ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ancora oggi “history involves comparison” e viceversa. Marina Timoteo in dialogo con Paolo Grossi in “Grammatiche del diritto”
di Mario Serio
In oltre un centinaio di pagine di un volume del 2020 intitolato “Grammatiche del diritto. In dialogo con Paolo Grossi” Marina Timoteo ha condotto in porto un'intelligente interlocuzione con uno dei sommi giuristi italiani viventi, Paolo Grossi, su numerosi temi che hanno costituito il cuore dell'opera di questo in alcuni decenni: ha così realizzato una molteplicità di risultati positivi ed utili. Il dialogo, che si è dipanato, in calibrata e snella continuità, lungo la via della storia giuridica dal medioevo ad oggi, letta attraverso l'interazione tra i due partecipanti, si è svolto assecondando una congrua serie di idee che guidano agevolmente il lettore. Idee che gettano una luce chiarificatrice sul fenomeno giuridico in generale. Esse, variamente e persuasivamente illustrate, si compendiano in alcuni fondamentali postulati, ciascuno lucidamente fatto affiorare. In primo luogo, il carattere storico del diritto viene elevata al rango dei suoi caratteri contraddistintivi , e la sua assenza ne pregiudicherebbe irreparabilmente la comprensione. Alla storicità indissolubilmente si accompagna, nella comune opinione dei conversanti, la centralità nella vicenda giuridica della persona umana e del sistema dei valori che ad essa nel tempo afferiscono. Questa visione rivela, ancora una volta secondo un pensiero da entrambi condiviso, il possesso di una solida caratura comparatistica, nel preciso senso che svolgimento in chiave storica di una ricerca giuridica ed effettuazione della stessa in funzione comparatistica sono attività intellettuali reciprocamente implicantisi, secondo la nota espressione di Maitland “History involves comparison”, da Gorla poi convertita nel suo opposto. Il discorso prosegue lungo la direttrice dello sviluppo del diritto dall'epoca medievale, da Grossi recuperata nel suo valore di recipiente comune di regole, anche di origine tradizionale, generalmente applicate in Europa, a quella moderna e contemporanea in cui fortemente avvertito è il rischio della cessione sempre crescente di quote del principio della solidarietà a favore della dimensione economica globale della società. Ed al riequilibrio di una rappresentazione così sbilanciata di essa anche sul versante giuridico deve intervenire la classe dei giuristi per ripristinare principii e valori ordinanti all'insegna anche di quelli costituzionalmente sanciti.
The volume written by Marina Timoteo “Grammatiche del diritto” bears a sub title “In dialogo con Paolo Grossi” which tells the whole story of how it was conceived and to what purpose. In fact, the Author has successfully sought to assert and fortify a number of relevant issues and related principles by way of a well conducted interview with one of the most eminent legal scientists in Italy, former Emeritus Professor of History of Law as well as Emeritus President of Corte Costituzionale. In it one can find the most challenging and characteristic features of Italian Law, as it has been developing from the Middle Ages through to the contemporary European scenario. Because it is history, as it has been made by single human beings and their deeds, that is a natural ingredient of the legal phenomenon with which it binds in order to give the reader a complete glimpse of what has happened in the legal world over the centuries. And this is also, according both to Marina Timoteo and Paolo Grossi, a distinguishing factor of all comparative researches which, from Maitland on to Gorla in Italy, mutually imply history and comparison. All along the stimulating interview one can find a common thread which turns out to be the guiding light of the reflections made by the two participants in the dialogue, i.e. the attempt to try and find the most profound changes in the legal world originated in Europe by the gradual transition from the Middle Ages, when ius commune europeum flourished, to the contemporary age. This is described by mutual agreement between Timoteo and Grossi as, on the one hand, being characterized by the prevalence of Statute law in Continental law, and, on the other hand, by the growing gap dividing the latter and the English common law, still faithful to its customary origins. The fruitful dialogue flows on to reach the conclusion that today in Europe there is a strong need to share a number of founding principles in order for values different from the pursuit of profit and aiming at solidarity to affirm themselves.
Ci sono opere nel settore giuridico che, indipendentemente dalle loro dimensioni, aggregano in sé il bandolo della matassa di una data disciplina sia rivolgendolo al capo che guarda al passato sia proiettandolo in avanti, verso i giorni e le generazioni che verranno. In altre parole, si tratta di opere a svolgimento e metodo storico che si inseriscono, attraverso il telaio che le sorregge, nel solco del pensiero, condensato nelle frasi riportate nel titolo, di Maitland e Gorla. In esse viene celebrata la compenetrazione tra i due elementi, storia e comparazione, che nessun giurista che coltivi i propri studi all'esterno dell'ordinamento domestico può permettersi il lusso di disgiungere tra loro se non a costo di menomare l'attendibilità della ricerca.
Le ragioni fondative di questa ormai irretrattabilmente acquisita connotazione metodologica (chè in chiave di metodo di lavoro si risolve la compenetrazione in parola[1]) appartengono ormai al patrimonio comune ai comparatisti e ad alcune illuminate schiere di storici del diritto e non vanno qui ripercorse, ma semplicemente recepite in quanto assodate ed apprezzate.
Quel che di volta in volta, di ricerca in ricerca, deve continuare a rimanere al centro dell'impegno culturale è la verifica dell'effettiva applicazione del metodo di cui si dice all'esame critico delle vicende giuridiche, siano esse considerate nella loro epifania di accadimenti, o nella astratta e generale disciplina di questi ultimi, o nella risposta trovata nella sede giudiziale, o nella ricostruzione dei fondamenti teorici. Ciascuno di questi fattori formanti quelle che si sono appena chiamate riassuntivamente vicende giuridiche non può, se si intende restare fedeli al metodo che abbina storia e comparazione, porsi ai margini del relativo criterio di indagine, approfondendo il percorso verso l'approdo definitorio nel tempo di ciascuna di esse.
Ma questo modo di procedere in direzione della conoscenza di un dato oggetto della scienza giuridica ben può giustificare il proprio grado di solidità accedendo ad un presupposto metagiuridico, la cui valorizzazione, come si vedrà, appartiene pienamente al metodo storico-comparatistico, ossia quello secondo cui la nozione di vicenda giuridica, nel significato lato prima precisato, è frutto generato da, o seme generatore di, una concreta esperienza riconducibile alla persona umana. Perché questa svetta come artefice e protagonista di ogni momento della storia e della manifestazione del diritto. Anche in questo intreccio risiede l'esaltazione della sua storicità, da cogliere ancor più plasticamente quando storia e manifestazione del diritto travalichino i confini nazionali per abbracciarne il disvelamento in altri ordinamenti.
L'idea, feconda e brillante, di Marina Timoteo di inglobare nello snello volume del 2020 felicemente intitolato “Grammatiche del diritto” i germogli del suo dialogo, meditato ed appassionato, con Paolo Grossi muove in modo pieno e dichiarato dalla concezione metodologica, culturale, epistemologica, fenomenica prima tratteggiata.
Ciò traspare sin dall'Introduzione in cui si enuncia, con la chiara nettezza che è propria della cifra scientifica dell'Autrice, il manifesto culturale del lavoro ed il preambolo al successivo dialogo. A pag. 11, infatti, si legge: “Il diritto anche quando è espressione del più sofisticato tecnicismo è incarnazione di storicità”. Affermazione di principio subito dopo coerentemente doppiata da un'altra, accuratamente diretta alla comparazione: “Per arrivare a cogliere l'identità storica di un'esperienza giuridica lo sguardo nella prospettiva della relazione è fondamentale. Il diritto comparato osserva i fenomeni giuridici in questa prospettiva”.
Ma il pensiero dell'Autrice raggiunge ulteriore profondità ed esibisce una sicura concezione dell'esistenza umana, protesa nella sua manifestazione giuridica, in forma storicistica nel passaggio di pagina 15 in cui si afferma:” Tutto è storia, (anche) il diritto è intimamente un fatto storico”.
Su quest'ultima osservazione vale la pena soffermarsi per ampliare, seppur incidentalmente, il tema dell'indagine che va esteso fino a ricomprendere quella venatura del pensiero che non può che ritenersi implicita nella frase prima riferita. Cogliere nel fenomeno giuridico la sua intima essenza storica, come ha fatto Marina Timoteo, significa qualificarlo come elevata espressione dell'agire umano, in quanto la storicità è attributo connaturale ad esso: ogni gesto, azione, condotta della persona è di per sé un fatto storico, grande o piccolo, destinato a rimanere impresso nella memoria ed a produrre conseguenze in sfere più o meno ampie. Ed allora, la locuzione acquista maggior respiro poiché manifesta la propensione dell'Autrice verso una nozione degli stretti rapporti tra storia e diritto indiscutibilmente orientata sul valore da conferire alla persona umana, che va collocata conseguentemente al centro della scena da osservare.
Su questa scia occorre, pertanto, proseguire nel considerare complessivamente l'utilissima opera, sempre fedele all'idea appena esposta.
Per avallare questo modo di pensare occorreva evidentemente dialogare con Studiosi il cui livello di elaborazione scientifica si muovesse nel medesimo canale, molto vivacemente rappresentato dall'ormai celebre locuzione “Il punto e la linea”[2]. Non poteva che essere Paolo Grossi l'interlocutore ideale de le “Grammatiche del diritto”, per aver egli con lucidità sostenuto la piena immedesimazione, attraverso i rispettivi rappresentanti scientifici, tra i due termini ripetutamente evocati. Opportunamente ricorda a pag. 15 l'Autrice, mutuando da Grossi, che “lo storico non è un punto isolato ma un punto dentro una linea”. Linea lungo la quale evidentemente scorre il fenomeno giuridico, secondo un flusso storico la cui conoscenza va, appunto, governata con gli strumenti propri anche dello storico.
Inizia così, a partire da questo postulato, il piacevole dialogo tra l'Autrice ed il suo autorevolissimo ospite, le cui dotte e vibranti parole servono a ricostruire un intero itinerario culturale, senza tentennamenti battuto in breccia lungo tutto l'arco della fervida attività di ricerca.
Lo storico del diritto asseconda l'inclinazione della comparatista a camminare insieme per la via di una comune avventura intellettuale e metodologica, marcando già all'esordio del suo contributo il terreno con l'affermare a pag. 17 che “il diritto vive sì nel quotidiano, ma con valori portanti profondi”.
Conviene concentrarsi su questa affermazione che imprime a tutte le pagine seguenti un segno inconfondibile e dà la misura della profondità del dialogo. Innanzitutto, si nota, raffinata e realista al tempo stesso, la caratteristica esperienziale del fenomeno giuridico nel suo complesso, che si esibisce giorno per giorno nel ruolo di conformatore delle azioni quotidiane di ogni persona, traendo da esse la propria ragion d'essere: regolatore e testimone perenne della vita umana dalle cui lezioni trae ispirazione per il proprio rinnovamento ed adattamento. Ma la storia degli accadimenti giuridici del passato assume per Grossi una altissima funzione, non soggetta al tramonto o all'irrilevanza: quella di fondamento valoriale costante nel tempo ed attingibile in ogni epoca. Perché, è implicito, nessun tempo è avulso dal passato sia dal punto di vista fenomenico, sia nel senso dello spontaneo trapasso di tradizioni, consuetudini, sistemi etici, fini politici. Che poi a questa transizione corrisponda, di volta in volta, recezione o ripulsa è questione contingente, legata, cioè, alla specifica fase storica: ciò che resta stabile è il processo di comunicazione tra un momento storico ed i successivi, che dal primo restano, comunque e sempre, influenzati secondo una immancabile prospettiva diacronica. E' questo principio e scopo della storia del diritto di cui Paolo Grossi è impareggiabile Maestro.
Nel fluire delle pagine del dialogo esso si infittisce di plurimi sostegni teorici, prevalentemente declinati nell'ambito delle molteplici relazioni ed implicazioni tra storia (giuridica e non) e comparazione giuridica. In esse risiede, per i cultori di quest'ultima disciplina scientifica, il nucleo di maggior interesse, come concisamente ci si propone di illustrare.
Sono due, in particolare, i passaggi ascrivibili al pensiero di Grossi che costituiscono un'imprescindibile pietra miliare che va ad aggiungersi a quelle che i grandi comparatisti italiani del ventesimo secolo hanno saputo scolpire nel delineare i fondamenti teorici della loro area di ricerca. Entrambi vengono stimolati, facilitati, dedotti alla luce di un fecondo scambio dialogico.
Il primo di essi, a pag. 57, così suona: “Il comparatista e lo storico del diritto non devono avere dei modelli ideali da trapiantare, ma soltanto soluzioni diverse da studiare in un ossigenante confronto dialettico”. La frase esprime una rilevante dose di modernità di pensiero e, al tempo stesso, rinverdisce uno dei capisaldi della teoria Gorliana. Da un canto, infatti, queste parole rendono chiaro il possesso, da parte di che le ha pronunciate, di un concetto di “legal transplant” elastico, ossia disposto ad accettarne versioni non predeterminate alla stregua di criteri generali e condivisi, quanto, piuttosto, proclive ad una circolazione di singoli apparati ordinamentali ritagliati sulla base della loro utilità a far fronte ad una specifica esigenza socio-giuridica. Non esportazione immutabile di esperienze, ma diffusione secondo un criterio di congruità ed adeguatezza ad un particolare sistema giuridico. Ma è nel circuito del raffronto tra ordinamenti diversi, evidentemente volto all'emersione di vari gradi di affinità o difformità, che l'assorbimento della profonda intuizione dei fini della comparazione giuridica nel senso appena precisato, rende possibile l'accostamento del pensiero di due grandi scienziati del diritto, come Gorla e Grossi, risaltando palese. Nessuna dissonanza tra la veduta del comparatista e quella dello storico del diritto prende forma: ciascuna sembra, al contrario, armoniosamente integrarsi con l'altra in un quadro di perfetto, mutuo soccorso tra le discipline da essi professate.
Dal piano ontico dei rapporti tra storia e comparazione giuridiche Grossi trascorre, a pag. 57, a quello più marcatamente formativo, dichiarando: “La storia e la comparazione, con gli strumenti metodologici che sono stati affinati negli ultimi 50 anni, contribuiscono a formare un giurista critico, capace di guardare e vedere lontano e in profondità al di sotto della coltre superficiale delle norme autoritative”. La riflessione scava ancor più in profondità e guadagna un nuovo credito alla comparazione giuridica, questa volta nella direzione di un altro leit-motif ad essa associato e particolarmente esplorato da Sacco, quello dell'accertamento della corrispondenza alle regole formali, enunciate o codificate, di quelle concretamente applicate: in altri termini, il tema delle dissociazioni, anche latenti, riscontrabili in un determinato ordinamento giuridico e portate alla luce anche in virtù di un confronto con altri sistemi. Ma accanto ed oltre il dato puramente tecnico, consistente nella ricognizione delle fratture tra law in the (Statute) books e law in action, se ne scorge un altro, altrettanto fedele alla cifra culturale di Grossi, l'attenzione scrupolosa e vigile verso il diritto quale si dispiega giorno dopo giorno nelle esistenze umane, quale si forma nella dura esperienza del processo, nell'aspra contesa in contraddittorio con chi nega quel che altri afferma: questo sembra significare il caldo invito del Presidente emerito della Corte Costituzionale a lasciar affiorare ciò che inespresso giace sotto “la coltre superficiale delle norme autoritative”. Traspare, sollecitato dagli acuti interrogativi dell'Autrice, che a pag. 58 considera che “anche il lavoro dello storico si svolge entro la dimensione inespressa del fenomeno giuridico”, l'anelito di Grossi ad assegnare al mondo del diritto un distintivo che valica la dimensione autoritativo-normativa e si propone di coglierne il profilo spontaneistico-comunitaristico. E, con esso, la profondità dei “valori supremi di una civiltà giuridica” che rappresenta lo “strato più radicale di un ordinamento”, appena preceduto in uno stadio di minor profondità dal mondo dei fatti che lo popolano (pag. 59). Fatti e valori come complementari, nel senso di integrarlo a fini della compiuta rappresentazione e conoscenza, del tessuto di un ordinamento giuridico, svincolandolo dalla sua esclusiva connotazione in termini normativi. Il viraggio verso la sponda della “fattualità” è sfruttato da Marina Timoteo, a pag. 51, per evocare la rilevanza del più noto e longevo tra quello di essi dotato di natura normativa, la consuetudine, su cui l'interlocutore volentieri si sofferma per valorizzarne il peso e ritenere, nella pagina seguente, che “il messaggio della nostra Costituzione imponga un sostanzioso pluralismo giuridico nella Repubblica, dando un ruolo attivo e agli interpreti applicatori e alla consuetudine”. In questo contesto l'afflato tra i due parlanti raggiunge il punto di massima estensione ed armonia. Per sviluppare il discorso sul conflitto tra il diritto inteso come momento autoritativo ed il diritto come prodotto dell'esperienza e delle scelte della persona umana, i dialoganti compiono di comune accordo il tuffo, prediletto nell'analisi storico-giuridica di Grossi, nelle acque della lunga stagione medievale, reputata come periodo storico di massimo fulgore di questa seconda attitudine (con propaggini attuali quali gli assetti fondiari collettivi rivatilizzati, in omaggio a tradizioni risalenti e radicati nelle coscienze di talune comunità territoriali, nella legge 168 del 2017 sugli assetti fondiari collettivi su cui Grossi si intrattiene a pag. 21 ss.).
Forte è la spinta che proviene dalla dialogante comparatista, rivolta allo storico del diritto medievale e moderno, a fornire di quell'epoca, definita dalla prima come un “tempo storico lunghissimo ove, entro una continuità segnata da un panorama pluralistico e fattuale del diritto, si aprono canali di discontinuità che preannunciano la transizione all'età moderna” (pagg.99-100), una descrizione compatibile con tali caratteri. In particolare Grossi vede nella scienza giuridica tardo-medievale “garanzia d'ordine; garanzia di pluralismo giuridico” (pag.102). I contrassegni di quella cultura, con un velo di nostalgia raffigurati, si stagliano guardando alla sua “dimensione razionale, squisitamente conoscitiva che la rende, pertanto, lettrice affidante dell'ordine scritto nelle cose naturali e sociali: è, cioè, fornita di una capacità altamente ordinante” che “non si concreterà mai in comandi, in imperativi, bensì in principii, in diagnosi e soluzioni che ... assumono a criterio la realtà obiettiva” (ibidem). Non si stenta a comprendere la ragione essenziale della acutissima lettura di quella realtà giuridica in termini tanto lucidi ed ammirati. Invero essa esprime in ogni suo frammento costitutivo l'incarnazione di un modello socio-istituzionale che lascia all'“ordine scritto nelle cose naturali e sociali” e non a “imperativi” e “comandi” il compito e la capacità di organizzarsi al di fuori degli schemi rigidamente e formalmente autoritativi, prediligendo come criterio di osservazione, indagine, giudizio ed oggetto di intervento la “realtà obiettiva”. Criterio al tempo stesso storico, nella misura nella quale tende l'orecchio all'assetto di regole e tradizioni già formate, e comunitario, nel senso di ruotare intorno all'asse costituito dai concreti assetti umani e sociali realizzati in un dato territorio. E quando la comparatista gli chiede di definire l'“ordine regnante nel medioevo”, lo storico pronto risponde ricordando, a pag. 103, la lunga era dello “ius commune”, affermatosi tra l'XI ed il XIV secolo, delineando tale espressione come un “sintagma che puntualizza un diritto a proiezione universale, vero precursore di un'unità giuridica europea”, la cui edificazione richiede l'accettazione del concetto secondo il quale “il diritto riguarda la società e non il potere”.
A questo punto un piccolo intercalare va inserito per ribadire la linea di collegamento tra gli studi e le riflessioni di Grossi sul diritto comune medievale e quelle dei primi anni'60 del secolo scorso condotti con affinità di esiti da Gorla[3]. Ed infatti, il primo, richiesto dall'Autrice, a pag. 105, di descrivere “il cammino che marca il divenire essenziale delle fonti del diritto nello spazio europeo”, non esita a rifarsi alla più genuina qualificazione del diritto comune medievale, intendendolo nelle due pagine seguenti come “diritto senza stato creato da glossatori e commentatori ... ossia diritto unitario europeo applicabile ovunque che, però, non sacrificava i particolarismi giuridici”, chiamati “iura propria” , includenti consuetudini e norme locali. E questi “si integravano armonicamente con le elaborazioni scientifiche”. Ma proprio nel lento e graduale, ma inarrestabile, passaggio da quella che Grossi, attingendo alla sua opera fondativa “L'ordine giuridico medievale, chiama, a pag. 108, “prospettiva reicentrica e comunitaria del diritto medievale a quella antropocentrica ed individualistica del diritto moderno” si assiste alla perdita, da parte dell'Europa, dell'unità medievale e la si vede divenire una mera espressione geografica” (pag.108). La centralità dell'osservazione ed il carico di conseguenze che da essa si diramano verso l'area della comparazione giuridica sono immediatamente colti da Marina Timoteo che, ravvisando nel passaggio prima ricordato, l'epifania dell'affermazione negli stati europei dello “statualismo” e del “legalismo” (pag. 109), si preoccupa, coerentemente con la propria vocazione scientifica, di individuare in esso un fattore determinante, come Gorla non ha mai mancato di sottolineare, per l'allontanamento del civil law dal common law, pacifici e comunicanti coabitanti al tempo del diritto comune. E le ragioni di tale frattura vengono lucidamente individuate dalla stessa Autrice, a pagina 110 in cui opportunamente richiama la riflessione di Antonio Gambaro sul codice civile[4],nell'”ingresso del legislatore nel campo delle relazioni tra privati: ciò che comportò che la scelta codicistica implicasse lo sganciamento dal “precedente diritto consuetudinario di origine sia popolare sia sapienziale”. Interpellato, a mò di conferma dell'analisi, Grossi non si sottrae e a pagina 110 e seguenti la completa, volgendo lo sguardo alle conseguenze prodotte nel common law inglese dalla transizione in discorso. L'insigne storico del diritto formula un netto giudizio: “Oltremanica si vive una perfetta continuità tra medioevo e modernità”. Ancor più vivaci le proposizioni formulate nelle pagine seguenti che consegnano un'immagine molto decisa del diritto inglese in continuità storica: “Al fondo del common law batte un cuore medievale ... La legge viene nel common law non a sostituire il precedente ordine giuridico ma ad aggiungersi…”. E la conclusione che ne trae in chiave prospettica è non meno drastica, in quanto solo in un recente passato Grossi rinviene le scaturigini del parziale riallineamento con i sistemi di civil law: “Il diritto legislativo in Gran Bretagna ha trovato maggior spazio nel secondo dopoguerra con i governi laburisti e l'instaurazione dello stato sociale”. Con il che l'eminente storico sembra esattamente riconoscere che è ormai in atto un riavvicinamento tra lembi tradizionalmente distanti, quali civil law e common law, dei sistemi giuridici europei[5].
Arrivati alla svolta della transizione dal modello di organizzazione sociale e giuridica medievale, reputata più sensibile alle esigenze autoregolative delle comunità in cui si articolava, a quello moderno di robusta impronta statalista-normativa, i due dialoganti si trovano ad affrontare, in un serrato discorso di interscambi intellettuali, il tema della configurazione, in senso prettamente giuridico, dell'odierna Europa. Ed il discorso non può che trarre illuminante beneficio dalla fondamentale e notissima opera del 2007 di Paolo Grossi con lungimiranza intitolata “L'Europa del diritto”. Il presupposto di partenza è perspicuamente individuato da Marina Timoteo a pagina 112 attraverso la ineccepibile constatazione, del tutto conciliabile con il precedente itinerario di pensiero ed informata allo stesso linguaggio del suo interlocutore, che: “L'Europa arcipelago, l'Europa della modernità giuridica, fatta di fratture e separazioni è destinata però a mutare nuovamente configurazione in quella che … (NdA si chiama) epoca posmoderna”.
L'invito al Paolo Grossi, finissimo Giudice costituzionale, a trasfondere la sua visione storica in un progetto culturale vasto e lungimirante, che valga anche da diagnosi sull'attuale stato dei rapporti tra l'Europa politico-geografica ed il suo tratto giuridico, è aperto e ghiotto. E la argomentata costruzione concettuale della nutrita risposta non delude in alcun modo le giustificate attese. Ed infatti, l'interlocutore muove, innanzitutto, dalla ricognizione deludente, per Lui, sempre reattivo di fronte alle istanze solidaristiche, dell'avvento di un tempo storico, quello della globalizzazione, che “si connota per il primato della dimensione economica”: un tempo in cui “il principio di solidarietà è ancora poco avvertito: è in primo piano la tutela del mercato” (pag. 119). A questa dolente presa d'atto fa però seguito la ritessitura, di comune accordo tra la comparatista e lo storico, di un filo di razionale speranza nella mitigazione, anche attraverso il soft law (“un diritto elastico e dinamico” come lo definisce Grossi a pag.122), dell'inasprimento dell'anima dell'Europa del diritto.
Ed allora, le due voci esibiscono una ancora più decisiva sintonia, riequilibrando in senso umanistico il destino del fenomeno giuridico.
La luminosa premessa è racchiusa nelle parole di Grossi a pagina 125: con esse si conclude la meticolosa disamina del “nuovo paesaggio giuridico” contemporaneo, “segnato dalla fluidità, dalla complessità, dall'incertezza”, contraddistinto da luci e da ombre, da pregi e da rischi. Ma l'antidoto di sicura e provata efficacia è presto individuato mediante queste ispirate parole: “Recuperare il senso della storicità del diritto e delle sue fonti plurali dev'essere la strada per recuperare alle norme e alle forme giuridiche una misura autenticamente umana”. Su questa base prognostica ed auspice perfettamente si innesta la successiva considerazione, una sorta di timbro finale, svolta da Marina Timoteo che osserva come il recupero invocato da Grossi, il ritorno al diritto, corrisponda in effetti al “ritorno a casa di colui che nella tradizione giuridica occidentale è l'anima del diritto, ossia il giurista”. Chiosa Grossi nelle pagine che seguono, sottolineando che quel che chiede il mondo postmoderno è “un giurista partecipe e inventore del diritto, che cerchi e trovi il diritto anche confrontandosi con esperienze giuridiche geograficamente e culturalmente lontane....un giurista-insomma-che sappia misurarsi con tutte le molteplici articolazioni del diritto contemporaneo”. Occorre, allora, “una coscienza legante, che ancora manca alla diaspora mondiale dei giuristi: non la coscienza legante che fa riferimento a interessi corporativi, ma la consapevolezza di uomini di scienza e prassi uniti dalla certezza del valore ontico del diritto, capaci di unire conoscenza tecnica e visioni ideali, capaci di un respiro globale, che abbia la forza di sollevarsi al di sopra della dimensione del mercato”. Perché la possibilità di costruire una realtà autenticamente globale è solo affidata alla sua capacità di mantenersi genuinamente multiculturale.
Queste note finali rivestono indiscutibile importanza poiché saldano attraverso un sigillo circolare il prologo e l'epilogo del volume, entrambi avvolti nel mantello della rilevanza della persona nello svolgersi della storia giuridica: Persona in quanto protagonista, spesso sofferente e bisognosa, della vicenda individuale che concorre a formare quella universale ed anche in quanto cultrice del diritto, accreditato di idoneità a leggerne il divenire alla luce di principii, categorie, concetti attraverso i quali regolare, interpretare, giudicare le vicende individuali. Il richiamo alla dimensione umana, singolare e scolare, del fenomeno giuridico speranzosamente effettuato nelle pagine finali si raccorda appieno con l'affermazione iniziale del suo carattere intimamente relazionale. Ma rimane altrettanto integra la matrice storica del diritto perché, come Grossi in tutta la sua magistrale opera ha insegnato negli anni, è nel fatto dell'uomo, talvolta elevato a categoria formale ordinante (è il caso degli usi normativi), che si annida il germe di promozione e sviluppo della regola giuridica, la sua sede naturale e primigenia. E la storia, immergendosi nella tassonomica classificazione dei fatti e nella loro riconduzione ad un ordine concettuale, si rende artefice della conoscenza, della divulgazione, del modellamento, della futura edificazione, ricalcata sulle orme, di nuovo calpestate o cancellate, del passato, del diritto.
E per chiudere, come potrebbe non sciogliersi una lode a questo originale lavoro per il contributo apportato alla causa della comparazione giuridica? Essa rimane costantemente sullo sfondo, in parte perché assorbita nelle vicende giuridiche tramandate alla storia, in parte preponderante perché partecipe del processo unitario di costruzione del fenomeno giuridico attraverso il raffronto transnazionale, espressamente additato come elemento facilitatore del governo della globalità per la sua naturale attitudine a fondarsi sulla multiculturalità intercomunicativa dai due dialoganti auspicata.
Questo volume, oltre che per i meriti insiti nelle precedenti considerazioni, ben si unisce al catalogo degli scritti che fanno del metodo del confronto ordinamentale ed esperienziale in forma comparatistica l'epicentro della complessa e spesso drammatica vicenda che si connette al fenomeno giuridico.
A tale declinazione culturale appartiene “Le grammatiche del diritto” che sa utilmente insinuarsi negli anfratti delle vite dei suoi protagonisti diretti (a partire da quella, accademica e non solo, dell'interlocutore) o di riferimento (illustri giuristi fiorentini, storici come Jacques Le Goff) per adottare come sfondo finale gli immortali versi Montaliani celebrativi di una struggente memoria del passato ravvivata dall'empito del Poeta ne La casa dei doganieri.
Chiara e dichiarata è, altresì, l'impronta costituzionalistica del lavoro, condensabile in quella parte del dialogo, riportato a pagina 22, in cui, alla domanda di Marina Timoteo circa l'incompleta attuazione della nostra legge fondamentale, Paolo Grossi risponde affermativamente, aggiungendo che essa è in parte anche incompresa, ad onta del grande giacimento di potenzialità in essa riposte.
E per questo il valore testimoniale del libro si accresce, ben rappresentando il punto di arrivo di una linea nitidamente tracciata, lungo la quale scorre l'impegno di una molteplicità di attori: giuristi teorici, giuristi professionali, storici, e, soprattutto, persone.
[1] Serio, Dimensione giuridica e dimensione storica del common law: mondi separati ovvero uniti dalla comparazione, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2014, pag. 795 ss.
[2] Essa fu arricchita dal sottotitolo “L'impatto degli studi storici nella formazione del giurista” nel volume L'insegnamento del diritto oggi, a cura di Rebuffa e Visintini, Milano 1996, pag. 255 ss., che raccoglie gli atti del convegno genovese dell'anno precedente sul tema che dà il titolo al volume stesso.
[3] Poi radunate in Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano 1981.
[4] Voce “Codice civile”, in Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civile, Torino 1989.
[5] Su cui si può leggere Serio, Il valore del precedente tra tradizione continentale e common law: due sistemi ancora distanti?, in Riv. dir. civ. 2008, pag. 109 ss.
La prima magistrata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione
Intervista di Paola Filippi a Margherita Cassano
Il 26 novembre 1947, nel corso della seduta antimeridiana dell'Assemblea Costituente l’onorevole Maria Federici diceva “Ora anche qui, onorevoli colleghi, facciamo la prova, vediamo se la donna è veramente in grado di coprire le cariche che sono inerenti all'alto esercizio della Magistratura. A tutto quanto è stato detto, io potrei rispondere che una raffinata sensibilità, una pronta intuizione, un cuore più sensibile alle sofferenze umane e un'esperienza maggiore del dolore non sono requisiti che possano nuocere, sono requisiti preziosi che possono agevolare l'amministrazione della giustizia. Potrei rispondere che le donne avranno la possibilità di fare rilevare attraverso un lungo tirocinio la loro capacità; saranno sottomesse e sottoposte ai concorsi e a una rigida selezione. Le donne che si presenteranno a chiedere di salire i gradi della Magistratura devono avere in partenza (e li avranno) i requisiti che possono dare loro una certa garanzia di successo”.
Il 15 luglio 2020 Margherita Cassano è stata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione. Per la prima volta è Presidente aggiunto della Suprema Corte una donna. Dal discorso dell’onorevole Federici sono passati 73 anni.
Margherita Cassano non è una magistrata come le altre, come bene sanno quelli che la conoscono, ha una marcia in più. Prima sostituto procuratore con Pier Luigi Vigna a Firenze, poi giudice. Sin dall’inizio della carriera si è interessata della formazione dei magistrati, quando la scuola era una chimera e la formazione era vissuta in termini di autogestione – i più anziani ricorderanno la famosa “cassetta degli attrezzi”.
La funzione giurisdizionale l’ha sempre esercitata calandola nel sociale, sempre pronta a denunciare le storture di una giustizia "ingiusta" se non alla portata di tutti.
La dirigenza la declina come funzione al servizio della collettività. Ha improntato l’esercizio delle sue funzioni ai principi della professionalità e credibilità. In coerenza con quello che ha scritto, con Paolo Borgogna, nel 1997, nel saggio Il giudice e il principe: “L'indipendenza della magistratura non è un valore in sé: è un bene strumentale al fine dell'affermazione di legalità e del principio di uguaglianza. La vera legittimazione dei giudici si fonda sulla loro professionalità e credibilità. È soltanto attraverso l'introduzione di controlli seri nei confronti dell'operato dei giudici - che non si trasformino però in controlli politici - che potremo avere dei giudici liberi e all'altezza dei loro compiti: una magistratura indipendente, che sia sentita come patrimonio comune di tutti i cittadini”.
È stata tra le prime quattro donne ed essere eletta consigliera del CSM, nel 1998, insieme a Silvana Iacopino Cavallaro e Manuela Romei Pasetti – dopo Elena Paciotti la prima eletta nel 1990.
Questa intervista come quella a Gabriella Luccioli è dedicata alle magistrate che si accingono a iniziare una carriera che auspichiamo “accessibile” in maniera paritaria in tutte le sue declinazioni. La Sua nomina è un passo significativo verso la parità che, come Ella stessa scrive, potremmo ritenere raggiunta solo “quando cesserà di fare notizia la nomina di una donna come membro del CSM, come Presidente di Corte d’appello, come Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione”.
Sul filo rosso delle domande Margherita Cassano ci descrive la magistratura degli anni Ottanta. Si sofferma sul ruolo che le donne hanno avuto nel processo di cambiamento e sotto questo profilo ci testimonia la loro empatia nei confronti dei destinatari della risposta di giustizia, la loro disponibilità a cogliere i nessi tra vicende giudiziarie e dimensione sociale, la loro attitudine a ricercare il punto di equilibrio tra repressione e reinserimento sociale.
Richiama la nostra attenzione sullo scarso numero di donne nel settore requirente quanto alla dirigenza e ricorda come presso la Procura generale della Corte di cassazione e la Procura Nazionale antimafia le donne non abbiano ancora mai rivestito ruoli direttivi o semidirettivi.
Chiude l’intervista con una sollecitazione che ci dà la cifra di come svolgerà i suoi compiti in Corte: “il dirigente di ufficio giudiziario, per assolvere al meglio il suo compito, deve rifuggire da logiche di esercizio dell’attività giudiziaria come “potere” e deve essere sempre animato dalla consapevolezza che è chiamato a rendere un servizio con la massima umiltà, animato dalla consapevolezza del limite, da curiosità intellettuale, grande disponibilità umana, empatia, entusiasmo per un lavoro che è davvero un privilegio svolgere e che ci arricchisce quotidianamente”.
Come è cambiata la magistratura dagli anni ottanta ad oggi? Cosa è cambiato in meglio e cosa è cambiato in peggio?
Nel corso dei decenni trascorsi dall’entra in vigore della Costituzione abbiamo assistito ad una trasformazione sociale imponente non solo della magistratura, ma di tutti gli attori del processo. Per rendersene conto basta rileggere le pagine del libro Diario di un giudice, scritto nel 1955 da Dante Troisi. Un libro che, quando uscì, suscitò polemiche che investirono persino il Parlamento e che costò al suo autore un procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione della sanzione della censura. Nel Diario Dante Troisi parla di sé, di un uomo oppresso dal proprio lavoro di giudice e che avverte un senso di progressiva estraneità al corpo professionale cui appartiene. Descrive una magistratura pervasa da una forte vocazione burocratica, i cui componenti cercano di non avere fastidi per avanzare nella carriera scandita dai concorsi interni. Illustra processi penali instaurati nei confronti degli appartenenti ai ceti più umili, definiti con condanne esemplari per fatti di minima offensività. Parla, soprattutto, di aule di giustizia in cui si affacciano per lo più poveri uomini e donne afflitti da una miseria materiale e culturale desolante.
Tanti altri sono gli avvenimenti che si possono ripercorrere per segnalare il cambiamento avvenuto.
Sono trascorsi circa sessanta anni dall’accusa di leggerezza e scarsa obiettività mossa da un Presidente di Corte d’Appello ad un pretore del proprio distretto solo perché aveva osato iniziare un processo contro un cattedratico dell’Università e dalla sottoposizione a procedimento disciplinare di trentanove magistrati, colleghi di quel pretore, per avere firmato un documento di protesta contro “l’intollerabile intrusione sindacatoria del Presidente della Corte d’Appello”.
Al medesimo periodo risale lo scandalo giudiziario, che indignò l’opinione pubblica, per il nulla osta al rinnovo del passaporto rilasciato da un pubblico ministero ad un importante industriale tessile imputato di bancarotta fraudolenta che, grazie a tale rinnovo, espatriò in Libano.
Meritano di essere ricordate la condanna per diffamazione ai danni del capo del Sifar di due giornalisti che avevano osato denunciare le deviazioni di un apparato di fondamentale importanza per la difesa dello Stato, nonché l’avocazione e la successiva archiviazione, nell’interesse del Paese, delle indagini relative ad un colonnello del Sifar e alla scomparsa dalla sua abitazione di alcuni importanti documenti sull’arruolamento illegale di taluni agenti.
Sembra appartenere all’archeologia giudiziaria il processo per il reato di pubblicazione di atti osceni instaurato contro alcuni studenti e il preside di un liceo milanese, colpevoli di avere pubblicato, sul giornale scolastico, un’indagine sulla vita affettiva delle ragazze di oggi in cui si potevano leggere le seguenti risposte “scandalose”, ritenute dall’accusa, un incitamento alla corruzione di fanciulli ed adolescenti: «sarebbe necessario impostare il problema sessuale su basi serie, cioè introdurre un’educazione sessuale anche nelle scuole, per chiarire le idee su certi problemi fondamentali che ognuno ad una certa età si trova a vivere, in modo che il problema sessuale non sia un tabù, ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza».
Che cosa, negli anni successivi, ha prodotto il cambiamento?
È la Costituzione che pone le robusta fondamenta su cui, nei decenni successivi, si costruisce lo statuto di autonomia ed indipendenza della magistratura che oggi tutti noi conosciamo: autonomia ed indipendenza da ogni altro potere (art. 104), soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101), accesso alla magistratura tramite concorso (art. 106), inamovibilità (art. 107), istituzione di un Consiglio Superiore della Magistratura competente per assegnazioni, promozioni, trasferimenti e procedimenti disciplinari.
Non tutti questi principi costituzionali hanno, però, avuto immediata attuazione.
Il CSM iniziò ad operare nel 1959, ossia a distanza di oltre dieci anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale.
Fu nel 1963 che, grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale, venne abrogata la norma che subordinava l’azione del CSM all’iniziativa del Ministro.
Soltanto nel 1975 venne adottata una riforma del sistema elettorale del CSM che sottraeva ai magistrati di cassazione una posizione assolutamente dominante all’interno dello stesso.
Furono, soprattutto, le leggi che, a partire dal 1963, abolirono i concorsi e introdussero i c.d. “ruoli aperti” per la progressione in carriera a provocare il “progressivo smantellamento dei vecchi strumenti di selezione”, come efficacemente osservato dal prof. Carlo Guarnieri.
Il complesso di questi fattori strutturali, di fondamentale importanza per l’assetto democratico dello Stato, non è, però, da solo, sufficiente a spiegare la successiva trasformazione della magistratura, favorita indubbiamente dal ricambio generazionale e dall’ingresso di magistrati dotati di una nuova sensibilità culturale.
Una conferma di tale affermazione può essere tratta dall’analisi dell’elaborazione giurisprudenziale negli anni cinquanta, anni bui in cui i magistrati chiamati a dare effettività ai nuovi principi contenuti nella Carta fondamentale si erano formati sotto la dittatura fascista, erano pervasi dalla paura della propria indipendenza, una sorta di vera e propria agorafobia per dirla con le parole di Calamandrei, ed esprimevano prospettive culturali anguste o totalmente confliggenti con il nuovo quadro costituzionale di riferimento. In questo contesto non deve, quindi, stupire che le sentenze affermassero che è un modo lecito di salvaguardare l’unità familiare picchiare la propria moglie a scopo di correzione oppure che il costante rifiuto delle prestazioni sessuali da parte di un coniuge costituisce il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Del pari non deve meravigliare che un’austera rivista giuridica annotasse che la disparità di trattamento dei coniugi nel codice civile non è altro che il provvidenziale riflesso di una legge naturale.
In quegli stessi anni la Corte Costituzionale dichiarava la legittimità costituzionale dell’art. 559 cod. pen. che puniva la moglie adultera e il suo correo, mentre il marito adultero andava esente da pena, salvo che tenesse una concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove (art. 560 cod. pen.). Si dovrà attendere il 1968 prima che la Consulta, mutando indirizzo, cancelli questa vergogna dal nostro codice penale.
Questi esempi dimostrano che i principi, anche i più alti e nobili come quelli sanciti dalla nostra Costituzione, hanno bisogno per vivere ed alimentarsi di donne ed uomini culturalmente adeguati che sin dai tempi della loro formazione scolastica abbiano assimilato i valori su cui si fonda una democrazia ed abbiano imparato ad affinare la loro sensibilità.
È ciò che avviene verso la fine degli anni sessanta, un decennio che si apre con il boom economico e si chiude con l’esplosione della scolarità. Donne ed uomini di diversa estrazione sociale, culturale, geografica hanno finalmente l’opportunità di accedere all’istruzione scolastica superiore, quindi all’università e da lì, superato il concorso, fanno ingresso in magistratura, dove portano nuova linfa e fermento di idee e di sensibilità che consentono un’attenta lettura della legislazione ordinaria nella prospettiva costituzionale e avviano un dialogo proficuo con la Corte Costituzionale, divenuto nel corso degli anni sempre più intenso.
Sul finire degli anni sessanta muta, quindi, la provenienza sociale dei nuovi magistrati e, contemporaneamente, mutano le culture anche grazie all’apertura alle donne, avvenuta nel 1963, dopo una lunga e dura battaglia condotta da due giovani laureate in giurisprudenza. E’ una battaglia destinata a suscitare approfonditi dibattiti in dottrina, ma che non ha grande eco nell’opinione pubblica. Occorreva superare pregiudizi forti e radicati, se è vero che qualche decennio prima studiosi considerati aperti e avveduti diffidavano dal rischio di sciogliere ogni freno all’attività femminile, e sconvolgere a mente fredda la società, in quanto la donna è essere tanto delicato e sublime da temere o sdegnare le lotte della vita, epperò da doversi circondare piuttosto di culto che di diritti. Ancora nel 1953 Piero Calamandrei doveva polemizzare contro coloro che sostenevano che alle donne mancherebbe proprio quel requisito psicologico che è richiesto in maniera specifica per l’ufficio del giudice; cioè il raziocinio, l’attitudine a sillogizzare che nelle donne sarebbe soverchiata dal sentimento.
Oggigiorno queste considerazioni possono far sorridere e fare pensare che abbiano unicamente una valenza storica. Non è così, occorre conservare memoria di queste vicende, poiché nessun traguardo può mai dirsi definitivamente conseguito. I magistrati più giovani devono avere precisa consapevolezza del lungo e tormentato cammino che li ha preceduti per non disperdere un patrimonio di valori e continuare a dare ad essi compiuta attuazione attraverso un dibattito arricchito dalla pluralità delle opinioni e dei punti di vista.
È questa un’esigenza che si avverte particolarmente dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario che ha profondamente inciso sul reclutamento dei magistrati e ha trasformato il relativo concorso, rendendolo di “secondo grado”, ossia aperto esclusivamente a chi possiede specifici titoli legittimanti. Questa innovazione, insieme con la riforma degli studi universitari in giurisprudenza, ha comportato un progressivo allungamento dei tempi di accesso alla professione (oltre i trent’anni) e difficoltà obiettive per coloro che versano in situazioni economiche disagiate, in assenza di un organico sistema di sussidi e di altre forme di sostegno. Tale situazione, di cui troppo poco si dibatte, rischia di avere obiettive ricadute sulla rappresentatività sociale della magistratura e di trasformare nuovamente il corpo professionale in una espressione dei ceti sociali più abbienti con intuibili riflessi sulla ricchezza dell’attività interpretativa che trae sicura linfa dalla molteplicità delle visioni culturali e delle esperienze di vita.
In questo contesto problematico un prezzo ancora più pesante rischia di essere pagato dalle donne, attesa la difficoltà di conciliare il lungo percorso degli studi, le scelte di vita personali, le prime fasi di conferimento delle funzioni giudiziarie che possono comportare un significativo allontanamento dal neo-costituito nucleo familiare o la disgregazione dello stesso, tanto più drammatica in presenza di figli in tenera età.
Negli anni ottanta, quando Tu sei entrata in magistratura, iniziava progressivamente ad aumentare il numero delle donne che vincevano il concorso, era l’inizio della curva che sta portando alla femminilizzazione della magistratura italiana. Quanto le donne hanno cambiato la magistratura?
Ogni corpo professionale si arricchisce e cresce se all’interno di esso hanno modo di confrontarsi sensibilità, culture, esperienze diverse. La molteplicità e pluralità dei punti di vista è fondamentale per alimentare l’attività di interpretazione della legge, divenuta oggi sempre più complessa nell’articolato contesto delle fonti normative di livello nazionale e sovranazionale e dei principi elaborati dalle Corti. Ritengo, perciò, che costituisce un fattore imprescindibile di crescita il confronto costante anche all’interno della magistratura, di uomini e donne, animati dalla comune consapevolezza della grande responsabilità che grava su di loro e della necessità di fornire risposte meditate, razionali, complete alle domande di giustizia mediante provvedimenti motivati in modo sintetico, esauriente, logico e caratterizzati da un linguaggio chiaro e incisivo.
Tanto premesso ritengo che la presenza delle donne in magistratura – così come negli altri “mestieri” – abbia contribuito ad un significativo mutamento nel modo di intendere e vivere l’attività giudiziaria, l’organizzazione dell’ufficio, le relazioni interpersonali con i colleghi, gli avvocati, il personale amministrativo, gli utenti. Costituiscono un patrimonio squisitamente femminile la particolare attenzione riservata alle dinamiche psicologiche, alle “sfumature” dell’esistenza, la valorizzazione dei diversi apporti professionali che possono essere forniti da ciascuno, il rifiuto di qualsiasi forma di personalismo e la tensione ideale verso il conseguimento di un risultato che possa dirsi realmente corale e faccia sentire ciascuno partecipe di una determinata scelta.
Nelle colleghe con le quali ho avuto la fortuna di collaborare ho colto spesso anche un’apprezzabile empatia nei confronti delle persone che vivono spesso esperienze drammatiche e una immediata disponibilità a cogliere i nessi tra vicende giudiziarie e dimensione sociale in cui esse si collocano, a cercare, in collaborazione con le altre istituzioni interessate e nel rispetto delle diverse competenze, un punto di equilibrio tra esigenze preventive, esigenze repressive, finalità di rieducazione e di reinserimento sociale. Penso, in proposito, alle costruttive esperienze vissute nell’ambito dei tavoli tecnici per le tossicodipendenze e nei gruppi di lavoro tesi a dare piena attuazione alla riforma che ha disposto la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Alludo anche ai numerosi Protocolli stipulati per promuovere interventi integrati, tempestivi e corretti a tutela di donne e minori vittime di abusi e di maltrattamenti e per contribuire a diffondere la cultura del rispetto di ogni persona in quanto tale.
Mi riferisco, infine, alla innovativa sperimentazione degli sportelli di prossimità, volti a fornire, nel settore della volontaria giurisdizione, servizi alle fasce più deboli della popolazione presenti in territori geograficamente isolati.
Mentre la presenza femminile tra i magistrati in servizio è in costante crescita ormai da anni, al vertice della piramide il numero delle donne continua ad essere esiguo. Secondo te quali sono le ragioni per cui non riusciamo a rompere il tetto di cristallo. Dipende dal sistema di selezione votato ad optare per il dirigente maschio? Sono retaggi del tardivo ingresso delle donne? O dipende da un generalizzato e diffuso disinteresse, tutto femminile, ad assumere incarichi dirigenziali?
La risposta a questa terza domanda richiede una risposta articolata.
L’accesso sempre più ampio e significativo delle donne ad incarichi direttivi, in passato appannaggio pressoché esclusivo degli uomini, è legato indubbiamente ad un dato anagrafico, a sua volta correlato all’ordinario sviluppo della vita professionale del magistrato a seguito di reclutamento mediante un concorso nazionale che assicura uguali opportunità a uomini e donne.
Al contempo, però, è stata indubbiamente favorito dalla riflessione, maturata ai vari livelli nelle diverse articolazioni del governo autonomo della magistratura, nell’associazionismo giudiziario, nel mondo accademico e, più in generale, nella società civile, sull’importanza della rappresentanza di genere. Ricordo che risalgono alla metà degli anni ottanta le prime iniziative volte ad istituire, all’interno del CSM, un Comitato per le pari opportunità e a promuovere un’analisi attenta e approfondita sulle cause sottese alla autoesclusione delle donne dalla partecipazione ai concorsi per il conferimento di incarichi direttivi, nonché a studiare forme ottimali di organizzazione del lavoro nei diversi ambiti, sì da consentire alle magistrate di conciliare al meglio l’attività giudiziaria con gli impegni familiari.
Grazie a questo rilevante salto di qualità culturale sono state poste le basi per le successive nomine di magistrate quali Presidenti di Sezione in Corte di cassazione (attualmente in Corte di Cassazione le Presidenti titolari delle Sezioni penali costituiscono la metà del totale a differenza che nell’ambito civile), Presidenti di Corte d’Appello (queste ultime salite in breve volgere di tempo da tre a dodici), Presidenti di Tribunale (l’ambito della maggiore rappresentanza).
Ritengo che un fattore di accelerazione dell’accesso delle donne a incarichi dirigenziali sia individuabile anche nell’improvviso abbassamento dell’età pensionabile da settantacinque a settant’anni che ha comportato la scopertura di un rilevante numero di posti e il collocamento anticipato a riposo di una significativa fascia di magistrati compresa tra i sessantasei e i settant’anni i quali, a causa della riforma, avevano perso la legittimazione a concorrere.
Merita, invece, attenta riflessione la circostanza che all’interno della Procura generale della Corte di cassazione e della Procura Nazionale antimafia le donne non rivestano ruoli direttivi. Tale dato deve essere correlato alla netta sotto-rappresentanza delle magistrate quali Procuratori generali e Procuratori della Repubblica. E’ legittimo domandarsi, al riguardo, se l’evidente e obiettivo divario di presenze di donne in posti dirigenziali tra settore requirente e giudicante sia ascrivibile, almeno in parte, alle intrinseche connotazioni dell’attività requirente.
Sono, infine, convinta, anche se non disponiamo di attendibili evidenze empiriche in proposito, che sia tuttora ampiamente diffusa la tendenza delle colleghe alla autoesclusione o per la difficoltà di conciliare la dimensione lavorativa con quella familiare o per diverse priorità e scelte di vita.
Sei stata la seconda consigliera togata del CSM, primo presidente donna della Corte d’Appello di Firenze e ora la prima donna presidente aggiunto della Corte di cassazione. Possiamo dire che il tetto di cristallo lo hai neutralizzato?
Come ho già avuto modo di osservare in altre sedi, la vera parità sarà raggiunta quando cesserà di fare notizia la nomina di una donna come membro del CSM, come Presidente di Corte d’appello, come Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione.
Vorrei, piuttosto, concludere questa intervista con alcune considerazioni sul mutato ruolo del dirigente di un ufficio giudiziario che si sono progressivamente sviluppate ed arricchite grazie ad interventi del legislatore e della Consulta, resi necessari dall’adeguamento al quadro di riferimento costituzionale, a partire dai principi di autonomia e indipendenza della magistratura, strumentali a garantire il principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e a sottrarre la giurisdizione alle logiche delle maggioranze politiche.
La prima forma di attuazione dell’art. 107, terzo comma, della Costituzione, in base al quale i magistrati si distinguono fra loro soltanto per le funzioni svolte si è avuta con la legge 24 maggio 1951, n. 392, che ha incrinato il precedente assetto gerarchico.
Una decisione della Corte Costituzionale (sentenza 18 luglio 1973 n. 143), che ha dichiarato, in parte, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38 r.d. 12/1941, ha escluso qualsiasi rapporto di subordinazione o di dipendenza gerarchica dei magistrati anche all’interno dell’ufficio. Con la medesima sentenza la Corte ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della predetta norma limitatamente alla omessa previsione della motivazione scritta, da parte del dirigente dell’Ufficio giudiziario, su istanza dell’interessato, delle ragioni di revoca dell’originario provvedimento di assegnazione sì da potere poi promuovere l’intervento del C.S.M. a tutela dell’indipendenza del magistrato.
Il d. lgs. 51/1998, a sua volta, nel modificare gli artt. 42-bis, 47 e 47-quater ord. giud., ha attribuito un inedito rilievo all’attività dei presidenti di sezione nella collaborazione con il dirigente dell’Ufficio, attribuendo loro specifici compiti di organizzazione del lavoro, sorveglianza sui servizi di cancelleria, vigilanza sui magistrati componenti la sezione, scambio di informazioni in ordine agli orientamenti giurisprudenziali maturati all’interno della stessa.
A sua volta il CSM ha concorso al superamento della figura tradizionale del dirigente quale soggetto sostanzialmente “irresponsabile” e dotato di poteri insindacabili, mettendo in luce il poliformismo delle funzioni che spaziano da quelle di amministrazione della giurisdizione a anche quelle di organizzazione del servizio.
In tal modo è stata delineata una nozione ampia di dirigenza non più incentrata sull’idea tradizionale di “uomo solo al comando”, bensì sorretta dalla consapevolezza che l’incisiva strutturazione dell’ufficio nelle sue diverse articolazioni, il corretto funzionamento dell’attività giudiziaria e dei servizi amministrativi, la complessiva capacità di fornire una risposta sollecita e, al contempo, meditata alle domanda di giustizia non dipendono dall’impegno del solo dirigente, ma sono, piuttosto, il frutto dello sforzo ideativo e progettuale dei presidenti di sezione e di tutti gli altri componenti dell’ufficio, chiamati a fornire il loro corale contributo propositivo in una dimensione collaborativa. Sotto quest’ultimo profilo assume specifico rilievo la capacità del dirigente di stimolare in tutti i componenti dell'ufficio le motivazioni necessarie a renderli partecipi delle scelte da compiere, possibilmente d’intesa anche con l’avvocatura, interlocutore ineliminabile della magistratura.
Un impulso decisivo ad un radicale mutamento di prospettiva del ruolo del dirigente è stato, da ultimo, fornito dal novellato art. 111 della Costituzione che, nel sancire il principio di ragionevole durata, ha sottolineato il nesso inscindibile tra fattore tempo e organizzazione come precondizione di effettività di una risposta giudiziaria che sappia coniugare efficienza, tempestività, qualità delle decisioni all’esito di un processo che ponga al centro il rispetto del diritto di difesa e il contraddittorio.
È quindi possibile affermare che, dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, al dirigente di un ufficio giudiziario sono richieste non solo conoscenze tecnico-giuridiche e ordinamentali, ma anche sensibilità ed attenzione al tema dell’organizzazione quale dimensione complessa che opera su molteplici livelli e di cui il magistrato si rende garante proprio in virtù dell’incarico direttivo conferitogli.
Organizzare significa razionalizzare l’attività istituzionale, impegnarsi per fornire una risposta meditata e, allo stesso tempo, tempestiva alla domanda di giustizia, assicurare l’accesso e la trasparenza dei dati disponibili, delle informazioni, delle decisioni e delle logiche ad esse sottese, garantire l’efficienza del servizio pubblico rafforzando, in tal modo, la legittimazione dell’ufficio, di quanti vi operano e, più in generale, dell’intera magistratura.
Vuol dire, anche, rendere conto della propria azione all’intera collettività, dei risultati conseguiti e delle criticità perduranti, sì da superare lo schermo di diffidenza e di sfiducia che spesso connota i rapporti tra giustizia e cittadino.
Implica, infine, la ricerca della collaborazione delle altre realtà istituzionali e sociali operanti sul territorio in modo da fornire un ventaglio di risposte molteplici, ma tutte concorrenti al medesimo obiettivo.
Sottopongo alla vostra valutazione critica queste riflessioni nella convinzione che il dirigente di ufficio giudiziario, per assolvere al meglio il suo compito, deve rifuggire da logiche di esercizio dell’attività giudiziaria come “potere” e deve essere sempre animato dalla consapevolezza che è chiamato a rendere un servizio con la massima umiltà, animato dalla consapevolezza del limite, da curiosità intellettuale, grande disponibilità umana, empatia, entusiasmo per un lavoro che è davvero un privilegio svolgere e che ci arricchisce quotidianamente.
Licenziamento collettivo e Jobs Act: un non liquet denso di significato
Nota a Corte Cost. n. 254/2020
di Caterina Baisi
La nota esamina la recente pronuncia della Corte Costituzionale in tema di conseguenze dell’invalidità del licenziamento collettivo nella nuova disciplina del contratto a tutele crescenti introdotta dal d. lgs. n. 23 del 2015. Il commento evidenzia che la sentenza, pur senza esaminare direttamente il merito delle questioni proposte, offre significative indicazioni sulla portata della novella legislativa e ulteriori conferme degli approdi della Consulta sia sul piano del concorso dei rimedi giurisdizionali nel sistema multilivello delle fonti, sia su quello del quadro normativo delle garanzie di adeguatezza delle tutele dei licenziamenti illegittimi, in linea con i principi e i riferimenti anche sovranazionali già evocati nei due precedenti “correttivi” del Jobs Act (n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020).
Sommario: 1. Premessa - 2. La doppia pregiudizialità - 3. I limiti d’uso della Carta di Nizza - 4. I dubbi di costituzionalità e la trama normativa di riferimento - 5. La decisione del Comitato europeo dei diritti sociali dell’ 11 febbraio 2020. Conclusioni.
1. Premessa
Con la sentenza n. 254 del 26.11.2020 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni riguardanti le tutele dei licenziamenti collettivi introdotte con la riforma del Jobs Act (art. 1, co.7, della legge n. 183 del 2010 e artt. 1, 3 e 10 del d. lgs. n. 23 del 2015, nella versione antecedente alle modifiche introdotte dal d.l. 87 del 2018, cd. decreto Dignità, convertito nella legge n. 96 del 2018).
Il giudizio era stato promosso dalla Corte di Appello di Napoli che, nel solco del primo intervento “manipolativo” della nuova disciplina dei licenziamenti individuali di cui all’art. 3 d. lgs. 23 del 2015[1], aveva sollevato il dubbio di legittimità costituzionale circa l’adeguatezza delle conseguenze previste il licenziamento collettivo illegittimo sotto molteplici profili, inclusi quelli di natura previdenziale e processuale, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 76, 111, 10 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due in relazione agli artt. 20, 21, 30 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 24 della Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.
In questo caso la Consulta ha ritenuto che il giudice rimettente non avesse sufficientemente motivato in merito alla rilevanza delle questioni nel giudizio a quo, per la mancata individuazione dello specifico vizio del licenziamento e della disciplina sanzionatoria applicabile alla fattispecie in relazione alla prospettata alternativa tra violazione dei criteri di scelta e violazioni procedurali, entrambe escluse dal giudice di primo grado. Ha, inoltre, rilevato che nell’ordinanza di rimessione non era indicato con chiarezza il tipo di intervento, ablativo o manipolativo del contenuto dell’art. 10 d. lgs. 23 del 2015, richiesto al giudice costituzionale.
La pronuncia non si è limitata, tuttavia, a rilevare l’assenza dei presupposti per il giudizio sulla fondatezza delle questioni e si è soffermata su ulteriori profili, riguardanti le possibili intersezioni delle tutele e dei rimedi giurisdizionali nel sistema multilivello di garanzia dei diritti fondamentali e le rilevanti “cesure” normative introdotte dalla nuova disciplina del contratto a tutele crescenti
2. La doppia pregiudizialità
Un primo tratto peculiare della vicenda, messo in risalto nella pronuncia, è il fatto che la Corte d’Appello di Napoli abbia contemporaneamente sollevato questione pregiudiziale davanti alla CGUE sulla compatibilità della normativa nazionale con l’ordinamento europeo e che la pronuncia della Corte di Strasburgo[2] sia intervenuta prima della decisione della Consulta. L’attivazione in tandem dei due attori chiamati a garantire, ciascuno per la propria competenza, l’effettività delle tutele previste dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalla Costituzione non è stata oggetto di critiche e, anzi, ha offerto lo spunto alla Corte Costituzionale per ribadire la necessità della costruttiva e leale cooperazione tra le giurisdizioni e il loro “legame inscindibile” nell’assicurare la massima salvaguardia dei diritti fondamentali a livello sistemico, delineato dall’art. 19 paragrafo 1 del Trattato sull’Unione Europea.
Significativo è che l’affermazione sia accompagnata dal richiamo alle recenti pronunce (sentenze n. 63 e n. 20 del 2019, ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019) nelle quali la Corte, ribadita la propria competenza a sindacare gli eventuali profili di contrasto delle disposizioni nazionali con i principi enunciati dalla CDFUE quale normativa convenzionale interposta, ha riconosciuto da un lato il potere del giudice comune di procedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale e, ricorrendone i presupposti, di disapplicare nella singola fattispecie la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta, dall’altro il potere di richiedere essa stessa, quale giurisdizione nazionale, il preventivo intervento chiarificatore della CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE circa il significato e la portata delle norme della Carta, per poi procedere all’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione e alla sua rimozione dall’ordinamento con effetti erga omnes.
Si tratta di una prospettiva che conferma il superamento del risalente orientamento con cui la Corte Costituzionale aveva ritenuto inammissibile la questione di illegittimità costituzionale, sollevata in presenza di contemporaneo rinvio pregiudiziale alla CGUE, per manifesta contraddittorietà[3] in quanto il dubbio di incostituzionalità presupponeva la verifica dell’applicabilità della norma censurata, laddove tale applicabilità costituiva l’oggetto dell’intervento richiesto alla Corte di Giustizia. E che rimodula la più recente affermazione contenuta nella sentenza n. 269 del 2017[4] - in cui la Corte avrebbe indicato al giudice comune, sia pure incidentalmente, una sorta di corsia preferenziale obbligata presso la Consulta - lasciando campo alle valutazioni di opportunità e appropriatezza, eventualmente correlate anche ai diversi livelli delle tutele, nella scelta del rimedio percorribile.
3. I limiti d’uso della Carta di Nizza
Nel merito il doppio simmetrico rinvio non ha prodotto il conflitto che parte della dottrina paventava quale conseguenza della scelta, definita “pilatesca”, della Corte partenopea[5]. La pronuncia della CGUE, intervenuta in pendenza del giudizio di costituzionalità, ha infatti trovato piena “consonanza” nella successiva decisione della Corte Costituzionale, con una convergente messa a fuoco della linea di demarcazione degli ambiti di intervento della Carta di Nizza, sempre prudenzialmente attestata su di un’accezione particolarmente restrittiva del filtro costituito dal collegamento della norma nazionale con il diritto dell’Unione (art. 51, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali UE).
Con l’ordinanza resa il 4 giugno 2020, la Corte di Giustizia ha ribadito[6] in termini generali che il legame tra il diritto dell’Unione e la misura nazionale da scrutinare non può consistere in una mera affinità o influenza tra materie ma presuppone un “obbligo specifico agli Stati membri in relazione alla situazione oggetto del procedimento principale” (punto 26). Ha, quindi, dichiarato la manifesta irricevibilità delle questioni sollevate, con riferimento agli artt. 20, 21, 30, 34 e 47 CDFUE, in quanto le tutele approntate dalla direttiva 98/59/CE in materia di licenziamenti collettivi, concernenti gli obblighi di notifica e consultazione, non riguardano le violazioni dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e i meccanismi di compensazione economica in caso di perdita del posto di lavoro, che rientrano nella competenza esclusiva dei singoli Stati membri (punti 30 e 31).
La Corte Costituzionale, pur senza pronunciarsi direttamente, ha ricordato, nello stesso senso, il proprio conforme e rigoroso orientamento circa l’inidoneità della CDFUE a costituire parametro interposto in relazione a fattispecie non disciplinate dal diritto europeo. Tra i precedenti citati dalla Consulta vi è la sentenza n. 194 del 2018, nella quale l’illegittimità costituzionale del meccanismo automatico di determinazione dell’indennizzo per i licenziamenti individuali illegittimi di cui all’art. 3 del d. lgs. n. 23 del 2015 è stata riconosciuta valorizzando sul piano sovranazionale l’art. 24 della Carta sociale europea, in relazione agli artt. 76 e 117 Cost, ma escludendo espressamente la rilevanza dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali, stante l’assenza di disposizioni del diritto dell’Unione che impongano specifici obblighi agli Stati sulla protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
Con il testuale richiamo, nella sentenza in commento, dei passaggi dell’ordinanza della Corte di Giustizia sopra riportati, nei quali si sottolinea la natura parziale dell’armonizzazione oggetto della direttiva 98/59/CE e l’estraneità al diritto europeo delle conseguenze per la perdita del posto di lavoro in caso di riduzioni di personale, la Consulta fornisce dunque indicazioni chiare in una direzione che, come da alcuni preconizzato[7], non sembra lasciare spazio alla “utilizzabilità” della Carta dei diritti fondamentali sul terreno delle tutele dei licenziamenti collettivi.
4. I dubbi di costituzionalità e la trama normativa di riferimento
Nell’esaminare l’oggetto delle censure formulate dal giudice rimettente, pur se in funzione del mero vaglio preliminare della loro rilevanza e ammissibilità, la Consulta pone giustamente in luce il diverso impatto delle nuove conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 10 d. lgs. 23/2015. Si evidenzia, infatti, che la norma, salva la tutela reintegratoria per l’inosservanza dell’obbligo di forma scritta, estende in maniera indifferenziata alle restanti categorie di vizi del licenziamento collettivo la sola tutela economica prevista per i licenziamenti individuali dall’art. 3, co. 1, dello stesso d. lgs. 23/2015 (peraltro già ritenuto parzialmente illegittimo nel 2018 quanto al meccanismo automatico di determinazione dell’indennizzo originariamente previsto).
Se per le violazioni di natura procedurale dei licenziamenti collettivi le novità si risolvono in una differente modulazione della tutela meramente indennitaria già prevista dall’art. 5, comma 3, secondo periodo della legge n. 223 del 1991, è sul piano delle violazioni dei criteri di scelta che la Consulta registra, invece, una “netta cesura” tra la precedente tutela reintegratoria di cui all’art. 5, comma 3, terzo periodo, e la tutela esclusivamente indennitaria introdotta con il Jobs act. La forte discontinuità segnalata dalla Corte è del resto coerente con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che, sia pure pronunciandosi in fattispecie regolate dall’art. 5 l. 223/1991, ha sottolineato, anche recentemente, la radicale differenza, sul piano dell’arbitrarietà del licenziamento, tra le violazioni formali delle procedure e le violazioni sostanziali dei criteri di scelta, rimarcando, peraltro, per questa seconda ipotesi l’appropriatezza dello strumento reintegratorio in ragione della natura “ontologica” di tale tipo di vizio[8].
Si tratta di una cesura legislativa delle tutele che non si limita a produrre i propri effetti sul piano “storico” della successione temporale delle due discipline, successione che è stata ritenuta non irragionevole dalla Corte per quanto attiene alla disciplina dei licenziamenti individuali in quanto “bilanciata” dallo scopo di incentivare l’assunzione di personale a tempo indeterminato[9]. Considerata l’applicabilità della novella solo ai rapporti di lavoro instaurati dalla data di entrata in vigore del decreto (7.3.2015), la difformità del nuovo trattamento sanzionatorio, nel caso del licenziamento collettivo, è destinata a tradursi in una altrettanto netta disparità delle tutele contestualmente applicate ai singoli lavoratori destinatari della riduzione di personale. Questi ultimi, a fronte di identiche violazioni dei criteri di scelta nell’ambito della medesima procedura, possono vedersi reintegrati nel posto di lavoro o indennizzati sul piano esclusivamente monetario entro un predeterminato plafond in dipendenza solo della rispettiva data di assunzione, ossia di un unico fattore estraneo alla violazione e che, peraltro, ben potrebbe interferire a monte e orientare la stessa individuazione del personale da licenziare.
Ai fini di valutare la complessiva adeguatezza del descritto arretramento delle tutele, la Corte Costituzionale ricorda che nel quadro normativo, anche sovranazionale, l’alternativa tra la tutela reintegratoria o la tutela indennitaria, diversamente modulate, attiene all’ambito riservato alla discrezionalità legislativa e richiama, a tal fine, la molteplicità dei rimedi ritenuti idonei a garantire, anche in relazione alla indispensabile funzione dissuasiva, l’attuazione dei diritti previsti dagli artt. 4 e 35 Cost. in una prospettiva convergente con l’art. 24 della Carta sociale europea (punto 5.2 del Considerato in diritto).
Il riferimento della Corte all’art. 24 CSE costituisce, in particolare, una conferma dell’idoneità di quest’ultima norma a integrare il parametro degli artt. 76 e 117 Cost. anche in relazione al licenziamento collettivo, in continuità con quanto già affermato in tema di licenziamenti individuali nella sentenza n.194 del 2018. In quest’ultima pronuncia la Consulta non si è limitata a richiamare la convergenza dell’obbligo di adeguatezza del risarcimento previsto dall’art. 24 CSE, ritenuto in parte violato dall’art. 3, comma 1, d. lgs. 23/2015, con i diritti sanciti dagli artt. 3 e 35 Cost. Al punto 14 del Considerato in diritto, la Corte ha sottolineato l’autorevolezza delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, ancorché ritenute non vincolanti per i giudici nazionali[10], e ha operato uno specifico richiamo alla decisione del 31.1.2017, resa a seguito del reclamo collettivo proposto dalla Finnish Society of Social Rights contro la Finlandia, nella quale il Comitato aveva precisato che l’indennizzo del licenziamento è congruo, secondo lo standard previsto dall’art. 24 CSE, se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.
5. La decisione del Comitato europeo dei diritti sociali dell’ 11 febbraio 2020. Conclusioni
Sulla compatibilità con l’art. 24 CSE delle tutele economiche dei licenziamenti contenute nel decreto legislativo n. 23 del 2015, incluse quelle previste dall’art. 10 in tema di licenziamenti collettivi, si è recentemente pronunciato il Comitato europeo dei diritti sociali[11].
Nella decisione, oltre a richiamare, in un dialogo circolare con la Consulta, il proprio precedente sulla legislazione finlandese e la stessa sentenza n. 194 del 2018, il Comitato ha chiarito che in base all’art. 24 CSE “(..) qualsiasi tetto massimo (plafond), che svincola le indennità scelte dal danno subito e non presentino un carattere sufficientemente dissuasivo, è, in linea di principio, contrario alla Carta” (punto 96) e che “(..) né i sistemi di tutela alternativi offrono al lavoratore vittima del licenziamento illegittimo una possibilità di risarcimento oltre il tetto massimo del plafond previsto dalla legge in vigore, e né il meccanismo di conciliazione, stabilito dalle disposizioni contestate, consente in tutti i tipi di licenziamento senza motivo valido di ottenere un risarcimento adeguato, proporzionato al danno subito, e tale da dissuadere l'uso dei licenziamenti illegittimi” (punto 104).
Il Comitato ha quindi concluso che la disciplina di forfettizzazione del danno prevista nel nuovo sistema del contratto a tutele crescenti, pur tenendo conto dell’innalzamento dei limiti massimi disposto dal cd. decreto Dignità e dell’eliminazione del meccanismo automatico di quantificazione dell’indennizzo per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, è in contrasto con le prescrizioni dell’art. 24 della Carta sociale europea.
La decisione del Comitato, resa nota l’11 febbraio 2020, non è stata (ancora) esaminata dalla Corte Costituzionale, che l’ha solo richiamata nella parte in fatto sia della sentenza in commento sia della sentenza n. 150 del 2020, ritenendola in quest’ultima sede estranea alle censure formulate con l’ordinanza di rimessione.
Può tuttavia ritenersi che, alla luce dei principi espressi dalla Consulta sul fondamentale ruolo dell’art. 24 CSE nel sistema delle fonti destinate ad assicurare l’adeguatezza delle tutele dei diritti previsti dagli artt. 4 e 35 Cost. e sull’autorevolezza dell’interpretazione adottata dal Comitato in un’ottica armonica e “positiva” del diritto sociale europeo[12], l’affermata violazione della Carta costituisca un termine di confronto non eludibile per l’interprete chiamato ad applicare i dispositivi sanzionatori del decreto legislativo n. 23 del 2015.
[1] Corte Cost. n. 194 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 d. lgs. 23 del 2015 limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» cui è seguita Corte Cost. n. 150 del 2020, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 d. lgs. 23 del 2015 limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».
[2] CGUE 4 giugno 2020, causa C-32/20, TJ contro Balga s.r.l.
[3] Corte Cost. sentenza n. 85 del 2002.
[4] Sul dibattito suscitato dalla pronuncia, tra altri, L.Torsello “Il dialogo multilevel tra Corti in materia di lavoro e previdenza” in Questione Giustizia, 2019/1, www.questionegiustizia.it, F. De Stefano “Diritto dell’Unione europea e doppia pregiudizialità nel dialogo tra le corti”, in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[5] R. Cosio “Le ordinanze di Milano e Napoli sul jobs act. il problema della doppia pregiudizialità” in Lavoro Diritti Europa, 2020/1, www.lavorodirittieuropa.it.
[6] Il riferimento della Corte è al precedente CGUE 10 luglio 2014, Hernández e a., C 198/13 (punti da 34 a 36).
[7] S. Giubboni, “11.CEDU e Diritto del Lavoro. Intervista a E. Ales e S.Giubboni di Roberto Conti” in www.giustiziainsieme.it, aprile 2020.
[8] Cass. nn. 22365 e 22366 del 2019.
[9] Corte Cost. n.194 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto.
[10] Corte Cost. n. 120 del 2018.
[11] Per il testo e i primi commenti si vedano : F.Buffa “Licenziamenti illegittimi: la pronuncia del Comitato europeo dei diritti sociali” in www.questionegiustizia.it 27 aprile 2020; S. D’Ascola “Anche il Comitato Europeo dei Diritti Sociali boccia le tutele crescenti” in Rivista Labor, 6 marzo 2020; F. Perrone “La forza vincolante delle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali: riflessioni critiche alla luce della decisione CGIL c. Italia dell’11 febbraio 2020 sul Jobs Act sulle tutele crescenti” in Lavoro Diritti Europa, 2020/1, www.lavorodirittieuropa.it.
[12] O. De Schutter “La Carta sociale europea in tempi di crisi”, Relazione al Forum di Torino, 17-18 marzo 2016, in www.coe.int.
Un ricordo di Lidia Menapace scritto di getto dalla storica Emma Fattorini
Un mio ricordo della Menapace:
La Menapace: una vita sui treni.
Quando da giovane ginnasiale mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo: studiare filosofia, storia e poi teologia. Si ma concretamente? “Voglio diventare come la Menapace. Saltare da un treno all’altro, incontrare le persone per cambiare il mondo”.
Meno glamour delle fascinose Luciana e Rossana, “la” Menapace, vispa, acuta e generosa non le emulava, non conosceva l’invidia femminile.
Per quanto rispettata e ricercata, “in quanto cattolica”, risultava in qualche modo accessoria, come sempre “le cattoliche”. Preziose ma sempre e solo “compagne di strada”. Per la cultura comunista, in tutte le sue varianti.
La ricordo sobria e allegra nella sua casa di Cles, tutta legno e libri, per niente snob e radical chic. Tanto diversa ma tanto simile al casale di Adriana Zarri.
Un’ altra generazione e un’altra vita ma certo per quaranta anni ho passato più tempo in treno che in casa.
Ps. Per completare: tra un treno e l’altro Rossana mi ospitava a casa sua con un maternage affettuosissimo, molto simile ad una madre vera e dalla quale, come tale,toccava scappare e Luciana mi cercava per “lavorare” al Pdup, da cui pure occorreva allontanarsi per “crescere”.
Insomma tre donne fondamentali. Tre modelli femminili la cui forza e’ bene ricordare a chi lamenta la perenne prevaricazione maschile, chissà, forse assai meno soffocante e illiberale di quella dei politici maschi di oggi.
La formazione ai tempi della pandemia
di Costantino De Robbio
Sommario: 1. La formazione dei magistrati diventa digitale: trasformazioni strutturali - 2. Ciò che si guadagna e ciò che si perde con la formazione a distanza - 3. Effetti psicologici del nuovo modo di fare formazione sui partecipanti ai corsi - 4. Le difficoltà dei docenti - 5. La perdita di verticalità del sapere e gli effetti sulla formazione - 6. La nuova sfida della formazione: imparare dalla musica.
1. La formazione dei magistrati diventa digitale: trasformazioni strutturali
Come noto, la Scuola Superiore della Magistratura ha sin dall’inizio della pandemia dovuto trasformare radicalmente la propria offerta formativa, convertendo pressocché da un giorno all’altro i propri corsi, fino a quel momento svolti in presenza presso la sede di Scandicci, in corsi on line.
Tutti gli incontri dedicati all’aggiornamento dei magistrati in servizio (che compongono la cosiddetta formazione permanente) sono stati portati su piattaforma digitale, così come interamente “a distanza” è divenuto il tirocinio iniziale dei magistrati vincitori di concorso che non hanno ancora preso servizio. Parimenti, le iniziative di formazione internazionale sono state portate su Teams per essere seguite da casa, cancellando o sospendendo i programmi di scambio ed anche gli incontri delle formazioni decentrate, strutture territoriali della scuola operanti in ciascun distretto, hanno subito analoga trasformazione in incontri virtuali, così come i corsi di formazione per gli aspiranti ai posti direttivi.
Dal punto di vista organizzativo, tale mutamento di pelle è avvenuto con rapidità ed efficienza: la completa trasformazione dell’offerta formativa nelle forme della didattica a distanza – per usare un’espressione ormai in voga – è avvenuta praticamente senza soluzione di continuità, letteralmente “da un giorno all’altro” e a giudicare dalle valutazioni compilate dai partecipanti ai vari corsi[1], senza flessioni qualitative rispetto al passato.
Dopo quasi un anno dal provvedimento di sospensione dei corsi in presenza, e in un momento in cui la prospettiva del ritorno alla tradizionale offerta formativa appare ancora lontana e indefinita, il nuovo assetto sembra essere stato del tutto metabolizzato, tanto che non è azzardato parlare, in questo settore, di una “nuova normalità” con le sue regole e la sua routine.
2. Ciò che si guadagna e ciò che si perde con la formazione a distanza
Sarebbe tuttavia semplicistico affermare che nulla è cambiato a parte la forma.
Al contrario, numerosi e convergenti elementi inducono a ritenere che il mondo della formazione dei magistrati abbia subìto una profonda e sostanziale trasformazione, dai contorni ancora da definire compiutamente e che potrebbe avere il carattere della irreversibilità.
Questo mutamento ha infatti investito e modificato in primo luogo l’approccio ai corsi da parte dei discenti, dei docenti e persino dei componenti del Comitato Direttivo della Scuola.
Alcuni di questi cambiamenti sono senza dubbio positivi: oggi è possibile partecipare ad un corso, sia per i docenti che per i discenti, senza doversi recare in un luogo situato a decine o a centinaia di chilometri dalla propria residenza; continuare a lavorare (o a fare cose per alcuni di noi persino più piacevoli) fino a un minuto prima dell’inizio del corso e riprendere da dove si aveva interrotto un minuto dopo il termine del medesimo e non occorre più interrompere la propria routine quotidiana, elemento che può avere un’incidenza sull’organizzazione del lavoro e della vita familiare (basti pensare ai moltissimi colleghi con figli piccoli o a quelli con problemi di salute).
L’utilizzo del mezzo digitale ha poi consentito di sperimentare nel mondo della formazione i webinar[2], strumenti preziosissimi per poter fornire informazioni e riflessioni a caldo su temi di stretta attualità.
E’ stato così possibile coinvolgere per singoli eventi centinaia di destinatari in luogo dei 90-100 partecipanti ai corsi tradizionali ed arricchire l’offerta formativa aggiungendo alle forme già esistenti un modo complementare e non concorrente di fare formazione.
A fronte di queste indubbie comodità il prezzo da pagare sembra per altro verso particolarmente alto.
Limitare la partecipazione ai corsi ai soli momenti in cui parla uno dei docenti o si fa attività nei gruppi di lavoro vuol dire infatti rinunciare a tutto quello che ruota intorno alla didattica in senso stretto e che pure ha un’importanza fondamentale per la formazione: il confronto incessante sulle tematiche del corso che si svolge, da sempre, tra i colleghi nei giorni in cui sono a Scandicci.
A tutti è capitato di commentare argomenti inerenti al corso nelle pause davanti alla macchinetta del caffè, nella pausa pranzo, durante il trasporto in navetta da e per l’albergo nonché a cena, in gruppi più o numerosi di partecipanti e a volte con gli stessi relatori.
Alla voce solista del docente del corso si accompagnano, da sempre, le voci plurali ed informali di tutti quelli che il corso lo vivono: questa polifonia è da sempre una ricchezza insostituibile dell’attività formativa della Scuola e genera quella condivisione di prassi ed esperienze tra magistrati di distretti anche lontanissimi geograficamente che è linfa vitale per la giurisprudenza, di merito e non solo.
Alle riflessioni tecniche va poi aggiunto il valore, invisibile ma altrettanto importante, della condivisione dell’esperienza al punto di vista sociale: trascorrere insieme i tre giorni del corso è da sempre un modo per creare o rafforzare rapporti umani tra i colleghi e “fare rete”, ciò che costituisce uno strumento imprescindibile per realizzare quello strano e meraviglioso potere diffuso che la Costituzione ci assegna.
Quanto detto è ancora più vero e importante per il tirocinio dei MOT: tutti noi siamo legati, anche dopo anni di esercizio delle funzioni nei distretti più lontani, ai nostri “compagni di concorso”, proprio in virtù di un percorso vissuto insieme che va molto al di là della condivisione a distanza di una o più lezioni.
Identico, o a volte ancora più profondo, è poi il legame che si crea tra i MOT di un gruppo ed il tutor[3] a questo assegnato, con quest’ultimo che diviene molto spesso un punto di riferimento anche negli anni a venire.
Questo vero e proprio capitale invisibile dell’offerta formativa è al momento indisponibile e non c’è davvero nulla che si possa fare per recuperarlo, finché perdura lo stato di emergenza conseguente alla pandemia; è importante però non dimenticare la sua esistenza né sottovalutare la sua importanza, soprattutto quando si dovrà discutere di tempi e modalità della ripresa dei corsi in presenza o quando i partecipanti potranno scegliere se riprendere il viaggio verso la Toscana o seguire il corso comodamente da casa (se si decidesse di adottare, post pandemia, una modalità di partecipazione mista).
3. Effetti psicologici del nuovo modo di fare formazione sui partecipanti ai corsi
Vi è poi un aspetto altrettanto importante su cui riflettere, che riguarda ciò che dell’esperienza formativa è invece ben visibile.
Punto di partenza è ancora la considerazione già svolta in precedenza: la formazione svolta su Teams si inserisce armonicamente, come mai avvenuto prima, nel vissuto quotidiano di ognuno di noi, senza stravolgerlo né pretendere un’attenzione particolare.
Ebbene, anche tale armonia sembra avere un costo.
Viene infatti spontaneo chiedersi se una formazione che non pretende un’attenzione particolare ma si inserisce nella vita quotidiana quasi in punta di piedi sia una formazione veramente efficace.
Non è facile dare una risposta a questo interrogativo, perché è pressocché impossibile avere dati oggettivi di riferimento.
Alcuni elementi tuttavia appaiono innegabili e meritevoli di riflessione.
Il primo è dato dal riscontro di un calo di partecipazione ai dibattiti, che sono parte fondamentale di ognuno dei corsi della Scuola, da quando questa si svolge in forma digitale.
È noto che la formazione dei magistrati ha caratteristiche peculiari rispetto alla normale didattica: i partecipanti ai corsi non sono studenti a cui impartire nozioni su una materia a loro ignota, ma professionisti del diritto, usciti vincitori da un concorso altamente selettivo e che possono avere alle spalle anche venti o trenta anni di esperienza.
È per questo che la formazione è da sempre strutturata in forma il più possibile partecipata e tendenzialmente somiglia (o dovrebbe somigliare) più ad un confronto tra tutti i partecipanti sulle rispettive esperienze e ad una riflessione comune piuttosto che ad un sapere versato unilateralmente dai docenti alla platea.
È dunque previsto un dibattito alla fine di ogni intervento, di durata considerevole (a volte quasi pari a quello della relazione), vi sono sessioni intere dedicate ai gruppi di lavoro, composti da un numero ristretto di persone per favorire al massimo partecipazione ed interattività in luogo delle relazioni frontali, nei corsi MOT si prevedono esercitazioni individuali e collettive, e tanto altro.
Ebbene, la riflessione non può prescindere da questo dato di fatto: la partecipazione attiva ai gruppi di lavoro e persino i semplici dibattiti al termine delle relazioni soffrono nella nuova veste digitale un calo quantitativo che non si può ignorare.
Con alcune lodevoli eccezioni (soprattutto nel campo della formazione iniziale) i docenti e gli organizzatori dei corsi hanno riscontrato una minore partecipazione dei discenti ed una difficoltà di conduzione di dibattiti e gruppi di lavoro.
Sembra essersi affermato un nuovo modo di partecipare con connotazioni fortemente passive, che non pare riconducibile ad una reazione ad un corso qualitativamente insoddisfacente, in presenza – come si è detto innanzi – di valutazioni assai lusinghiere e votazioni mediamente molto alte.
La spiegazione va dunque verosimilmente cercata proprio nella nuova “forma” digitale ed è doveroso domandarsi se non sia proprio questa nuova forma a spingere ad una sorta di disaffezione.
C’è da dire che in realtà la platea dei partecipanti al corso si presenta agli occhi di docenti e organizzatori come un insieme di decine e decine di telecamere spente, in cui a ciascun volto è sostituita un’impersonale sigla con le iniziali di nome e cognome, sicché non è facile dire con certezza se vi sia effettivamente un calo di attenzione durante i corsi.
Tuttavia, la nota imperizia informatica di larga parte dei magistrati offre spesso un involontario squarcio di cosa avviene nelle stanze dei discenti, con effetti a volte comici: le telecamere lasciate inavvertitamente accese hanno restituito in più di un’occasione immagini di colleghi intenti in occupazioni domestiche le più disparate (dalla cottura dei pasti alle pulizie domestiche o a quelle… personali) o a conversare al telefono.
La maggior parte dei monitor non disattivati, va precisato ad onore della produttività della categoria, mostra tuttavia magistrati alacremente impegnati in attività lavorative, mentre compulsano faldoni o scrivono alla tastiera dello stesso computer da cui promanano le attività formative. Non pochi colleghi indossano la toga, segno evidente del fatto che stanno per andare in udienza o vengono da udienza appena terminata (va per incidens ricordato che le attività di lavoro non dovrebbero essere svolte nei giorni di corso).
Da tali dati, che ripeto sono assolutamente parziali e interessano comunque una sparuta minoranza dei partecipanti, uniti al dato oggettivo della diminuita partecipazione attiva ai dibattiti e ai gruppi di lavoro, si può trarre se non una risposta quantomeno uno spunto di riflessione: la formazione a distanza comporta o può comportare una minore partecipazione “attiva” dei discenti.
Non si tratta a mio avviso di una vera e propria disaffezione alla formazione ma della conseguenza di un altro fattore (questo sì, invisibile ma ben presente): seguire il corso dall’ufficio (o da casa) dà al partecipante al corso e a chi lo circonda (familiari, colleghi, capi) l’idea che non si stia davvero partecipando ad un evento di formazione, che lo stesso possa essere interrotto alla bisogna.
E così, fatalmente, le telefonate “urgentissime” si alternano alle convocazioni del dirigente dell’ufficio o alle visite dell’avvocato o dell’ufficiale di P.G. che “mi permetto di disturbarla solo per un minuto”…. E quel fascicolo urgente che è davanti agli occhi del partecipante al corso e che reclama attenzione diventa una tentazione irresistibile.
Inevitabile il confronto con i “bei tempi” dei corsi in presenza, quando lo stacco con il mondo di provenienza era netto e precisamente avvertibile nella mente sia del partecipante che dei terzi e a nessuno sarebbe venuto in mente di contattare chi era a Firenze se non per effettive urgenze indifferibili (meno che meno, va da sé, venire a Castelpulci a “disturbare per un attimino”).
Ecco, riassunte in pochi fotogrammi, le differenze di approccio alla formazione al tempo della pandemia rispetto a quanto vissuto in precedenza.
4. Le difficoltà dei docenti
A questi elementi va poi aggiunta la difficoltà dei docenti di compiere il proprio lavoro avendo di fronte uno schermo nero e non poter vedere i destinatari della propria relazione.
Chiunque è salito su un palco come relatore ad un convegno sa che da lì si percepisce l’uditorio come un corpo vivo, conosce quanta importanza hanno per la riuscita dell’intervento le facce attente (o quelle disattente, che sono spia della necessità di un cambio di direzione da imprimere a ciò che si sta dicendo), ricorda quanto conti il peso e l’intensità dell’applauso finale per avere un riscontro di ciò che si è appena offerto.
Oggi a tutto questo è stata sostituita una voce (quella del responsabile del corso) che dà la parola all’inizio dell’intervento e che al termine dello stesso, in un silenzio irreale, se la riprende per il commento finale prima di dare la parola al relatore successivo.
Non vi è giorno in cui qualcuno dei relatori non si lamenti, con i responsabili o con gli stessi partecipanti, del disagio di dover intervenire in un contesto siffatto.
Anche questi fattori contribuiscono senza dubbio alle difficoltà di fare formazione in questi tempi così particolari.
5. La perdita di verticalità del sapere e gli effetti sulla formazione
Non bisogna però pensare che i problemi descritti siano necessariamente conseguenza del mai abbastanza vituperato virus noto come “covid19”.
O meglio, sarebbe un errore trascurare un ulteriore elemento, che consegno a questo scritto come momento finale di riflessione: le distrazioni e i deficit di attenzione riscontrati potrebbero essere (anche) frutto di una tendenza in atto ovunque ed iniziata molto tempo prima dell’inizio della pandemia, che si potrebbe definire una perdita di verticalità del sapere.
E’ sempre più evidente infatti che le nuove generazioni, cresciute in un mondo sovraccarico di dati e costantemente bombardati dagli stessi, mostrano una sorprendente capacità di interagire contemporaneamente con molteplici fonti di informazione …. e una parallela perdita o attenuazione della capacità di approfondimento di ciascuna.
Il fenomeno è particolarmente accentuato tra i ragazzi (i cosiddetti “nativi digitali”) ma riguarda ormai tutti noi: oggi è piuttosto comune anche per un “ex giovane” - come chi scrive - lavorare mentre si ascolta musica, e come si è già avuto modo di evidenziare è richiesto a tutti di mantenere la concentrazione su un fascicolo mentre si è interrotti più volte in ufficio o a telefono.
Viceversa, l’esperienza un tempo comune di isolarsi completamente per ore o per giorni per dedicarsi interamente ad un singolo approfondimento diviene sempre più rara e viene percepita come superata e inutile, se non addirittura dannosa per la produttività del lavoro o dell’apprendimento.
Tra i giovani il fenomeno sta assumendo dimensioni e caratteristiche preoccupanti: mio figlio, liceale, studia con un cuffia sola così io non so mai se quando gli parlo sta davvero sentendo me o ascoltando musica… spesso pare fare con disinvoltura entrambe le cose o addirittura scambia messaggi e non me ne accorgo (perché diteggia in modi per me insospettabili, ad esempio sull’orologio: a me sembra che stia controllando l’ora mentre ha mandato un bacio alla ragazza e preso appuntamento per uscire con un amico), per poi chiedermi all’improvviso di ripetergli storia ma “fai una cosa veloce per favore” mentre palleggia per casa con una palla di gomma tenendosi in allenamento per la partita di calcio di domenica.
Non è facile, e mi fa sempre un certo effetto, spiegare al mio giovane “congiunto” le cause per cui si è arrivati alla follia di chiudere esseri umani in campi di concentramento in pacchetti liofilizzati di informazioni, da inscatolare velocemente insieme a cose eterogenee e coloratissime; ma se oso protestare tutto quello che ottengo è che lui “sta attento” (anche se a me non sembra) e che “tanto me le ricordo le cose che dici, non ti preoccupare”.
Che non si tratti (solo) di una risposta dettata da furbizia ce lo dicono gli articoli di giornali e riviste ove sempre più spesso si parla di una modalità di “apprendimento orizzontale” (più cose imparate contemporaneamente e più superficialmente) che sta prendendo il posto di quella tradizionale, definita modalità di “apprendimento verticale”.
Alessandro Baricco ci ha scritto ben due saggi di notevole perspicacia, oltre che molto godibili[4] in cui dimostra mirabilmente che oggi nessuno può più permettersi di pensare ed apprendere in profondità: la cultura, a quanto pare, non è più fatta di faticosi carotaggi ma di abili e leggiadri surf tra dati e informazioni.
Siamo dunque in presenza di un fenomeno universale e da tempo presente, che ha ovvie refluenze anche nel mondo della formazione dei magistrati, come riscontrabile del resto anche nei corsi in presenza prima della sospensione: le aule di Scandicci erano da tempo “infestate” da cellulari o ipad con cui i partecipanti facevano esattamente ciò che imputiamo oggi al Covid19: dividevano la loro attenzione tra più fonti di informazione, con ovvia compromissione della capacità di attenzione e tanti saluti all’approfondimento.
6. La nuova sfida della formazione: imparare dalla musica
Certo, queste tendenze possono accentuarsi con la didattica a distanza e sommate agli altri fenomeni sopra descritti (dalla difficoltà dei relatori alla perdita della polifonia e del contesto extra-lezione) stanno mettendo a dura prova sia l’offerta formativa che la fruizione della stessa.
Tuttavia, essere consapevoli che la “distrazione di massa” è un fenomeno universale e generazionale e non una condotta del singolo partecipante al corso non vuol dire accettare supinamente questa deriva.
Al contrario, si tratta a mio avviso di un fenomeno che non riesce ad essere del tutto convincente - almeno per un vecchio innamorato della formazione - e nessuno riesce a togliermi dalla testa che non si possano e debbano pensare dei rimedi o dei correttivi (alcuni dei quali sono allo studio del Comitato Direttivo della Scuola proprio in questi giorni).
E’ vero, oggi le informazioni ci arrivano selezionate, liofilizzate, impacchettate. E’ come l’avvento dei suoni digitali (il CD che ha sostituto - e sembrava avere ucciso - il vecchio LP): il suono sembra più nitido, ma si perde qualcosa perché i suoni sono compressi.
Secondo alcuni ciò che si perde è solo il fruscio della puntina sul disco, un rumore di fondo tutto sommato innocuo se non dannoso e che con la musica non c’entra nulla ….
Ma a ben pensare si perde molto altro, e quello che si perde è parte imprescindibile dell’esperienza dell’ascolto: poter percepire i rumori di fondo dello studio di registrazione, lo sfregare delle dita sulla corda della chitarra, persino il canto dell’uccellino fuori dalla finestra dello studio di registrazione ci dà un senso diverso di ciò che ascoltiamo, lo contestualizza, lo rende tridimensionale e reale.
E’ la possibilità di essere trasportati in quel posto, che rende l’esperienza musicale e la rende più completa perché reale.
Ricordiamoci anche questo, quando questo periodo terribile sarà finito.
[1] A proposito: anche queste sono state nell’arco di poche ore informatizzate, abbandonando la forma cartacea che le caratterizzava dall’inizio della storia della Scuola. E’ stata mantenuta la forma anonima, ciò che costituisce la migliore garanzia della attendibilità delle stesse.
[2] Il webinar, neologismo scaturito dalla fusione delle due parole inglesi web e seminar, è appunto un evento formativo che si sviluppa in rete. Ci si accede tramite semplice compilazione di un form o cliccando su un link inviato dalla Scuola. Vi si possono collegare anche migliaia di persone contemporaneamente e richiede uno sforzo organizzativo minimo, per cui si presta particolarmente ad eventi formativi che nascono da esigenze cui occorre dare risposta immediata e garantire la massima partecipazione (a esempio, il commento a caldo di novità legislative o di sentenze di particolare rilievo).
[3] Ogni settimana di tirocinio presso la Scuola è divisa in sessioni (mezze giornate) composte da due parti: nella prima si affida ad un relatore un argomento (relazione frontale + dibattito); nella seconda si prosegue il lavoro sul medesimo argomento con approfondimenti in gruppi composti da circa 20 persone e guidati da un tutor (esercitazioni su casi pratici e discussione interattiva). Mentre il relatore cambia per ogni argomento, i tutor seguono il gruppo di MOT loro affidati per l’intera settimana (o a volte per due settimane).
[4] Il primo, intitolato “I barbari” è del 2006; il secondo, “The game”, è uscito pochi mesi fa.
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