il mondo di ogni singola persona; il quartiere dove si vive, la scuola frequentata, la fabbrica, fattoria o ufficio dove si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti umani è nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità».
(27 marzo 1958, In Your Hands, Eleanor Roosevelt).
Ebru Timtik ed Aytac Ünsal erano detenuti dal 12 settembre 2018 con l'accusa di appartenenza al Fronte di liberazione popolare rivoluzionario fuorilegge (DHKP-C). Il 20 marzo 2019, la 37a Alta Corte penale di Istanbul aveva condannato Timtik a 13 anni e sei mesi e Ünsal a 10 anni e sei mesi.
Entrambi erano imputati in due maxiprocessi che vedevano coinvolti i membri della loro associazione, il c.d. “processo CHD1”, ed il “processoCHD 2”.
Nel processo ÇHD1 sono imputati 22 avvocati, tutti membri dell'associazione ÇHD (Associazione dei giuristi progressisti). Il 18 gennaio 2013 le loro abitazioni sono state perquisite dalla polizia turca alle 4 di notte, in violazione dell'art. 118 del codice di procedura penale turco. Dapprima sono stati arrestati 22 avvocati, poi altri 7 dopo pochi giorni. Il Presidente dell'associazione è stato in carcere per oltre un anno. Questo processo, come il processo KCK, inizialmente era di competenza di Corti Speciali antiterrorismo, successivamente dichiarate anticostituzionali, in quanto prevedevano restrizioni al diritto di difesa contrarie ai principi CEDU. Molte sono le questioni sollevate dai colleghi nel processo riassunto davanti al Tribunale ordinario: dalla mancata richiesta di autorizzazione al Ministero della Giustizia per le perquisizioni nelle case e negli uffici legali dei colleghi, alle intercettazioni illegittimamente acquisite. Le indagini di polizia sono state caratterizzate da macroscopiche irregolarità. Per fare un esempio: in uno dei capi d’imputazione del processo ÇHD nei confronti degli avvocati, era stata considerata una prova dell'appartenenza dei legali ÇHD all'organizzazione terroristica DHKP/C il fatto che un comunicato stampa rilasciato dagli avvocati in occasione dell'arresto di alcuni membri dell'associazione fosse stato ripreso e pubblicato su un sito internet che, secondo l'imputazione, apparteneva alla struttura organizzativa stessa (!), oppure il fatto che un avvocato avesse incontrato a cena in vacanza uno dei propri assistiti, che avesse partecipato al funerale del proprio assistito (!), oppure il fatto che statisticamente la maggior parte degli arrestati appartenenti al gruppo fosse difeso da avvocati dell'associazione ÇHD. Una delle accuse principali nei confronti degli avvocati imputati è l'aver suggerito ai loro assistiti di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande della polizia mentre erano in stato di arresto, producendo una statistica che dimostrava che il numero di loro assistiti che esercitavano il loro diritto al silenzio era più alto rispetto alla media. Inoltre, secondo l'accusa, gli imputati sono colpevoli di aver istruito i loro assistiti per continuare lo sciopero della fame in carcere e quindi nel perseguimento degli obiettivi del DHKP-C. Non c'era alcuna prova diretta di ciò, ma l'accusa ha cercato di attirare l'attenzione sul fatto che i singoli prigionieri hanno continuato a seguire il digiuno dopo la visita da parte dei loro avvocati, per cui loro durante i colloqui devono aver trasmesso istruzioni ai prigionieri per continuare gli scioperi della fame. Molti anche gli episodi incresciosi avvenuti nel corso delle udienze: dalle violenze della polizia nei confronti dei colleghi mentre chiedevano di parlare con il Pubblico Ministero nel suo ufficio, alla carica di polizia nei confronti dei colleghi dentro e fuori il Tribunale, mentre tenevano la conferenza stampa dopo l'udienza. Il giudice che presiedeva il collegio in più occasioni ha agito in modo aggressivo nei confronti degli imputati e degli avvocati della difesa. In due occasioni il Presidente ha iniziato a urlare contro gli imputati e, contrariato per la risposta degli avvocati, ha sgombrato la stanza del tribunale. Un avvocato difensore ha chiesto le scuse del Presidente per la sua condotta, senza ottenerle. L'imputazione dei colleghi è stata favorita dalla riforma della normativa in materia di terrorismo del 2004, che ampliava le ipotesi di istigazione, propaganda e partecipazione all'associazione terroristica in palese violazione del principio di tassatività.
L’Associazione dei Giuristi Progressisti (Çağdaş Hukukçular Derneği) conta circa 2000 membri (su circa 85000 avvocati in Turchia). In esecuzione del decreto emergenziale del 22 novembre 2016 ÇHD è stata dichiarata illegale ed i suoi uffici sigillati ed i suoi beni confiscati. Da allora la persecuzione nei confronti dei colleghi appartenenti a tale associazione si è intensificata, dando origine anche al processo ÇHD2.
Sia Ebru che Aytac, insieme al Presidente dell’associazione Selçuk KOZAĞAÇLı ed altri 17 avvocati membri di ÇHD, sono accusati nel processo ÇHD2 di appartenenza ad un'organizzazione terroristica (DHKP-C, il Partito / Fronte Rivoluzionario per la Liberazione del Popolo). Alcuni degli avvocati sono anche accusati di essere leader del DHKP-C. Otto di loro sono anche imputati nel processo ÇHD1. Gli avvocati che sono accusati in entrambi i processi sono accusati dello stesso reato, l'appartenenza all'organizzazione terroristica, DHKP-C.
Da novembre 2017 Selçuk KOZAĞAÇLI è detenuto in isolamento nel carcere di Silivri. Sta soffrendo a causa dell'isolamento. Le sue ripetute richieste di contatti occasionali con altri prigionieri sono state respinte. Gli osservatori internazionali nutrono forti riserve circa l'ordine di detenzione preventiva nei confronti di Selçuk KOZAĞAÇLı[1]. Lui e altri 7 imputati sono stati accusati per gli stessi fatti del processo CHD1, in violazione del principio del ne bis in idem, e sono stati posti in custodia cautelare in carcere sebbene per le medesime accuse nel primo procedimento la sua custodia cautelare, 4 anni fa, venne revocata[2].
Al momento della morte di Ebru era pendente il ricorso davanti alla corte di cassazione turca.
Ebru aveva iniziato lo sciopero della fame a pochi giorni di distanza dal collega Aytaç Ünsal, membro della sua stessa associazione, la Çağdaş Hukukçular Derneği, per chiedere un processo equo e condizioni detentive giuste per sé, per gli altri avvocati detenuti e per i propri assistiti in carcere.
Il 5 aprile 2020, giorno che in Turchia è dedicato all’avvocatura, hanno iniziato lo sciopero della fame fino alla morte, privandosi dei nutrienti essenziali alla loro sopravvivenza.
La loro speranza era che, grazie anche alle pressioni internazionali, le autorità cambiassero idea, ed includessero nell’amnistia di prossima approvazione anche i detenuti politici, in particolare quelli gravemente malati[3]. Nelle carceri, incluse quelle dove loro erano reclusi, imperversava il covid, sia tra i detenuti che tra le guardie carcerarie. Le celle erano state igienizzate una tantum, scarseggiavano i dispositivi di protezione. Nelle loro fragili condizioni, la situazione era potenzialmente letale. Tuttavia la loro richiesta è rimasta inascoltata[4].
Il loro sciopero della fame è stato un calvario vissuto collettivamente insieme agli avvocati turchi ed agli avvocati espatriati dalla Turchia, da noi osservatori internazionali, con il compito di coordinare le azioni di informazione e di solidarietà.
Ogni giorno nuove notizie, ogni giorno nuove forme di tortura. La paura del contagio in quel carcere con 88 casi covid positivi acclarati tra polizia penitenziaria e detenuti[5], la speranza sfumata dell’amnistia, il peso in costante calo, e poi le ulcere alla bocca ed alla gola, e l’inizio della fine. Le inutili petizioni alle autorità turche da avvocati di tutto il mondo, l’ennesima delusione nella risposta da parte della Corte EDU[6]. Fino alla fine, con la speranza che quel finale fosse evitabile.
Già prima della pandemia la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva con più sentenze condannato la Turchia per l'incapacità di offrire adeguate cure mediche ai detenuti malati o di rilasciare i malati terminali, in violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti e del diritto alla vita. Anche il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa nei suoi rapporti aveva espresso le medesime preoccupazioni. Nonostante ciò, le voci dal mondo che chiedevano l’estensione dell’amnistia anche ai detenuti vulnerabili ed agli avvocati, sono rimaste inascoltate, così come quelle che chiedevano la liberazione immediata dei due colleghi in sciopero della fame. Il C.N.F. ha chiesto al Presidente Conte ed al Ministro degli Esteri Di Maio di intervenire per l’immediata liberazione dei colleghi, e si sono associati gli Ordini locali di tutta Italia, oltre 70. I Giuristi Democratici hanno coordinato l’associazionismo forense per la mobilitazione in solidarietà ai colleghi turchi, attraverso foto, video, comunicati, dall’Italia e dal mondo. Dagli Ordini di Parigi e Madrid fino alla prestigiosa American Bar Association.
E’ ancora in atto uno sciopero della fame a staffetta promosso dagli avvocati di M.G.A - sindacato nazionale forense.
Oggi c’è chi si interroga se la responsabilità della morte di Ebru sia da rinvenirsi in chi ha tardato a decidere sulla richiesta di scarcerazione per via delle ferie giudiziarie in corso, in chi le ha rifiutato cure mediche di fiducia e l’ha costretta a trascorrere i suoi ultimi giorni in un luogo inidoneo, nel quale le sue condizioni di salute si sono gravemente e velocemente aggravate per via delle luci perennemente accese, dei rumori, del freddo, dell’obbligo di rispondere alle guardie penitenziare ogni ora circa il rifiuto di alimentazione forzata, nonostante le ulcere alla bocca ed alla gola le impedissero di parlare…
Su questo dovrà essere fatta luce.
13 Relatori Speciali dell’ONU, in un comunicato congiunto[7] hanno affermato che hanno la morte di Timtik era "del tutto evitabile" e che "Nessuno dovrebbe morire per ottenere un processo equo; è un diritto umano fondamentale. Questo è un totale spreco di una vita umana, e siamo molto costernati per la morte di questa coraggiosa donna difensore dei diritti umani, così come per le circostanze che hanno portato alla sua morte". Si sono dichiarati dispiaciuti per il fatto che “poco sia stato fatto dalle autorità per evitare questo tragico risultato" ed hanno chiesto un'indagine efficace sulla sua morte.
Aytaç Ünsal ha affermato in un’intervista all’agenzia stampa Bianet che Ebru è stata uccisa dall'indecisione della Corte di Cassazione. In realtà non c'era nessuna indecisione. Ebru Timtik stava per essere giustiziata. La decisione era stata presa a porte chiuse. L'esecuzione è stata fatta per mano di alti organi giudiziari”.
Quello che è certo, è che non è stata sufficiente la sua “esecuzione”. Come nella peggiore delle tradizioni, all’esecuzione è seguita la vendetta sul corpo del nemico ucciso.
Ebru ha perso la vita all'ospedale Dr. Sadi Konuk nel distretto di Bakırköy di Istanbul, dove era tenuta contro la sua volontà. Il suo corpo è stato poi portato all'Istituto di medicina legale (ATK) nel distretto di Yenibosna. La polizia ha sequestrato il suo corpo, rifiutandosi di consegnarlo alla sua famiglia nel timore che le autorità impedissero la sua sepoltura. La polizia ha sigillato l'area intorno all’Istituto e schierato diversi camion di cannoni ad acqua, mentre un elicottero della polizia girava sopra l’area. Ebru è stata portata direttamente dal dipartimento medico legale alla casa culturale Alevi nel quartiere Gazi di Istanbul dalla polizia per impedire agli avvocati della sua associazione di avvocati e agli amici di portarla lì in corteo. La polizia, sostenuta da veicoli blindati, si è scontrata con i sostenitori della Timtik in varie parti di Istanbul, in scene caotiche, mentre un elicottero della polizia si librava sopra la testa, poi ha sparato raffiche di gas lacrimogeni mentre gli amici e i sostenitori della Timtik si avvicinavano al cimitero nella periferia nord di Istanbul dove il suo corpo è stato sepolto. Una folla oceanica cantava slogan di acclamazione per la defunta "Ebru Timtik è immortale" e gridava rabbia per quella morte ingiusta "lo stato assassino sarà chiamato a rispondere", così la polizia anti-sommossa con i caschi e armata di scudi ha minacciato di attaccare la folla se non avesse smesso di cantare, e li ha inseguiti una volta finita la cerimonia.
Alla sorella Barkin Timtik, anche lei in carcere con le medesime imputazioni, è stata negata la partecipazione al funerale, con la scusa della pandemia.
Il Procuratore Capo di Istanbul ha avviato un'indagine contro il presidente dell'Ordine degli avvocati di Istanbul ed i consiglieri, per la gigantografia di Ebru esposta fuori dall’edificio dell’Ordine. Nell’immediatezza dei fatti il ministro degli interni Süleyman Soylu aveva già condannato il gesto come atto di terrorismo, prima ancora che le indagini fossero iniziate: "Condanno fermamente coloro che hanno appeso la fotografia di un membro di un'organizzazione terroristica all'Ordine degli avvocati di Istanbul".
E poi, a pochi mesi dalla morte di Ebru, l’arresto della sua praticante, che era diventata avvocata da solo un anno, Seda Şaraldı, che si stava occupando anche di aiutare Aytaç Ünsal nella sua riabilitazione.
2. La lotta per la difesa del giusto processo e di giuste condizioni detentive
Ebru Timtik è morta dopo 238 giorni di sciopero della fame. Era affamata di giustizia, e voleva cercarla anche dal carcere dove si trovava, dare un significato a quell’esperienza e non subire passivamente la negazione dei diritti nei suoi confronti, nei confronti degli altri colleghi detenuti, dei suoi stessi assistiti detenuti. Voleva condividere lo stesso destino dei suoi assistiti, che avevano scelto anch’essi di lottare per i propri diritti, accettando la morte quale conseguenza estrema della loro negazione.
Prima di lei, avevano già perso la vita nello stesso modo altri suoi assistiti, i membri della band Grup Yorum: Ibrahim Gökçek, di 40 anni, Helin Bölek e Mustafa Koçak, di 28, avevano smesso di mangiare perché per le loro idee politiche dal 2016 gli era stato vietato di fare concerti, e per chiedere un giusto processo e la liberazione nell’attesa del giudizio per l’accusa di terrorismo, fondata esclusivamente sui contenuti della loro attività artistica[8].
Le parole consegnate alla storia da Ebru Timtik in un video su Twitter riprese da un telefono cellulare in maniera amatoriale, urlate in un corridoio del Tribunale Caglayan di Istanbul, il più grande d’Europa, sono lapidarie: «Se un’avvocata muore, domanderà giustizia dalla sua tomba! Romperemo tutte le nostre catene, vogliamo libertà per gli avvocati, libertà di difendere i nostri assistiti, libertà!».
Ebru voleva solo fare l’avvocata. Voleva garantire una difesa ai suoi assistiti. Rivendicava in quanto detenuta, per sé e per gli altri, quei diritti che venivano sistematicamente violati. Cose semplici, come poter leggere un libro. Era affamata di giustizia.
Come ho già scritto per Il Dubbio[9], dopo il colpo di stato, all’indomani della proclamazione dei liberticidi decreti emergenziali e della serie di arresti che ne è conseguita, un collega mi disse che la Turchia si stava trasformando in una prigione a cielo aperto, che comprendeva chi era fisicamente in carcere, chi sapeva che prima o poi, in ragione del proprio lavoro o della banale espressione della propria opinione sui social media, ci sarebbe potuto finire, e chi di fatto aveva già le mani legate, avendo perso il lavoro ed avendo i propri beni congelati dal governo e nessun mezzo giudiziario per difendersi.
Il ruolo degli avvocati è stato essenziale per segnare la via della democrazia, per invocare il giusto processo, per dare una speranza di giustizia. Per le sue parole di denuncia e di pace è stato ucciso l’avvocato Tahir Elçi, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir, e sono stati detenuti gli avvocati Taner Kilic, presidente di Amnesty International e Selahattin Demirtaş, leader del partito di opposizione HDP, ancora in carcere sebbene la CEDU ne abbia chiesto per ben due volte la scarcerazione.
Ebru, detenuta all’esito di un ingiusto processo, privata della possibilità di difendere e di difendersi, con lo sciopero della fame ha scelto di fornire al mondo una prova materiale del grado di crudeltà al quale il regime turco può arrivare. Sebbene vulnerabile, ha continuato a lungo ad essere detenuta in un carcere con molti contagiati dal covid.
Le è stato negato il diritto a consultare un medico di fiducia. E’ stata trattenuta in un ospedale militare in condizioni paradetentive incompatibili con il suo stato di salute.
Ha chiesto alla Corte Europea di disporre una misura urgente per preservare la sua salute, di poter continuare la misura cautelare in un ambiente compatibile con le sue condizioni e di poter consultare un medico di fiducia, ma la decisione non è arrivata in tempo, lei è morta prima, consumata dall’indifferenza di un dittatore per le persone che tiene in custodia.
Ebru non ha mai smesso di credere nella possibilità di ottenere giustizia, malgrado tutto.
Ebru voleva vivere, perché la sua vita avrebbe accesso per tutti una fiammella di speranza di giustizia, di necessità di portare avanti la resistenza non violenta al regime, con tutti i mezzi a disposizione, per ripristinare lo stato di diritto, il godimento dei diritti.
Come ha giustamente scritto il suo collega Aytaç Ünsal, ora Ebru «sta nascendo nei cuori e nelle menti delle persone». Non un’estremista che ha scelto il martirio per fanatismo, ma un’avvocata che ha scelto la lotta non violenta al regime, che ha rivendicato il diritto ad avere diritti anche degli ultimi, dei più vulnerabili, degli invisibili dietro le sbarre, dei nemici. Si è seduta dalla parte del torto, ed è morta affinché altre ed altri si sedessero accanto a lei.
All’epoca della morte di Ebru, mi fece molta tenerezza la notizia della chiamata di Nasrin Sotoudeh dal carcere al marito Reza Khandan, nel corso della quale Nasrin aveva espresso rammarico per la morte dell’avvocata Ebru Timtik ed aveva inviato le sue condoglianze alla famiglia. Anche Nasrin, come Ebru, si trovava in precarie condizioni di salute, e continuava a condurre dal carcere la sua battaglia per i diritti umani. Dopo la morte di Ebru, anche Nasrin ha iniziato uno sciopero della fame che ha ulteriormente aggravato le sue condizioni di salute, e solo grazie alle pressioni internazionali ora può godere di alcuni giorni di permesso per cure mediche, che le consentono di fare dentro e fuori dal carcere, mantenersi viva, continuare la sua lotta, riabbracciare la sua famiglia.
A Ebru questa chance non è stata concessa: Ebru ha donato la sua vita per la giustizia, non solo per lei e per gli altri avvocati coimputati, ma per tutte le vittime delle purghe di Erdoğan, dell’ingiusto processo in Turchia, per tutti i detenuti di opinione i cui diritti sono stati violati, per tutti quelli indebitamente esclusi dall’amnistia, per tutti quelli i cui bisogni non sono stati ascoltati. Anche al di fuori dei suoi confini. Sono certa che molto della lotta di Ebru vive ora in Nasrin, che, con il suo gesto, ha raccolto idealmente il testimone dalla sua cella nel Paese confinante.
Il gesto di umanità di Ebru, il suo ultimo atto difensivo come avvocata del popolo, lo sciopero della fame fino alla morte, un’arringa muta, in cui a parlare era il corpo, avendo perso ogni efficacia le parole, si è incarnato nel suo cadavere, trenta chili di pelle ed ossa, che ha messo il mondo davanti alla drammaticità dell’indifferenza del regime turco per il rispetto dei diritti umani fondamentali, molto prima del “me ne frego” di Erdoğan davanti alle sentenze della Corte EDU[10] .
L’effetto farfalla che ha scatenato la morte di Ebru è di una potenza impressionante: l’opinione pubblica internazionale è rimasta basita dal fatto che Erdoğan abbia lasciato morire di fame un’avvocata in carcere, ed abbia apertamente minacciato di rappresaglie tutti gli avvocati che avevano dimostrato solidarietà alla collega defunta; i media ed i politici italiani ed europei improvvisamente hanno aperto gli occhi davanti a tutte quelle gravissime violazioni dei diritti umani che hanno fino ad oggi hanno deliberatamente ignorato quando denunciate dai detenuti vivi o dagli osservatori internazionali. Gli avvocati italiani, che da mesi compatti chiedono al Governo italiano di intervenire per la liberazione dei colleghi turchi, sono rimasti basiti per l’assoluto silenzio del Presidente del Consiglio (anche lui “avvocato del popolo”, un suo collega!) e dei Ministri davanti alla morte di Ebru e per l’assenza di qualsiasi riscontro alle richieste formulate; la comunità dei giuristi europei è indignata per il rigetto della misura urgente richiesta da Unsal alla Corte Europea, e per la contemporanea accettazione da parte del Presidente Robert Ragnar Spano di un’onorificenza da parte della medesima Università di Istanbul che ha illegittimamente licenziato 192 accademici, colpevoli di aver firmato un appello per la pace. E’ pure insorto il dibattito se Ebru si debba definire avvocata, avvocatessa o avvocato (in italiano, come impiegato si declina al femminile in impiegata, avvocato in avvocata, non esistendo un genere neutro. Lei, comunque, avrebbe voluto essere chiamata senza dubbio avvocata).
I relatori speciali ONU, che chiedevano la revisione del processo, sono stati parzialmente accontentati dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione annullava alcune posizioni con rinvio, rilevando il parziale ne bis in idem tra i due processi, di cui il primo ancora pendente. Non sono stati accontentati invece i relatori speciali PACE, che chiedevano alle autorità turche di assicurare libertà professionale agli avvocati turchi, un giusto processo, e l’immediata liberazione per Unsal. Di lì a poco infatti è seguita l’ennesima maxi-retata di avvocati arrestati ed Unsal, liberato con pena sospesa per cure mediche, sulla base di una perizia che indicava in un anno il tempo di cure quotidiane necessario al recupero delle funzioni vitali e ad uscire dal rischio di vita, è stato già nuovamente arrestato, così pochi mesi dopo la sua scarcerazione, con modalità scenografiche e violente, tali da rimettere con il solo arresto nuovamente a rischio la sua salute.
3. Il nuovo arresto di Aytaç Ünsal
Secondo le informazioni fornite dai suoi legali agli osservatori internazionali, il 9 dicembre 2020, Aytaç Ünsal è stato preso in custodia nel centro di Edirne. Dopo la diffusione della notizia, gli avvocati Mükerrem Karakurt e Seda Şaraldı, si sono recati alla Direzione della Sicurezza di Edirne per incontrarlo. Durante l'interrogatorio alla Direzione della Sicurezza di Edirne, hanno visto che Aytaç Ünsal è stato colpito intenzionalmente dalle forze di sicurezza ed è stato gravemente ferito, c'erano ferite aperte vicino ai suoi occhi. Inoltre, sotto custodia, è stato esposto a ulteriori violenze fisiche a causa di un pugno nella regione addominale. Non gli è stato permesso di prendere le sue medicine per la neuropatia che sta soffrendo a causa dei danni provocati dallo sciopero della fame. Aytaç Ünsal è stato tenuto in custodia per 24 ore. È stato trasferito in un istituto sanitario per un controllo medico con le mani ammanettate dietro la schiena. Le sue gambe sono state colpite intenzionalmente alle scale dell'istituto sanitario, con ecchimosi e tubercoli tra le ginocchia e i piedi. È stato nuovamente esposto a violenze fisiche per essere stato costretto ad abbassare la testa mentre saliva sul veicolo della polizia. I farmaci prescritti per le ferite aperte vicino agli occhi dopo la visita medica di base non sono stati somministrati ad Aytaç Ünsal e anche una cura medica così semplice è stata ostacolata dalle forze dell'ordine. Dopo essere stato esposto ad atti di violenza e tortura, è stato trasferito all'istituto penitenziario chiuso di Edirne F Type con la decisione di annullamento della sospensione dell'esecuzione. La decisione è stata adottata illegalmente senza la comparizione di Aytaç Ünsal e dei suoi avvocati davanti ad un tribunale. Dopo il suo trasferimento, a causa del coprifuoco, non ha potuto essere visto dai suoi avvocati. Fino al 14 dicembre 2020, la sua famiglia e i suoi avvocati non potevano fargli visita. Il 14 dicembre 2020 suo padre e sua madre gli hanno fatto visita. Sua madre, che è anche avvocata, lo ha visto in qualità di suo difensore. Anche in questo caso, sua madre è andata a trovarla il giorno successivo. Il 16 dicembre 2020 l'avvocato Seda Şaraldı e l'avvocato Doğa İncesu lo hanno incontrato. Secondo la dichiarazione degli avvocati, ha subito da nudo perquisizione corporale quando è entrato in carcere. Dopo essere stato arrestato, è stato privato delle sue medicine, come Lyrica, che è vitale per la cura della sua malattia neuropatica. Inoltre, anche se il suo test COVID-19 è risultato negativo, è stato tenuto in isolamento. Il trattamento medico di Aytaç Ünsal deve essere stato in corso e non è in grado di accedere alle sue medicine e alle cure mediche adeguate in condizioni carcerarie. Deve rimanere sempre sotto osservazione a causa delle sue condizioni mediche. Il suo trattamento è sempre avvenuto sotto l'osservazione di due persone prima dell'arresto, ma ora rimane da solo. Nermin Ünsal, la madre di Aysal Ünsal si è messa in contatto con lui il 18 dicembre 2020 per dieci minuti al telefono. È stata informata che Aytaç Ünsal è ancora nelle stesse condizioni. È in cella d'isolamento e rimane nell'isolamento. Non può accedere ai medicinali e all'integratore vitaminico necessario (B1) per il suo trattamento, sebbene sia stato fornito dalla madre alla direzione del carcere. Secondo recenti aggiornamenti, Aytaç soffre di dolore e di bruciore alle gambe. Per via del malfunzionamento della circolazione sanguigna, le sue gambe sono congestionate. La congestione è una condizione di pericolo di vita per Aytaç Ünsal a causa del rischio di embolia. Aytaç Ünsal non ha ancora ricevuto i vestiti che erano già stati dati alla gestione del carcere dalla sua famiglia. Dal 9 dicembre (al 21 dicembre, momento della comunicazione) indossa gli stessi vestiti. È stato esposto a violenze fisiche, ha persino colpito il suolo con gli stessi vestiti addosso. Non si tratta quindi solo di umiliazione, ma anche di un rischio per la salute a causa di problemi igienici in condizioni di pandemia. Di conseguenza, Aytaç Ünsal non è in grado di accedere a cure mediche adeguate dopo l'arresto. Ha anche bisogno di una dieta corretta e ben pianificata, controllata da un nutrizionista. Ora è privato della possibilità di consultare il suo nutrizionista e di una corretta alimentazione. Inoltre, è andato regolarmente a farsi visitare dal suo neurologo, ma il suo diritto alla salute è limitato e non gli è più permesso di andare a visitarlo. Il giorno di Natale ha scritto una breve lettera ai colleghi nella quale afferma: “(…) Mi hanno arrestato di nuovo, anche se avevo già rimandato l'esecuzione e le mie condizioni di salute erano pessime. Ognuno fa ciò che si addice alla propria morale. Noi faremo ciò che si addice alla nostra morale. Se solo avessimo ancora la testa, resisteremmo in piazza. Tesseremo la vita, che è una marcia di resistenza, con la nostra lotta per la giustizia. Non sono nella posizione di essere solo, ma sono ancora solo per motivi di quarantena. Volevo scrivere brevemente, nel caso foste curiosi. La mia mente è sempre con voi. Vi voglio bene e continuo a resistere”.
I premi conferiti postumi alla memoria di Ebru non sono riusciti a donare la libertà né alla sua amata sorella e collega Barkin, né al presidente della sua associazione Selcuk Kozagacli, né al suo collega e compagno di sciopero della fame, Aytaç Ünsal, che di nuovo vede la sua vita in pericolo.
4. Conclusioni
Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l'altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l'altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. (Khalil Gibran)
Come ho già avuto modo di notare su Left[11], la notizia della morte di Ebru è entrata nella casa di tutte le persone insieme alla notizia delle mire espansionistiche di Erdoğan nel Mediterraneo, ha determinato la presa di coscienza collettiva della morte dello stato di diritto in Turchia e delle reali ambizioni del Sultano. Gli eventi che sono seguiti alla morte di Ebru, ed in particolare la liberazione del suo collega in sciopero della fame da 213 giorni, Aytaç Ünsal, negata dalla Corte Europea ma concessa temporaneamente dalle autorità turche in occasione della controversa visita del Presidente della Corte Europea in Turchia, ha aperto per la comunità giuridica un momento collettivo di riflessione amara sull’efficacia del sistema regionale di tutela dei diritti umani nel proteggere i cittadini dagli abusi del potere e sulla politicizzazione della Corte, sicché, oltre alla presa di coscienza della morte dello stato di diritto in Turchia, si è pure aggiunto il lutto per la constatazione del fallimento del sistema di tutela regionale ed internazionale dei diritti umani, che non è riuscito ad impedire la morte annunciata di Ebru, così come non era riuscita ad impedire le morti annunciate dello scantinato di Cizre, anni prima. Se vogliamo dirla tutta, si è pure aggiunto il lutto per la morte della diplomazia tricolore, considerato che l’avvocatura con una campagna senza precedenti aveva sollecitato l’intervento del Governo italiano più e più volte, senza ottenere risposta alcuna e senza che nemmeno, alla morte della collega, il Presidente del Consiglio o qualcuno dei Ministri spendesse una parola di cordoglio. Al contrario, l’intera avvocatura europea e la società civile si sono uniti al dolore della sua famiglia e dei suoi colleghi, anche mediante la pubblicazione di un necrologio sui quotidiani turchi BirGün e Yeni Yaşam, “onorando il suo lavoro per proteggere i diritti degli altri e promuovere il rispetto dello stato di diritto”, sottoscritto da 139 tra associazioni forensi ed Ordini degli Avvocati, dalle Filippine alla Francia, e tra le quali ben 87 realtà italiane. Non è stato l’ultimo gesto di solidarietà, anzi. Il 7 settembre 2020 in molti tribunali europei è stato osservato un minuto di silenzio per commemorare la morte di Ebru, e l’11 settembre i Giuristi Democratici, l’Osservatorio Avvocati Minacciati delle Camere Penali, AIGA, ASGI, Legal Team, M. G. A., Movimento Forense e Magistratura Democratica, con l’adesione di molte realtà, hanno organizzato una manifestazione a Palazzo Chigi per chiedere a Governo italiano, Unione Europea e Consiglio d’Europa “di levare la voce per denunciare la responsabilità di stato per queste morti, ed intraprendere ogni azione necessaria per garantire il diritto alla vita ed al giusto processo per Aytac e per tutte le avvocate e gli avvocati”, nonché per la liberazione di tutti i difensori dei diritti umani, magistrati, parlamentari, giornalisti, accademici, docenti ingiustamente detenuti nelle carceri turche.
Le strategie difensive portate avanti dagli avvocati imputati in Turchia, esprimono l’identità precisa di chi ha scelto da che parte stare, fino alla fine, durante questa notte della democrazia: l’adempimento senza riserve della funzione difensiva a costo della propria libertà, la rivendicazione dell’indipendenza a costo della criminalizzazione, l’esercizio della propria funzionale costituzionale, a costo della morte.
La morte di Ebru ha toccato i cuori e le menti di tutte e tutti noi, non resta che un sincero augurio: che questo effetto farfalla non si perda con lo spegnimento dei riflettori, che ci aiuti a scongiurare la morte di Aytaç Ünsal e che ci porti in particolare ad aprire una riflessione pubblica sull’efficacia del sistema internazionale e regionale dei diritti umani nel garantire tempestiva ed effettiva protezione agli individui i cui diritti umani vengono gravemente violati da parte di attori statali
Oltre a Ebru Timtik e Tahir Elçi, sono molte altre le figure di colleghi e colleghe, giovani e viventi, che andrebbero ricordate per il loro quotidiano impegno, dentro e fuori dai confini, per la difesa dello stato di diritto e dei diritti umani in Turchia. Non li nomino espressamente solo perché il rischio che gli venga commissionata la stessa fine dei colleghi sopra citati è ancora decisamente troppo alto per azzardarsi a correrlo solo per indulgere in un seppur meritatissimo elogio.
Tuttavia, venire a conoscenza, seppure virtualmente, di esempi di così grande spessore morale dovrebbe porci un problema: noi, in qualità di giuristi, di operatori del diritto, cosa siamo disposti a fare, hic et nunc, per evitare che mai e per nessun motivo avvenga un utilizzo sproporzionato della forza da parte delle autorità nei confronti dei civili?
Un sentimento di sconforto aleggia tra i giuristi europei.
Fin dai tempi dei massacri di civili durante i coprifuoco del 2015, ci si aspettava un intervento incisivo da parte del Consiglio d’Europa e della diplomazia europea.
Come giustamente rilevato da Franco Ippolito “In tanti speravamo che dalle istituzioni dell’Europa (piccola e grande) sarebbe partita una pronta e soprattutto efficace reazione, volta a condannare senza esitazione e a isolare il regime turco, ribadendo l’essenza dei valori europei, incentrati sul rispetto dello Stato costituzionale di diritto e sulla protezione dei diritti umani e dei popoli. Prese di posizione e parole non mancarono, ma si trattò di declamazioni “rituali”, di pura di facciata, che si limitarono a sollecitare cautela all’autocrate turco, di cui ricordarono persino l’elezione popolare, come se la democrazia si potesse ridurre soltanto a investitura di potere dal basso”[12].
La lotta dell’avvocatura per sollecitare l’intervento del governo italiano e delle istituzioni europee è stata tenacissima e compatta, va detto, mai come in questo caso le rappresentanze istituzionali dell’avvocatura nazionale, europea ed internazionale, hanno lavorato fianco a fianco delle ONG forensi attive sul campo (ELDH, Lawyers for Lawyers ecc.) e dell’associazionismo forense per la buona riuscita di azioni di pressione internazionale sulle autorità turche per la liberazione dei colleghi e sulle istituzioni europee e nazionali per una pronta presa di posizione.
Forse anche per questo impegno di lobby fortissimo e costante, la disillusione davanti all’inazione del governo italiano e delle istituzioni europee è stata dolorosissima. Per due motivi.
Il primo: ha segnato il fallimento della Corte EDU nello scopo per il quale è nata, e cioè tutelare i civili dagli abusi da parte degli stati, difendere la vita di persone innocenti dall’utilizzo sproporzionato ed illegittimo della violenza da parte del regime di turno. I morti dello scantinato di Cizre hanno segnato il fallimento della Corte EDU nel raggiungimento di questo scopo, di proteggere normali cittadini dalla barbarie neonazista che là si è consumata in quel periodo storico. Un fallimento che certo passerà alla storia, e non trova sufficiente consolazione nel più tardivo ritrovato coraggio della Corte espresso nel caso Demirtaş c. Turchia.
Per certo, tutte le richieste di misure urgenti provenienti dalle vittime del coprifuoco e delle purghe seguenti al fallito colpo di stato, respinte al mittente dalla Corte EDU affermando l’effettività dei rimedi previsti dal sistema nazionale, così come quel premio ritirato dal Presidente Spanò durante la sua visita in Turchia[13], ad una settimana di distanza dalla morte dell’avvocata Ebru Timtik, hanno irrimediabilmente minato l’autorevolezza della giurisdizione non solo presso le tante vittime del regime turco, ma anche presso la più vasta cerchia di giuristi europea, che ancora vorrebbe vedere i Giudici di Strasburgo ergersi a baluardo inespugnabile della tutela dei diritti umani, specie quando le autorità nazionali violano il diritto alla vita o torturano privati cittadini.
Il secondo: il silenzio dell’esecutivo è risuonato come il De profundis della diplomazia italiana, per l’incapacità di interlocuzione con le parti sociali impegnate nella difesa dei diritti umani, e per l’opinabilissima e disdicevole scelta politica di anteporre il business agli human rights nelle relazioni con quei governi del Mediterraneo che è noto siano in atto di commettere crimini contro l’umanità.
Si dice che un solo gesto di gentilezza metta le radici in tutte le direzioni, e le radici nascano, e facciano nuovi alberi. Sicuramente il martirio di Ebru è stato un gesto di amore per la libertà e per la democrazia nel suo Paese che ha gettato radici ben al di fuori dei confini turchi, segnando un nuovo protagonismo dell’avvocatura nella difesa della democrazia, dello stato di diritto, della separazione tra i poteri, ed alla ricerca di una giustizia effettiva per i cittadini anche sul piano internazionale. Se c’è qualcosa infatti che la morte di Ebru ci ha insegnato, è che oggi più che mai, occorre lottare affinché quel sistema internazionale ed europeo di tutela dei diritti umani, nato dalle ceneri della barbarie nazista, venga protetto dalla volontà dei governi nazionali, ed in particolare dei nuovi regimi, di metterlo in crisi, per poter continuare impuniti a commettere crimini contro l’umanità e gravi violazioni dei diritti umani, senza che le persone possano trovare tutela superiore da questi abusi commessi dalle autorità nazionali. Se in ciò la diplomazia internazionale ha fallito, lasciando una scia di omicidi impuniti, da Regeni ad Ebru Timtik, e migliaia di detenuti di opinione ancora nelle carceri dei regimi, se sulle sponde del Mediterraneo dall’Egitto alla Turchia sono prevalsi gli accordi economici e bilaterali anche con chi aveva le mani sporche di sangue, non resta che esercitare, come società civile, ONG e come avvocatura, la nostra pressione congiunta, con la grande responsabilità di dover agire per garantire il diritto di tutte e tutti ad un ordine sociale e internazionale in cui i diritti e le libertà per i quali i nostri nonni e nonne partigiani hanno dato la vita, oggi resi legge dai trattati e dalle convenzioni internazionali, possano essere pienamente realizzati per tutti, salvaguardati da chi vorrebbe veder naufragare nel Mediterraneo e colare a picco non solo i barconi di chi scappa dalle grinfie dei dittatori, ma con essi pure il sistema internazionale dei diritti umani[14].
Sempre condividendo il pensiero di Franco Ippolito, “Come avrebbe potuto, del resto, essere diversamente? Una efficace presa di posizione europea di fronte alla reazione spropositata, repressiva e illegittima del regime di Erdoğan al tentato colpo di Stato del 2016 avrebbe dovuto determinare l’adozione di adeguate sanzioni, con sospensione della Turchia da ogni partecipazione a istituzioni e organismi europei. Prima ancora, avrebbe dovuto comportare la cancellazione del patto, vergognoso e scellerato, che il 28 marzo 2016, in cambio di miliardi di euro, ha affidato a Erdoğan il compito di bloccare il flusso di persone in fuga dalla violenza della guerra e della fame, profughi disperati che l’egoismo dei ricchi Paesi europei rifiuta e respinge, mentre piccoli e poveri Paesi come Libano e Cisgiordania danno loro un rifugio, con risorse e mezzi neppure lontanamente comparabili a quelli del vecchio continente”[15].
Allora la domanda che si pone è: quale lezione noi siamo in grado di imparare dall’esperienza turca? Quanto, come giuristi, come avvocati, siamo disposti a metterci in gioco individualmente e collettivamente per estirpare e condannare le pratiche che costituiscono tortura di stato, per difendere il giusto processo, il diritto alla difesa, i difensori dei diritti umani, l’accesso alla giustizia per i più vulnerabili, i diritti dei detenuti, gli equilibri costituzionali, nel nostro Paese? Siamo in grado di interloquire con il governo per rivendicare l’imposizione di clausole di rispetto dei diritti umani nelle relazioni commerciali intercorrenti con quei regimi che palesemente li violano? Sappiamo essere, e ci interessa essere, agenti di pace, almeno nel mare nostrum? Meritiamo, come avvocatura, il ruolo costituzionale che così con forza rivendichiamo?
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell'Avvocatura in Turchia. Un reportage di Barbara Spinelli - Parte Prima: Essere giovani avvocate/i in Turchia
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell'Avvocatura in Turchia. Un reportage di Barbara Spinelli - Parte Seconda: L'avvocatura alla prova dello stato di emergenza
[1] Selçuk KOZAĞAÇLI è membro del comitato esecutivo ELDH, associazione europea di cui ÇHD fa parte. Ha un'ottima reputazione al di fuori della Turchia come avvocato per la difesa dei diritti umani. Nel 2014 gli è stato conferito il premio Hans-Litten dall'associazione di avvocati tedeschi Vereinigung Demokratischer Juristinnen und Juristen e.V. VDJ. La più grande associazione di avvocati tedeschi Deutscher Anwaltsverein DAV ha scritto in occasione del suo arresto nel novembre 2017: "Secondo la DAV, l'arresto di Kozağaçlı esemplifica un numero di casi in cui gli avvocati in Turchia sono stati arrestati per aver difeso i loro clienti".
[2] B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p. 123. In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
[3] https://www.hrw.org/news/2020/04/17/twenty-four-rights-groups-call-turkey-release-all-those-arbitrarily-detained-now
[4] https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2020/04/14/turchia-amnistia-per-90mila-detenuti_d37b4c5f-3810-4db0-91b3-688377f37bf9.html
[5] https://turkeypurge.com/first-inmate-dies-from-covid-19-complications-at-istanbuls-silivri-prison-report ; https://silencedturkey.org/wp-content/uploads/2020/06/THE-CORONAVIRUS-OUTBREAK-IN-TURKEY%E2%80%99S-PRISONS_-ANALYSIS-OF-THE-CASES-FINDINGS-AND-RECOMMENDATIONS.pdf .
[6] https://www.sessizkalma.org/en/ecthr-rejects-application-about-death-fasting-lawyer-aytac-unsal/
[7] https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=26203&LangID=E
[8] https://www.ilpost.it/2020/05/08/morto-gokcek-grup-yorum/
[9] https://www.ildubbio.news/2020/09/04/il-martirio-dellavvocata-ebru-timtik-ha-creato-leffetto-farfalla-sul-regime-di-Erdoğan/
[10] https://www.huffingtonpost.it/entry/il-me-ne-frego-di-Erdoğan-alla-corte-dei-diritti-delluomo-su-Demirtaş_it_5fe4b8edc5b6e1ce8338ec9d ; https://www.aa.com.tr/en/turkey/echr-ruling-on-terrorist-hdp-leader-is-meaningless/2087175 .
[11] https://left.it/2020/09/12/linerzia-intollerabile-del-governo-italiano/
[12] https://www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/738/qg-speciale_2019-1_34.pdf
[13] https://www.ildubbio.news/2020/09/02/giudice-ragnar-spano-la-prego-rifiuti-quel-premio-di-Erdoğan/
[14] https://left.it/2020/09/12/linerzia-intollerabile-del-governo-italiano/
[15] https://www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/738/qg-speciale_2019-1_34.pdf
Il libero mercato delle idee. Twitter versus Donald Trump
di Giuseppe Cricenti
Sommario: 1. Twitter ed il Primo Emendamento - 2. Da Milton al giudice Holmes. La resistenza originalista della Corte Suprema. - 3. Il libero mercato delle idee e le sue fascinazioni. - 4. Veramente non ci sono fatti ma solo interpretazioni? - 5.Twitter ed il private enforcement. Brevissimo dubbio.
1. Twitter ed il Primo Emendamento
I gestori di Twitter hanno sospeso l’account di Donald Trump, per scongiurare il pericolo di ulteriori incitamenti alla violenza, contravvenendo ad una solida tradizione statunitense, giuridica e politica, secondo cui le idee storte si raddrizzano con le idee dritte e non con la censura.
Donald Trump non aveva evidentemente in modo esplicito incitato alla violenza: la moltitudine di beoti che ha dato l’assalto al Campidoglio ha agito più che altro credendo alla fake news, questa, sì, messa in giro da Trump, dei brogli elettorali; censurare Trump è stato dunque come censurare una menzogna; a prima vista non può sembrare, ma è un fatto non solo insolito nella prassi statunitense, ma persino contrario alla giurisprudenza ed alla dottrina costituzionalistica dominante.
Non è del resto passato gran che di tempo da Alvarez v. United States (2012): riesce ad accedere ad una carica elettiva un maldestro burlone, Xavier Alvarez, che già in passato aveva vantato di avere sposato una star del cinema messicano, e peggio, di avere giocato con profitto nei Detroit Red Wings, e che, per completare il suo curriculum, aveva pubblicamente vantato una medaglia al valore d’onore direttamente concessa dal Congresso ed ovviamente mai avuta.
Qualche anno prima, nel 2005, il Presidente Bush aveva promulgato lo Stolen Valor Act , che puniva con sei mesi di detenzione chiunque vantasse indebitamente di essere stato insignito di meriti militari che non ha mai ricevuto[1].
Cosi, qualcuno ipotizza che Alvarez , mentendo, ha violato lo Stolen Act e ne chiede l’applicazione, ma la Corte Suprema, dove finisce sei a tre, al contrario, decide che è lo Stolen Act a violare il primo Emendamento in quanto
"quantunque possano esistere diverse interpretazioni del Primo Emendamento, c’è generale accordo sul fatto che lo scopo principale di quell’ Emendamento è di proteggere la libertà di discussione sulle questioni pubbliche"[2]. Fin qui va bene.
Tuttavia, tra gli argomenti della maggioranza (ben espressi da Justice Breyer), v’è che, sebbene si debba convenire sui pericoli delle menzogne dette agli elettori[3] che hanno la potenzialità di indurli a condizionamenti pericolosi, non ci si può però spingere fino al punto di sanzionare quelle menzogne, dovendo piuttosto la bugia trovare un contrappeso nel libero dibattito o nella verifica dei fatti, da cui risulterà inesorabilmente smentita. Testuali parole: "I would also note, like the plurality, that in this area more accurate information will normally counteract the lie. And an accurate, publicly available register of military awards, easily obtainable by political opponents, may well adequately protect the integrity of an award against those who would falsely claim to have earned it."[4]
Siamo dunque al punto. Le idee storte si raddrizzano con le idee dritte o con il fact-checking, mai con la censura o il controllo preventivo su ciò che può essere detto o meno.
La dottrina del libero mercato delle idee, che ormai trova nella giurisprudenza statunitense fondamento nel citato Primo Emendamento[5], è altresì una costante della dottrina politica e costituzionalistica americana[6], ma sembra debba fare i conti con l’iniziativa privata dei social network : oltre alla iniziativa di Twitter verso Trump, anche Facebook adotta misure vicine alla censura per violazione della propria policy.
2. Da Milton al giudice Holmes. La resistenza originalista della Corte Suprema.
La dottrina del libero mercato delle idee nasce da un’idea di John Milton, che nell’Aereopagetica, retoricamente si domanda chi abbia mai sentito che la verità sia mai andata soccombente in un dibattito libero ed aperto. Milton sostiene la superiorità del mercato delle idee su ogni regola restrittiva: “la libertà ch’io cerco è quella di apprendere, di parlare e di discutere, liberamente e secondo coscienza; questa più di tutte le altre libertà”. Il mercato delle idee è diverso dal mercato dei beni e non dovrebbe essere trattato allo tesso modo: “La Verità e l’ingegno non sono articoli di monopolio, da vendere con le loro brave etichette, e misure e garanzie. Non dobbiamo immaginarci di poter trattare tutta la cultura nazionale al pari di una qualsiasi merce, bollandola e licenziandola come si fa coi panni o colle balle di lana”[7].
E’ per questo che la stessa autorizzazione cui è soggetta la stampa è un affronto agli uomini istruiti ed alla istruzione, poiché un uomo istruito che tanto ha faticato per i risultati delle sue ricerche non può essere chiamato a “sottomettere il frutto della sua diligenza e delle sue veglie… alla frettolosa ispezione d’un affaccendato censore, più giovane forse di lui, a lui inferiore in giudizio”[8]. Secondo Milton, inoltre, i censori reprimono più verità che falsità, a cagione della loro ignoranza: “Possiamo facilmente prevedere quale è la specie di censori che dobbiamo aspettarci in avvenire: o ignoranti, arroganti e negligenti, o bassamente venali”[9].
Nata come reazione al rigido sistema di censura anglosassone, proprio del diciassettesimo secolo, e forte della fiducia razionalistica nell’individuo quale soggetto capace di discernere, con la sola ragione e conoscenza, il vero dal falso, questa difesa della libertà di opinione, e soprattutto della capacità del libero dibattito di smentire le tesi false, ha affascinato le generazioni future di pur diversa estrazione.
Oltre che per tantissimo altro, il giudice O.W. Holmes è celebrato per avere sviluppato la tesi di Milton, ri-concettualizzandola in ambito giudiziario[10], nella dissenting opinion espressa in Abram v. United States[11] , trovando immediato sostegno nella dottrina costituzionalistica del tempo [12] . Secondo Holmes “quando gli uomini hanno capito che il tempo ha fatto venire meno molte credenze ritenute vere, allora potranno anche ammettere… che il miglior test per la verità è che il pensiero si misuri in una competizione di mercato (corsivo mio)”[13].
Significa, in buona sostanza, che non solo sono illecite censure o restrizioni preventive, ma che è incompatibile con la stessa natura democratica di quella società che si impedisca ad un candidato di mentire pur di carpire una qualche utile voto.
A decenni di distanza, uno dei supporter di Romney, Neil Newhouse, non ha avuto difficoltà ad asserire pubblicamente, durante le primarie, che non si poteva permettere che la campagna elettorale fosse dettata dai fact-checkers [14], e la stessa Corte Suprema ha fatto tesoro di Holmes, con difese esplicite del marketplace : “è scopo del Primo Emendamento preservare il libero mercato delle idee, nel quale la verità alla fine prevarrà”[15]. E vale ricordare anche l’opinione del giudice Douglas secondo cui «la libertà di espressione, la libertà di stampa, la libertà di religione sono messe in una posizione distinta e separata; esse sono al di sopra e al di là dei poteri di polizia; esse non sono soggette alla regolazione allo stesso modo delle fabbriche, dei bassifondi, dei condomini, della produzione di olio e così via»[16].
Brown v. Hartlage [17] ha reso vano il tentativo di invalidare l’elezione di un candidato che, in campagna elettorale, aveva promesso di rinunciare al compenso, ed una volta eletto, non lo ha fatto. La Corte ha ritenuto illegittimo lo statuto del Kentucky, che prevedeva censure alle menzogne elettorali, affermando che lo Stato può restringere l’offerta di idee politiche solo se dimostra un interesse prevalente e solo se non ne derivi una restrizione della libertà di opinione. Ognuno vede come la falsa promessa elettorale non sia affatto offerta di una idea agli elettori: può discutersi se valga la pena di invalidare le elezioni, ma è di sicuro poco perspicua la prospettiva di ritenerla una condizione del dibattito politico.
L’esito di questa decisione è stato di far dire in Washington ex rel. Public Disclosure Commission v. 119 Vote No![18] che lo Stato non ha un diritto proprio di determinare la verità o la falsità in un dibattito politico, e che un atteggiamento diverso, volto ad una imposizione, sarebbe oltretutto paternalistico, e basato sull’assunto per cui i cittadini sarebbero troppo ignoranti o disinteressati per indagare se la notizia è vera. Quest’ultima decisione ha indotto lo Stato di Washington a modificare lo statuto sulle fake news in campagna elettorale, introducendo la distinzione tra il caso in cui la falsità riguarda un avversario politico, e sia deliberatamente falsa, caso che può essere preso in considerazione per una repressione, e quello in cui si mente su se stessi, o su proprie qualità utili alla campagna elettorale.
E’ interessante seguire lo sviluppo della giurisprudenza sul Primo Emendamento quanto alle bugie dette in campagna elettorale.
Uno degli argomenti che le corti usano per evitare di restringere la libertà di espressione in campagna elettorale, ma anche nei dibattiti politici in generale, fa riferimento all’esigenza di evitare un effetto deterrente. Il politico che rischia una sanzione per ciò che dice o promette agli elettori sarà portato a parlare con maggiore cautela, o con minore libertà, ed anche questo può diventare un problema per l’integrità del sistema elettorale. E del resto, le opinioni dei politici, si dice, sono il cuore della protezione accordata dal Primo Emendamento[19].
E tuttavia, la questione di quanto e come si possa mentire in campagna elettorale, o durante dibattiti politici pubblici non è affidata solo alle corti.
Quello di Alvarez è l’unico caso in cui uno statuto ha subito uno scrutinio di costituzionalità diretto, e di conseguenza le altre normative federali rimangono in vigore, anche se non offrono un quadro unitario della regolamentazione delle fake news nello specifico.
In sostanza, non c’è una legge federale che proibisca le fake news durante le elezioni (come in un certo senso anche dopo), ma molti stati hanno leggi interne allo scopo di vietare false comunicazioni politiche[20]. La definizione di “opinione elettorale” nonché quale sia il livello di fake che è vietato cambia da Stato a Stato. Alcune legislazioni proibiscono ogni forma di fake news ai danni di un candidato[21] , altri Stati invece proibiscono solo alcune categorie di fake news, come quelle che mirano a screditare l’integrità morale o la reputazione di uno dei candidati in lizza[22], in alcuni casi anche quei giudizi che vengono (a volte falsamente) presentati come l’esito di sondaggi telefonici o di opinione [23]. La Florida invece vieta solo le fake news di un candidato ai danni dell’altro[24].
Quello delle opinioni espresse durante le competizioni elettorali è infatti l’ambito che, nel sistema derivante dal primo Emendamento, gode della maggiore garanzia di libertà [25], e nonostante ciò, statuti federali a parte, una consistente ed influente parte degli opinionisti, spinge per una revisione, o per introdurre eccezioni che mirino a salvaguardare l’integrità della campagna elettorale, e soprattutto a smascherare l’ingenuità delle visioni antipaternalistiche che si adducono a giustificazione della più ampia libertà di espressione, menzogne comprese [26].
3.- Il libero mercato delle idee e le sue fascinazioni.
La dottrina del libero mercato delle idee si regge su alcuni argomenti semplici.
Innanzitutto, questa retorica è al fondo dell’argomento secondo cui è controproducente o comunque inutile vietare o in qualche modo limitare la menzogna, posto che, in una libera discussione, la verità viene sempre fuori, ed è dunque il sistema pluralistico della informazione ad incaricarsi di imporre il vero.
Di conseguenza, l’idea che la verità prima o poi verrà fuori[27] è ancora una credenza del pensiero moderno, fermo alla idea che il rimedio non è vietare di dire, ma far dire di più[28].
Questo atteggiamento è inteso come qualcosa di simile ad un liberismo di mercato. Il riferimento al “mercato delle idee”, è infatti basato sull’assunto per cui la società ha come scopo di fondarsi su un livello il più possibile diffuso di verità, e questo livello non può che essere raggiunto dalla più ampia libertà di opinione possibile, il mercato poi selezionerà quelle vere. Ma, al fondo del ricorso al “mercato delle idee”, v’è anche la difesa semplicemente della libertà di pensiero da ingerenze pubbliche e limitazioni statali.
L’argomento è che il miglior modo per una società di ottenere il più diffuso e alto livello di verità è che ciascuno esprima liberamente e senza limitazioni il proprio punto di vista. Quando il pubblico potere è neutrale, e lascia libero ciascuno di esprimere e difendere il proprio punto di vista, gli altri potranno opporre un altrettanto ampio ventaglio di prove contrarie e questo genera maggiore verità.
Sono soprattutto le letture originaliste (come quelle di A. Scalia) ad attribuire al Primo Emendamento lo scopo di accrescere il livello e la diffusione della verità nella società, attraverso il libero scambio delle idee, anche di quelle infondate o evidentemente false: difronte a manifestazioni che possono apparire anche manifestamente false o che possono generare false credenze, il miglior modo per combatterle non è regolarle o proibirle, ma incoraggiare more speech, ossia incoraggiare il contraddittorio. L’idea chiave è che un numero maggiore di opinioni, contribuendo con idee ed argomenti al dibattito, è la migliore soluzione per incentivare vere credenze.
E’ l’approccio giusto?
Pensiamo allora a due visioni opposte: da un lato, la soluzione di “speech regulation” che, in questo contesto, significa adottare politiche e prendere decisioni mirate a ridurre la prevalenza di una o più classi di espressioni del pensiero (ad esempio, il linguaggio offensivo o quello palesemente falso), e ciò evidentemente nel tentativo di ridurre o diminuire l’incidenza di quei tipi di manifestazione del pensiero sulla vita pubblica. Il lato opposto di questa restrizione è nella “ speech maximization”, dove “maximization” of speech” va intesa in modo ampio, quale che sia l’aspetto della manifestazione di pensiero cui ci si riferisce (toni del discorso, tipi di discorso, etc.) La questione è dunque se la massimizzazione delle opinioni sia il miglior modo per aiutare la società ad incrementare classi di verità, come la tesi del libero mercato delle idee sostiene.
Non è trascurabile, in questa alternativa, tentare di capire cosa si intenda per regolamentazione, o cosa si assuma che vada contro la libera concorrenza delle idee. Il controllo di una notizia, ad esempio, sembra rientrare in una qualche forma di controllo della libertà di opinione o di pensiero, ma può essere vista anche diversamente ed in senso opposto.
Alvin Goldman, ad esempio, a dimostrazione del fatto che, nella realtà, non opera un mercato libero delle idee, quanto piuttosto un sistema di controlli incompatibile con la tesi che la verità meglio si ottiene lasciando libere le opinioni di confrontarsi, fa un esempio significativo.
Nel 1980 un cronista del Washington Post inventa la storia di un'eroina condannata ad otto anni, storia che vince un premio Pulitzer prima che si scopra che era del tutto inventata. Come conseguenza di questa vicenda é diventata regola generale tra i giornali americani l’idea che non tutto ciò che un cronista propone deve essere per ciò stesso pubblicato e che gli editori devono controllare e verificare l'autenticità delle fonti. Il risultato editoriale, in pratica, appare a Goldman l’opposto di ciò che la teoria del libero mercato delle idee sostiene. Il controllo editoriale è usato per evitare la pubblicazione di false storie. La pubblicazione di una storia non verificata è respinta proprio dal punto di vista della necessità di garantire la verità[29].
Altro esempio: la regolamentazione della libertà di opinione, di fatto, è praticata in un largo settore di alcune esperienze professionali, comprese quelle giudiziarie. Nel settore finanziario, si può osservare che, relativamente agli scambi finanziari, si moltiplicano le restrizioni governative al diritto alla informazione, messe in atto dal governo statunitense, sostenute da riferimenti all’interesse pubblico. Alcuni citano inoltre le norme che puniscono la falsa testimonianza e la subornazione dei testi, come norme il cui scopo è, per l’appunto, di vietare ai testi di dire il falso, con l’intenzione di ridurre l’incidenza che certi tipi di false opinioni avrebbero su parti importanti della procedura. Il che dimostra che vi sono sistemi in cui la massimizzazione delle opinioni, meglio della libertà di opinione, non è affatto vista come un mezzo per ottenere altresì la massimizzazione della verità.
Nel momento in cui la teoria del mercato delle idee difende la libertà di opinione, nello stesso tempo invoca un’analogia tra libertà di pensiero e libertà di mercato. Invece, ed è significativo, alcuni tra i più convinti paladini della libertà di mercato si dolgono del fatto che il mercato dei beni non è abbastanza libero quanto invece lo è quello delle idee.
In genere l’analogia è cosi posta: la competizione di mercato conduce a produrre e consumare prodotti migliori.
La mano invisibile di Adam Smith si incarica di assicurare che il miglior prodotto emerge sempre dalla competizione. Allo stesso modo il libero mercato delle idee dovrebbe poter produrre quelle migliori, dove per migliori si intende ovviamente quelle vere.
Alla obiezione che la teoria economica non può sempre predire il livello di qualità dei beni prodotti, gli entusiasti del mercato libero potrebbero cosi replicare: la ragione per cui mercati esistenti di libera opinione non funzionano come criteri di massimizzazione della verità sta nel fatto che si tratta di mercati estremamente poveri, in cui difettano strutture che inducono alla competizione. Vale a dire che in quei mercati del libero pensiero operano come monopolisti potenti opinion leader, ed anche società di produzione del consenso. Se le nostre strutture di mercato fossero migliori di come sono, anche le prospettive epistemologiche intorno alle vere credenze sarebbero a loro volta migliori.
In realtà non è propriamente cosi. Molti teorici economici si interrogano sul perché, mentre il mercato delle idee è di fatto libero da interventi regolatori dello Stato, quello dei beni invece non lo è, e la risposta è che la fiducia in un libero mercato delle idee ha origini diverse da quella posta nel libero commercio dei beni.
Secondo Aaron Director “il libero mercato in qualità di metodo auspicabile di organizzazione della vita intellettuale di una comunità, è stato favorito molto prima di essere stato raccomandato come metodo desiderabile di organizzazione della vita economica. I benefici di un libero scambio di idee sono stati riconosciuti prima di quelli dello scambio volontario di beni e servizi in un mercato concorrenziale”[30].
Del resto, non basta che il mercato delle idee sia libero. L’idea che la verità prevale sempre in una libera discussione, e che la libertà di contraddire è il criterio migliore per mettere le menzogne alla berlina, è suggestiva, ma superficiale.
Ma soprattutto, la tesi del libero mercato delle idee non chiarisce quale è l’ambito entro cui si estende il mercato, vale a dire cosa si intenda per mercato, quale è l’ambito di tale spazio predicato come libero. E’ la vaghezza del concetto di mercato che intanto rende difficile accettare questa teoria. Vi sono a ben vedere settori di circolazione delle idee, che, se si fanno rientrare nel concetto di mercato, smentiscono la tesi della libertà assoluta.
Non si può dire ad esempio che nell’ambito scolastico viga il libero mercato delle idee, né che sia cosi nell’ambito scientifico, dove c’è un preventivo controllo su ciò che viene pubblicato.
Le riviste scientifiche e professionali sono concepite per costituire il miglior spazio possibile per scoprire ed insegnare verità, ma i relativi sistemi di comunicazione sono particolarmente soggetti a regolamentazione. Li è il contrario di ciò che si predica: la massimizzazione della verità avviene regolando, piuttosto che lasciando ognuno libero di dire la sua.
Editori e referees impongono stringenti criteri di regolamentazione per accettare i manoscritti. E i tentativi di “parlare” in questi forum sono spesso rigidamente controllati.
Per dire che questi esempi non contano, dovremmo escludere dalla nozione di mercato, dal suo ambito, tutto il novero delle idee scientifiche, la cui divulgazione è tutt’altro che rimessa alla libertà del mercato. Ma cosi facendo, dovremmo escludere dal mercato anche la circolazione di determinate intere classi di opinioni, ad esempio quelle offensive, che certamente sono vietate e soggette a rettifica, non già libere.
Nè mi pare significativa obiezione quella per cui, in astratto, queste classi di opinioni (offensive o aggressive) sarebbero meglio controllate in un libero mercato piuttosto che dalla reazione di una sanzione. Se si ammette che comunque si tratta di classi di speech che è auspicabile vietare allora la deterrenza fornita dal sistema delle sanzioni è di certo maggiore di quella che può derivare dal diritto di replica, sempre nell’ottica della efficienza del mercato stesso.
Se dovessimo intendere quello delle idee come un mercato vero e proprio, dove dovrebbe vigere la più ampia libertà possibile di dire e contraddire, il modello di riconoscimento sarebbe costituito da un produttore ed un consumatore, dove chi esprime l’opinione è il produttore e chi la riceve il consumatore.
I sostenitori della teoria economica dovrebbero allora consentire che in un mercato competitivo i messaggi dovrebbero essere prodotti e consumati in modo da massimizzare la verità, o meglio, che in assenza di regolazione si realizza un maggiore livello, socialmente aggregato, di verità. Ossia, se è vero che i mercati competitivi spingono verso la consumazione di prodotti migliori, questa condizione dovrebbe valere anche per l’arena intellettuale.
Il limite di questa visione è di ritenere applicabile gli effetti del libero mercato sulla qualità dei prodotti anche a “prodotti” come una tesi o un’opinione, la cui verità o falsità è precostituita rispetto al mercato, e non può certo dipendere dalla competizione tra opinion makers.
Falsità e verità di una tesi sono caratteristiche del “prodotto” indipendenti dal mercato e preesistenti a quest’ultimo. Difficile allora ammettere che il mercato può spingere verso una migliore qualità del prodotto quando quest’ultimo ha qualità intrinseche (l’essere vero o falso) che non dipendono dal mercato e sono insuscettibili di mutare ad opera della concorrenza.
Del resto, la teoria economica del mercato libero non può fare a meno di considerare le preferenze del consumatore: l’idea di efficienza economica è nel senso che il sistema dovrebbe rispondere alle esigenze dei consumatori piuttosto che produrre beni nella maggiore quantità possibile, non importa quali siano le preferenze dei consumatori. E la conseguenza non può essere che l’orientamento della produzione di idee nel senso desiderato dai consumatori, che potrebbero non preferire la verità ai suoi surrogati.
Ed anche ammesso che si dia per provato che il consumatore preferisce la verità ad altri surrogati, per poter scegliere la notizia vera e preferirla a quella falsa egli deve essere informato preventivamente.
Pare difficile ammettere allora che l’arena della informazione e della circolazione delle idee possa paragonarsi ad un mercato dei beni e rispondere alle regole di quest’ultimo.
4. Veramente non ci sono fatti ma solo interpretazioni?
Altro argomento, dal piglio più scettico, è che vietando le menzogne, meglio pensando di vietare le menzogne, si finisce per vietare anche la verità. E’ una tesi sfruttata dai propagatori di narrazioni ingannevoli, che hanno trovato l’alibi della falsità: “la versione alternativa dei fatti”. Una tesi non è necessariamente falsa, è semplicemente alternativa a quella ufficiale. La politica regressiva fa affidamento sulla negazione della oggettività attraverso la creazione di narrazioni alternative imposte dalla ufficialità: il governo turco ufficialmente nega il genocidio di 1 milione e mezzo di armeni, sul presupposto che nessuna nazione ha il diritto di imporre una egemonica visione dei fatti del passato e che una visione alternativa è sempre possibile.
In alcuni casi la negazione dei “fatti” è affermata come una forma di emancipazione da narrazioni imposte. Rispondono a questa strategia, ad esempio, le forme diverse di negazionismo, compresa la negazione dei genocidi.
Ed ancora, questa retorica non è solo ad uso di strategie politiche[31], ma anche di interessi che servono al potere economico, o a scienze alternative a quelle ufficiali, e su quest’ultimo punto basta citare la vicenda dei vaccini.
Giocano quindi un ruolo determinante alcuni fattori. Da un lato, la propaganda politico- culturale secondo cui una visione diversa dei fatti è una forma di emancipazione da narrazioni ufficialmente imposte; dall’altra che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”.
Oggi molti pubblici e privati attori sono vieppiù preoccupati degli effetti che questo post-fattualismo può avere sull’etica e sulla stessa epistemologia.
Possiamo dire che esiste una chiara distinzione tra i fatti e loro interpretazioni? Non voglio ovviamente avventurarmi qui in una questione cosi complessa. Ne riassumo un particolare aspetto per gli scopi di questo articolo: secondo alcuni realisti, e tra questi il filosofo John Searle, altro è il piano epistemologico che ha a che fare con la conoscenza dei fatti, altro è il piano ontologico che invece ha a che fare con l’esistenza dei fatti.
Quest’ultimo, il piano ontologico, ossia quello che riguarda l’esistenza dei fatti, precede quello epistemologico, ossia quello relativo alla conoscenza che noi possiamo avere dei fatti stessi. Il fatto può esistere senza che noi lo sappiamo. Che vi sia neve sulla cima dell’Everest è un fatto, anche se noi non lo conosciamo, e mai abbiamo visto la neve in quel posto. E’ per quello, che secondo Searle, noi dobbiamo distinguere i fatti dai giudizi su di essi. Possiamo essere in disaccordo sull’essere stato Rembrandt il più grande pittore vivente, ma non possiamo essere in disaccordo sul fatto che è nato nel 1606.
Quando alcun scienziati Francesi che lavoravano sulla mummia di Ramses II (morto nel 1213 a.c.) conclusero che era morto di tubercolosi, Bruno Latour[32] negò che ciò potesse essere possibile, dal momento che il bacillo della tubercolosi fu scoperto da Koch nel 1882, e che dunque era giocoforza ammettere che prima di Koch il bacillo della tubercolosi non esisteva. Ossia: non lo si conosceva (piano epistemologico) e dunque non esisteva (piano ontologico), ed i due piani vengono fatti coincidere. Quella di Latour è ovviamente una provocazione, che però dimostra la strategia del costruttivismo (i fatti non sono quelli che esistono, ma quelli socialmente costruiti) di far coincidere i fatti con la conoscenza che noi ne abbiamo. In realtà il bacillo venne solo scoperto nel 1882, ma esisteva sin da prima.
Davanti a questa che sembra una lineare posizione, si obietta che in realtà non è cosi facile distinguere tra il piano ontologico (l’esistenza dei fatti) e quello epistemologico (la loro interpretazione e conoscenza). E prescindo qui dalla obiezione che anche l’ontologia è, a sua volta, un discorso sull’essere: mi porterebbe troppo lontano e non è il caso.
Ma torniamo alla costruzione sociale della realtà, per quello che può qui servirci: che Rembrandt sia nato nel 1606 dipende dalla convenzione sociale che si segue, ossia quale è il calendario adottato (che è, per l’appunto, una convenzione sociale), cambiando il quale (Gregoriano, Cinese, Islamico) cambierà anche la data di nascita.
Inoltre, sostengono i costruttivisti, anche frasi che sembrano di intuitiva evidenza, e che sembrano rispondere al senso comune come “Parigi è la capitale della Francia”, oppure “queste sono le mie mani” sono solo apparentemente obiettive, e sono persuasive in quanto sono inserite in una stretta rete di convenzioni sociali.
Questa sorta di relativismo ha una conseguenza che ci interessa da vicino. Anziché portare ad una maggiore apertura di opinioni, il relativismo mette il bavaglio alla critica e porta alla regressione; sotto la scusa di favorire l’interdipendenza, il relativismo promuove l’egemonia: a furia di dire che “qualsiasi cosa si dice è sostenibile”, si arriva anche a dire che quella qualsiasi cosa è anche giusta.
E’ il caso di dire che qui non si discute della idea che si accede al mondo attraverso schemi concettuali e rappresentazioni, si tratta di prendere atto che il mondo è esso stesso una costruzione sociale, e nemmeno tanto la più onesta possibile. Forse la più conveniente nella circostanza. Il punto è che esiste un pubblico di cicisbei, che ora è facilmente raggiungibile, e che è disposto a credere a qualsiasi cosa gli si dica, e comunque di attori della scena pubblica incapaci di fare uso di ciò che sanno per comprendere la realtà e giudicarla, quello che si chiama analfabetismo funzionale. Questa triste realtà alimenta la divulgazione di tesi sospette di demagogia, e facilmente accettate come verità nuove ed emancipative. Una delle ragioni di successo delle fake news è nella propaganda emancipativa che le accompagna: la nuova ed alternativa versione dei fatti è presentata come una liberazione dalla dogmatica del pensiero tradizionale che ha fatto credere la sua versione per interessi di casta. Ma non è solo un problema dei cicisbei.
A metà degli anni settanta, l’epistemologo P. Fayerabend ha sostenuto che non esiste un metodo privilegiato per la scienza, in quanto i metodi della conoscenza sono tanti ed incommensurabili tra loro, al punto che non è affatto detto che la Chiesa era nel torto a condannare Galileo. E fino a qui potrebbe non esservi scandalo. Fayerabend propagandava la tesi dell’anarchismo metodologico, e comunque ammetteva che, con il senno di poi, Galileo aveva ragione.
Tuttavia, a noi interessa mettere in luce che questo retroterra ideologico ha avuto chi lo ha sfruttato abilmente per demistificare i “fatti” e ridurli a semplici opinioni, ma secondo un criterio per cui qualsiasi cosa si dice va comunque bene.
E non è un caso, sia detto sempre con deferenza verso l’interessato, se Papa Benedetto XVI ha sfruttato Fayerabend per annunciare che anche gli epistemologi hanno convenuto che la Chiesa in fondo non avesse proprio torto nel condannare Galileo[33].
Peggio forse ha fatto il filosofo francese Jean Baudrillard a sostenere che la guerra del Golfo altro non era che una finzione televisiva [34].
Sappiamo che gli ideologi sono come gli apprendisti stregoni, le cui azioni patiscono l’eterogenesi dei fini, e quella che doveva risolversi in una emancipazione dalla tradizione e dalle narrazioni moderne, è diventata una emancipazione dalle competenze e dallo sforzo di capire e verificare i fatti: “ignorante è bello” è uno slogan che oggi si può, senza esagerazione, assegnare ai movimenti populisti che prescindono dai fatti e che ne propongono versioni libere, tanto una qualsiasi va bene comunque. Trump, che li conosce bene, in una pubblica manifestazione in Nevada, non ha fatto mistero di preferire gli ignoranti (poorly educated)[35].
C’è una estetica della post verità che si pratica nell’esibire con orgoglio la propria disaffezione ai fatti, o forse, meglio, la propria incomprensione degli stessi.
Mi pare allora non eccessiva la prudenza di alcuni filosofi. Secondo Boghossian se la tesi della Eguale Validità, ossia la tesi secondo cui i fatti possono leggersi in tanti modi diversi, e non importa come fondati, fosse vera, allora non staremmo commettendo solo un errore filosofico a difendere l’oggettività dei fatti, ma staremmo fraintendendo anche i principi in base ai quali organizziamo la società[36].
Che la premura non sia eccessiva è presto detto. Le fake news non sono affatto l’esito del costruttivismo, ossia di visioni del mondo che negano l’oggettività, in nome di significati socialmente costruiti, ma sono un esito non bene calcolato del costruttivismo medesimo.
Le costruzioni sono credenze. In sostanza quando diciamo che un fatto è costruito (più spesso “socialmente costruito”) intendiamo dire che non è trovato nella realtà, ma che è stato creato intenzionalmente da qualcuno. Ma anche quando il fatto è creato secondo l’intenzione di qualcuno, ha a suo supporto ragioni pratiche o ragioni epistemiche. Queste ragioni supportano le visioni del mondo costruttivistiche rendendole diverse da quelle assolutamente infondate. Le ragioni pragmatiche e quelle epistemiche possono presentarsi separatamente, e tuttavia avere il loro buon peso. Ad esempio, secondo Blaise Pascal una prova della fondatezza della credenza che Dio esiste è di tipo pragmatico. Siccome se si crede si evita l’Inferno, ad un basso costo (evitare di peccare gravemente non costa poi tantissimo), allora conviene credere piuttosto che non credere: questa è una ragione pragmatica per sostenere la credenza. Invece se credo che Giove ha un certo numero di lune satelliti e lo affermo perché asserisco che ho usato uno speciale telescopio per avvedermene, allora la mia credenza ha, a suo favore, una ragione epistemica.
E questo è un risultato cui anche i costruttivisti devono attenersi. Si può anche negare l’oggettività dei fatti, ma nel momento in cui si sostituisce a quella oggettività, la credenza, il relativismo delle versioni intorno a quei fatti, non si può fare però a meno di fondare anche quel relativismo su ragioni credibili, cosi che le notizie che non rispettano alcuna ragione credibile, non possono che dirsi false anche dal punto di vista del costruttivista.
Tra le visioni costruttiviste del mondo c’è il diritto. Spesso non solo le regole giuridiche, ma gli stessi fatti, per il diritto sono costruzioni. Meglio: il diritto è un performativo, produce la verità non l’accerta.
Una volta però che il fatto è ritenuto dal diritto come accertato, ogni versione contraria è preclusa. Anche qui c’è dunque una ragione epistemica per credere in quel fatto. Se è accertato giudiziariamente c’è una ragione per crederci, che sarà più forte di quella contraria, salvo che questa non sia basata a sua volta su ragioni altrettanto forti e convincenti, ma se lo sarà, evidentemente anche essa avrà ragioni epistemiche a suo vantaggio.
Se dovessimo allora provare una delimitazione di fake news dovremmo dire che si tratta di ogni teoria o versione dei fatti, che non ha al suo attivo alcuna ragione pratica o epistemica.
5. Twitter ed il private enforcement. Brevissimo dubbio.
In conclusione, la regolazione del “mercato delle idee” è non solo un fatto, una realtà praticata per classi di opinioni diverse, ma risponde anche a modelli teorici attendibili di affermazione della verità.
Lasciare che Twitter se ne occupi, o affidare al potere pubblico la regolamentazione?
Private o public enforcement? Ammesso dunque come legittimo il controllo, anche preventivo, sulle opinioni rivolte al pubblico, chi deve attuarlo?
Si può anche dire che Twitter non ha diritto di impedire a Trump di parlare e che, pur essendo una società privata, la sua azione interessa l’etica pubblica, ne è parte integrante, per cui solo un pubblico potere può regolamentare chi sui social può esprimersi ed in che termini.
Resta il fatto, di rilevo storico, che i social media oggi sono la smentita della dottrina del libero mercato delle idee, e soprattutto di quella errata, quanto interessata, forma di scetticismo sulla possibilità di accedere ai fatti, che impropriamente si serve della formula nietzschiana “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”[37].
[1] I lettori avranno intuito quanto poco rispettosa del principio di offensività possa essere, in Italia, una repressione simile, specie se colpisca ogni genere di vanteria curriculare: quelli più malevoli avranno ipotizzato riferimenti ad accidentali frequentatori di Università che se ne proclamano docenti chiamati per fama, ma omnia munda mundis.
[2] United States v. Alvarez 132 S. Ct. 2537, 2551 (2012)
[3] E qui capisco i lettori della nota 1: se uno, avendo accidentalmente avuto accesso alla biblioteca della Columbia University, ne trae ragione per dichiararsi professore emerito di quell’Ateneo, lo fa senza rivolgersi ad alcun elettore, è questione pubblicamente non rilevante.
[4] United States v. Alvarez, at 2556.
[5] Segnalo per una rapida ricognizione R.L. HASEN, A Constitutional Right to Lie in Campaigns and Elections? , in Montana Law Review, 2013, p. 53 e ss.
[6] Salvo ulteriori riferimenti oltre, v. A. GOLDMAN e J. COX, Speech, Truth and Free Market for Ideas, in Legal Theory, 1996, pp. 1-32.
[7] J. MILTON, Aereopagitica: A Speech for the Liberty of Unlicens’d Printing, to the Parliament of England, 35 (1644), p. 49.
[8] ) J. MILTON, op. ult. cit., pp. 45-46, tesi questa condivisa in tempi più recenti da Aaron DIRECTOR, The Parity of the Economic Market Place, in Journal of Law and Economics, 10, (1964), p. 5, dove si legge
[9] ) J. MILTON, op. ult. cit., p. 43.
[10] ) Anche se, per la prima volta, in una decisione giudiziaria il termine Marketplace of Ideas, è stata utilizzata dal giudice W.J. Brennan Jr. in Lamont v. Postmaster General of United States, 381 U.S. 301 (1965).
[11] ) Abrams v. United States, 250 U.S. 616, 624 (1919)
[12] ) H. E. WILLIS, Hugh E., Freedom of Speech and the Press, in Indiana Law Journal, vol. 4, 1929, pp. 445-455; H.F. GOODRICH, Does the Constitution Protect Free Speech, in Michigan Law Review, vol. 19, 1921, pp.. 487-501; K. L. LLEWELLYN, Free Speech in Time of Peace, in Yale Law Journal, vol. 29, 1920, pp. 337-344; F.B. HART, Power of Government Over Speech and Press, in Yale Law Journal, vol. 29, 1920, pp. 410-428; M.G. WALLACE, Constitutionality of sedition Laws, in Virginia Law Review, vol. 6, 1920, pp. 385- 399; ma contra, Sir F. POLLOCK, , Abrams v. United States, in Law Quarterly Review, vol. 36, 1920, pp. 334-338.
[13] Abrams v. United States, cit., 630.
[14] Ne riferisce M. COOPER nel New York Times del 31 agosto 2012
[15] Red Lion Broadcasting Co. v. FCC 1969:390
[16] Beauharnis v. Illinois, 343, U.S. 250, 286 (1952)
[17] Brown v. Hartlage, 456 U.S. 45, 102 S. Ct. 1523, 71 L. Ed. 2d 732, 1982
[18] Washington ex rel. Public Disclosure Commission v. 119 Vote No! Committee, 957 P.2d 691 (Wash. 1998)
[19] Mills v. Alabama, 384 U.S. 214, 218 (1966).
[20] E si tratta di: ALASKA STAT. § 15.13.095 (2010); COLO. REV. STAT. § 1-13-109 (2012); FLA. STAT. ANN. § 104.271 (2008); LA. REV. STAT. ANN. § 18:1463 (2012); MASS. ANN. LAWS ch. 56, § 42 (2001); MINN. STAT. § 211B.06 (2010); MISS. CODE ANN. § 23-15-875 (2007); N.C. GEN. STAT. § 163-274(a)(7)-(8) (2011); N.D. CENT. CODE § 16.1-10-04 (2009); OHIO REV. CODE ANN. §§ 3517.21, 3517.22 (LexisNexis 2012); OR. REV. STAT. ANN. § 260.532 (2009); S.D. CODIFIED LAWS § 12-13-16 (2004 & Supp. 2012); TENN. CODE ANN. § 2-19-142 (2003); UTAH CODE ANN. § 20A-11-1103 (2010); WASH. REV. CODE ANN. § 42.17A.335 (West 2012); W. VA. CODE ANN. § 3-8-11 (LexisNexis 2011); WIS. STAT. ANN. § 12.05 (West 2004).
[21] E sono, in particolare, le legislazioni di COLO. REV. STAT. § 1-13-109; LA. REV. STAT. ANN. § 18:1463; MASS. ANN. LAWS ch. 56, § 42; OHIO REV. CODE ANN. § 3517.21; UTAH CODE ANN. § 20A-11-1103; W. VA. CODE ANN. § 3-8-11(c); WIS. STAT. ANN. § 12.05
[22] MISS. CODE ANN. § 23-15-875.
[23] E' il caso della legge dell’Alaska (ALASKA STAT. § 15.13.095).
[24] FLA. STAT. ANN. § 104.271
[25] v. McIntyre v. Ohio Elections Comm’n, 514 U.S. 334, 347 (1995) in cui si è deciso che << the First Amendment has its fullest and most urgent application precisely to the conduct of campaigns for political office” >>
[26] V. C. FRIED, The New First Amendment Jurisprudence: A Threat to Liberty, 59 University of Chicago Law Review, 225, 1992, p. “In political campaigns the grossest misstatements, deceptions, and defamations are immune from legal sanction unless they violate private rights . . . .”.
[27]Come in W. SHAKESPEARE, Il mercante di Venezia, Atto secondo, scena, 2
[28]F. HAIMAN, The Remedy is More Speech, in American Prospect, June 1991, p. 12; la Corte di Washington in Rickert v. State, 168 P 3d 826, 855-856, conclude nel senso che il miglior rimedio contro il dire non vero è dire di più.
[29] A. GOLDMAN, False campaign advertising and the <> Standard, in 82, Tu. Law Review, 2008, p. 889 e ss.
[33] A. Director, The Parity of the Economic Market Place, in Journal of Law and Economics, (10), 1964, p. 5
[32] Donald Trump ha spesso sostenuto che il riscaldamento globale è una invenzione dei cinesi per rendere meno competitive le industrie americane.
[33] B. LATOUR, “Ramses II, est-il mort de la tuberculose?” La Recherche, 307 (March, 1998).
[33 ] J. RATZINGER, Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, Edizioni Paoline, Milano, 12, p. 76-79
[34] J. BAUDRILLARD, Un delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? (trad. it), Milano, Raffaello Cortina, 1996.
[35] La battuta è riportata dappertutto, compresa registrazione video su YouTube. Tra i tanti siti https://eu.usatoday.com/story/news/politics/onpolitics/2016/02/24/donald-trump-nevada-poorly-educated/80860078/
[36] P.A. BOGHIOSSIAN, Paura di conoscere, (trad. it.), Roma, Carocci, 2006, p. 21.
[37] F. NIETZSCHE, Frammenti Postumi 1885-1887 ( trad. it. e cura di G. Colli e M. Montinari) volume VIII tomo I delle Opere, Adelphi, Milano 1975. Dove è chiaro che il Nietzsche non negava affatto la realtà, ma intendeva altro: il passaggio dalla ontologia all’ermeneutica. I fatti non sono conoscibili e se anche li conoscessimo non sapremmo che farcene; molto meglio sapere cosa significano e dunque che uso possiamo farne; dall’essere al significato, dunque.
I limiti della giurisdizione amministrativa sui rapporti di concessione (nota a CGARS 16 ottobre 2020, n. 935 e Cons. St., sez. V, 17 dicembre 2020, n. 8100) di Saul Monzani
Sommario: 1. La concessione: fattispecie complessa tra la prospettiva “contrattualprivatistica” e la visione “unilateralpubblicistica”. - 2. I tratti distintivi della concessione: il trasferimento al concessionario del rischio economico e la necessità del mantenimento dell'equilibrio economico-finanziario. - 3. La giurisdizione sulla fase esecutiva del rapporto concessorio. I limiti della giurisdizione esclusiva indicati da Corte cost. 204/2004. - 4. La estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie sorte nella fase esecutiva del rapporto di concessione, con la sola esclusione delle questioni meramente patrimoniali. - 5. Conclusioni: la necessità di un criterio di riparto della giurisdizione certo in un'ottica di effettività della tutela.
1. La concessione: fattispecie complessa tra la prospettiva “contrattualprivatistica” e la visione “unilateralpubblicistica”.
L'istituto della concessione, intesa genericamente come provvedimento creativo di diritti o di situazioni giuridiche attive, consiste, con riferimento all'ambito amministrativo, in uno strumento con cui la pubblica autorità provvede indirettamente alla gestione di determinate attività di interesse collettivo agevolando e stimolando l'intervento privato tramite l'attribuzione ai privati di determinate facoltà relative all'utilizzazione di beni o alla gestione di imprese e servizi pubblici. In particolare, la concessione comporta un acquisto derivativo-costitutivo nel senso che il diritto del concedente si comprime e riduce, venendosi a riespandere nella sfera giuridica del concessionario, il quale acquista, pertanto, una posizione che deriva da quella del concedente, senza però subentrare del tutto nella titolarità del diritto o potere di quest'ultimo, ma acquisendo solo particolari facoltà[1].
In Italia, l'istituto della concessione è stato storicamente collocato, nei primi decenni dello Stato unitario, in una prospettiva contrattualprivatistica che comportava l'applicazione della normativa civilistica in tema di obbligazioni e contratti nonché il radicamento della giurisdizione del giudice ordinario[2]. In siffatta prospettiva, il rapporto di concessione presentava un carattere contrattuale, atteggiandosi a situazione giuridica per la cui creazione era necessario il concorso sinallagmatico della volontà della pubblica amministrazione e del privato, i quali, pertanto, erano chiamati a concorrere in posizione di parità giuridica all'instaurazione del rapporto, i cui effetti presupponevano, appunto, l'incontro di due volontà e le cui prestazioni erano collegate causalmente l'una all'altra[3].
Tale ricostruzione, in particolare, rispondeva ad esigenze di carattere non strettamente giuridico riconducibili alla necessità avvertita dallo Stato unitario, da un lato, di riconoscere il rilievo economico e politico dei concessionari, approntando un'adeguata tutela dei loro interessi, dall'altro lato, di assicurare la necessaria certezza e stabilità agli operatori che, proprio tramite lo strumento della concessione, consentivano lo svolgimento di attività indispensabili per lo sviluppo economico (realizzazione di infrastrutture, erogazione di servizi pubblici essenziali, conduzione di industrie che utilizzano risorse di spettanza pubblica).
Successivamente, a partire dalla fine dell'Ottocento del secolo scorso, in concomitanza con la progressiva emersione di un diritto pubblico-amministrativo nazionale, funzionale al rafforzamento dello Stato neo unitario attraverso strumenti d'azione autoritativi in grado di affermarne la sovranità, l'istituto della concessione amministrativa viene proiettato in una dimensione pubblicistica.
Da tale punto di vista, la concessione comincia ad essere vista quale mezzo di attribuzione ad un privato da parte dell'amministrazione pubblica, attraverso un atto autoritativo unilaterale, di un “vero nuovo diritto”[4]. In altri termini, secondo il punto di vista ora in considerazione, il rapporto concessorio viene ad esistenza tramite un atto costituito dalla sola volontà della pubblica amministrazione nel senso che le due dichiarazioni di volontà, ossia quella di quest'ultima e quella del privato, rimangono distinte dando vita, rispettivamente, ad un atto principale, di per sé stesso costitutivo del rapporto, e ad un atto dotato di rilievo solo come presupposto o come condizione di efficacia, a seconda che intervenga prima o successivamente all'atto di concessione[5].
Per tale via, viene ad essere ribaltata la tradizionale prospettiva contrattualprivatistica la quale fondava una situazione che era caratterizzata dai seguenti elementi: la considerazione della concessione come contratto costitutivo di diritti soggettivi pieni in capo al concessionario, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, il fatto che agli atti amministrativi incidenti sul rapporto di concessione non era riconosciuta la capacità di degradare la posizione soggettiva del concessionario, il fatto che la revoca per pubblico interesse obbligava l'amministrazione ad un indennizzo congruo che ristorasse economicamente il concessionario.
Diversamente, la tesi di matrice pubblicistica emersa in seguito ha disvelato un inquadramento opposto: in tal senso, si era giunti a ritenere che il provvedimento unilaterale di concessione fosse da considerare atto discrezionale fondante posizioni giuridiche soggettive assimilabili, quanto alla loro tutela, agli interessi legittimi, con relativa giurisdizione del giudice amministrativo. Inoltre, in siffatta prospettiva, il rapporto derivante dalla concessione era visto come modificabile e revocabile attraverso atti imperativi emanati dall'amministrazione concedente, senza obbligo di indennizzo, salvo casi particolari[6].
Successivamente, mentre la dottrina rimane “affezionata” all'idea dell'atto amministrativo unilaterale[7], la giurisprudenza, nel tentativo di incoraggiare gli investimenti privati rispetto allo svolgimento di funzioni di interesse pubblico, fornisce una precisazione delle tesi “unilateralpubblicistiche” medesime, giungendo ad individuare due distinti segmenti all'interno della fattispecie concessoria: un atto di sovranità, dapprima, e la stipulazione di un vero e proprio contratto in un secondo momento, volto a regolare i profili patrimoniali in un contesto in cui l'amministrazione opera come contraente privato e ove sorgono obbligazioni e responsabilità, diritti e doveri giuridici la cui violazione è suscettibile di dar luogo ad azioni giudiziarie presso il giudice ordinario[8].
Si registra, così, tramite la costruzione giudiziale della concessione-contratto, una certa evoluzione, da un lato, verso la progressiva separazione del contratto dal provvedimento, con espansione del ruolo del primo e, di conseguenza, del diritto comune, e, dall'altro lato, verso la distinzione, sotto il profilo della giurisdizione, tra controversie in tema di atti autoritativi, affidate al giudice amministrativo, e di profili contrattuali, attribuite alla giurisdizione ordinaria, fino alla ricomprensione nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133 del Codice del processo amministrativo.
2. I tratti distintivi della concessione: il trasferimento al concessionario del rischio economico e la necessità del mantenimento dell'equilibrio economico-finanziario.
Ad influire sulla considerazione dell'istituto della concessione in ambito nazionale, è intervenuto anche l'ordinamento euro-unitario, il quale, fin dalla direttiva 71/305/CEE, ha definito la stessa come un “contratto” analogo a quello di appalto, con la sola peculiarità per cui la controprestazione dei lavori o dei servizi effettuati consiste, non in un corrispettivo in denaro, bensì nel diritto di gestire l'opera realizzata o i servizi svolti, traendone, per tale via, un utile economico (art. 3, punto 1).
Successivamente, la direttiva 2014/23/UE ha fornito, per la prima volta, una normativa di base da applicare uniformente alle concessioni di lavori e a quelle di servizi, le quali sono identificate, rispettivamente, come quei contratti a titolo oneroso in cui la pubblica amministrazione affidi l'esecuzione di lavori o l'espletamento di servizi ad un operatore economico a fronte di un corrispettivo a favore di quest'ultimo che consiste unicamente nel diritto di gestire l'opera realizzata o il servizio affidato, eventualmente accompagnato da un prezzo.
Ebbene, proprio in relazione all'elemento da ultimo evidenziato, un fattore che connota in via precipua l'istituto della concessione è stato individuato in ambito euro-unitario nel trasferimento del rischio economico di gestione al concessionario[9].
La giurisprudenza della Corte di giustizia risulta univoca nel senso appena indicato: in tale ottica è stato infatti specificato che “ai fini della qualificazione come concessione...è necessario che l'amministrazione aggiudicatrice trasferisca integralmente, o almeno in misura significativa, al concessionario il rischio nel quale essa incorre”[10]. Da tale punto di vista, il rischio di gestione deve essere inteso come rischio di esposizione all'alea del mercato, il quale può tradursi nel rischio di concorrenza da parte di altri operatori, di squilibrio tra domanda ed offerta, di insolvenza dei soggetti che devono pagare il prezzo dei servizi forniti, di mancata copertura delle spese di gestione mediante le entrate, di responsabilità per danni, mentre i rischi legati ad una cattiva gestione o ad errori di valutazione da parte dell'operatore economico non sono determinanti ai fini classificatori in considerazione, essendo insiti in qualsiasi tipo di contratto[11].
La giurisprudenza nazionale mostra di aver recepito l'orientamento predetto, venendo ad individuare, a sua volta, come elemento ritenuto distintivo della concessione il trasferimento del rischio economico in capo al privato, nell'ambito di un rapporto complessivo trilaterale che coinvolge l'Amministrazione concedente (che resta titolare della funzione trasferita), il concessionario e il pubblico[12].
Da un altro punto di vista, occorre osservare come l'ordinamento euro-unitarioo, tenendo conto che tramite l'istituto in esame il concessionario assume responsabilità e rischi in luogo della pubblica amministrazione, ha ritenuto di lasciare alle stazioni appaltanti una "ampia flessibilità" nel definire ed organizzare la procedura di selezione del concessionario stesso, pur nel rispetto dei principi generali di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza (considerando n. 68 ed art. 3 della direttiva 2014/23/UE,). In tale ottica, pare che la priorità per la pubblica amministrazione, nel caso delle concessioni, più che sul rispetto rigoroso di una precisa modalità di scelta del contraente, debba concentrarsi sull'esigenza di assicurare un "elevato livello di qualità, sicurezza, accessibilità e la promozione dell'accesso universale e dei diritti dell'utenza" (art. 2 della direttiva in questione)[13].
Nel nostro ordinamento, il vigente Codice dei contratti pubblici risulta maggiormente rigoroso rispetto al quadro normativo euro-unitario, giungendo, di fatto, ad una piena equiparazione tra concessioni e contratti in termini di procedura di scelta del contraente, con ciò eliminando quei margini di maggiore libertà nel campo delle concessioni rispetto agli appalti che ancora si rinvengono nel contesto europeo[14].
Tuttavia anche il legislatore nazionale sembra preoccuparsi che la prestazione di attività di interesse pubblico da parte del concessionario, proprio per garantirne la qualità, sicurezza e accessibilità, avvenga in un contesto di equilibrio economico-finanziario, ovvero di convenienza economica, intesa come capacità del progetto di creare valore nell’arco dell'efficacia del contratto e di generare un livello di redditività adeguato per il capitale investito, e di sostenibilità finanziaria, intesa come capacità del progetto di generare flussi di cassa sufficienti a garantire il rimborso del finanziamento" (art. 3, comma 1, lett. fff), del Codice dei contratti pubblici).
Così, la necessità di mantenimento dell'equilibrio economico finanziario viene a costituire un ulteriore elemento che caratterizza l'istituto in commento o, meglio, rappresenta il presupposto per la corretta allocazione del rischio operativo, quale aspetto, come si è visto, peculiare della fattispecie concessoria.
La posizione centrale che assume il predetto equilibrio nell'ambito della regolamentazione tra le parti, nonchè della garanzia circa la corretta prestazione nei confronti degli utenti dell'attività di interesse pubblico, è testimoniato anche dalla possibilità, da parte della stazione appaltante, di stabilire un prezzo (pur non superiore al quarantanove per cento del costo dell'investimento complessivo, comprensivo di eventuali oneri finanziari), consistente in un contributo pubblico ovvero nella cessione di beni immobili (art. 165, comma 2, del Codice) nonchè la previsione di un meccanismo di revisione dell'equilibrio economico-finanziario stesso, ove esso sia venuto meno per fatti non riconducibili al concessionario nel corso del rapporto concessorio (art. 165, comma 6, del Codice).
L'istituto concessorio, in definitiva, risulta permeato, nel suo complesso, da una dimensione e connotazione pubblicistica, costituendo uno strumento attraverso il quale vengono svolte, tramite un soggetto privato, funzioni di interesse pubblico direttamente nei confronti degli utenti ed instaurando un rapporto con essi.
Ne consegue che la pubblica amministrazione concedente è chiamata necessariamente a svolgere un'attività autoritativa in funzione di regolazione, non solo nella fase genetica del rilascio del titolo concessorio, ma anche e soprattutto per tutta la durata del rapporto, in cui deve essere garantita la rispondenza ai canoni del servizio pubblico dell'attività svolta, il che produce corrispondenti effetti anche in punto di giurisdizione, come ci si appresta ad illustrare.
3. La giurisdizione sulla fase esecutiva del rapporto concessorio. I limiti della giurisdizione esclusiva indicati da Corte cost. 204/2004.
Il profilo relativo alla giurisdizione sulle controversie che si collocano nella fase esecutiva del rapporto concessorio, con particolare riferimento alle disposizioni di cui all'art. 133, comma 1, lett. b), per quanto riguarda i beni pubblici, e lett. c) relativamente ai pubblici servizi, del Codice del processo amministrativo, è sempre stato dibattuto e controverso.
Come è noto, l'introduzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo risale al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840, poi trasfuso nel r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 – Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, con riferimento alle controversie in materia di pubblico impiego, le quali, in quanto caratterizzate da un intreccio indissolubile tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, sono state attribuite in blocco alla cognizione del giudice amministrativo, il quale, per tale via, è giunto a conoscere anche di questioni di diritto, ovvero di rapporti nel cui perimetro non vi era, o non vi era soltanto, esercizio di potere amministrativo[15].
La l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, all'art. 5, ricomprese nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di concessioni di beni o di servizi pubblici, che non riguardassero esclusivamente canoni e altri corrispettivi.
Successivamente, il Governo, esercitando la delega parlamentare conferita con la legge 15 marzo 1997, n. 59, emanava il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, i cui articoli 33, 34, 35, poi riformulati dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, "disegnavano" una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per blocchi di materie, con riferimento ai pubblici servizi nonchè all'edilizia e urbanistica, prevedendo una cognizione del giudice amministrativo estesa anche alle questioni patrimoniali conseguenziali, abilitandolo a disporre nelle controversie rientranti nelle predette materie il risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.
In tema, è poi intervenuta la paradigmatica sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004[16], la quale ha statuito l'illegittimità costituzionale dei caratteri attribuiti alla giurisdizione esclusiva attraverso gli interventi legislativi del 1998 e del 2000, ovvero l'incompatibilità con la Carta fondamentale di una giurisdizione esclusiva basata sulla pura e semplice presenza, in un determinato settore dell'ordinamento, di un rilevante pubblico interesse.
In tale ottica, si è rilevato che l'art. 103, comma 1, Cost., nel momento in cui dispone che "Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi", non ha conferito al legislatore ordinario un'assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, bensì gli ha riconosciuto il potere di indicare "particolari" materie, rispetto a quelle già devolute alla giurisdizione generale di legittimità, nelle quali la tutela contro la pubblica amministrazione investe "anche" diritti soggettivi. Ciò comporta, secondo la Consulta, che l'attribuzione alla cognizione del giudice amministrativo di una determinata controversia non può comunque prescindere dall'apprezzamento della concreta situazione giuridica soggettiva coinvolta. Ne consegue che la giurisdizione esclusiva presuppone, secondo la Corte, l'esercizio di un potere amministrativo, con la corrispondente insorgenza in capo al privato di una situazione di interesse legittimo, sia pure con riferimento ad fattispecie complesse in cui vengono in considerazione "anche" posizioni di diritto soggettivo. Viceversa, la cognizione del giudice amministrativo non potrebbe fondarsi esclusivamente sul dato oggettivo della ricomprensione in una determinata materia ritenuta, in generale, di interesse pubblico.
Con precipuo riferimento al tema dei pubblici servizi, la Consulta ha censurato il fatto che il riferimento ad una materia, quella dei pubblici servizi appunto, dai confini non compiutamente delimitati, e soprattutto ad ogni controversia che ricada in tale ambito presuppone un criterio di attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che prescinde del tutto dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte, radicandosi inammissibilmente la giurisdizione in questione sul dato, puramente oggettivo, del normale coinvolgimento del pubblico interesse in un dato settore[17].
Per effetto della predetta sentenza, la latitudine della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è stata precisata, secondo una formulazione giunta sostanzialmente intatta fino al vigente Codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (art. 133, comma 1, lett. c), in modo da ricomprendere, per quanto qui rileva, non tutte le controversie in materia di pubblici servizi, bensì le controversie relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore.
Sempre con riferimento alla giurisdizione riguardante le controversie in tema di concessioni di servizi, o anche di beni, pubblici, la giurisprudenza "tradizionale" ha ritenuto che la cognizione del giudice amministrativo si estenda tendenzialmente anche a tutta la fase esecutiva, ad eccezione delle sole questioni meramente patrimoniali che non coinvolgano alcun aspetto del contenuto del rapporto concessorio. In tale ottica, si è argomentato che la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste ogniqualvolta sorga una controversia che ponga in discussione il rapporto stesso nel suo aspetto genetico e funzionale sotto il profilo del corretto adempimento dei rispettivi diritti ed obblighi dell'Amministrazione e del concessionario, venendo comunque in rilievo, in tali ipotesi, l'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali da parte della prima[18].
D'altro canto, si registra, più di recente, l'emergere di una diversa posizione per cui le controversie relative alla fase esecutiva di una concessione sarebbero da devolversi alla cognizione del giudice ordinario, in quanto a quest'ultimo spetta di giudicare sull'esatto adempimento di diritti ed obblighi reciproci delle parti, e sui relativi effetti, svolgendo un'indagine che può contemplare anche la possibilità di valutare, incidentalmente, la legittimità degli atti amministrativi incidenti sulla determinazione del corrispettivo. In tale ottica, resterebbe ferma la giurisdizione del giudice amministrativo nella fase esecutiva nei casi in cui l'Amministrazione, successivamente all'aggiudicazione definitiva, intervenga con atti autoritativi incidenti sulla procedura di selezione del concessionario, ad esempio disponendone l'annullamento d'ufficio o comunque esercitando poteri autoritativi tipizzati dalla legge[19].
Quest'ultimo orientamento trarrebbe origine da quanto statuito con la sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale ed, in particolare, dall'affermato principio per cui la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo postula l'esercizio in concreto di un potere autoritativo, il quale, secondo la prospettazione ora in esame, difetterebbe, perlomeno in linea di principio, una volta esaurita la fase pubblicistica relativa alla scelta del concessionario e sia sorto, tra le parti, il vincolo contrattuale. In tale ottica, pertanto, nei casi in cui il petitum sostanziale che anima una controversia in tema di concessione riguardi l'accertamento del corretto adempimento alle obbligazioni assunte dalle parti nell'ambito del rapporto concessorio, anche ai fini del risarcimento del danno, non si ravviserebbe l'esercizio di alcun potere, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, al quale si può chiedere di valutare la corrispondenza al vero dei fatti dedotti a sostegno della domanda, di qualificarli giuridicamente e di trarne le conseguenze sul piano privatistico, vertendosi in tema di diritti soggettivi vantati in posizione di parità del privato concessionario nei confronti dell'Amministrazione concedente[20].
4. La estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie sorte nella fase esecutiva del rapporto di concessione, con la sola esclusione delle questioni meramente patrimoniali.
Contraddicendo le finalità che la stessa istituzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si propone di risolvere[21], la riserva al giudice ordinario delle sole questioni concernenti canoni, indennità e altri corrispettivi ha reso incerti i confini della giurisdizione in materia di concessioni, probabilmente anche per la difficoltà di isolare, in un qualunque contenzioso, la questione sul corrispettivo da contestazioni riguardanti in qualche modo il rapporto. Al di fuori dell’ipotesi del mero errore di calcolo o del comportamento meramente omissivo del pagamento, è difficile che questioni sull’an o sul quantum debeatur possano prescindere dall’accertamento del rapporto sottostante.
Le decisioni rese dal Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, con riferimento alle concessioni di servizi pubblici, nonchè dal Consiglio di Stato, in merito alle concessioni di beni pubblici, con le sentenze che si commentano con le presenti note, si segnalano per il deciso recupero della posizione “tradizionale”, incline ad estendere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alla fase esecutiva del rapporto concessorio, con la sola eccezione delle questioni meramente patrimoniali.
In primo luogo, si è ritenuto che nel momento in cui si assume come riferimento la concezione del contratto quale spartiacque tra fase pubblicistica e privatistica, nonchè tra giurisdizione amministrativa ed ordinaria, si finisce per offuscare la diversità di struttura tra appalto, da un lato, e concessione, dall'altro lato. In particolare, così facendo, non si terrebbero in debito conto le peculiarità che (tuttora) connotano quest'ultima, quale strumento attraverso il quale vengono svolte da un privato direttamente nei confronti dei cittadini funzioni di interesse pubblico, così da permeare il rapporto tra Amministrazione concedente, privato concessionario e utenti, in una dimensione triangolare, di forti caratteri pubblicistici, i quali non si esauriscono, come avviene nel caso dell'appalto, nella fase di selezione del contraente, ma permangono anche con riferimento al periodo di esecuzione, ove si tratta di assicurare la corretta erogazione o fruizione secondo i canoni del servizio universale, ovvero in una logica volta a garantire eguaglianza, imparzialità, continuità, diritto di scelta e partecipazione[22].
Nella prospettiva ora in esame, se non è dubitabile, applicando l'ordinario criterio di riparto della giurisdizione, che le controversie insorte nella fase esecutiva di un appalto siano da devolversi alla giurisdizione del giudice ordinario, fatto salvo solo l'esercizio, dopo la sottoscrizione del contratto, di un potere autoritativo che incida sul procedimento di selezione del contraente[23], tale regola non può essere riportata, pedissequamente, al diverso istituto della concessione.
A quest'ultimo proposito, il fatto che, su impulso del diritto euro-unitario, la differenza tra appalto e concessione si sia andata riducendo, costituendo entrambi un “contratto a titolo oneroso”[24], non legittima, secondo l'orientamento ora in considerazione, una completa assimilazione tra i due istituti, e ciò in quanto tale avvicinamento riguarda sostanzialmente il procedimento di selezione del contraente, o del concessionario, superando una precedente impostazione per cui quest'ultimo, almeno per quanto riguarda la concessione di servizi, poteva essere individuato secondo un meccanismo rispettoso dei principi generali in tema di evidenza pubblica ma non necessariamente attraverso un vero e proprio procedimento ad evidenza pubblica dettato con riferimento agli appalti. Ciò non toglie, però, che nella successiva fase esecutiva, pur se il Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 s.m.i. detta una disciplina simile in ordine a modifica e risoluzione del contratto di concessione rispetto a quello d'appalto, il ruolo della pubblica amministrazione si atteggi diversamente: quale appaltatore, alla stregua delle regole privatistiche, in un caso, quale soggetto concedente una pubblica funzione rivolta direttamente ai cittadini, nell'altro, con la conseguenza di non potere ragionevolmente assimilare completamente le due fattispecie.
Inoltre, la posizione confutata dall'orientamento in commento non è sembrata fedele al dato normativo in tema di giurisdizione esclusiva, ovvero con la scelta legislativa di cui all'art. 113, comma 1, lett. c), di devolvere alla cognizione del giudice amministrativo le controversie in materia di concessioni di pubblici servizi, con specifico riferimento, tra gli altri aspetti, anche alla attività di “vigilanza e controllo nei confronti del gestore”, la quale, evidentemente, si esplica nella fase esecutiva del rapporto di concessione, ad ulteriore riprova della necessità, già evidenziata, che la pubblica amministrazione concedente svolga un'attività autoritativa in funzione di regolazione per tutta la durata del rapporto concessorio, proprio al fine di verificare costantemente la rispondenza ai canoni del servizio pubblico dell'attività svolta dal concessionario direttamente nei confronti degli utenti.
In altre parole, si registrerebbe, nel campo così delineato, quella commistione indissolubile tra posizioni di diritto soggettivo in capo al concessionario nella fase esecutiva del rapporto concessorio ed esercizio di potere autoritativo in funzione di regolazione da parte dell'Amministrazione concedente che rappresenta la ragione stessa della devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle questioni che sorgano in tale ambito.
Infatti, così come si è illustrato in precedenza, l'istituto della concessione si caratterizza per la compresenza, in maniera sostanzialmente inscindibile, sia di profili autoritativi che consensuali, di qui la costruzione della "concessione-contratto", la quale connota proprio la fase dell'esecuzione, con ciò rendendo arduo ogni distinguo tra posizioni giuridiche soggettive coinvolte[25] e così da giustificare la devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione esclusiva, quale istituto deputato a risolvere in radice ogni dubbio circa il giudice cui rivolgere la propria domanda di tutela o, in altri termini, ad "evitare la ricerca del giudice"[26].
Risulterebbe con ciò esclusa la possibilità di ritenere sussistente la cognizione del giudice ordinario sulle controversie che sorgano nella fase esecutiva di un rapporto concessorio, sul presupposto che in tale fase, come avviene per gli appalti, non vi possa essere esercizio di potere, se non quello, di carattere procedimentale, che venga esercitato con un provvedimento di secondo grado in relazione agli esiti della precedente fase di selezione del contraente. Dovrebbe cioè escludersi la possibilità di
ritenere che, una volta avviato il rapporto concessorio, le parti si trovino sempre in una posizione di parità, in quanto sarebbe precluso all'Amministrazione concedente esercitare un potere amministrativo, con la conseguente sussistenza di situazioni giuridiche di diritto soggettivo che, come tali, sarebbero da devolvere in caso di controversia alla cognizione del giudice ordinario, in ritenuto ossequio al criterio declinato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale per cui la sussistenza della giurisdizione amministrativa, anche in via esclusiva, postula comuque l'esercizio, in concreto, di un potere autoritativo.
Dalla peculiare struttura dell'istituto concessorio sembrerebbe potersi evincere che il potere autoritativo della pubblica amministrazione concedente permanga anche nella fase esecutiva, in funzione di regolazione, "saldandosi" in maniera indissolubile con il diritto soggettivo del concedente, così da generare quell'intreccio inestricabile tra diverse situazioni giuridiche soggettive che, si consenta di ribadirlo, costituisce la ragion d'essere della giurisdizione esclusiva.
Partendo dagli illustrati presupposti, il Consiglio di Giustizia Amministrativa, in tema di concessioni di pubblici servizi, si è espresso con riferimento ad una fattispecie in cui un'Amministazione pubblica comunale ha pronunciato la decadenza senza indennizzo della concessione in capo ad un gestore di parcheggi pubblici avendo ritenuto sussistenti inadempimenti quali il mancato adeguamento del capitale sociale del soggetto concessionario, come previsto nel programma economico-finanziario; la cessione dell'85% del capitale sociale della società concessionaria da parte della compagine controllante nell'ambito di un concordato preventivo con cessione di tutti i beni ai creditori che ha coinvolto quest'ultima, senza alcuna previa autorizzazione o comunicazione all'ente concedente; il venire meno, o comunque il ridimensionamento, delle garanzie prestate a favore del Comune concedente; la precaria situazione economico-patrimoniale della società concessionaria.
Prendendo atto di ciò, il collegio giudicante, "impregiudicata ogni valutazione in punto di fondatezza delle motivazioni addotte dal Comune" a sostegno del pronunciato, ed impugnato, provvedimento di decadenza, ha osservato che l'intervento dell'ente concedente è da ritenersi espressione del potere di controllo e vigilanza detenuto dal medesimo "al fine di assicurare alla collettività di riferimento la fruzione del servizio pubblico nei modi preventivati". In particolare, si è osservato che le tematiche della sostenibilità della concessione e di affidabilità del contraente coinvolgono l'interesse pubblico sotteso al rilascio di una concessione, in quanto costituiscono il presupposto della continuità dell'erogazione del servizio, nonchè della qualità con la quale il medesimo è espletato, il tutto in una prospettiva pubblicistica nella quale l'adeguatezza delle condizioni economico-finanziarie del concessionario risultano strumentali al perseguimento dell'interesse pubblico.
In definitiva, secondo la pronuncia ora in considerazione, l'Amministrazione concedente, nel pronunciare la decadenza dalla concessione, ha fatto uso di un potere autoritativo che si giustifica ed è finalizzato ad assicurare la continuità di un servizio pubblico, con conseguente giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla controversia con il concessionario che ne è derivata.
Una siffatta conclusione appare fruttodella considerazione delle peculiarità che connotano, rispetto all'appalto, l'istituto della concessione, tenendo conto di come quest'ultima instauri un "rapporto di diritto pubblico" fra Amministrazione concedente e concessionario, rivestendo, la prima, una posizione autoritativa che si compendia in una situazione di interesse legittimo del secondo. In tale prospettiva, si è argomentato che, in caso di concessione, la funzione pubblica non si esaurisce nel momento in cui, attraverso il provvedimento amministrativo di aggiudicazione della procedura ad evidenza pubblica esperita, venga individuato il concessionario, bensì, affondando le proprie radici in una riserva di amministrazione, quindi in un settore di interesse pubblico, la predetta funzione si estende alla regolamentazione e controllo della prerogativa concessa.
Così, la giurisdizione del giudice amministrativo in via esclusiva finisce per riguardare, secondo la sentenza ora in commento, tutta la fase esecutiva del rapporto concessorio, con l'unica eccezione delle controversie di carattere meramente patrimoniale che non abbiano alcuna implicazione sul contenuto del rapporto stesso, che però, come si è già detto, paiono in concreto difficilmente configurabili.
Il Consiglio di Stato, nella seconda sentenza che si segnala con le presenti note, esprimendosi su di una controversia relativa all'applicazione di una penale contrattuale da parte dell'Amministrazione concedente a carico del soggetto privato concessionario di un bene pubblico (nel caso una piscina comunale), ha preso le mosse dai medesimi presupposti rispetto a quanto statuito dal Consiglio di giustizia amministrativa, giungendo a conclusioni conformi ed, anzi, ancora maggiormente orientate ad enfatizzare il ruolo centrale dell'interesse pubblico nella regolamentazione, anche contrattuale, tra le parti di un rapporto concessorio avente ad oggetto un bene, o anche un servizio, pubblico[27].
Infatti, in ordine ai presupposti, i giudici amministrativi, nell'occasione in questione, hanno ribadito come la concessione di beni pubblici costituisca un istituto in cui è immanente l'interesse dell'Amministrazione concedente ad un corretto utilizzo e gestione del bene affidato in uso speciale al concessionario, con la conseguenza che alla prima devono ritenersi riservati i poteri autoritativi necessari ad assicurare che la gestione privata del bene rimanga coerente con il superiore interesse pubblico. Per tale via, secondo la posizione ora in considerazione, nella fase esecutiva del rapporto concessorio viene a fondarsi in capo al concessionario una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri autoritativi spettanti all'Amministrazione stessa.
Muovendo da tale ordine di idee, il Consiglio di Stato ne ha fatto conseguire che i rimedi spettanti all'autorità concedente per reagire all'inadempimento del privato concessionario non possono essere assimilabili a quelli spettanti alla parte di un contratto di diritto comune, anche se previsti nel testo contrattuale della concessione, tenendo conto, da questo punto di vista, che l'interesse pubblico può comunque essere perseguito attraverso l'utilizzo di strumenti privatistici (quali la previsione di una penale conseguente alla mancata apertura della piscina comunale nei termini previsti dal contratto di concessione).
5. Conclusioni: la necessità di un criterio di riparto della giurisdizione certo in un'ottica di effettività della tutela.
Nonostante l’esplicita previsione della giurisdizione esclusiva e delle questioni che rimangono riservate al giudice ordinario, il confine della giurisdizione in materia di concessioni continua a presentare profili d’incertezza.
Nel complesso e problematico quadro giurisprudenziale che si è in precedenza ricostruito, la soluzione che prospettano le sentenze commentate è quella secondo la quale, laddove la pubblica amministrazione concedente faccia valere le previsioni contrattuali al fine di regolare il rapporto con il concessionario nell'ottica di garantire la corretta erogazione del servizio, o la corretta fruizione del bene pubblico, da parte degli utenti, così perseguendo l'interesse pubblico, sia pure attraverso strumenti privatistici, le eventuali controversie che dovessero insorgere andrebbero comunque attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con la sola esclusione delle questioni di carattere meramente patrimoniale che non incidano su tale aspetto (destinate, pertanto, ad avere carattere residuale o addirittura "eccezionale", secondo quanto statuito dal Consiglio di Stato).
La precisazione espressa dal legislatore per cui sono da intendersi escluse dalla giurisdizione esclusiva in tema di concessioni (di beni o servizi) le (sole) dispute in materia di indennità, canoni ed altri corrispettivi varrebbe a circoscrivere l’ipotesi ai soli casi che non interferiscano minimamente con la funzione regolatoria attribuita all'Amministrazione.
L'interpretazione così proposta tende a collocarsi entro le coordinate emerneutiche dettate dalla Corte costituzionale nella paradigmatica sentenza n. 204 del 2004, trattandosi di devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo una particolare materia, ovvero quella relativa alle concessioni, di servizi o di beni, nella quale la tutela contro la pubblica amministrazione investe "anche" diritti soggettivi, ovvero quelli del concessionario sorti a seguito della stipulazione del contratto di concessione, ma, evidentemente, non solo, venendo in rilievo, come detto, pure il potere autoritativo di regolazione della pubblica amministrazione stessa, il quale si estende per tutta la durata del rapporto concessorio. Non si tratterebbe di devolvere al giudice amministrativo tutte le controversie che si collochino in tale materia, ma solo quelle che intercettino in qualche modo l'esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione, tenendo conto, però, che tale potere non si limita alla fase del selezione del concessionario, bensì si estende alla fase esecutiva relativamente alla prerogativa di regolazione e controllo spettante all'Amministrazione concedente.
Non si può fare a meno di sottolineare che l’allargamento della giurisdizione esclusiva a tutte le questioni che insorgano nella fase dell’esecuzione rende doveroso per il giudice amministrativo procedere all'accertamento diretto dai fatti, facendo uso dei strumenti istruttori introdotti dagli art. 63 ss. del Codice del processo amministrativo[28] evitando quanto più possibile di rifugiarsi in un sindacato sulla ragionevolezza della decisione amministrativa, il quale, assumendo come punto di riferimento la realizzazione dell'interesse pubblico, potrebbe celare il rischio di non garantire l'equidistanza del giudice dalle rappresentazioni delle parti[29].
Concludendo le riflessioni che si sono fin qui condotte, si può rilevare come il tema del riparto di giurisdizione sulle controversie insorte nella fase esecutiva di un rapporto di concessione di beni o servizi pubblici potrebbe probabilmente trovare, o meglio ritrovare, una composizione, a tutto vantaggio delle parti coinvolte e del loro diritto costituzionale ad una tutela giurisdizionale effettiva, recuperando lo spirito che aveva determinato l'introduzione dell'istituto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In tale prospettiva, occorrerebbe ricordare che l'istituzione della predetta giurisdizione mira a risolvere in radice i problemi di individuazione del giudice cui rivolgersi in quelle fattispecie caratterizzate da un intreccio indissolubile tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, il che avviene tipicamente, come si è cercato di illustrare, nel caso delle concessioni e con riferimento proprio alla fase esecutiva.
Da questo punto di vista, la verifica circa l'esercizio del potere amministrativo andrebbe comunque riferita più alla materia che alla singola controversia, nel senso di potere ammettere già in sede legislativa che in determinati, circoscritti, ambiti si ravvisa tipicamente una sovrapposizione tra diverse situazioni giuridiche soggettive che non consentono all'interprete di distinguere tra una e l'altra, pur non facendone derivare, in ossequio ai dettami espressi dalla Corte costituzionale, l'attribuzione in blocco alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di qualsivoglia controversia che ricada in un dato settore a prescindere dalla situazione giuridica soggettiva dedotta (tale regola appare rispettata, relativamente alle fattispecie esaminate nel presente commento, grazie all'esclusione, operata sempre in via legislativa sulla base di quanto statuito dalla Consulta, delle controversie aventi valenza esclusivamente patrimoniale, nel senso, pur residuale, fin qui indicato).
Per tale via, si potrebbe giungere ad un ridimensionamento del vivace dibattito che si rinviene in giurisprudenza sul tema, a tutto vantaggio del soggetto che chieda tutela giurisdizionale, al quale sarebbe bene offrire sul piano legislativo una regola di attribuzione della giurisdizione certa, che non vari a seconda del singolo caso e dello specifico apprezzamento che ne venga fatto in sede giudiziale, così come sta tuttora avvenendo nel panorama giurisprudenziale. , In tale modo, dovrebbe evitarsi di imporre una affannosa, difficile ed aleatoria ricerca del giudice cui rivolgere le proprie domande, la quale può impegnare il ricorrente per molto tempo prima ancora di potere discutere delle proprie richieste nel merito, rischiando di compromettere seriamente l'effettività della tutela. Quest'ultima, invero, declinata con precipuo riferimento al tema oggetto delle presenti riflessioni, presuppone, da un lato, una ragionevole tempestività nel rendere la decisione sulle domande proposte e, dall'altro, impone un'adeguata protezione delle specifiche situazioni giuridiche coinvolte, il che potrebbe e dovrebbe avvenire, perlomeno auspicabilmente, nell'ambito del giudizio amministrativo nelle materie e con riferimento alle controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva, secondo le coordinate che si è fin qui tentato di tracciare.
[1] E. Silvestri, Concessione amministrativa (ad vocem), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 371.
[2] Sul punto cfr. M. D'Alberti, Concessioni amministrative (ad vocem), in Enc. giur. Treccani, VIII, Roma, 1988, 1 ss. dello stesso A. si v. anche Le concessioni amministrative, Napoli, 1981.
[3] E. Silvestri, op. cit., 374.
[4] O. Ranelletti, Concetto e natura delle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Giur. it., 1894, IV, 7. Dello stesso A. si v. anche Id., Capacità e volontà nelle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Riv. it. sc. giur., XVII, 1894, 3, 315; Id., Facoltà create dalle autorizzazioni e concessioni amministrative, in Riv. it. sc. giur., XIX, 1895, 3; XX, 1895, 255; XXI, 1896, 77, 350; XXII, 1896, 177.
[5] E. Silvestri, op. cit., 374.
[6] In tal senso cfr. M. D'Alberti, Concessioni amministrative (ad vocem), cit., 2.
[7] A. Amorth, Osservazioni sui limiti all'attività amministrativa di diritto privato, in Arch. dir. pubbl., 1938, 455; M. Gallo, I rapporti contrattuali nel diritto amministrativo, Padova, 1936, 99 ss.; G. Miele, La manifestazione di volontà del privato nel diritto amministrativo, Roma, 1931, 31 ss.
[8] Cass. civ., 12 gennaio 1910, in Riv. dir. comm., 1910, 248. Nello stesso senso cfr. anche Cass. civ., 27 settembre 1915, in Foro it., 1915, I, 1379; Cass. civ., 20 febbraio 1925, ivi, 1925, I, 591.
[9] La direttiva 2014/23/UE, e conseguentemente, in ambito nazionale, il Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, segnatamente all'art. 3, comma 1, lett. zz), fanno specifico riferimento, quale elemento caratterizzante l'istituto della concessione, all'assunzione da parte del concessionario di un rischio "operativo", inteso come il rischio legato alla gestione dei lavori o dei servizi sul lato della domanda, ovvero in merito al numero di utenti che intendano usufruire dell'opera o del servizio, o sul lato dell’offerta, ossia relativamente ai costi, o di entrambi. Per effetto dell'assunzione del rischio in questione, in altri termini, non deve essere garantito a priori al concessionario il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi svolti, essendo il medesimo esposto alle fluttuazioni del mercato e ad una potenziale perdita che non sia puramente nominale o trascurabile.
[10] Corte di giustizia CE, sez. II, 10 novembre 2011, in C-348/10, Norma A SIA e altro C. Latgales planooanas regions, punto 45, in Foro amm. CdS, 2011, 3249. Nel senso che “si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest'ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione” cfr. Corte di giustizia CE, sez. III, 15 ottobre 2009, in C-196/08, Acoset, punto 39, ivi, 2009, 2211, nonché Corte di giustizia CE, sez. II, 18 luglio 2007, in C-382/05, Commissione CE c. Rep. ita, punto 34, ivi, 2007, 1999. Su quest'ultima pronuncia si v., per un ulteriore commento, C.F. Coduti, Appalto pubblico o concessione di servizi? La Corte enfatizza il criterio del rischio, in Rass. avv. Stato, 2007, 64 ss.; S.R. Masera, Appalto pubblico di servizi e concessione di servizi nella giurisprudenza comunitaria, in Urb. e app., 2008, 581 ss.
[11] Corte di giustizia CE, sez. II, 10 novembre 2011, in C-348/10, Norma A SIA e altro C. Latgales planooanas regions, punti 48-49, cit.; Corte di giustizia CE, sez. III, 10 marzo 2011, in C-274/09, Stadler, punti 37-38, in Foro amm. CdS, 2011, 741.
[12] Sul punto, tra le tante, cfr. Cons. St., sez. VI, 4 maggio 2020, n. 2810, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. V, 1 aprile 2019, n. 2128, ivi; Cons. St., sez. V, 21 marzo 2018, n. 1811, ivi; Cons. St., sez. VI, 16 luglio 2015, n. 3571, in Foro amm., 2015, 1987; Cons. St., sez. V, 9 settembre 2011, n. 5068, in Foro amm. CdS, 2011, 2782; Cons. St., sez. V, 6 giugno 2011, n. 3377, ivi, 1973; Cons. St., sez. VI, 15 maggio 2002, n. 2634, ivi, 2002. Nel medesimo senso cfr., di recente, anche T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 18 marzo 2020, n. 3371, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 20 gennaio 2020, n. 45, ivi; T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 28 novembre 2019, n. 5624, in Foro amm., 2019, 1891.
[13] In effetti, l'ordinamento euro-unitario lascia libera l'amministrazione aggiudicatrice di organizzare come meglio crede la procedura per la scelta del concessionario, fatto salvo il rispetto dei principi di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza nonchè degli obblighi applicabili in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro stabiliti dal diritto dell’Unione, dal diritto nazionale, da contratti collettivi o dalle disposizioni internazionali in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro (art. 30 della direttiva 2014/23/UE). Analogamente, anche per quanto riguarda i criteri di aggiudicazione, il legislatore europeo si limita a prescrivere il rispetto dei predetti principi generali (art. 41 della direttiva in commento), tramite la previsione di criteri "proporzionati, non discriminatori ed equi" (considerando n. 63), oltre a richiedere che essi "assicurino una valutazione delle offerte in condizioni di concorrenza effettiva in modo da individuare un vantaggio economico complessivo per l’amministrazione aggiudicatrice" (sempre ai sensi dell'art. 41 citato).
[14] Infatti, il Codice dei contratti pubblici vigente, pur avendo ribadito, all'art. 166, il "principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche" in merito alla procedura per la scelta del concessionario, prevede, all'art. 164, che alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, sia pure "per quanto compatibili", le disposizioni del codice stesso, relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione.
[15] La letteratura in tema di giurisidizione esclusiva è vastissima. Tra gli altri si v., sull'istituto in generale, F. Satta, Giurisdizione esclusiva (ad vocem), in Enc. dir., Milano, 2001, Agg., V, 594 ss.; P.M. Vipiana, Giurisdizione amministrativa esclusiva, in Dig. disc. pubbl., Torino, 1991, VII, 440 ss.; A. Romano, La giurisdizione amministrativa esclusiva dal 1865 al 1948, in Dir. proc. amm., 2004, 417 ss.; V. Parisio, A. Perini, (a cura di), Le nuove frontiere della giurisdizione esclusiva. Una riflessione a più voci, Milano, 2002; Aa.Vv., Evoluzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, Atti del XLVIII Convegno di studi di Scienza dell'Amministrazione.Varenna, Villa Monastero 18-20 settembre 2003, Milano, 2004; P. Sandulli, La tutela dei diritti dalla giurisdizione esclusiva alla giurisdizione per materia, Milano, 2004.
[16] Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204, in Giur. cost., 2004, 2181, la quale ha censurato la scelta legislativa di ricollegare la giurisdizione esclusiva del giudice amministativo all'intera materia dei pubblici servizi, senza distinguere, entro tale ambito, la natura delle posizioni giuridiche fatte valere, nonchè la scelta di estendere tale giurisdizione anche ai "comportamenti" della pubblica amministrazione nel campo urbanistico e/o edilizio, ovvero a fattispecie in cui non vi è esercizio di alcun pubblico potere. I commenti a tale storica sentenza sono molteplici: tra gli altri si v.: L. Mazzarolli, Sui caratteri e i limiti della giurisdizione esclusiva: la Corte costituzionale ne ridisegna l'ambito, in Dir. proc. amm., 2005, 214 ss.; C.E. Gallo, La giurisdizione esclusiva ridisegnata dalla Corte costituzionale alla prova dei fatti, in Foro amm. CdS, 2004, 1908 ss.; F. Satta, La giustizia amministrativa tra ieri, oggi e domani: la sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004, ivi, 1903 ss.; F.G. Scoca, Sopravvivrà la giurisdizione esclusiva?,in Giur. cost., 2004, 2209 ss.; C. Delle Donne, Passato e futuro della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella sentenza della Consulta n. 204 del 2004: il ritorno al "nodo gordiano" diritti-interessi, in Giust. civ., 2004, 2237 ss.; M.A. Sandulli, Un passo avanti e uno indietro: il giudice amministrativo è giudice pieno, ma non può giudicare dei diritti (a prima lettura a margine di Corte cost. n. 204 del 2004), in Riv. giur. ed., 2004, 1, 1230 ss.; F. Fracchia, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: un istituto che ha esaurito le sue potenzialità?, in Servizi pubblici e appalti, 2004, 3, 799; A. Travi, La giurisdizione esclusiva prevista dagli artt. 33 e 34 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, dopo la sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004 n. 204, in Foro it., 2004, 1, 2598 ss. Conformemente si v. anche Corte cost., 11 maggio 2006, n. 191, in Giur. cost., 2006, 1921, con nota di S. Lariccia, Alla ricerca dei provvedimenti amministrativi mediatamente riconducibili all'esercizio del potere pubblico: un nuovo avverbio per il dibattito tra i giudici, gli avvocati e gli studiosi della giustizia amministrativa italiana, ivi, 1935 ss., in cui si è statuito che "Conformemente ai principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004, deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del g.a. delle controversie relative ai comportamenti collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, mentre deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del g.a. dei comportamenti posti in essere in carenza di potere o in via di mero fatto". Sul punto, in tema di servizio di gestione dei rifiuti, cfr. anche Corte Cost., 5 febbraio 2010, n. 35, in Giur. cost., 2010, 432, con nota di F.G. Scoca, Riflessioni sulla giurisdizione esclusiva, ivi, 439 ss. nonchè di R. Croce, Sui confini della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ivi, 445 ss. nonchè Corte Cost., 12 maggio 2011, n.167, in Giur. cost., 2011, 2213.
[17] In senso critico rispetto alla regola di riparto della giurisdizione individuata dalla Corte costituzionale si v. tra gli altri, C.E. Gallo, La giurisdizione esclusiva ridisegnata dalla Corte costituzionale alla prova dei fatti, in Foro amm. CdS, 2004, 1908 ss., il quale sottolinea come, da un punto di vista concreto, il criterio in questione obblighi l'interprete ad inviduare nel singolo rapporto la sussistenza di una posizione di interesse legittimo o di diritto soggettivo, senza tenere conto che proprio la difficoltà di svolgere tale operazione ermeneutica in certe materie o comunque in certe situazioni costituisce la ragione che ha indotto alla istituzione della giurisdizione esclusiva. In altri termini, secondo l'A., nel caso in cui l'interprete sia in grado di giungere a definire se la posizione dedotta in giudizio abbia consistenza di interesse legittimo o di diritto soggettivo, allora non vi sarebbe più bisogno di ricorrere alla giurisdizione esclusiva, ben potendosi, a questo punto, individuare il giudice avente giurisdizione in base all'ordinario criterio di riparto. Sul punto, M.A. Sandulli, Un passo avanti e uno indietro: il giudice amministrativo è giudice pieno, ma non può giudicare dei diritti (a prima lettura a margine di Corte cost. n. 204 del 2004), cit., 1232, rileva come dalla presa di posizione della Corte costituzionale sembrerebbe di potersi ricavare che la giurisdizione esclusiva è costituzionale quando non si estende ai diritti soggettivi, sennonchè, l'art. 103 Cost. fa riferimento esplicitamente ai "diritti", per cui la pronuncia della Corte si rivolve, paradossalmente, nella "negazione stessa della giurisdizione sui diritti pur prevista dall'art. 103 Cost.".
[18] Cass. civ., sez. un., 9 agosto 2018, n. 20682, in Foro it., 2018, I, 3539, con nota di A. Travi, in cui si è ricondotta alla giurisdizione del giudice amministrativo una controversia in tema di inadempimento degli obblighi reciproci dedotti in un contratto di concessione. In tale occasione, il giudice della giurisdizione ha ritenuto che siano da devolvere alla cognizione del giudice amministrativo le controversie circa la durata del rapporto di concessione o la stessa esistenza di tale rapporto o la rinnovazione della concessione, con estensione a tutte le posizioni soggettive il cui riconoscimento postuli l'identificazione del contenuto del rapporto concessorio e con esclusione, viceversa, delle questioni vertenti sul compenso del concessionario che non abbiano dirette implicazioni sul contenuto della concessione. In conformità si v. anche Cass. civ., sez. un., 26 settembre 2017, n. 22357, in www.dejure.it, in cui si ribadisce la posizione per cui sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo laddove si tratti di controversia riguardante rapporti costituiti o modificati da provvedimenti amministrativi, mentre resterebbe al giudice ordinario la cognizione delle questioni meramente patrimoniali (nella fattispecie decisa, veniva ricondotta alla giurisdizione del giudice amministrativo una controversia in tema di risoluzione del contratto d'appalto per inadempimento del contratto di concessione da parte dell'Amministrazione con richiesta di condanna al risarcimento dei danni consequenziali). Viceversa, Cass. civ., sez. un., 18 giugno 2020, n. 11867, in www.dejure.it, ha ritenuto che le controversie attinenti alla sola rideterminazione dei canoni concessori, in applicazione di una cogente disposizione normativa, dovuti per la concessione d'uso di un bene pubblico, appartengono alla giurisdizione ordinaria, avendo ad oggetto diritti soggettivi a contenuto patrimoniale (nel caso di specie la Suprema Corte ha rilevato come l'azione del Comune si era concretizzata in un mero accertamento tecnico - peraltro, sulla base delle schede di calcolo delle superfici fornite dallo stesso concessionario, e, quindi, privo di alcuna discrezionalità - all'esito del quale il medesimo Comune aveva semplicemente provveduto all'aggiornamento della misura del canone da riscuotere). In tempi meno recenti si v., conformemente, Cass. civ., sez. un., 12 ottobre 2011, n. 20939, in Foro amm. CdS, 2011, 3068; Id., 24 giugno 2011, n. 13903, ivi, 2298; Id., 18 novembre 2008, n. 27333, in Giust. civ. Mass., 2008; Id., 12 gennaio 2007, n. 411, in Foro amm. CdS, 2007, 1123; Id., 23 ottobre 2006 n. 22661, ivi, 76; Id., 4 luglio 2006 n. 15217, ivi, 2006, 2999; Id., 11 giugno 2001 n. 7861, in Urb. e app., 2001, 1103. Nel senso indicato si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa: cfr. Cons. St., sez. V, 18 dicembre 2017, n. 5398, in Foro amm., 2017, 2398, in cui si è ribadito che "le controversie relative alle vicende del rapporto concessorio, nelle ipotesi di concessione di servizio pubblico, rimangono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche nella fase successiva alla stipula del contratto"; nello stesso senso anche Cons. St., sez. V, 4 settembre 2017, n. 4183, ivi, 1828. In tema di v. anche Cons. St., sez. II, 8 ottobre 2020, n. 5981, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si è affermata la giurisdizione del giudice amministrativo quando si tratti di una controversia che non attenga al mero obbligo di pagamento del canone, bensì che coinvolga l'apprezzamento discrezionale della pubblica autorità circa i parametri da applicare per la sua determinazione. In dottrina cfr. M. Ceruti, Il riparto di giurisdizione nell'esecuzione dei contratti pubblici: appalti e concessioni, in Urb. e app., 2018, 302; C. Mariani, Sul riparto di giurisdizione in ordine all'esecuzione della concessione del servizio pubblico di gestione di giochi pubblici, in Foro amm., 2016, 31; G.F. Nicodemo, Concessione di beni pubblici e giurisdizione: il g.a. conosce solo degli interessi legittimi, in Urb. e app., 2012, 4, 401; R. Proietti, Concessioni: resta il nodo-giurisdizione, in Dir. e giust., 2004, 44, 12.
[19] Cass. civ., sez. un., 8 luglio 2019, n. 18267, in Guida al diritto, 2019, 32, 30, la quale, "In tema di concessione di costruzione e gestione di opera pubblica e di concessione di servizi pubblici", ha individuato la seguente regola di riparto della giurisdizione: la giurisdizione del giudice ordinario in materia di concessioni si estende, oltre alle questioni riguardanti indennità, canoni ed altri corrispettivi, anche alle vertenze che sorgono nelle fase esecutiva del rapporto concessorio con riferimento ai profili di corretto adempimento dei reciproci obblighi e alle relative conseguenze risarcitorie, situandosi, tali controversie, in un rapporto paritetico tra le parti, salvo solo l'esercizio anche nella fase esecutiva di poteri autoritativi tipizzati dalla legge da parte dell'Amministrazione. Conformemente si v. anche Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2018, n. 32728, in Foro amm. CdS, 2019, 1215.
[20] In tal senso cfr. anche Cass. civ., sez. un., 25 febbraio 2019, n. 5453, in Diritto & Giustizia, 2019, 38, 4, con nota di A. Greco, Project financing: se si contesta la fase esecutiva è competente il giudice ordinario. Analogamente si v. anche Cass. civ., sez. un., 27 novembre 2019, n. 31029, in Foro amm., 2020, 398, in cui si è statuito che la controversia avente ad oggetto una sanzione amministrativa comminata da una ASL, sia pure "nell'ambito di vigilanza e controllo sulla congruità ed appropriatezza del servizio pubblico reso" da parte di una struttura privata operante in regime di accreditamento, va devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, "in quanto concerne prestazioni effettuate in esecuzione del rapporto, a carattere paritario e contenuto meramente patrimoniale, di concessione di pubblico servizio, non venendo in rilievo l'esercizio, da parte della pubblica amministrazione, di poteri autoritativi e discrezionali". In senso differente, ma sempre nel medesimo ambito, cfr. Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2020, n. 7646, in www.giustizia-amministrativa.it. Anche nel panorama della giurisprudenza amministrativa, comunque, si rinviene, di recente, la posizione "innovativa" per cui le controversie in ordine all'esatto adempimento del rapporto concessorio siano da devolvere alla cognizione del giudice ordinario, proprio perchè collocate nella fase privatistica di esecuzione del rapporto concessorio, senza esercizio di potere autoritativo: in tal senso si v. Cons. St., sez. V, 9 aprile 2020, n. 2348, in Foro amm., 2020, 806, resa in una fattispecie in cui si è ricondotta alla giurisdizione del giudice ordinario una controversia in tema di risoluzione per inadempimento di una concessione (di servizi pubblici) e ciò sulla base del presupposto per cui l'atto dichiarativo di intervenuta risoluzione è espressione di un potere di natura privatistica avente come effetto tipico lo scioglimento del contratto, così da incidere sul diritto soggettivo del concessionario alla prosecuzione del rapporto. Conformemente cfr. anche Cons. St., sez. III, 13 ottobre 2020, n. 6181, in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Sul punto cfr. C.E. Gallo, La giurisdizione esclusiva in materia di concessioni ridisegnata dalla Corte di Cassazione, in Dir. proc. amm., 2020, 505 ss.
[22] Secondo quanto previsto, per i servizi, da dir. p.c.m. 27 gennaio 1994 recante in tema di "Princìpi sull'erogazione dei servizi pubblici".
[23] Sul punto, tra le tante, Cass. civ., sez. un., 10 gennaio 2019, n. 489, in Guida al diritto, 2019, 14, 42; Cass. civ., sez. un., 5 ottobre 2018, n. 24411, in Foro amm., 2019, 1009, su cui si v. A.L. Ferrario, Giurisdizione amministrativa in materia di contratti della pubblica amministrazione: la giurisdizione esclusiva si arresta al provvedimento di aggiudicazione, in lamministrativista.it, 2018; Cons. St., sez. III, 12 febbraio 2020, n. 1084, in Foro amm., 2020, 235; Cons. St., sez. V, 24 gennaio 2020, n. 608, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. V, 19 aprile 2019, n. 2543, in Foro amm., 2019, 648.
[24] Così, Cass. civ., sez. un., 8 luglio 2019, n. 18267, cit., punto 5.3.
[25] Così C.E. Gallo, op. ult. cit.
[26] Così F.G. Scoca, Sopravvivrà la giurisdizione esclusiva?, cit., 2211.
[27] Rimarrebbero escluse dalle riportate riflessioni in tema di giurisdizione, secondo quanto espresso dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, le concessioni di lavori, da ritenersi, in ipotesi, assimilate all'appalto, sulla scorta dell'armonizzazione normativa di matrice euro-unitaria, con conseguente attribuzione al giudice ordinario delle controversie sorte in fase esecutiva. Sul punto cfr. anche Cons. St., sez. V, 16 gennaio 2013, n. 236, in Foro amm. CdS, 2013, 188.
[28] In tema si v., per tutti, A.M. Sandulli, Riflessioni sull'istruttoria tra procedimento e processo, in Dir. soc., 2020, 203 ss.
[29] Sul punto, F. Francario, Quel pastiacciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusione di un convegno di studi, in www.federalismi.it, 16 dicembre 2020, in cui l'A. ammonisce circa la necessità che la differenziazione, che pure rimane ferma, tra le situazioni giuridiche soggettive, possa e debba fondare una tutela differenziata nell'ambito del processo amministrativo. In altri termini, occorre evitare, nella prospettiva ora in commento, di perdere di vista la specificità delle tutele in una sorta di ibridazione che rischierebbe di mutuare il peggio e i limiti dell'una e dell'altra. Dello stesso A. si v. anche Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020. In tale ordine di idee, il Consiglio di Stato, nella sentenza commentata, ha ritenuto che la non riconducibilità dei poteri dell'Amministrazione a quelli propri di un rapporto paritetico, stante la immanenza dell'interesse pubblico sotteso all'attribuzione di una concessione, non si traduce in una diminuzione di tutela del contraente privato, bensì in un rafforzamento della medesima, tenuto conto della necessità che i provvedimenti adottati dall'autorità concedente in reazione dell'inadempimento del concessionario si collochino entro una cornice procedimentale che preluda ad una decisione adeguatamente motivata in punto di interesse pubblico perseguito nonchè all'esito di un contraddittorio con l'interessato.
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