ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Non ho letto il libro, ma ho visto il film
Sono ancora tra noi. Recensione a M il figlio del secolo
di Morena Plazzi
Non ho ancora letto M il figlio del secolo di Antonio Scurati, il primo dei quattro libri che ricostruiscono, con grande capacità narrativa, la vita di Benito Mussolini dai primi anni del ventesimo secolo fino a piazzale Loreto.
Ho visto, anzi sto seguendo la serie televisiva attualmente in onda su Sky che tratta dal primo di questi quattro libri, e di questo voglio parlare. Sono arrivata a metà di quella che, più che serie televisiva sarebbe da definire una lunga opera cinematografica che si svilupperà in 8 puntate; ne scrivo ben sicura che non vi siano rischi di “spoilerare” il tragico finale che a tutti è ben noto.
Probabilmente meno nota o meglio meno raccontata è la nascita del fascismo, a partire dai Fasci Italiani di combattimento: un pezzo della nostra storia narrata da Antonio Scurati attraverso la persona di Benito Mussolini e ora tradotta, con un lavoro di regia di qualità decisamente notevole, nelle mirabolanti scene della serie televisiva.
Vengo al punto: non ho letto i libri forse perché li avevano già letti in tanti e quindi ne avevo sentito già tanto parlare, rinviando quindi il momento in cui mi ci sarei impegnata ed anche per questa serie televisiva, pure preceduta da recensioni estremamente positive dopo la proiezione al Festival del Cinema di Venezia, nutrivo qualche dubbio per una campagna promozionale molto incentrata su dichiarazioni di Luca Marinelli, l’attore che interpreta Mussolini, sulla sua difficoltà o chiamiamola così sofferenza nell’affrontare quel ruolo; sentendolo ripetere tante volte mi dava l’idea di una manovra pubblicitaria, un po’ esasperata, che mi induceva più ad allontanarmi che avvicinarmi al prodotto.
Riserve e dubbi che sono stati impetuosamente superati dall'impatto con una esperienza visiva e sonora assolutamente diverse dal solito, non solo perché decisamente superiori nella qualità tecnica ma perché capaci di condurre, attraverso lo strumento tecnico, dritti al pensiero.
E così, pur con la difficoltà che deriva dalla visione di scene esplicitamente violente, ci si ritrova, o almeno è andata così per me, in una rappresentazione della nascita del fascismo impregnata di sangue e scandita dal passo militare delle camice nere; tutto questo accompagnato da un'ambientazione visivamente davvero particolare, con un uso di colori e scenari molto scuri, ma di un nero che vira al giallo, di ombre che prevalgono sulla luce, di inserzioni e di immagini che sembrano d'epoca ma non lo sono, ed altre che sono proprio spezzoni originali, e si sovrappongono perfettamente all’attuale, con un montaggio serrato nell’avvicendarsi di momenti privati e pubblici, a catturare inesorabilmente l'attenzione di chi è spettatore, ma anche risucchiato nel procedere della storia.
Infine, alla fine di tutto, sei per necessità costretto a fermare il pensiero su quello che hai visto, ti vedi forzato a ragionare su quanto davvero sai della nascita del fascismo. Non si può fare altro perché quello che hai appena visto narrare, lo sai, è riproduzione pirotecnica della storia del tuo Paese. I miei nonni abitavano l’Italia, in quegli anni, e ben presto seppero chi erano i fascisti. È la storia delle condizioni che hanno creato e favorito quel regime, di chi ha scelto, pensando fosse tale, il quieto vivere, e di quelli, pochi, che opponendosi caddero.
La serie è in 8 episodi, e si concluderà, tra due settimane, con l’omicidio Matteotti ed il discorso in Parlamento di Mussolini del 3 gennaio 1925[1], la data di nascita del regime fascista. Seguirò questi episodi fino alla fine, non c’è dubbio: assistere alla nascita del regime puntando su figure e personaggi che nella loro eccessività ci spingono a riflettere, seriamente, su quello che accadde, è il filo conduttore di questa serie televisiva.
È impossibile ignorare, in questo racconto, la parola come incitamento alla violenza, l'indifferenza ai destini delle vittime, la spinta ad avanzare, a qualsiasi costo.
Rifulgono, nel racconto, la debolezza, la miopia e l'incapacità della politica ufficiale di leggere e comprendere fino in fondo quello che il movimento fascista stava preparando, benché esso fin dal primo ingresso in Parlamento manifestasse senza censure l’insofferenza per ogni regola democratica, l’avversione per le istituzioni nelle quali era entrata con l’aiuto di Giolitti, immediatamente sfiduciato.
L’ambizione e la sfrontatezza della persona, la carambolesca capacità di dire qualunque cosa ed il suo contrario, il sostegno di un capitale spaventato dai socialisti, la falsa rassicurazione per i timori sorti nella “pancia” piccolo borghese italiana.
Tutto questo, con ritmo incalzante, sottolineato da una colonna sonora che porta la firma di Tom Rowlands (Chemical Brothers) ci arriva attraverso lampi tra luce e buio, attraverso frenetiche conversazioni, nel passaggio dall'italiano forbito, agli inni fascisti, alle espressioni dialettali tra Mussolini e la moglie Rachele.
E poi, quella che i tecnici chiamano “la rottura della quarta parete”, espressione derivata dal teatro dove la quarta parete è immaginata come il confine invisibile tra gli attori sul palco ed il pubblico. Nel cinema questa barriera una volta che viene rotta crea un'interazione diretta fra il protagonista e lo spettatore che viene così investito del pensiero, dei retroscena, dei dubbi financo del protagonista.
Se fosse una storia di sola fantasia (come non pensare al cattivissimo Frank Underwood di House of Cards?) si potrebbe anche correre il rischio di creare un rivolo di simpatia per il protagonista; non è così, non può essere così con il dittatore fascista. Al contrario, è solo l’ulteriore svelarsi del progetto di scalata al potere assoluto, dittatoriale, di Benito Mussolini e questo rende impossibile ogni forma di empatia con l’istrionico Marinelli.
Forse perché lui stesso ti avvisa: «Mi avete amato follemente. Per 20 anni mi avete adorato e temuto come una divinità, e poi mi avete odiato follemente perché mi amavate ancora. Mi avete ridicolizzato. Scempiato i miei resti perché di quel folle amore avevate paura. Anche da morto. Ma ditemi a che cosa è servito. Guardatevi intorno. Siamo ancora tra voi.»
[1] Su questa rivista, nell’anniversario: 3 gennaio 1925. Un triste ricordo che deve illuminare il presente di Enrico Manzon.
Il punteggio equalizzato per l’immatricolazione ai corsi di laurea in Medicina, Chirurgia e Odontoiatria (nota a Cons. di Stato, Sez. VII, 4 ottobre 2024, n. 8005)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. La vicenda giuridica – 2. Le questioni preliminari – 3. L’iter concorsuale – 4. Il punteggio equalizzato - 5. Il diritto allo studio - 6. Il giudizio di primo grado - 7. La decisone del Consiglio di Stato - 8. Considerazioni conclusive
1. La vicenda giuridica
La sentenza in commento interviene sul tema delle modalità d’ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso degli aspiranti medici che, puntualmente, ogni anno, genera un considerevole contenzioso[1].
Nel caso specifico, il Consiglio di Stato si è occupato della questione attinente ai criteri valutativi utilizzati all’interno delle prove d’esame necessarie per accedere ai Corsi di laurea in Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, indette con Decreto del Ministero dell’università e della ricerca del 24 settembre 2022, n. 1107.
Il candidato, in ragione del punteggio ottenuto nella graduatoria unica nazionale, non utile ad immatricolarsi in una delle sedi universitarie prescelte, ha agito in sede d’appello in via principale, dopo che in primo grado l’impugnazione era stata parzialmente accolta (Tar Lazio, sede di Roma, Sez. III, n. 863/2024)[2], pur non disponendo nulla circa la sua ammissione ai corsi di laurea in sovrannumero, oltre a non aver ordinato la ripetizione della prova.
Il giudizio si perfezionava con gli atti di costituzione degli enti resistenti - Ministero dell'Università e della Ricerca, Presidenza del Consiglio, diverse università ed il Consorzio interuniversitario sistemi integrati (Cisia) - e delle parti private che, per quanto di rispettivo interesse, hanno appellato la sentenza di primo grado in via incidentale contestando l’accoglimento del ricorso nel merito e censurando la mancata dichiarazione di inammissibilità per carenza di interesse ad agire, in ragione del mancato superamento della prova di resistenza e per non avere dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero della salute.
2. Le questioni preliminari
Il Collegio, prima di entrare nel merito della vicenda, ha analizzato le questioni preliminari concernenti l’interesse ad agire del ricorrente e la legittimazione passiva delle amministrazioni pubbliche governative diverse dal Ministero dell’Università e della Ricerca.
Tali eccezioni, devolute in secondo grado a mezzo di appelli incidentali, non sono state ritenute fondate. Il Consiglio di Stato ha asserito quanto già disposto dal Tar e, relativamente al primo profilo, ha ritenuto superato il vaglio della prova di resistenza[3], considerata non già un mero adempimento formale quanto piuttosto un vero e proprio onus probandi che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., grava sulla parte ricorrente ed incide sulla sussistenza, o meno, dell’interesse ad agire in giudizio.
Ha poi sottolineato come le censure mosse hanno riguardato non solo i motivi di impugnazione dell’intera procedura concorsuale, ma anche quelli relativi alla prova d’esame. Dunque, dall’accoglimento di una o dell’altra censura si sarebbe certamente ottenuto il medesimo effetto: la reintegrazione del ricorrente nella chance di conseguire il bene della vita perseguito, dato dall’immatricolazione in un corso di laurea a numero programmato nell’anno accademico 2023-2024[4].
Quanto alla censura relativa alla qualità di «pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato», ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. proc. amm., le parti resistenti hanno ritenuto la chiamata in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri superflua in quanto amministrazione a cui non è ascrivibile una diretta paternità degli atti. Nondimeno, per il secondo decisore, tale considerazione non doveva essere intesa in senso restrittivo, poiché la Presidenza seppur non abbia emanato direttamente gli atti impugnati, ha certamente contribuito a riceverne gli effetti in quanto amministrazione concorrente alla loro formazione o comunque coinvolta nell’iter procedimentale degli stessi, a mezzo di atti presupposti, consequenziali o connessi e utilizzati nella fase programmatoria del fabbisogno professionale del settore sanitario[5]. Da tale base è, poi, stata stabilita l’offerta annua di posti per relativi corsi di laurea, i cui atti sono stati impugnati con il ricorso di primo grado unitamente a quelli della prova di ammissione, con motivi riproposti con l’appello principale.
Inoltre, aggiunge il giudice, le amministrazioni hanno manifestato il proprio interesse a resistere[6] già con la costituzione nel giudizio di primo grado e, poi, con gli appelli incidentali autonomi, il tutto a dimostrazione che le medesime hanno riconosciuto a pieno il ruolo di parte resistente e di essere destinatarie delle domande di annullamento proposte nei loro confronti.
3. L’iter concorsuale
Superati i profili preliminari, conformi al primo grado di giudizio, appare opportuno effettuare una breve disamina della vicenda concorsuale. Nella sentenza oggetto di gravame, il giudice di prime cure, si era espresso per l’illegittimità del criterio posto alla base dell’attribuzione del punteggio previsto dalla normativa concorsuale inserita nel citato decreto d’indizione delle prove. Tale atto ha previsto che per l’anno accademico 2023/2024 l’ammissione dei candidati[7], sarebbe avvenuta a seguito di superamento di apposita prova d’esame cd. TOLC (acronimo di Test OnLine Cisia) quale strumento utile a determinare i punteggi dei candidati da far, poi, confluire nel procedimento di formazione delle graduatorie di accesso ai corsi a numero programmato nazionale. Sono stati ammessi a partecipare ai TOLC, ai fini dell’accesso ai corsi di laurea, i candidati iscritti al quarto o al quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado italiane o quelli che erano in possesso di un diploma rilasciato in Italia da un istituto di istruzione secondaria di secondo grado.
La gestione della procedura selettiva è stata affidata al Consorzio Interuniversitario Sistemi integrati per l’accesso (per l’appunto il Cisia), ovvero organo di orientamento universitario e soggetto giuridico cui deve essere attribuita la paternità del nuovo modello scientifico stante alla base del criterio di selezione per le immatricolazioni. Non a caso le censure più rilevanti mosse dall’appellante, sia in primo che in secondo grado, riguardavano la modalità di attribuzione dei punteggi delle prove che, per tale sessione, si sono caratterizzate per l’utilizzo di un sistema “equalizzato”, predisposto dal Cisia e adottato dal Ministero competente[8].
Vi è da precisare che per l’annualità 2023 le sessioni propedeutiche all’ammissione ai corsi di laurea sono state fissate nel mese di aprile e nel mese di luglio e hanno avuto luogo secondo modalità e tempi definiti dal calendario adottato con decreto della competente Direzione generale del Ministero: ai fini della formazione delle graduatorie di accesso ai corsi di laurea a numero programmato nazionale disciplinati dal predetto decreto è stato utilizzato, su istanza del candidato, il miglior punteggio ottenuto nelle due sessioni disponibili per l’anno accademico 2023/2024.
Per ciascuna sessione dei TOLC la somministrazione dei test è stata effettuata in presenza, presso la sede scelta dal candidato all’atto della iscrizione alla prova. I test sono stati erogati per ciascun candidato, mediante la piattaforma informatica Cisia, in apposite postazioni, predisposte dagli atenei secondo le modalità definite con successivo decreto della competente Direzione generale del Ministero. Successivamente, i candidati hanno presentato la domanda di inserimento in graduatoria, ai sensi della lettera b) dell’art. 5 del citato D.M. n. 1107/2022.
Per quanto riguarda la strutturazione dei quesiti, le prove erogate nelle due sessioni hanno riguardato argomenti relativi alle sezioni di cui all’allegato 1 al D.M. n. 1107/2022[9], il test TOLC è stato sostenuto in una qualsiasi sede scelta dal candidato all’atto dell’iscrizione, anche se diversa da quella in cui il candidato si sarebbe poi immatricolato.
Ricostruito l’iter concorsuale, è d’obbligo analizzare la metodologia utilizzata per il calcolo dei risultati delle prove degli aspiranti medici: il punteggio equalizzato, strumento dichiarato capace di «misura(re) la difficoltà della prova», ed ottenuto secondo il «modello scientifico e il sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati», enunciato nell’allegato 2 al decreto ministeriale richiamato[10].
4. Il punteggio equalizzato
Il MUR con l’introduzione del modello scientifico del sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati[11], si è posto come obiettivo quello di avere un indicatore capace di armonizzare la facilità delle prove[12] e parametrare le risposte fornite in ragione della difficoltà (o facilità) di ciascun quesito[13], estratto da una banca dati previamente formata e composta da 1700 quiz.
L’obiettivo perseguito era quello di porre i candidati in condizioni di parità[14], nella prevista prospettiva della ripetibilità della prova stessa oltre che della diversità dei quesiti che la compongono. A tal proposito, per ogni quesito è stato misurato il relativo livello di difficoltà, attraverso l’attribuzione di un coefficiente di facilità fondato su un criterio di carattere statistico, incentrato sulla media dei punteggi registrati nella prima sessione, ovvero quella di aprile (ridenominata in base alla normativa concorsuale «periodo di calibrazione»). La somma dei coefficienti di difficoltà dei quesiti di cui si è composta ciascuna prova è stata poi sottratta dal valore massimo ottenibile in base alle risposte esatte (50) e il risultato così ottenuto è stato infine aggiunto al punteggio risultante dalle risposte date dal candidato.
Ciò posto, le modalità di funzionamento e di valutazione sono state puntualmente descritte nel D.M. n. 1107/2022 che, nella sezione apposita relativa alla valutazione delle prove con punteggio equalizzato, stabiliva come «Il punteggio che viene assegnato al partecipante, detto punteggio equalizzato, è ottenuto sommando il punteggio ottenuto dal partecipante con le risposte date ai quesiti, detto punteggio non equalizzato, e un numero che misura la difficoltà della prova, chiamato coefficiente di equalizzazione della prova».
È comprensibile come tale meccanismo, utilizzato per la prima volta nella sessione in narrativa e caratterizzato da una forte vocazione matematica, sia stato oggetto di pesanti censure. Non a caso entrambe le difese, di ambo i lati, sono state affiancate da relazione tecnica a sostegno delle diverse tesi. Parte appellante ha contestato la funzione uniformatrice auspicata dall’amministrazione in quanto tale criterio, a suo dire, era stato capace di alterare la par condicio tra i concorrenti[15] venendo meno al suo fine dichiarato di armonizzare la prova.
5. Il diritto allo studio
Compresi i principali profili di merito attinenti alla metodologia utilizzata per la scelta dei candidati
più validi, di natura strettamente tecnica e forse poco utile a far comprendere, in tale sede, gli interessi posti in gioco, è necessario descrivere la più ampia cornice del diritto allo studio[16], ove deve essere calata la presente vertenza.
Il punto cardine della materia, a livello nazionale, è certamente quello rinvenuto all’interno del dettato costituzionale pacificamente individuato nell’art. 34 Cost., che sancisce come «la scuola è aperta a tutti», e prosegue con la previsione dell’obbligatorietà e gratuità dell’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni (co. 2) e del diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi (co. 3) e chiude gravando la Repubblica del compito di rendere effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso (co. 4) [17].
Ai fini del presente commento occorre soffermarsi, in particolar modo, sul co. 3 dell’art. 34 Cost., ove si configura un sistema utile a garantire la meritocrazia dei più capaci, aldilà della propria condizione di partenza[18] al fine di garantire il principio d’uguaglianza, in ossequio all’art. 3 Cost., co. 2, oltre quanto previsto all’art. 9, co. 1, ove è dichiarato che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica».
Ulteriori disposizioni costituzionali vengono, poi, richiamate dallo stesso Tar Lazio nella sentenza di primo grado e poi riformata dalla pronuncia in commento: «Tali previsioni non soltanto attuano il principio personalistico (art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”), ma si rivelano funzionali all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà richiamati dal medesimo art. 2, in vista dello svolgimento da parte di ciascuno “secondo le proprie possibilità e la propria scelta, [di] un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Il tutto in ossequio a quanto previsto ed avallato dalla Corte Costituzionale, la quale nel 2002 ha fatto proprio il principio di “diritto allo studio” inteso come «il diritto di studiare, nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o di arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale e professionale, è d'altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli artt. 2, 3 e 4 della Costituzione»[19] e sempre nella stessa sentenza, ha anche chiarito quelli che devono essere i criteri per accedere all’istruzione superiore[20] .
Anche a livello sovranazionale le considerazioni restano ferme e univoche, il diritto all’istruzione è sancito dall’art. 2 del protocollo addizionale alla CEDU, secondo cui «il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno». Sul punto la Corte EDU[21] ha, allora, precisato che il suddetto diritto non è assoluto, potendo essere sottoposto a limitazioni, purché queste siano prevedibili e perseguano un obiettivo legittimo capace di azionare un filtro utile a garantire l’ingresso soltanto a quei soggetti adatti ad assicurare un elevato livello di professionalità.
Anche la Corte di Giustizia si è occupata dei corsi universitari a numero chiuso, nello specifico caso Bressol (C-73/08), nell’ambito di una controversia insorta nell’ordinamento belga relativamente alle restrizioni previste per l’accesso di studenti stranieri ai corsi di formazione medica e paramedica, caratterizzate dalla previsione di un livello massimo di studenti ammissibili stabilito per decreto, nonché dall’estrazione a sorte, da parte degli istituti interessati, ai fini dell’ingresso nel predetto contingente. In quella sede la Corte si era limitata a stabilire il principio generale per cui «Le restrizioni all’accesso ai detti studi, introdotte da uno Stato membro, devono essere [...] limitate a quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti e devono consentire un accesso sufficientemente ampio per i detti studenti agli studi superiori», demandando al giudice del rinvio la mera verifica delle modalità «di selezione degli studenti non residenti si limiti all’estrazione a sorte e, in tal caso, se tale modalità di selezione fondata non sulle capacità dei candidati interessati, bensì sull’alea, risulti necessaria ai fini del raggiungimento degli obiettivi perseguiti». Nel caso sottoposto alla Corte di Giustizia, da cui prende le mosse il Tar Lazio per la decisione di primo grado, poi appellata, è certamente lampante l’elemento aleatorio, che ben si identifica con la scelta di estrarre “a sorte” i candidati da selezionare. Nondimeno, il giudice di primo grado, partendo da tale massimo concetto di alea ha delineato tutta una serie di argomentazioni utili a ritenere la procedura de qua afflitta da elementi aleatori o quantomeno discutibili, tale da viziarne il meccanismo di selezione.
Chiarito, dunque, il quadro nazionale e sovranazionale, entro il quale il giudice amministrativo è stato chiamato ad operare, è necessario soffermarsi sulle previsioni del caso, in primo e secondo grado, della sentenza in commento.
6. Il giudizio di primo grado
L’accoglimento del ricorso da parte del Tar e poi riformato dal secondo giudicante, partiva dal presupposto che, nel contesto di principio poc’anzi richiamato, un sistema di selezione dei più meritevoli da ammettere ai corsi superiori ma caratterizzato da elementi fortemente aleatori avrebbe avuto come conseguenza quella di smentire il dettato costituzionale che garantisce, ai capaci e meritevoli, l’accesso agli studi superiori.
Nella sentenza impugnata, il primo giudice, in riferimento all’alea si era espresso nettamente a sfavore del meccanismo equalizzato, in quanto a suo dire questo non era in grado di soddisfare le esigenze selettive poiché presentava: «elementi di alea che, da un lato, non sono giustificati da esigenze oggettive della selezione e, dall’altro, non consentono un ordinamento degli aspiranti sulla base della sola performance, essendo la relativa posizione influenzata, in maniera anche significativa e determinante l’accesso ai corsi di laurea, dall’attribuzione di un fattore di parametrazione del punteggio che limita, in modo per ciascuno diverso, il punteggio massimo raggiungibile e che mina, pertanto, la par condicio tra i candidati».
Ulteriori spunti sono emersi dalla relazione tecnica depositata dal Cisia in primo grado, dalla quale il giudice aveva estratto gli aspetti principali del criterio equalizzato quali: «una banca dati composta di 1.700 quesiti quindi, sarebbero (in base a quanto affermato da Cisia, ancorché vi sia agli atti obiettiva evidenza) state composte prove (intese come insieme di quesiti da sottoporre ai candidati) valutate ex ante analoghe in termini di difficoltà assegnata dagli esperti e identiche per struttura; all’esito della prima sessione di esami è stato calcato il coefficiente di equalizzazione dei singoli quesiti, e quindi delle prove, sottraendo dal numero dei quesiti, 50, la somma dei punteggi medi (arrotondati ai centesimi) ottenuti dai quesiti nel periodo di calibrazione. Il punteggio equalizzato è, quindi, ottenuto sommando il punteggio grezzo, dato dalla sommatoria del risultato ottenuto sulla base delle risposte esatte (1 punto), omesse (0 punti) o errate (-0,25 punti), e il coefficiente di equalizzazione; il coefficiente di equalizzazione è stato calcolato sottoponendo ciascun quesito a una popolazione, suddivisa in cluster, analoga alla popolazione nazionale iscritta al test;- il coefficiente calcolato al termine della sessione di aprile è stato utilizzato anche per la determinazione del punteggio equalizzato nella sessione di luglio».
In virtù di tali assunti era arrivato a convincersi del fatto che le prove somministrate ai candidati non erano omogenee quanto a difficoltà complessiva individuata attraverso il coefficiente di equalizzazione. Il tutto veniva, invece, smentito dalla resistente Cisia che affermava come la tendenziale omogeneità delle prove sarebbe stata assicurata attraverso un duplice criterio: il primo, attinente all’attribuzione di un livello di difficoltà ai quesiti componenti le prove, determinato in base a una valutazione ex ante; successivamente, tale primo gradiente di difficoltà veniva corretto attraverso il metodo statistico, sulla base delle percentuali di successo nelle risposte effettivamente riscontrate nel corso della prima sessione di aprile cd. periodo di calibrazione.
La difesa delle resistenti non aveva convinto appieno il Tar che, sulla base di tali presupposti, si era persuaso per l’inomogeneità delle prove quanto a difficoltà complessiva individuata attraverso il coefficiente di equalizzazione, che aveva precluso la possibilità di raggiungere il «punteggio massimo conseguibile», a causa di un «fattore, non controllabile dal candidato, di premialità o penalizzazione suscettibile, di per sé, di influenzare l’accesso o l’esclusione dai corsi», oltre che di porre lo stesso candidato «in una situazione di partenza diversa l’uno dall’altro e del tutto affidata al caso».
Di conseguenza, il vaglio di legittimità del sistema equalizzato non risultava superato e pertanto ne seguiva l’annullamento di tutti quegli atti connessi e consequenziali al citato D.M di indizione delle prove, ivi compresi i bandi di concorso per l’accesso ai corsi di laurea e della graduatoria unica nazionale del concorso per l’ammissione al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e in Odontoiatria e Protesi Dentaria per l’anno accademico 2023/2024. Tuttavia, come anticipato in premessa, l’accoglimento risultava parziale in quanto escludeva la caducazione degli atti posti in essere in esecuzione degli atti annullati e, in particolare, delle immatricolazioni già avvenute e di quelle in via di perfezionamento per il succitato anno accademico, negando così l’immatricolazione in soprannumero dei candidati utilmente collocati in graduatoria, per non essere stato dimostrato «un nesso di implicazione diretta tra l’adozione del meccanismo di equalizzazione e la mancata ammissione ai corsi per quanto riguarda parte ricorrente». Inoltre, non veniva prevista alcuna ripetizione della prova, rispetto alla quale è stato considerato ostativo l’aspetto organizzativo e venivano esclusi gli effetti invalidanti nei confronti delle immatricolazioni «già avvenute e di quelle in via di perfezionamento» sulla base della graduatoria annullata nonché degli eventuali scorrimenti[22].
Ciò posto, il candidato rimasto escluso in sovrannumero, proponeva appello al secondo giudice che ripercorreva il primo grado di giudizio.
7. La decisone del Consiglio di Stato
Come precedentemente esposto, la sentenza di primo grado ha giudicato illegittimo il modello scientifico che presiedeva al sistema di attribuzione del punteggio equalizzato, sulla cui base veniva definito l’ordine di graduatoria.
Tuttavia, il Consiglio di Stato ha rinvenuto elementi in senso contrario, direttamente ricavabili dal sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati. Si è, infatti, evidenziato come lo strumento era stato concepito in funzione della «ripetibilità delle prove» prevista dalla normativa concorsuale, per cui il fatto che ogni candidato avrebbe potuto partecipare ad una doppia sessione di test legittimava l’utilizzo di una formula astrattamente capace di “migliorarsi” tra una sessione e l’altra.
Il giudice ha, poi, ricostruito la forbice dell’intervallo numerico entro il quale il meccanismo operava[23], tale elaborazione ha consentito al giudicante di demolire l’assunto del Tar circa l’esito della prova demandata «ad un fattore non controllabile dal candidato e pertanto non dipendente dalle sue capacità, a causa del diverso coefficiente di equalizzazione applicabile a ciascuna prova».
L’equalizzazione, dunque, avrebbe garantito la giusta parametrazione dei quesiti operata su base statistica e gli scostamenti di punteggio rispetto al massimo ottenibile sarebbero stati frutto di un «fondamento razionale in un inoppugnabile e non contestato sistema di misurazione della difficoltà dei quesiti avente base statistica».
In estrema sintesi la procedura è stata ritenuta salvabile poiché in linea con il principio di parità, garantito da un sistema di formazione del punteggio finale capace di tener conto del potenziale fattore di alterazione della parità di trattamento dei candidati, insito nell’estrazione causale dalla relativa banca dati di quesiti di diverso livello di difficoltà e dunque nel potenziale differente livello di difficoltà di ciascuna prova nel suo complesso.
Il Collegio ha visto, in senso opposto al Tar, nel coefficiente di equalizzazione una vera e propria funzione omogenizzante utile a garantire il riequilibrio del diverso livello difficoltà della prova e di correzione della casualità insita nel suo meccanismo di formazione; il tutto in coerenza con i canoni di par condicio, di selezione imparziale a stampo meritocratico che sul piano della legittimità amministrativa regolano il funzionamento dei pubblici concorsi.
Viene, poi, respinto energicamente l’automatismo secondo il quale «qualsiasi equalizzazione comporterebbe una distorsione», anzi ne viene sottolineata la funzione correttiva svolta dal coefficiente rispetto al diverso livello di difficoltà delle prove sostenute.
Vengono, poi, superate le ulteriori contestazioni di carattere tecnico di parte appellante, supportate dalla relazione prodotta, ma smentite dalle controdeduzioni del Cisia. Esse riguardavano rispettivamente le scelte di: impostare l’equalizzazione a livello dei singoli quesiti; limitare la rilevazione (il c.d. periodo di calibrazione) alla sola sessione di aprile e non anche a quella di luglio; ridurre l’ampiezza della banca dati; impostare il sistema di calcolo dei coefficienti di difficoltà dei quesiti con arrotondamento alla seconda cifra decimale. Tutte considerazioni che non hanno trovato presa nel giudizio di appello.
Ancora, ritenute inammissibili, sono state le ulteriori censure riproposte con l’appello principale, ex art. 101, comma 2, cod. proc. amm., relative alla scelta dell’amministrazione di non aver somministrato quesiti differenti per ognuna delle due sessioni, non scongiurando il rischio di una fuga di domande tra la prima e la seconda sessione di prove. Il rischio palesato era quello di attribuire un vantaggio ai partecipanti delle rispettive prove ledendo la par condicio, sulla base del criterio di pericolo astratto[24]. Tuttavia, il ricorrente non avendo specificato la sessione di suo interesse è decaduto dalla possibilità di approfondimento di una eventuale lesione del suo interesse legittimo.
Il giudice, poi, rinviene nella possibilità dei candidati di scegliere a quale sessione partecipare un importate appiglio in termini di equità di trattamento. Il fatto che l’art. 8, comma 2, del decreto ministeriale del 24 settembre 2022, n. 1107, aveva previsto tale circostanza è utilizzata del giudicante per escludere qualsiasi forma di illegittimità relativa ai coefficienti di facilità dei quesiti, calcolati unicamente al termine della sessione di aprile, sulla base delle risposte fornite dai candidati che vi avevano partecipato, e non anche in base agli esiti delle prove della sessione di luglio.
Sempre inammissibili sono state ritenute le censure relative alla ripartizione del tempo a disposizione dei candidati (90 minuti) in base alle 4 sezioni in cui era articolata la prova, raccolte all’interno del d.d. n. 1925/2022, che aveva previsto che «ogni sezione ha un tempo prestabilito, al termine del tempo di una sezione il candidato deve procedere e avviare la successiva (…); il candidato può utilizzare tutto il tempo assegnato a ciascuna sezione o chiuderla in anticipo rinunciando al tempo residuo»[25]. Tuttavia, di tali aspetti, secondo il Collegio non sono state prodotte le allegazioni utili a dimostrare il pregiudizio del ricorrente[26].
Infine, sono state ritenute generiche ed infondate le censure relative al preteso sottodimensionamento dei posti a disposizione per l’immatricolazione nei corsi di laurea a numero programmato per l’anno accademico in contestazione[27], poiché attinenti a profili di carattere discrezionale, ai sensi dell’art. 3, comma 2, della legge 2 agosto 1999, n. 264[28]. Il giudice ha ribadito come la valutazione relativa ai posti da mettere a bando risponda ad esigenze di tipo organizzativo, non sindacabili in sede giurisdizionale e non ascrivibili ad alcun sintomo di eccesso di potere, ha poi troncato la censura mossa, anche, in ragione dello sforzo numerico compiuto dall’amministrazione che si è adoperata a bandire 19.544 posti per l’anno accademico 2023-2024, quando, in realtà, in sede governativa, ne erano stati ritenuti sufficienti 18.133[29].
In definitiva, il Consiglio di Stato ha sancito che il meccanismo di attribuzione dei punteggi utilizzato è risultato coerente con i canoni guida di imparzialità e parità di condizioni che sul piano della legittimità amministrativa presiedono al funzionamento dei concorsi pubblici: la sentenza non lascia spazio alcuno circa la validità del sistema di equalizzazione dei punteggi.
8. Considerazioni conclusive
La pronuncia in commento si è adoperata per legittimare l’operato delle amministrazioni coinvolte circa l’utilizzo di un innovativo sistema di calibrazione dei punteggi, demolito in primo grado e energicamente riabilitato in secondo.
Le considerazioni del Consiglio di Stato, seppur ampliamente motivate, attengono principalmente ad aspetti tecnici circa le modalità di funzionamento del metodo equalizzatore estratti dalla relazione presentata dal Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l’Accesso, poiché tali erano i principali profili di merito portati dinanzi all’attenzione del giudicante.
Tuttavia, mettendo da parte i profili tecnici, supra analizzati, e legittimati dal massimo organo della giustizia amministrativa, in tale sede sorge spontaneo spostare l’attenzione sulle finalità del sistema, orientato ad assicurare l’effettività del diritto allo studio e la selezione dei più capaci e meritevoli.
Se è vero che la necessità del filtro all’ingresso sia utile a garantire una scrematura degli aspiranti medici e che questo, per come descritto, sia compatibile con la normativa nazionale ed europea, non è da sottovalutare l’aspetto relativo alla somministrazione di quiz a batteria quale strumento (aldilà del metodo utilizzato per il calcolo del punteggio) potenzialmente dannoso nei confronti di tutti quegli studenti contraddistinti da una mancanza di prontezza e di caratteristiche necessarie al superamento di una prova di tale impostazione che risulta, tra l’altro, lontana dal profilo umanistico dei corsi di laurea degli aspiranti medici.
Ciò posto, appare pretestuoso pensare che soltanto chi sia in grado di cimentarsi con successo in una selezione così asettica sia poi effettivamente coincidente con quel soggetto che, con maggiore probabilità, raggiungerà con successo la conclusione del percorso di studi e potrà, in prospettiva, maggiormente contribuire al progresso della società, visto anche l’aspetto umano che deve caratterizzare il futuro medico.
Ovviamente, per chi scrive, tali motivazioni non devono indurre ad abbandonare il criterio della capacità e del merito che deve sempre guidare l’amministrazione nella configurazione dei sistemi di accesso ai corsi a numero programmato, in modo che siano assicurati l’imparzialità e il buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.) in un contesto caratterizzato dall’esigenza di assicurare l’equilibrio di bilancio (artt. 81 e 97 Cost.).
Tuttavia, il contenzioso legato al sistema d’ingresso ai corsi di medicina non è certo novità dell’ultima sessione[30]. Il ricorso giurisdizionale, spesse volte in doppio grado di giudizio, è quasi divenuto passaggio obbligatorio per il candidato che voglia avere un’ulteriore possibilità di immatricolazione al corso di laurea ambito. Tale aggiuntiva chance confluisce in una richiesta economica alla famiglia utile a garantire all’aspirante medico, che non sia nella condizione economica di presentare un ricorso individuale, la partecipazione come candidato-ricorrente ad azioni massive di tutela giurisdizionale in forma collettiva, organizzate da professionisti che raggruppano tutti quegli interessi comuni agli esclusi e che tentano di cristallizzare le medesime ragioni all’interno di un singolo atto capace di tutelare contemporaneamente diversi interessi e, allo stesso tempo, di abbattere i costi della giustizia amministrativa.
In tal senso appare opportuno effettuare una riflessione sull’utilità del modello a “quiz” per l’accesso ai corsi di studi, destinati alla formazione del personale medico e quindi, in definitiva, alla spiegazione di meccanismi atti ad assicurare, attraverso l’individuazione delle risorse umane da destinare al settore sanitario, l’attuazione del diritto fondamentale alla salute (art. 32 Cost.), risultando del tutto evidente che una selezione influenzata da fattori casuali delle suddette risorse non potrebbe in alcun modo ritenersi confacente all’obbligo della Repubblica, costituzionalmente sancito, di tutelare tale diritto.
L’accesso ai corsi di laurea in commento va, poi, analizzato nella prospettiva d’ingresso dei futuri medici all’interno degli organici della pubblica amministrazione[31], notoriamente segnati da gravi carenze: basti pensare al blocco del turn overche sin dai primi anni 2000[32], e poi con maggiore intensità dal 2010, ha contribuito alla costante riduzione del numero dei dipendenti pubblici e al progressivo invecchiamento della forza lavoro impiegata[33]. Il quadro è stato notevolmente aggravato dalle successive politiche di austerity seguenti alla crisi del 2008 che hanno, di fatto, sancito un pesante blocco assunzionale[34]. Tali politiche hanno visivamente segnato i più giovani i quali hanno scontato un pesante sbarramento all’accesso del mondo lavorativo, ivi compresi i camici bianchi. Il risultato ottenuto è stato quello di un ritardo nel ricambio generazionale, con logico deterioramento della qualità delle competenze e delle professionalità a servizio dell’amministrazione[35], il tutto in un momento cruciale poiché coincidente con il processo di transizione digitale[36]. Negli anni più recenti, a partire dalla legge delega n. 124/2015, il legislatore ha tentato di spezzare il trend negativo delle assunzioni pubbliche introducendo elementi di innovazione, superando il concetto di «dotazione organica» in favore della più ponderata nozione di «piani di fabbisogno del personale»[37], la quale, per come accennato anche nella sentenza in commento, è demandata a scelte discrezionali. Nell’opera di riassetto organizzativo il legislatore con il decreto legislativo n. 75 del 2017 ha operato modifiche sostanziali al decreto legislativo 165 del 2001 (agli artt. 6[38] e 6-ter[39]) implementando la disciplina dei piani fabbisogni di personale e, con la l. 56/2019, ha poi previsto che le amministrazioni nella redazione del piano del fabbisogno debbano tener conto anche «dell’esigenza di assicurare l’effettivo ricambio generazionale e la migliore organizzazione del lavoro, nonché, in via prioritaria, di reclutare figure professionali con elevate competenze»[40].
Tale breve ricostruzione è valida per rimarcare come gli interventi normativi dell’ultimo decennio siano orientati verso una rotta capace di rimpolpare le maglie dell’amministrazione, tuttavia, nel sistema di accesso alle professioni sanitarie, tale fine viene ostacolato dalle difficoltà generate dai meccanismi d’accesso. Gli studenti, in spesse occasioni, hanno attuato sistemi evasivi del sistema nazionale dei test, tramite iscrizione ad università dell’Ue maggiormente permissive in termini di entrata, per poi rientrare all’interno del sistema nazionale con il riconoscimento degli esami conseguiti all’estero[41] o, in ipotesi più estreme, abbandonando definitivamente la penisola e permanendo stabilmente ove si sono condotti gli studi esteri.
Ancora, numerosi medici, già affermati, hanno deciso di abbandonare il sistema nazionale per recarsi in paesi arabi, ove è garantito un altissimo livello di welfare oltre che a tutta una serie di vantaggi dal punto di vista retributivo e di qualità degli ambienti del lavoro[42].
Tali forti rigidità all’ingresso del sistema non appaiono, in definitiva, in linea con quelle che sono le reali esigenze del Paese; d’altro canto, il sistema a numero chiuso garantisce una maggiore qualità degli insegnamenti che, come già ribadito, attengono a beni di rango primario.
È allora auspicabile una riforma del sistema e, in tal senso, l’esecutivo ha preso atto di tali criticità e proprio lo scorso novembre è stata discussa in Senato la riforma dell’accesso a Medicina, Odontoiatria e Veterinaria. Il disegno mira a potenziare il SSN, incrementando il numero e la qualità dei professionisti sanitari e a tale scopo ha delegato il Governo ad introdurre un accesso libero al primo semestre dei corsi di laurea, eliminando quindi lo sbarramento all’ingresso, con un’ulteriore selezione per il secondo semestre, basata su esami e una graduatoria nazionale di merito.
Secondo la nuova impostazione, dunque, la selezione avverrà al termine di un primo semestre comune a tutti gli iscritti e solo dopo tale periodo verrà stabilito chi potrà proseguire in ragione degli esami svolti e del conseguimento dei relativi crediti negli insegnamenti ritenuti cruciali per il prosieguo del percorso universitario. Attualmente il provvedimento è nelle mani della Camera, successivamente, serviranno alcuni provvedimenti attuativi da parte del ministero e l’auspicata modifica al sistema d’accesso sarà operativa già dal 2025/26 soltanto se l’iter approvativo verrà ultimato prima dell’estate 2025, in caso contrario l’attuazione slitterà certamente al 2026[43].
[1] Tra le questioni più significative che hanno visto intervenire il Giudice amministrativo si segnala in particolare quella relativa all’anonimato delle prove, che ha originato le pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 20 novembre 2013, nn. 26, 27 e 28 con riferimento alla modalità di ammissione per l’a.a. 2010/2011, e della Sez. VI, n. 15/2015 per l’a.a. 2014/2015. Sul tema dell’anonimato nelle prove di concorso, il giudice amministrativo ha stabilito come questi sia corollario del principio costituzionale di uguaglianza nonché di quelli del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, la quale deve operare le proprie valutazioni senza lasciare alcuno spazio a rischi di condizionamenti esterni e dunque garantendo la par condicio tra i candidati; tale criterio, costituendo applicazione di precetti costituzionali, assume una valenza generale ed incondizionata, mirando esso in sostanza ad assicurare la piena trasparenza di ogni pubblica procedura selettiva e costituendone uno dei cardini portanti. Qualora l’Amministrazione si discosti in modo percepibile dall’osservanza delle norme in materia di anonimato delle prove scritte di concorso, si determina una illegittimità di per se rilevante e insanabile, venendo in rilievo una condotta già ex ante implicitamente considerata come offensiva in quanto appunto connotata dall’attitudine a porre in pericolo o anche soltanto minacciare il bene protetto dalle regole stesse; mutuando la antica terminologia penalistica, può affermarsi che la violazione dell’anonimato da parte della commissione nei pubblici concorsi comporta una illegittimità da pericolo c.d. astratto e cioè un vizio derivante da una violazione della presupposta norma d’azione irrimediabilmente sanzionato dall’ordinamento in via presuntiva, senza necessità di accertare l’effettiva lesione dell’imparzialità in sede di correzione.
[2] In senso opposto alla sentenza in commento, invece, la vicenda riguardante l’ammissione relativa all’anno accademico 2018/2019. In quell’occasione il Tar aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto per l’annullamento del D.M. 337/18 (ovvero il bando che definiva le modalità per l’accesso al corso di laurea in medicina e chirurgia e al corso di odontoiatria e protesi dentaria per l’a. a. 2018/2019). Tuttavia, in secondo grado, la decisione veniva totalmente ribaltata sulla scorta di un duplice profilo attinente: “da un lato, quella di consentire agli Atenei, sotto il profilo organizzativo, la possibilità di garantire un’offerta formativa compatibile con le proprie risorse strumentali e umane, dall’altro, quella di assicurare l’accesso al predetto corso ai soggetti in possesso delle cognizioni tecniche e delle capacità attitudinali necessarie per la proficua frequenza di corsi universitari di così elevato livello formativo”. Cons. Stato, Sez. VII, n. 8213/2022.
[3] Per tale superamento si intende quel bisogno effettivo di tutela giurisdizionale e, come tale, rilevante quale condizione dell’azione ex art. 100 c.p.c., nel senso che l’annullamento degli atti gravati deve risultare idoneo ad arrecare al ricorrente un’effettiva utilità. Sul punto per consolidata giurisprudenza nelle controversie relative alla contestazione dei risultati di un concorso pubblico non può prescindersi - ai fini della verifica della sussistenza di un concreto ed attuale interesse al ricorso - dalla c.d. prova di resistenza, dovendo, infatti, il ricorrente principale dimostrare (o comunque quantomeno fornire un principio di prova in ordine al) la possibilità di ottenere un collocamento in graduatoria in posizione utile in caso di eventuale accoglimento dei motivi di ricorso proposti, essendo altrimenti inammissibile la domanda formulata. Infatti, il candidato, che impugna i risultati di una procedura concorsuale, ha l'onere di dimostrare il suo interesse, attuale e concreto, a contestare la graduatoria, non potendo egli far valere, quale defensor legitimitatis, un astratto interesse dell'ordinamento ad una corretta formulazione della graduatoria, se tale corretta formulazione non comporti per lui alcun apprezzabile risultato concreto. (ex multis, C.G.A., 4 marzo 2019, n. 201; Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2019 n. 5837; sez. IV, 2 settembre 2011, n. 4963 e 20 maggio 2009, n. 3099; sez. III, 5 febbraio 2014 n. 571).
[4] Sul punto Cons. Stato, VII, 26 giugno 2023, nn. 6237 e 6238.
[5] V. nota n. 28.
[6] V. Cons. Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 22.
[7] Per candidati si intendono i soggetti dei Paesi UE e dei Paesi non UE di cui all’art. 39, comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nonché dei Paesi non UE residenti all’estero ai corsi laurea magistrale a ciclo unico di medicina e chirurgia, odontoiatria e protesi dentaria e medicina veterinaria in lingua italiana di cui all'articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 2 agosto 1999, n. 264.
[8] Ai sensi dell’art. 6, c. 4, D.M. n. 1107/2022, infatti, è stato previsto che: “Al candidato che ha sostenuto il test TOLC è assegnato un punteggio c.d. “equalizzato” che è ottenuto sommando il punteggio conseguito dal candidato con le risposte fornite ai quesiti 8 (punteggio c.d. “non equalizzato”) e un numero che misura la difficoltà della prova denominato “coefficiente di equalizzazione della prova”. L’attribuzione del punteggio non equalizzato avviene come segue: - 1,00 punti per ogni risposta esatta; - meno 0,25 punti per ogni risposta errata; - 0 punti per ogni risposta omessa. Il modello scientifico e i criteri di valutazione delle prove secondo il coefficiente di equalizzazione sono disciplinati nell’Allegato 2, che costituisce parte integrante del presente decreto.”
[9] Nello specifico riguardavano: competenze di lettura e conoscenze acquisite negli studi, biologia, chimica, fisica, matematica e ragionamento.
[10] Ai sensi dell’allegato 2 del D.M. n. 1107 del 24 settembre 2022, Modello scientifico e sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati, questi viene descritto come: “Il nuovo sistema di accesso prevede un cambiamento sostanziale rispetto al modello previgente ed ha l’obiettivo di realizzare una selezione in ingresso equa ed efficace, che garantisca pari opportunità di accesso, ripetibilità delle prove e possibilità di attingere a strumenti di miglioramento della preparazione iniziale. Coerentemente con tale obiettivo, il nuovo modello di selezione ed accesso costituirà altresì un efficace strumento di orientamento che supporterà i partecipanti nella scelta consapevole del proprio percorso formativo. La predisposizione e la custodia dei quesiti è conseguente agli obiettivi posti alla base del modello scientifico. Elemento essenziale del modello, garantito dal CISIA, è costituito dal costante monitoraggio e dall’analisi dei risultati al fine di migliorare nel tempo la capacità orientativa e la capacità predittiva del test. Più nel dettaglio le prove saranno composte da quesiti la cui effettiva difficoltà sarà determinata a valle dell’erogazione. I punteggi assegnati ai partecipanti sono calcolati introducendo un coefficiente di equalizzazione che tiene conto delle difficoltà misurate dei singoli quesiti e rende equa la comparazione di tutte le prove sostenute, anche se composte da quesiti diversi e svolte in momenti diversi. Ne consegue che i quesiti presenti nelle prove devono necessariamente costituire una banca dati riservata non pubblica, di proprietà del CISIA, progressivamente alimentata e aggiornata, in grado di soddisfare l’esigenza di migliorare e mantenere nel tempo la qualità della selezione. Anche in presenza di una banca dati riservata, è possibile comunque garantire tutti gli elementi di trasparenza attraverso la comunicazione dei criteri e dei singoli argomenti con cui si costruisce il test e delle procedure attraverso le quali si garantisce l’analoga difficoltà/selettività dei test sostenuti e la pubblicazione di esercitazioni molto simili al test per argomenti e difficoltà. In casi motivati sarà comunque garantito l’accesso secondo modalità stabilite dagli Atenei e dal CISIA.”
[11] Il punteggio equalizzato della prova (𝑃𝑒𝑞) di ogni partecipante si ottiene sommando al punteggio non equalizzato della prova (𝑃𝑛𝑒) il coefficiente di equalizzazione della prova (𝐶𝑒𝑞). V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[12] Si definisce coefficiente di facilità di una prova (𝐶𝑑𝐹𝑃) la somma dei coefficienti di facilità dei 𝑘 quesiti (𝐶𝑑𝐹𝑖) che la compongono. V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[13] Si definisce coefficiente di facilità (CdF) di un quesito erogato il valor medio dei punteggi ottenuti per quello specifico quesito dagli 𝑁partecipanti ai quali il quesito è stato somministrato durante il periodo di calibrazione. V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[14] V. nota successiva.
[15] Le norme relative alla condizione di parità che deve essere sempre garantita in sede concorsuale sono rinvenibili nei canoni dell’art. 97 della Costituzione; nei principi di cui all’art. 1 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) in relazione ai generali canoni volti a guidare l’intera attività amministrativa; nella disciplina di dettaglio del D.P.R. 9 maggio 1994, N. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi).
[16] Interessante ricostruzione sul tema del diritto allo studio - nel quadro dei principi costituzionali fondamentali, della giurisprudenza costituzionale, nonché della più recente legislazione statale e regionale – è effettuata da M. ROSINI, Capacità, merito e carenza di mezzi. Riflessioni critiche sul diritto allo studio, in Federalismi, 2022.
[17] Autorevoli commenti dell’art. 34 Cost.: M. BENVENUTI, Articolo 34, in F. CLEMENTI, L. CUOCOLO, F. ROSA, G.E. VIGEVANI (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna 2021, p. 238ss.; Q. CAMERLENGO, Art. 34 Cost., in S. BARTOLE, R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova 2008, p. 341ss; A. POGGI, Art. 34, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino 2006, p. 704ss.; B. CARAVITA, Art. 33 e 34, in V. CRISAFULLI, L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova 1990, p. 232; S. CASSESE, A. MURA, Art. 33 e 34, in M. BESSONE, L. MONTUSCHI, D. VINCENZI AMATO, S. CASSESE, A. MURA, Rapporti etico-sociali. Commentario della Costituzione, diretto da G. Branca, Roma 1976, p. 252 ss.
[18] F. GRANDI, L’accesso ai più alti gradi dell’istruzione (il diritto allo studio attraverso la lente del principio personalista), in M. DELLA MORTE (a cura di), La dis-eguaglianza nello Stato costituzionale, Quaderni del Gruppo di Pisa, Napoli 2016, p. 61.
[19] Corte cost. 29 maggio 2002, n. 219, punto 4 del Considerato in diritto.
[20] Per il giudice della legalità costituzionale delle leggi: “Il diritto allo studio comporta non solo il diritto di tutti di accedere gratuitamente alla istruzione inferiore, ma altresì quello – in un sistema in cui "la scuola è aperta a tutti" (art. 34, primo comma, della Costituzione) – di accedere, in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ai "gradi più alti degli studi" (art. 34, terzo comma): espressione, quest’ultima, in cui deve ritenersi incluso ogni livello e ogni ambito di formazione previsti dall’ordinamento”. Con la conseguenza che “Il legislatore [...] può regolare l’accesso agli studi, anche orientandolo e variamente incentivandolo o limitandolo in relazione a requisiti di capacità e di merito, sempre in condizioni di eguaglianza, e anche in vista di obiettivi di utilità sociale”, Corte cost. cit., n. 219 ripresa dalla più recente Corte cost. 19.3.2021, n. 42.
[21] Nei punti 48 e 49 della sentenza 2 aprile 2013 Tarantino e altri c. Italia: “48. The Court further considers that these restrictions conform to the legitimate aim of achieving high levels of professionalism, by ensuring a minimum and adequate education level in universities running in appropriate conditions, which is in the general interest. 49. As to the proportionality of the restrictions, firstly in relation to the entrance examination, the Court notes that assessing candidates through relevant tests in order to identify the most meritorious students is a proportionate measure to ensure a minimum and adequate education level in the universities”.
[22] Cfr. ex multis: T.A.R., Lazio, Roma, III n. 18980/2023; T.A.R. Lazio, Roma, III, n. 11328/2021, pagg. da 17 a 19; T.A.R. Lazio, Roma, III, 7 giugno n. 7358/2022; Cons.St., VI, n. 2296/2022; Cons. St., VI, n. 2302/2022, p. 3.2.
[23] V. punti nn. 10 e 11 della sentenza in nota.
[24] V. nota n. 1.
[25] Art. 4, comma 7, lett. b, del decreto direttoriale del 30 novembre 2022, n. 1925, recante la definizione delle modalità di svolgimento della prova d’esame.
[26] Si è anche tentato di specificare come il meccanismo avrebbe inciso sulla posizione di tutti i partecipanti in ragione di un palesato interesse astratto alla mera legalità amministrativa, non coerente con le caratteristiche di giurisdizione di tipo soggettivo quale quella amministrativa. Cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 13 aprile 2015, n. 4.
[27] Per l’anno accademico 2018/2019 si era invece stabilito come “Considerato che l’aumento dei posti complessivi nelle Università italiane per detti corsi di laurea, disposto sia pur a partire dell’a. acc. 2019/2020, è indizio serio e non revocabile in dubbio della fondatezza della censura sul sottodimensionamento dei posti fin qui resi disponibili, compresi quelli per cui è causa, cosa, questa, che non smentisce, ma rende l’accesso programmato ai corsi medesimi fondato su numeri dell’offerta formativa, al contempo più realistici in sé ed adeguati ai prevedibili fabbisogni sanitari futuri”. Cons. Stato, sez. VI, ord. 25 luglio 2019 n. 3784.
[28] Nello specifico la norma individua “la valutazione dell'offerta potenziale, al fine di determinare i posti disponibili di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1, è effettuata sulla base: a) dei seguenti parametri: 1) posti nelle aule; 2) attrezzature e laboratori scientifici per la didattica; 3) personale docente; 4) personale tecnico; 5) servizi di assistenza e tutorato; b) del numero dei tirocini attivabili e dei posti disponibili nei laboratori e nelle aule attrezzate per le attività pratiche, nel caso di corsi di studio per i quali gli ordinamenti didattici prevedono l'obbligo di tirocinio come parte integrante del percorso formativo, di attività tecnico-pratiche e di laboratorio; c) delle modalità di partecipazione degli studenti alle attività formative obbligatorie, delle possibilità di organizzare, in più turni, le attività didattiche nei laboratori e nelle aule attrezzate, nonché dell'utilizzo di tecnologie e metodologie per la formazione a distanza.”
[29] G. GENTILE, Il reclutamento pubblico: aspetti organizzativi, modelli di selezione e nuovi assetti, Giappichelli Editore, 2023, p. 27 e ss., ove si sottolinea come la programmazione del fabbisogno di personale costituisce il momento strategico in cui le amministrazioni pubbliche danno vita alla mappa delle professionalità che, poi, troveranno un concreto riscontro nel momento della redazione del bando di concorso. Sul tema tra i tanti, S. GASPARRINI, Conoscere per reclutare, in Giorn. dir. amm., 2021, p. 337 ss.; G. VECCHI, Fabbisogni e change management nella PA: per un reclutamento selettivo basato su progetti di riorganizzazione, in U. CARABELLI, L. ZOPPOLI (a cura di), Rinnovamento delle PA e nuovo reclutamento, in Riv. giur. lav., Quad. 6, 2021, p. 21 ss.; H. BONURA, Pianificazione e analisi dei fabbisogni, in Il lavoro pubblico, a cura di G. AMOROSO, V. DI CERBO, L. FIORILLO, A. MARESCA, Collana «Le fonti del diritto italiano», Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019, p. 321 ss.; M. ESPOSITO, Sisifo unchained? La pianificazione delle risorse umane nel lavoro pubblico: antiche questioni (irrisolte) e nomenclature “di seconda mano”, in Lav. pubbl. amm., 3, 2018, p. 67; A. RICCOBONO, La nuova disciplina sugli organici tra opportunità e occasioni mancate, in Il lavoro alle dipendenze della P.A. dopo la “Riforma Madia”, a cura di A. GARILLI, A. RICCOBONO, C. DE MARCO, A. BELLAVISTA, M. MARINELLI, M. NICOLOSI, A. GABRIELE, Cedam, Padova, 2018, p. 21 ss.; M. D’ONGHIA, Organizzazione degli uffici e superamento delle dotazioni organiche, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI, L. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commento alle innovazioni della XVII legislatura (2013-2018) con particolare riferimento ai d.lgs. n. 74 e 75 del 25 maggio 2017 (c.d. Riforma Madia), cit., p. 77 ss.
[30] Cfr. note nn. 1 e 2.
[31] Sul tema, A. MARRA, I pubblici impiegati tra vecchi e nuovi concorsi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1, 2019, p. 233 s.; S. PEDRABISSI, Il procedimento concorsuale nel prisma dei saperi necessari alla Pubblica Amministrazione, in Var. tem. dir. lav., 1, 2020, p. 127 ss.; A. BOSCATI, Dalle esigenze dell’organizzazione alle modalità di reclutamento: punti critici della disciplina vigente e possibili interventi di riforma, in U. CARABELLI, L. ZOPPOLI (a cura di), Rinnovamento delle PA e nuovo reclutamento, in Riv. giur. lav., Quad. 6, 2021, p. 55; S. GASPARRINI, Conoscere per reclutare, in Giorn. dir. amm., 2021, p. 337 ss.
[32] Il blocco delle assunzioni ha inizio formalmente con l’art. 19 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002) per poi proseguire con più vigore dal 2010.
[33] Cfr. RAPPORTO INAPP 2021, Lavoro, formazione e società in Italia nel passaggio all’era post Covid-19, maggio 2021, p. 98, relativamente all’innalzamento dell’età media dei dipendenti pubblici (da 44,8 a 50,72) e all’incidenza del numero dei dipendenti pubblici rispetto alla popolazione (il più basso d’Europa con il 5,5%, rispetto all’8,4% della Francia, al 5,8% della Germania, e al 6,7% della Spagna). V. anche RAGIONERIA GENERALE DELLO STATO, La distribuzione per classi di età e andamento dell’età media nel periodo 2003-2019, 2020; CORTE DEI CONTI, Relazione sul costo del lavoro pubblico 2020, in www.cortedeiconti.it; FORUM PA, Lavoro pubblico 2021, giugno 2021, in www. forumpa.it; CAMERA DEI DEPUTATI – SERVIZIO STUDI XVIII LEGISLATURA, Concorsi, limiti assunzionali e dotazioni organiche nella P.A., 22 luglio 2022. In chiave comparata con gli apparati pubblici europei, v. anche R. REALFONZO, A. VISCIONE, Costi ed efficienza dell’amministrazione pubblica italiana nel confronto internazionale, in Riv. giur. lav., I, 2015, p. 497 ss.
[34] Conseguentemente è scaturita una diminuzione di unità di personale, ma anche una contrazione della spesa pubblica per stipendi di 1,8 miliardi di euro in dieci anni tra il 2008 e il 2018 (Fonte: EUROSTAT). Negli anni successivi allo sblocco del turn over, i dati aggregati per comparto hanno evidenziato significative diversità all’interno dell’apparato del pubblico impiego: a fronte di una diminuzione costante del numero dei dipendenti nelle Funzioni Centrali e Locali, si è invece assistiti, dal 2018, ad una crescita delle assunzioni nel comparto sanità, cfr. COMITATO SCIENTIFICO PER LA VALUTAZIONE DELL’IMPATTO DELLE RIFORME IN MATERIA DI CAPITALE UMANO PUBBLICO, Rapporto 2022, p. 11
[35] M. D’ONGHIA, La centralità della pianificazione dei fabbisogni e del sistema di reclutamento per una pubblica amministrazione efficiente, in Var. tem. dir. lav., 1, 2020, p. 76.
[36] Sul tema L. ZOPPOLI, P. MONDA, Innovazioni tecnologiche e lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Dir. rel. ind., 2, 2020; C. ACOCELLA, A. DI MARTINO, Il rinnovamento delle competenze nell’amministrazione digitale, in Riv. di Digital Politics, 1-2, 2022, p. 93 ss.; S. STACCA, La selezione del personale pubblico al tempo delle tecnologie digitali, paper presentato al Convegno AIPDA 2019, aipda.it.
[37] Si v. R. GUIZZARDI, Come cambia il rapporto tra dotazione organica, fabbisogno triennale e assunzioni a seguito dell’entrata in vigore della riforma della PA, in Aziendaitalia – Il Personale, n. 6/2017, pp. 333-338. Per una analisi sul superamento delle dotazioni organiche si V. anche M. D’ONGHIA, Organizzazione degli uffici e superamento delle dotazioni organiche, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Cit., p. 77 e ss; A. BOSCATI, Il reclutamento riformato, in A. BOSCATI, A. ZILLI (a cura di), Il reclutamento nella p.a. dall’emergenza alla nuova normalità, cit., p. 64
[38] L’art. 6, d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 4, d.lgs. n. 75/2017 (in attuazione della direttiva generale posta dall’art. 17, comma 1, lett. q) della legge delega n. 124/2015 e volta ad un «progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni».
[39] Con le Linee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle PA previste dall’art. 6-ter – adottate con decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze il 9 maggio 2018 – sono stati elaborati i «criteri che le pubbliche amministrazioni devono seguire nella elaborazione del Piano Triennale». Sul punto V. G. GENTILE, Il reclutamento del personale pubblico, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commento alle innovazioni della XVII legislatura (2013-2018) con particolare riferimento ai d.lgs. nn. 74 e 75 del 25 maggio 20 17 (c.d. riforma Madia), Torino, 2018, p. 95 e ss.
[40] La cd. “Legge concretezza” all’art. 3, legge 19 giugno 2019, n. 56, fa riferimento a «figure professionali con elevate competenze in materia di: a) digitalizzazione; b) razionalizzazione e semplificazione dei processi e dei procedimenti amministrativi; c) qualità dei servizi pubblici; d) gestione dei fondi strutturali e della capacità di investimento; e) contrattualistica pubblica; f) controllo di gestione e attività ispettiva; g) contabilità pubblica e gestione finanziaria» (per un commento, cfr. V. TALAMO, Il pubblico impiego, in Giorn. dir. amm., 2, 2019, p. 176; B.G. MATTARELLA, La concretezza dell’amministrazione e quella della legge, in Giorn. dir. amm., 6, 2019, pp. 714-718; A. ZILLI, Alla ricerca dell’efficienza delle pp.aa., tra concorrenza, mille proroghe e bilancio, in Lav. giur., 3, 2020, p. 226 ss.).
[41] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, Sent. n. 2746/2015, ove il giudice stabiliva che “È illegittima la delibera con la quale il Consiglio di Corso di laurea in medicina e chirurgia di una università italiana respinge l’istanza avanzata da studenti iscritti al primo anno di studi di Facoltà di medicina di una università straniera, volta ad ottenere il trasferimento presso l’università italiana con iscrizione ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia con la motivazione che tali studenti, provenendo da università straniere, non avrebbero superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in medicina e chirurgia, requisito essenziale previsto dal manifesto degli studi (L. n. 264/1999)”. Confermando la sentenza del Tar Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 37/2014; in senso conforme Cons. Stato n. 2744/2015.
[42] Dati analizzati dall'Associazione dei medici di origine straniera in Italia (Amsi) e l'Unione medica euro mediterranea (Umem): dei 450 professionisti della sanità italiani e dei 50 europei residenti in Italia che nell’ultimo trimestre hanno iniziato a programmare un lavoro nei Paesi del Golfo, 250 sono medici specialisti, 150 sono infermieri e 100 sono medici generici, fisioterapisti, farmacisti, podologi e dietisti, 2023.
[43] Come anche riportato in www.ilsole24ore.com/art/test-d-ingresso-medicina-addio-piu-dopo-l-ok-senato-riforma-AGijpPRB .
Legittimazione del creditore-cessionario ad agire in via esecutiva per crediti deteriorati acquistati in blocco. La cessione dei crediti come componente di un titolo esecutivo complesso
Mettiamo a disposizione delle lettrici e dei lettori questo provvedimento del Tribunale di Brindisi, che sperimenta un’innovativa ricostruzione della cessione dei crediti in blocco dei crediti deteriorati, fenomeno di rilievo anche penale, per le sue possibili interferenze con fenomeni di riciclaggio del denaro di provenienza illecita da parte della criminalità organizzata.
La quaestio iuris attiene all'idoneità o meno della negoziazione massiva dei crediti a radicare la legittimazione all'esecuzione immobiliare del creditore-cessionario, evidenziando come la stessa possa essere inquadrata quale componente di un titolo esecutivo complesso e a formazione progressiva.
Coerentemente con tali premesse ricostruttive, essa dovrebbe rispettare le forme che, in virtù del chiaro disposto dell’art. 474 c.p.c., consentono l’azionabilità di un qualunque titolo esecutivo. Ragione per cui dovrebbe essere rivestita della forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e ciò a pena di nullità.
Il provvedimento si sofferma, altresì, su una tematica di particolare attualità e logicamente pregiudiziale, ovvero quella relativa all’ammissibilità di un titolo esecutivo c.d. complesso di formazione stragiudiziale. Vi si evidenzia come non vi siano preclusioni logiche o giuridiche perché il titolo esecutivo si concretizzi in una successione di atti giuridici, convergenti a delineare il contenuto dell’obbligo.
D’altronde, nell’ipotesi di titoli esecutivi di formazione giudiziale, per principio interpretativo consolidato, in dottrina, si ritiene che, nell’ipotesi che un’ordinanza o una sentenza venga riformata, a fronte della successione delle regole di giudizio avutasi con riguardo ai rapporti fra le parti, ciascuna consacrata da un diverso titolo giudiziale, il titolo legittimante all’esecuzione non rimanga necessariamente quello originario e ciò in quanto la suddetta pluralità di atti di natura giudiziaria concorre nel delineare la regolamentazione del diritto di procedere in executivis dell’opposta.
Orbene, una conclusione diversa, ovvero che diversificasse, per le due ipotesi (titoli giudiziali, da un lato e titoli stragiudiziali, dall’altra) la logica di ricostruzione del titolo, si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., oltre che con quello di ragionevolezza che, nato dall’alveo proprio del primo, ha finito per acquisire autonomia operativa e valenza generale.
Concorso a diverso titolo nel medesimo fatto storico: nota a Cass. Sez. Un. 11.7.2024 n. 27727.
di Giusy Alessandra Annunziata
È possibile la diversificazione dei titoli di reato tra chi abbia partecipato alla realizzazione di un medesimo fatto storico? In particolare, è ammissibile che quest’ultimo venga imputato a norma del comma primo o del comma quarto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990 a un concorrente, e a norma del comma quinto del medesimo articolo a un altro concorrente? Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27727 dell’11 luglio 2024, hanno risposto affermativamente. Sebbene il recente approdo non sembri a prima lettura “rivoluzionario”, conviene esaminare la “querelle” tornando al momento in cui tutto è cambiato, ovvero al decreto legge del 23 dicembre 2013, n. 146, quando il comma quinto dell’art. 73 T.U. Stup. è diventato un reato autonomo.
Sommario: 1. Breve excursus sul comma quinto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990: non più circostanza attenuante ma reato autonomo - 2. Concorso di norme o concorso di reati? Le Sezioni Unite n. 51063/2018 - 3. Il concorso di persone a diverso titolo nel medesimo fatto storico: l’orientamento a favore e l’orientamento contrario - 4. La memoria dell’Avvocato Generale - 5. Le Sezioni Unite n. 27727 dell’11 luglio 2024 - 6. Conclusioni.
1. Breve excursus sul comma quinto dell’art. 73 D.P.R. 309/1990: non più circostanza attenuante ma reato autonomo.
Con la legge n. 162 del 26 giugno 1990 (più nota come Iervolino-Vassalli), il legislatore ha introdotto, per la prima volta, un’inedita fattispecie, finalizzata ad attenuare il trattamento sanzionatorio previsto per le condotte descritte nei commi precedenti del medesimo articolo. Nella sua prima formulazione, infatti, il comma 5 dell’art. 71 (poi divenuto comma 5 dell’art. 73, nel testo unico n. 309/1990), prevedeva che: “Quando, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 2.582 (lire cinque milioni) a euro 25.822 (lire cinquanta milioni) se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’articolo 14, ovvero le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 (lire due milioni) a euro 10.329 (lire venti milioni) se si tratta di sostanze di cui alle tabelle II e IV”.
La nuova fattispecie è stata considerata una circostanza attenuante a effetto speciale, e non una fattispecie autonoma di reato, sin dalle sue prime interpretazioni[1]. Il legislatore ha confermato, poi, tale orientamento, eliminando ogni dubbio con la modifica del testo della lettera h) dell’art. 381 c.p.p., introdotta con il d.l. n. 247/1991, convertito in l. n. 314/1991, che espressamente ne definiva la natura circostanziale ai fini dell’esclusione dell’arresto obbligatorio in flagranza[2].
Con l’entrata in vigore della legge (Fini-Giovanardi) n. 49/2006, la disciplina della lieve entità ha subito importanti modifiche, ma la sua natura giuridica è rimasta invariata.
Tutto cambia, invece, con il d.l. n. 146 del 2013, convertito in l. n. 10 del 2014, mediante il quale la lieve entità ha assunto natura di fattispecie penale autonoma. A seguito di tale intervento, la norma così prevedeva: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000”.
Fino a quando la lieve entità era considerata una circostanza oggettiva a effetto speciale, non si ponevano dubbi circa la possibilità di applicare la stessa solo ad alcuni concorrenti nel medesimo fatto storico, in base alle qualità soggettive degli stessi e in base al rilievo della loro condotta rispetto alla realizzazione della fattispecie di reato. Tanto in virtù del principio consolidato in base al quale attenuanti e diminuenti possono avere riconoscimento differenziato tra coimputati a seconda della specifica posizione personale, senza determinare alcuna disparità di trattamento. Spetta al giudice, infatti, verificare la sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge e riconoscerle, in presenza dei relativi presupposti, in favore della persona che le invoca[3].
Occorre precisare che la novella nasce dall’esigenza del legislatore italiano di adeguarsi ai dettami della sentenza della Corte EDU “Torreggiani e altri c. Italia”[4], che prescriveva l’adozione di incisive riforme per ridurre la presenza, fra la popolazione carceraria, dei soggetti tossicodipendenti, spesso detenuti a seguito della commissione di reati in materia di stupefacenti di contenuta gravità, assicurando migliori condizioni di vita penitenziaria. Per tale via, infatti, si consente, nel rispetto dei principi di cui all’art. 27 Cost., l’accesso a riti speciali e a forme di espiazione extramurarie a coloro che abbiano commesso reati connotati da minima offensività. Si attribuisce al giudice la possibilità di effettuare un giudizio complessivo che tenga conto sia delle circostanze che accomunano il soggetto agente agli altri concorrenti nel medesimo fatto storico, sia di quelle che lo differenziano dagli stessi, sottraendo tale giudizio al bilanciamento ex art. 69, comma 4, c.p.,
L’art. 73, comma 5, del T.U. Stup. (D.P.R. n. 309/1990), attualmente dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a cinque anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329. Chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità”.
A conferma della qualificazione del comma quinto come fattispecie autonoma di reato, si pone, innanzi tutto, la relazione di accompagnamento alla legge di conversione che mette in evidenza come si tratti di una fattispecie corredata da un proprio peculiare e autonomo trattamento sanzionatorio[5]. Inoltre, l’art. 2 del decreto del 2013 testualmente recita: “Modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”, sottolineandone la natura di “delitto” autonomo, appunto. Se non fosse una fattispecie autonoma di reato, non si spiegherebbe, peraltro, l’“incipit” della norma che impone una clausola di riserva relativamente indeterminata (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato…”). Come evidenziato a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, anche la tecnica di formulazione della norma può costituire un indice ermeneutico in tal senso. Si tratta, infatti, di una norma che prevede, non solo un autonomo trattamento sanzionatorio, ma anche una propria circostanza attenuante (la “non occasionalità”). Oltre al fatto che il ricorso alla locuzione “chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo”, in sostituzione della previgente “quando…i fatti previsti dal presente articolo”, rivela una chiara scelta del legislatore nel voler qualificare il comma quinto come un’autonoma fattispecie di reato.
Al momento della conversione del decreto legge n. 146/2016, peraltro, si modificarono anche altre norme, contenenti autonome fattispecie di reato, estranee al 73, comma 5, T.U. Stup. La legge di conversione, infatti, ha provveduto anche alla modifica della predetta lettera h dell’art. 380 c.p.p., sostituendo il riferimento alla “circostanza” di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup., con quello ai “delitti” previsti dalla medesima disposizione. È stato aggiunto analogo riferimento anche nell’art. 19, comma 5, D.P.R. 448/1988, in materia di condizioni per l’applicabilità delle misure cautelari agli imputati minorenni[6].
Descritta la natura di fattispecie autonoma di reato dell’art. 73, comma 5, T.U. Stup.[7], si è posto il problema di valutare se sia possibile che più concorrenti nel medesimo fatto storico possano rispondere a diverso titolo di reato, ovvero a norma del comma primo o quarto, alcuni, e a norma del comma quinto, altri. La questione non è di poco conto se solo si considerino le conseguenze in punto di trattamento sanzionatorio: il minimo edittale previsto dalle ipotesi dei commi 1 e 4 dell’art. 73 (rispettivamente sei e due anni di reclusione, a seconda che si tratti di droghe c.d. “pesanti” o “leggere”) e quello, sensibilmente più mite, previsto dalla ipotesi “lieve” del comma 5 (sei mesi di reclusione)[8].
Rilevanti conseguenze, inoltre, si verificano in ordine al termine di prescrizione del reato, ridotto di quasi due terzi e al regime di applicabilità delle misure precautelari e cautelari.
2. Concorso di norme o concorso di reati? Le Sezioni Unite n. 51063/2018.
Occorre brevemente delineare, a questo punto, i rapporti che sussistono tra le fattispecie di cui al comma primo e al comma quarto dell’art. 73, T.U. Stup., e la fattispecie di lieve entità, così come delineati dalle Sezioni Unite con sentenza n. 51063 del 9 novembre 2018.
Con ordinanza n. 23547/2018 era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: “se la diversità di sostanze stupefacenti, a prescindere dal dato quantitativo, osti alla configurabilità dell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990 e, in caso negativo, se tale reato possa concorrere con le fattispecie previste ai commi 1 e 4 del medesimo art. 73 d.P.R. cit.”.
Nella motivazione di questa importante sentenza, si provvede, innanzi tutto, a specificare che il comma quinto dell’art. 73, T.U. Stup., concorre con ognuno dei primi quattro commi del medesimo articolo. Si tratta, tuttavia, di un concorso solo apparente di norme posto che “il suddetto comma 5, isolando…una specifica classe di fatti (quelli comunque tipici, ma di lieve entità), si pone in rapporto di specialità unilaterale con le altre disposizioni menzionate, essendo indiscutibile che, qualora dovesse venire meno, i medesimi fatti tornerebbero a ricadere nell’ambito di incriminazione di queste ultime”.
A proposito della clausola di riserva espressa, che sembra sovvertire il criterio della prevalenza della fattispecie unilateralmente speciale, unico criterio pacificamente condiviso in giurisprudenza, rendendo apparentemente sempre inapplicabile il comma 5 dell'art. 73 in favore delle norme "generali" contenute nei precedenti commi del medesimo articolo, le Sezioni Unite precisano che occorre valorizzare la volontà del legislatore storico e la sua scelta di trasformare la fattispecie da circostanza attenuante in reato autonomo, al fine di garantire una più effettiva ed espansiva applicazione del più temperato regime sanzionatorio previsto per i fatti di lieve entità.
Tanto consente di ritenere che, qualora il legislatore, nel configurare una fattispecie come speciale rispetto ad altre più gravi, preveda altresì una clausola di riserva relativamente indeterminata, intende far operare i due criteri su piani distinti, ovvero sottrarre la relazione di specialità all'ambito di operatività della clausola di riserva. Si può, dunque, concludere che la suddetta clausola sia stata introdotta per “disciplinare l'eventuale o futuro concorso con altre fattispecie più gravi, ma diverse da quelle contenute nell'art. 73 T.U. STUP., con le quali già si instaura una relazione di genere a specie”[9].
A proposito del primo quesito posto dall’ordinanza di rimessione, la Cassazione ha precisato che la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all'art. 73, comma 5, .T.U. Stup., in quanto, coerentemente con l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, “è necessario procedere ad una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla suddetta disposizione al fine di determinare la lieve entità del fatto”.
Venendo, poi, alle precisazioni circa il rapporto tra il comma quinto e i precedenti commi, in particolare modo il comma primo e il comma quarto, del medesimo articolo, le Sezioni Unite hanno messo in evidenza come, successivamente alle modifiche introdotte con la l. del 2014, l’art. 73 T.U. Stup., si atteggia a norma mista cumulativa in quanto è una disposizione che prevede più norme incriminatrici autonome cui corrispondono distinte fattispecie di reato.
Ognuno dei primi cinque commi, invece, contiene una norma a più fattispecie, atteso che, in ciascuno di essi, vengono tipizzate modalità alternative di realizzazione di un medesimo reato[10]. Il fatto, poi, di prevedere autonome norme incriminatrici non esclude una possibile interferenza tra le stesse che andrà risolta alla luce del principio di specialità. Il rapporto tra il comma primo e il comma quarto del medesimo articolo, invece, in ragione della specialità reciproca e bilaterale che li caratterizza, sarà sempre ricondotto al concorso di reati, anche nel caso in cui le diverse fattispecie venissero poste in atto con un’unica condotta.
Le condotte consumate in contesti diversi e non aventi per oggetto il medesimo quantitativo di stupefacente o di una sua partizione, realizzano fatti autonomi. Pertanto, qualora uno degli stessi possa essere qualificato di lieve entità, i reati rispettivamente integrati concorrono e, sussistendone i presupposti, possono essere unificati ai fini e ai sensi dell'art. 81 c.p., anche a prescindere dalla omogeneità o eterogeneità delle sostanze che ne costituiscono l'oggetto. La consumazione in tempi diversi, ma in unico contesto di più condotte tipiche, inevitabilmente diverse tra loro, in riferimento al medesimo oggetto materiale, inteso nella sua identità naturalistica, integra invece un unico fatto di reato, atteso che quelle contenute nei commi 1 e 4 dell'art. 73 T.U. Stup. sono norme miste alternative. La loro eventuale convergenza con la disposizione del comma 5 sull'unico fatto configurabile determina, poi, un concorso apparente tra norme incriminatrici che deve essere risolto in favore di quest'ultimo, qualora il fatto medesimo venga ritenuto di lieve entità.
Occorre, da ultimo, precisare, quanto all’applicabilità del comma quinto dell’art. 73, T.U. Stup., che lo stesso “prevede un'unica figura di reato, alternativamente integrata dalla consumazione di una delle condotte tipizzate, quale che sia la classificazione tabellare dello stupefacente che ne costituisce l'oggetto. La detenzione nel medesimo contesto di sostanze stupefacenti tabellarmente eterogenee, qualificabile nel suo complesso come fatto di lieve entità ai sensi dell'art. 73, comma 5, del d. P.R. n. 309 del 1990, integra un unico reato e non una pluralità di reati in concorso tra loro”.
3. Il concorso di persone a diverso titolo nel medesimo fatto storico: l’orientamento a favore e l’orientamento contrario.
Fatte queste doverose premesse e ripercorsa la giurisprudenza che costituisce lo sfondo su cui si innesta la sentenza a Sezioni Unite dell’11 luglio 2024, è d’uopo dar conto dei principali orientamenti formatisi in materia.
La questione della configurabilità, a fronte di un medesimo fatto di reato in materia di traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, di un concorso di persone con titoli differenziati, trae origine dalla ricostruzione dogmatica del concorso eventuale di persone nel reato nonché dalla natura unitaria o differenziata del fatto di reato realizzato plurisoggettivamente.
A proposito della diversità materiale delle singole condotte poste in essere dai concorrenti nel medesimo reato, sono stati elaborati due principali modelli di disciplina dell’istituto del concorso eventuale di persone nel reato.
A giudizio dei sostenitori del primo orientamento e in adesione alla teoria della così detta “fattispecie plurisoggettiva eventuale”, si è ritenuto che l’ordinamento giuridico debba affiancare alle singole fattispecie di reato mono-soggettive, un’autonoma e distinta fattispecie plurisoggettiva per ciascuno dei concorrenti nel medesimo fatto storico, data dalla combinazione delle norme di parte speciale con quelle sul concorso di persone nel reato. Dette fattispecie hanno in comune il medesimo accadimento materiale e si differenziano, però, per l’atteggiamento psichico, che è quello proprio del singolo compartecipe, e per taluni caratteri estrinseci che attengono solo alla condotta dell’un compartecipe e non anche dell’altro.
Sarebbe, dunque, possibile, sostenendo questa tesi, ascrivere il medesimo fatto storico, a un concorrente, a norma del comma primo o quarto dell’art. 73, T.U. Stup., e, a un altro, a norma del comma quinto del medesimo articolo, laddove, tenuto conto dei mezzi, della quantità di sostanza stupefacente, delle modalità e delle circostanze dell’azione, il contesto complessivo nel quale si colloca la condotta risulti essere differente per ciascuno dei correi[11].
L’art. 110 c.p. svolgerebbe, per tale via, una funzione meramente disciplinatoria e non incriminatrice, essendo le condotte dei singoli concorrenti già, di per sé, tipiche. Tanto consentirebbe di calibrare l’imputazione sulla persona del colpevole e non sul fatto tipico del concorso, nel rispetto dei principi di cui all’art. 27, comma 1, Cost.
A conferma di ciò si richiama, innanzi tutto, l’orientamento di legittimità sull’art. 112, ultimo comma, c.p., in cui la Suprema Corte ha sostenuto che, non specificando il predetto articolo le ragioni per cui un concorrente non è imputabile o non è punibile, sembra ammettere la configurabilità del concorso di persone anche in caso di non punibilità relativa, ovvero nel caso di una punibilità per un titolo diverso di reato che, insieme a quello degli altri concorrenti, contribuisce a determinare l’offesa tipica[12].
Inoltre, anche gli artt. 116 e 117 c.p. confermerebbero tali assunti, ammettendo una diversificazione dei titoli al di fuori dell’ambito di applicazione degli stessi. Le disposizioni di tali articoli, infatti, hanno la funzione di “aggravare” la responsabilità per uno o più concorrenti, in deroga al principio di colpevolezza. La giurisprudenza, tuttavia, ha evidenziato che detta disciplina, da un lato, non può comportare una “parificazione” in mitius a vantaggio di uno dei concorrenti, né, dall’altro, può “parificare” la responsabilità in peius per taluni di essi. L’effetto “parificatorio” generato dall’art. 117 c.p., infatti, vale solo per le ipotesi dallo stesso contemplate, ovvero solo quando il concorrente, così detto extraneus, non abbia la consapevolezza delle condizioni o delle qualità personali di quello intraneus, o dei rapporti fra questi e l’offeso. Quando il mutamento del titolo di reato è dovuto, invece, a circostanze diverse rispetto a quelle evidenziate, la parificazione della responsabilità tra i diversi concorrenti non può aversi, né ai sensi dell’art. 110 c.p., né ai sensi dell’art. 117 c.p. Sarà semmai applicabile, in presenza dei presupposti ivi indicati, l’art. 116 c.p. Quest’ultimo, peraltro, ugualmente produce l’effetto “parificatorio” solo nelle ipotesi espressamente previste. Al di fuori di esse, dunque, sussiste una naturale e possibile differenziazione dei titoli di reato per i concorrenti nel medesimo fatto storico[13].
Inoltre, quanto all’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, non potrebbe comunque operare il criterio di “parificazione” fissato dall'art. 117 c. p., perché la differenziazione tra i reati dipende non dalle condizioni o dalle qualità personali del colpevole, o dai rapporti fra il colpevole e l'offeso, bensì dai mezzi, dalle modalità e dalle circostanze dell'azione. Senza considerare, inoltre, che l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 116 c. p. non è automatica, ma richiede, appunto, l'accertamento, in concreto, dei relativi presupposti.
In ultimo, a sostegno del predetto orientamento, si richiamano le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità in una sentenza del 2018 sul neonato reato di autoriciclaggio. All’indomani, infatti, dell’introduzione della predetta fattispecie penale nel nostro ordinamento, con l. n. 186 del 2014, si era posta la questione del tipo di reato contestabile all’extraneus che avesse posto in essere una condotta sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 648bis c.p., in concorso con l’autore del delitto presupposto. In tale ipotesi, la Suprema Corte aveva concluso nel senso che fosse configurabile una responsabilità a diverso titolo di reato tra più concorrenti nel medesimo fatto storico[14].
Per di più, se non si condividesse la predetta differenziazione di responsabilità, si concluderebbe per equiparare le condotte dei singoli correi, in senso sfavorevole per alcuni di essi.
L’orientamento opposto, invece, non ritiene condivisibili tali assunti in quanto lo stesso codice penale aderisce al modello unitario del fatto tipico. Nell’art. 110 c.p., infatti, si fa riferimento a “medesimo reato” facendo salvo solo quanto previsto dalle disposizioni degli articoli seguenti.[15]
D’altronde, dal punto di vista storico, anche la Relazione del Guardasigilli sul progetto del Codice Rocco sembra andare in tal senso dal momento in cui sottolinea che “(…) Il criterio di un’eguale responsabilità per tutte le persone, che sono concorse nel reato, è in diretta dipendenza del principio che si è accolto nel regolare il concorso di cause nella produzione dell’evento, principio in forza del quale tutte le condizioni, che concorrono a produrre l’evento, son cause di esso (…) Sussiste bensì un’ulteriore specificazione della scientia maleficii [del concorrente] in rapporto alle diverse specie di reato, commesso da più persone, ma tale specificazione è imposta dal carattere unitario conferito dalla legge al titolo del reato, di cui i vari partecipi sono chiamati a rispondere. È indiscutibile, infatti, che, per aversi l'istituto del concorso, è necessario che tutti rispondano dello stesso reato (…). Si è anzi autorizzati a formulare il principio generale che la scientia maleficii debba atteggiarsi, per la necessità di tener ferma l’unità del reato commesso dai partecipi, in relazione all’elemento psicologico del reato, di cui i partecipi debbono rispondere: dolo nel reato doloso, colpa nel reato colposo, volontarietà nelle contravvenzioni”[16].
A conferma di tale orientamento, si richiamano proprio le disposizioni seguenti rispetto all’art. 110 c.p., ovvero gli artt. 116 e 117 c.p. richiamati anche dall’opposta tesi. Questi ultimi, infatti, in quanto norme eccezionali, confermano che la regola generale è quella della parificazione della responsabilità dei singoli concorrenti nel medesimo fatto storico[17].
Per di più, si evidenzia che la fattispecie di lieve entità discende da un giudizio obiettivo e globale della fattispecie realizzata dai correi, che non può portare a differenziazioni in base a elementi estrinseci rispetto alle singole condotte o in base all’elemento psicologico.
D’altronde, sottolineano ancora i sostenitori di questo orientamento, che, condividendo l’opposta tesi, si produrrebbe un effetto parificatorio non solo verso l’alto ma anche verso il basso. È tutta una questione, dunque, di valutazione case by case che, tra l’altro, può essere effettuata anche semplicemente differenziando il trattamento sanzionatorio, alla luce dei canoni di cui agli artt. 113 e 114 c.p. che espressamente lo consentono[18].
4. La memoria dell’Avvocato Generale.
A favore della necessaria diversificazione dei titoli di reato, si è espresso anche l’Avvocato Generale della Corte di Cassazione[19]. Tanto allorquando la ricostruzione delle rispettive condotte, il contesto complessivo nel quale esse si collocano, nonché il grado di offensività concreta da esse apprezzabile, rivelino inequivoci caratteri differenziali tali da giustificare una diversa qualificazione del titolo di reato in capo ai concorrenti.
Si evidenzia, infatti, che l’argomento storico, per quanto significativo, non può svolgere un ruolo di supremazia dal punto di vista interpretativo. A distanza di quasi cento anni, occorre verificare se le affermazioni contenute nella Relazione del Guardasigilli siano, tuttora, espressione del tempo e dell’evoluzione del diritto. Il richiamo è al “‘valore’ della colpevolezza, [ed alla] sua insostituibilità (…) come essenziale requisito subiettivo (minimo) d'imputazione uno specifico rapporto tra soggetto (…) e fatto considerato nel suo disvalore antigiuridico”, nonché al principio di concreta offensività, che si pone “come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice (…) nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto”[20].
È necessario, allora, chiedersi che cosa si deve intendere per unità del reato alla luce dei suddetti principi. Questa “può variamente essere concepita, e precisamente: a) come “eguale punibilità estesa a tutti i concorrenti (sia per quanto riguarda l’an che il quantum della pena)”; b) come eguale “titolo di responsabilità (sub specie di elemento soggettivo doloso, colposo, preterintenzionale)”; c) come “identità del nomen iuris della fattispecie attribuita ai colpevoli” (…) o, che dir si voglia, come unità (del titolo) del reato (“unità della qualificazione giuridica”), ancorché eventualmente con diverso titolo di imputazione; d) come unità, infine, di concorso nel fatto: limitata, cioè “all'esigenza che i partecipi contribuiscano alla stessa offesa tipica sotto un profilo essenzialmente causale, senza che ciò comporti alcuna conseguenza in ordine alla punibilità, al titolo di reato e alla forma dell'elemento psicologico” (…)”.
È evidente che solo l’ultimo di tali significati è compatibile con un’interpretazione diversificata dei titoli di reato. La prima delle soluzioni indicate è da scartare in quanto esclusa dalle norme di diritto positivo e dai principi basilari della moderna civiltà penalistica, primi fra tutti quello di colpevolezza e della modulazione personalizzata della pena. La seconda è ugualmente da ripudiare poiché tale concezione di unitarietà è stata definitivamente abbandonata dalla giurisprudenza maggioritaria[21]. La terza concezione di unità obbliga al confronto con gli artt. 116 e 117 c.p. che, in quanto richiamati da entrambi gli orientamenti, non risultano essere comunque dirimenti. È indubbio, pertanto, come le disposizioni in questione rappresentino acuta deroga rispetto a caposaldi di garanzia del diritto penale, quale colpevolezza ed offensività in concreto, fino a costituire un vulnus intollerabile in un sistema penale ispirato ai valori costituzionali più sopra richiamati. In conseguenza, è ben difficile ipotizzare l’estensione di tali ipotesi eccezionali o, peggio, edificare addirittura una regola sulla base di tali eccezioni. Tra l’altro, l’art. 117 c.p. non potrebbe comunque essere applicato alla fattispecie di concorso in esame che si colloca al di fuori di tutte le ipotesi ivi previste. Né, tantomeno, conclude l’Avvocato Generale, potrebbe essere richiamato l’art. 116 c.p. visto che, nel caso di specie, non si discute di concorrenti anomali.
Tali assunti non sarebbero, peraltro, messi in dubbio da una recente sentenza delle Sezioni Unite[22]. Quest’ultima, sulla scia dei precedenti maggioritari, ha affermato che, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio; qualora il terzo agente - seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c. p. nella previsione dell'art. 393 stesso codice - inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c. p.
Conclusione, questa, legittimata dal doppio presupposto che il reato di cui agli artt. 392 e 393 c.p. non sono ‘di mano propria’, ma solo ‘reati propri’ e che la loro differenza rispetto all’estorsione è tracciata dal diverso confine dell’elemento soggettivo, non già da quello della materialità del fatto, pur se caratterizzati da una materialità “non esattamente sovrapponibile”. Per contro, “risulta determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l'interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.
In questa ipotesi specifica, l’art. 110 c.p. continua a svolgere la sua funzione tipizzante. Ben diverso è il caso in cui, sotto l’art. 110 c.p., vengano in rilievo due diverse condotte tipiche quali quelle delineate nei commi 1 e 4 dell’art. 73 T.U. Stup. e comma 5 della medesima disposizione, tra le quali esiste, ab origine, una diversità materiale di condotta e, dunque, una tipizzazione ontologicamente autonoma di fattispecie e che dunque non abbisognano del legame concorsuale per ‘ottenere’ reciproca qualificazione normativa.
5. Le Sezioni Unite n. 27727 dell’11 luglio 2024.
Nella sentenza a Sezioni Unite dell’11 luglio 2024, n. 27727, la Corte Suprema, dopo aver ripercorso gli orientamenti più sopra esaminati, ha messo in chiaro, sin da subito, un concetto fondamentale ovvero che la concezione monistica del concorso di persone non è messa in dubbio in quanto il dettato legislativo e l’argomento storico non ammettono argomentazioni contrarie. Pur tuttavia, la nozione di “concorso” non è conclusa e implica un concetto di relazione che va riempito con un preciso termine di riferimento, individuato dal legislatore nel “reato”, come confermano sia l’art. 110 c.p. sia le disposizioni successive allo stesso che parlano di “cooperazione nel delitto”, di “commettere un reato”, di “reato commesso” etc.
Tali concetti vanno, però, coniugati con la moderna lettura dei principi di colpevolezza e di offensività alla luce anche dei più recenti approdi della Corte Costituzionale. Tanto sembra andare nella direzione di una maggiore personalizzazione della responsabilità penale.
A questo punto, occorre, però, calare tali considerazioni nel contesto della normativa di riferimento e, in particolare, dell’art. 73, comma 5, T.U. Stup., che ha subito svariate modifiche, come si è visto, nel corso degli anni. Il problema, infatti, sorge nel momento in cui, è bene ricordarlo, il comma quinto diventa un’autonoma fattispecie di reato[23].
A tal proposito, la Cassazione specifica che la soluzione alla questione deve tener conto dei caratteri strutturali dell’art. 73, considerato che lo stesso disciplina ben 22 diverse condotte, tra loro alternative, come specificato nella sentenza del 2018 precedentemente esaminata. Dunque, posto che, in caso di realizzazione da parte dello stesso soggetto di più condotte tra quelle alternativamente delineate dall’art. 73 T.U. Stup., prevale quella che contiene logicamente le altre, a diverse conclusioni si deve pervenire allorquando le diverse e alternative condotte siano poste in essere da plurimi soggetti concorrenti.
Sul punto la giurisprudenza consolidata riconosce la possibilità di una diversa qualificazione giuridica delle condotte dei concorrenti[24]. Il reale perimetro del contrasto concerne, invece, quelle ipotesi, come quella in esame, in cui la contestazione ponga a carico dei concorrenti, spesso in termini generici, la medesima condotta tipica.
A tal proposito, le Sezioni Unite concludono nel senso che, in relazione al delitto di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. Stup., il medesimo fatto ascritto a diversi imputati può essere contestualmente suscettibile di qualificazioni giuridiche diverse, quando, all’esito di una valutazione complessiva, emerga che le condotte di alcuni compartecipi esprimono un diverso grado di disvalore oggettivo e soggettivo. Dunque, quando il contributo fornito da uno dei coimputati si caratterizza per mezzi, modalità e/o altre circostanze, rivelatore di un più tenue livello di offesa ai beni giuridici protetti, per lui solo potrà intervenire la derubricazione del fatto nell’ipotesi lieve di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup.
Detta affermazione, peraltro, non mette in discussione la persistente validità, in termini sistematici generali, della concezione unitaria del reato concorsuale, in quanto le norme di cui al primo e al quarto comma, da un lato, e quella di cui al quinto comma dell’art. 73, dall’altro, si pongono tra loro in rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., nel senso che le prime due hanno carattere di norma generale e la terza di norma speciale.
Dunque, qualora il medesimo fatto, contestato a diversi imputati in concorso tra loro, contenga elementi tali da fare ritenere integrata solo per taluni la fattispecie di cui all’art. 73 comma 5, T.U. Stup. e per altri quella di cui all’art. 73, comma 1, T.U. Stup., si versa al di fuori di un’ipotesi di concorso nel medesimo reato, essendosi in presenza di due reati diversi legati tra loro da un rapporto di specialità nei termini appena ricordati.
Occorre, infine, esaminare quali, tra gli elementi tipici specializzanti presenti nella fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, T.U. Stup., possono essere valutati in senso diversificato per i concorrenti nel medesimo fatto.
Non hanno rilievo in tal senso “quantità e qualità delle sostanze”, normalmente uguali per tutti i concorrenti; sono valorizzabili, invece: “mezzi, modalità e circostanze dell’azione”.
Sotto tale profilo la Corte ha affermato che potranno essere adeguatamente considerate le finalità dell’attività delittuosa, ad esempio una cessione occasionale, ovvero lo stato di tossicodipendenza del reo che si ponga in “rapporto diretto” con la condotta. Al contrario, l’aspetto relativo alla tossicodipendenza non dovrebbe assumere pregnante rilievo in presenza di sistematiche cessioni operate in favore di un indiscriminato novero di acquirenti[25].
Sono stati, invece, ritenuti del tutto irrilevanti e non valorizzabili l’eventuale comportamento collaborativo serbato post delictum[26] e i precedenti penali dell’imputato[27], che non afferiscono all’azione la cui “lievità” si intende apprezzare, a meno che non si evidenzi un collegamento oggettivo tra i fatti criminosi per i quali la persona è già stata condannata con sentenza irrevocabile e quelli oggetto del nuovo giudizio.
Potrà e dovrà essere valutato, invece, se l’attività di spaccio sia stata svolta in un contesto di tipo organizzato. A diverse conclusioni, si dovrà e si potrà pervenire in relazione a quei soggetti che, pur consapevoli della natura organizzata dell’attività delittuosa, non abbiano fatto parte dell’associazione ex art. 74 T.U. Stup., tenuto anche conto del numero di volte in cui ciascun imputato ha partecipato a tali condotte[28].
6. Conclusioni.
La “trepidante” attesa per la decisione con cui le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi in tema di unitarietà o differenziabilità del reato plurisoggettivo, è stata forse tradita dalla sostanziale riaffermazione della posizione tradizionalmente invalsa.
Chi sperava nella risoluzione dell’annoso e intenso dibattito, generato dall’istituto in esame non può che restare deluso dalla sentenza in commento, modulata (e non poteva d’altronde essere altrimenti) solo ed esclusivamente sulle fattispecie delineate dal T.U. Stup., rimesse all’esame delle Sezioni Unite.
Non risulta vulnerata la lettura unitaria del reato plurisoggettivo che, anzi, trova nuova linfa e conferma in una sentenza che non risolve le divergenze ermeneutiche sedimentatesi nel tempo.
Non può peraltro non evidenziarsi l’intrinseca contraddittorietà di una soluzione che, da un lato, proponga di mantenere l’ideale monistico del reato plurisoggettivo e, dall’altro, consenta, nonostante ciò, di differenziare i titoli di reato dei concorrenti nel medesimo fatto storico. Delle due, l’una: o si ritiene che l’argomento letterale e quello storico svolgano un ruolo assorbente, unificando le fattispecie concorsuali sotto tutti i punti di vista, sia in melius che in peius; o si propende per la soluzione opposta, consentendo, tra le altre cose, la diversificazione dei titoli di reato in nome dei principi di colpevolezza e di offensività.
La sentenza in esame, dunque, sembra rispondere più a logiche di politica criminale; quelle stesse che, nel lontano 2013, ispirarono il legislatore a considerare il comma quinto come una fattispecie autonoma di reato, per adeguarsi ai dettami della sentenza Torreggiani.
D’altronde, a sommesso avviso della scrivente, gli stessi presupposti da cui traggono origine i principi di diritto appaiono precari, atteso che le stesse Sezioni Unite ritengono che la trasformazione della fattispecie del quinto comma da circostanza attenuante oggettiva a effetto speciale a titolo autonomo di reato operata dal legislatore del 2013, sembrerebbe maggiormente calibrata sull’ipotesi della realizzazione monosoggettiva che non sulla eventualità che la condotta tipica sia frutto di un’attività in concorso ponendo, pertanto, problemi di compatibilità con la disciplina del concorso di persone nel reato.
Non a caso la sentenza conclude quasi con un invito a una migliore formulazione dei capi di imputazione: trovandosi in ipotesi di specialità, infatti, si esorbita dal contesto di concorso nel reato.
Per tutte le considerazioni sin qui esposte non sembra che il principio affermato dalle Sezioni Unite essere generalizzato oltre alle fattispecie espressamente esaminate nel caso di specie, né la si può ritenere risolutiva rispetto al dibattito che al quesito stesso era sotteso, prevedibilmente destinato ad un ulteriore e più decisivo approfondimento.
[1] Ex multis: Cass. Sez. Un. n. 9148/1991, secondo cui la norma configura una circostanza attenuante a effetto speciale, e non un titolo autonomo di reato, essendo correlata a elementi (quali i mezzi, la modalità, le circostanze dell’azione, la qualità e la quantità delle sostanze) che non mutano, nell’obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell’articolo, ma attribuiscono a esse una minore valenza offensiva.; Cass. Sez. Un. n. 17/2000; Cass., n. 4240/1997, in cui si affermava a chiare lettere che il comma quinto dell’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 “era, pacificamente, una circostanza attenuante (oggettiva e ad effetto speciale) e non era una norma incriminatrice autonoma, con la conseguenza di entrare nel giudizio di bilanciamento”; Cass. Sez. Un., n. 35737/2010 in cui si confermava che “il D.P.R. n. 309 del 1990. art. 73, comma 5, configura una circostanza ad effetto speciale e non un reato autonomo, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Suprema Corte, essendo correlata ad elementi (i mezzi, la modalità, le circostanze dell'azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non mutano, nell'obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell'articolo, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva”.
[2] Vedi Insolera, Spangher e altri, “I reati in materia di stupefacenti” (2019), p. 281, in cui si mette in evidenza come la ratio del comma 5 Art. 73 T.U. Stup. consistesse “nella necessità di garantire ragionevolezza all'impianto sanzionatorio delle norme destinate a reprimere il traffico illecito di sostanze stupefacenti”.
[3] Cass. n. 10233/1987; Cass. n. 3866/1977.
[4] Corte EDU, 8.1.2013 (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10), Torreggiani e altri c. Italia.
[5] Si legge, infatti, testualmente: “a fronte di ipotesi di allarme sociale generalmente contenuto, quali, a titolo esemplificativo, quelle riconducibili al cosiddetto ‘piccolo spaccio di strada’, che, in base all’esperienza giudiziaria, nella maggior parte dei casi è praticato dagli stessi consumatori, si ritiene ragionevole e conforme al principio di proporzionalità della pena, prevedere una fattispecie di reato con una disciplina sanzionatoria autonoma rispetto alle ipotesi tipizzate nei primi quattro commi dell’art. 73 del Testo Unico”.
[6] È bene, peraltro, ricordare che, nelle more della conversione in legge del suddetto decreto, la Corte Costituzionale (sent. n. 32/2014) ha dichiarato l’incostituzionalità, per eccesso di delega, della legge Fini-Giovanardi, facendo tornare in vigore la previgente normativa contenuta nella l. n. 162/1990 (l. Iervolino-Vassalli). Per l’effetto, è stata ripristinata la differenziazione tra le cd. droghe leggere e le cd. droghe pesanti precedentemente eliminata con l. n. 49 del 2006, di conversione del d.l. n. 272 del 2005.
[7] Ex plurimis, sentt. Cass. n. 11110/2014; n. 5143/2014; n. 9892/2014; n. 36078/2017; n. 30238/2017.
[8] A. Morelli, “Diversi titoli di reato per un medesimo fatto concorsuale? Il rompicapo della disciplina del concorso eventuale di persone nel reato: osservazioni a margine di Cass., Sez. III, ord. n. 20563 del 12 maggio 2022”, in Archivio Penale n. 1 del 2023, p. 3.
[9] Le riflessioni sin qui svolte sul comma quinto dell’art. 73 T.U. Stup. sono state, poi, interamente riprese e condivise dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27727/2024.
[10] Tanto viene confermato dalla giurisprudenza di legittimità che esclude la configurabilità di una pluralità di reati nel caso di realizzazione da parte dello stesso agente, nel medesimo contesto e con riguardo allo stesso oggetto materiale, di più condotte tra quelle descritte dalle singole disposizioni (Cass. n. 9477/2009; n. 7404/2015; n. 22549/2017).
[11] Cass. n. 16598/2020; n. 2157/2018; n. 20234/2022; n. 19626/2021 in cui si era concluso che lo stesso fatto storico, integrante le ipotesi di cui all’art. 73 cit., poteva essere declinato ai sensi del comma primo, per un concorrente, e qualificato invece in termini di fatto di lieve entità, per altro concorrente, valorizzando il contesto in cui quest’ultimo operava, l’occasionalità della condotta rispetto a quella professionale dell’altro, la rilevanza del suo contributo nell’economia complessiva del fatto.
[12] Cass. n. 2157/2018.
[13] Cass. n. 7624/1981 e n. 3557/1965.
[14] Cass. n. 17245/2018, in cui si diceva che “l’art. 648ter.1 c.p. prevede e punisce come reato unicamente le condotte poste in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo-presupposto, in precedenza non previste e non punite come reato. Diversamente,…., le condotte concorsuali poste in essere da terzi estranei per agevolare la condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, …., conservano rilevanza penale quale fatto di compartecipazione previsto e punito dall’art. 648bis c.p. più gravemente di quanto non avverrebbe in applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato, ex artt. 110 e 117 c.p. e art. 648ter.1 c.p.”.
[15] Cass. n. 30233/2021; n. 34413/2019; n. 13898/2020 in cui la Corte ha specificato che non era possibile la diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto storico sul mero presupposto che, in relazione a taluni correi, il singolo episodio si iscriva in un programma criminoso di stampo associativo come reato-fine.
[16] Relazione, cit., in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, I, 1929, pp. 165 e 171.
[17] Cass. n. 37732/2022 e n. 7098/2022.
[18] Cass. n. 34413/2019.
[19] Memoria P.G. della Corte di Cass. per l’ud. del 14.12.2023 in proc. Rg. n. 27140/2023.
[20] Corte cost., n. 364/1988 e n. 207/2023.
[21] “Non sussistono preclusioni, né normative né concettuali, alla riconducibilità dell'istituto del c.d. concorso doloso al delitto colposo al combinato disposto dell'art. 110 cod. pen. e delle singole norme incriminatrici di parte speciale che vengono, di volta in volta, in questione con riferimento all'illecito colposo. Ed invero il dolo dell'atto di concorso di persone nel reato ai sensi dell'art. 110 cod. pen. assume come oggetto la condotta tenuta e la sua connessione con quella degli altri compartecipi e come proprio contenuto strutturale la coscienza e volontà di contribuire alla realizzazione del fatto di reato. Non è necessario il c.d. previo concerto dato che il concorso può instaurarsi senza alcuna determinazione preventiva e la volontà di concorrere può essere anche unilaterale. L'autonomia della posizione di ciascun concorrente rende, dunque, ammissibile il concorso doloso nel delitto colposo. Ed invero, posto che l'esecutore della fattispecie monosoggettiva può anche agire senza dolo, senza con ciò escludere la responsabilità degli altri concorrenti, ne deriva a fortiori che può agire con colpa. Si tratta di una partecipazione non solo causalmente rilevante ma anche tipica rispetto agli eventi concreti previsti dal combinato disposto dell'art. 110 cod. pen. con le norme di parte speciale” (cfr. sent. Cass. 7032/2019).
[22] Cass. Sez. Un., n. 29541/2020.
[23] A tal riguardo, le Sezioni Unite specificano che si tratta dell’unica ipotesi di lieve entità trattata come fattispecie autonoma di reato. Gli artt. art. 648, co. 4, c. p., l’art. 5 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, gli artt. 609-bis co. 3 c. p., 311 c. p., 323-bis c. p., vengono, invece, qualificati come fattispecie circostanziali.
[24] “Soccorre la natura di reato a più condotte tipiche in cui si sostanzia l’ipotesi delittuosa disciplinata dall’art. 73 T.U. stup., cosicché si può ritenere possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale. Solo in questo caso sarà possibile attribuire alle condotte poste in essere dai coimputati nell’ambito di un medesimo contesto una diversa qualificazione giuridica” (Cass. n. 30233/2021). E, nello stesso solco, Cass. n. 6648/2022, Pintore non mass., afferma che “è possibile individuare distinti reati quante volte le differenti azioni tipiche (acquisto, trasporto, detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale”. Conseguenzialmente, come afferma Cass. 22212/2021, Comes, non mass, “la condotta del venditore, soggetto dotato di maggiori contatti e canali di approvvigionamento, il quale svolge professionalmente e reiteratamente la sua attività, può essere ritenuta più grave, mentre quella dell’acquirente, in quanto limitata a quantitativi singoli, più sporadica nel tempo e sganciata da stabili rapporti con i grandi canali di approvvigionamento della criminalità organizzata, può essere qualificata di minore gravità”.
[25] Cass. n. 16028/2018, secondo cui “lo stato di tossicodipendente può rilevare sole se si accerti che lo spaccio non ha dimensioni ragguardevoli, sì da fare apparire verosimile che l’imputato ne destini i proventi all’acquisto di droga per uso personale”; Cass. n. 44697/2013.
[26] Cass. n. 3616/2018.
[27] Cass. n. 13120/2020.
[28] Aceto A., “Stupefacenti: lo stesso fatto può essere qualificato lieve per un imputato ed escluso per l’altro”, in www.ilquotidianogiuridico.it, 2024.
Il linguaggio tra diritto e psicologia. Incontro tra giuristi e psicologi giuridico-forensi [1]
Sommario: 1. Introduzione. Diritto e Psicologia: linguaggi diversi o epistemologie diverse? (A cura di Giuliana Mazzoni) – 2. Le parole del diritto e quelle della psicologia. (A cura di Santo Di Nuovo) – 3. Capacità di intendere e di volere e la criptica nozione di ‘discernimento’. (A cura di Vania Patanè) - 4. L’idoneità a rendere testimonianza. (A cura di Antonietta Curci) – 5. Il danno non patrimoniale. Il danno psichico e il nesso causale. (A cura di Ugo Salanitro) – 6. Modello giuridico e cognitivo del dolo eventuale. (A cura di Giuseppe Sartori) – 7. Esigenze della regolazione giuridica e concetti della psicologia. (A cura di Angelo Costanzo).
1.Introduzione. Diritto e Psicologia: linguaggi diversi o epistemologie diverse? (A cura di Giuliana Mazzoni)
La relazione tra psicologia e diritto è sempre esistita ed è implicitamente intrinseca alla natura e all’oggetto delle due discipline. Mi riferisco al fatto che, se ben si osserva, entrambe si occupano dell’essere umano e dei suoi comportamenti. La psicologia da una lato ha come oggetto lo studio dell’uomo, di cui descrive e spiega, oggi con una molteplicità di dati di ricerca sperimentale, i meccanismi di funzionamento. Partendo dall’osservazione del comportamento individuale e collettivo crea modelli teorici che permettono non solo di spiegare ma anche di predire il comportamento in situazioni che abbiano premesse ben specificate. D’altro canto, anche il diritto, sia pure con obiettivi diversi, fa necessariamente riferimento al comportamento umano (sia individuale sia collettivo), per normarne la accettabilità morale/etica e sociale. Entrambe le discipline presentano quindi la necessita’ di conoscere il principi di funzionamento che sottostanno il comportamento dell’uomo. Similmente, è propria anche di entrambe le discipline una valutazione sia implicita che esplicita sul che cosa si intenda con ‘normalità’ (normalità di un comportamento), e sulla sua accettabilità morale/etica e sociale. Non si parla qui solo del comportamento di pericolosità sociale, ad esempio, ma anche dei tanti comportamenti che possono creare ad una qualche livello nocumento o danno al soggetto, ad altri individui, e a cose.
Questa relazione tra le due discipline è implicitamente assunta e tacitamente accettata, ma viene raramente esplicitata. È vero che il diritto si deve confrontare con una molteplicità di discipline, dalla filosofia alle varie discipline scientifiche che con il diritto interagiscono, e oggi con l’intelligenza artificiale. Tuttavia ritengo importante che anche in questo ambito disciplinare la comprensione di come si debba concettualizzare, e comprendere, il comportamento umano individuale e collettivo diventi oggetto di una riflessione più meno occasionale e maggiormente basata sulle risultanze della ricerca psicologica. Pare, all’occhio dello psicologo, che nel diritto si assuma una concezione relativamente ingenua dell’essere umano e del suo funzionamento, che non tiene conto da quanto si è arrivati a conoscere grazie ai più di cento anni di ricerca sperimentale in psicologia. L’impressione è che diritto e psicologia appartengano a due mondi completamente diversi, con concezioni profondamente diverse dell’essere umano. Si ipotizza che questo possa essere dovuto al fatto che le due discipline hanno fatto propri approcci epistemologici e conoscitivi molto distanti tra loro, l’uno razionale/logico/argomentativo (diritto), l’altro sperimentale (psicologia).
Il convegno che ha dato origine a questo scritto, tenutosi a Catania nel Settembre 2024, è nato proprio come momento di dialogo aperto e costruttivo tra le due discipline sul modo di concepire alcuni costrutti teorici a cavallo tra diritto e psicologia. Il tentativo fatto è quello di iniziare a discutere sul significato rispettivamente attribuito a termini presenti nel diritto (quali idoneità a rendere testimonianza, capacita’ di intendere e volere, danno, dolo), che pero’ hanno importanti valenze e significati psicologici, e rispetto ai quali la scienza psicologica molto ha detto. Questi termini sono impiegati con connotazioni e denotazioni spesso assai diverse nelle due discipline, e ritengo che un chairimento sui differenti modi di intendere possa rappresentare un buon punto di partenza per un avvicinamento anche concettuale tra diritto e psicologia. Mi auguro che questo tentativo si sviluppi in uno scambio piu’ frequente sul significato attribuito a termini presenti e frequentemente impiegati nella giurisprudenza (es nelle norme e nelle sentenze), quali personalità, memoria, attitudine, volontà, intenzione, minore, vittima, comportamento aggressivo, ecc ecc.
I contributi che seguono chiariscono, in modo alternato da parte di giuristi e psicologi, il punto di vista dell’una e dell’altra disciplina. L’augurio e la speranza è che questi contenuti siano oggetto di riflessione, e che da questo articolo possano nascere commenti costruttivi che portino ad un avvicinamento fruttuoso tra psicologia e diritto.
2. Le parole del diritto e quelle della psicologia. (A cura di Santo Di Nuovo)
Nel mio intervento accenno ad alcune ‘parole’ che sia il diritto che la psicologia usano ma con accezioni diverse e potenzialmente contrastanti.
Responsabilità - Nell’accessione giuridica la responsabilità è il fondamento per l’imputabilità, l’attribuzione di colpa, la retribuzione della pena. Colpa e pena vanno attribuite a chi dell’atto deviante è dichiarato responsabile. Su questa base, la legge definisce la “irresponsabilità” del minorenne infraquattordicenne; fra i 14 e i 18 anni perché si ammetta la responsabilità richiede di dimostrare che il minore sia ‘capace di intendere e volere’. Al contrario, dopo i 18 anni va dimostrata l’incapacità per eludere la responsabilità del reo.
In termini psicologici, la responsabilità invece è considerata non un presupposto, ma una meta: far diventare le persone “responsabili” dei propri atti è un obiettivo educativo (e rieducativo). La responsabilità è collegata alla maturità e alla moralità, che non è più, come nel bambino piccolo, un insieme di prescrizioni e di divieti imposti dall’esterno, ma diviene autonoma, in quanto parte del Sé.
Nel sistema giuridico italiano si ammette che la capacità di intendere e volere (e quindi la responsabilità) può essere ridotta o del tutto annullata, da fattori diversi, attribuibili a fonti di incapacità relativa in generale al soggetto, stabilizzate nella sua personalità e quindi persistenti nel tempo (“infermità psichica”) oppure a fonti pertinenti alla specifica azione. La dichiarazione di incapacità parziale è una mediazione tra i due “linguaggi”: le categorie (giuridiche) in cui le persone vengono inserite si intersecano con altre categorie (comportamentali) che aggiungono al giudizio la dimensione della complessità tipiche delle scienze sociali.
Capacità e conseguente responsabilità vanno soppesati di volta in volta in relazione al soggetto in esame, al tipo di atto commesso, al contesto relazionale coinvolto al momento dell’atto medesimo. Il rischio è che nella valutazione giuridica della responsabilità si innestino elementi di idiograficità e di incertezza, possibili divergenze – anche radicali – tra giudici diversi, e questo mina il principio di nomoteticità dell’ordinamento giudiziario.
Pericolosità - Il codice penale distingue il reato commesso (come ‘sintomo’ di devianza in atto) e il reato potenziale (cioè la probabilità di commetterlo) definito come “attitudine alla reiterazione di fatti socialmente allarmanti”, tale da meritare interventi di prevenzione speciale, mediante neutralizzazione o riabilitazione della persona pericolosa.
Le misure di sicurezza – dalla libertà vigilata al trattamento sanitario obbligatorio, indipendenti o aggiuntive alla pena – sono mirate a far tornare (o diventare) la persona socialmente responsabile: obiettivo psicologico ed educativo.
In realtà a questa accezione psicosociale si sostituisce spesso l’accezione che vede le misure di sicurezza nei confronti della persona pericolosa come intervento di “difesa sociale” (peraltro per tempi non definibili a priori).
Tra il sorvegliare e punire di cui parlava Foucault si opta solo per il primo, o si abbina il primo al secondo. La sorveglianza e il controllo sono concetti psicosociali, che però intersecano il diritto, con esiti spesso discutibili.
Danno psichico – Si tratta di una alterazione delle abitudini di vita personale e relazionale che, anche senza patologie medicalmente accertabili (danno biologico), configura un danno non patrimoniale. In casi di danno psichico – derivante da il mobbing, stalking, stress lavoro correlato – va dimostrato il legame causale diretto tra l’evento che causa il danno e la conseguenza che sconvolge la vita del danneggiato: e questo richiede mezzi di prova anche psicologici che dimostrano spesso l’intervento di fattori multicausali.
Il contrasto fra il linguaggio giuridico e quello psicologico deriva da un piano epistemologico: la psicologia immette nel diritto nozioni complesse e non riducibili a causalità lineari, perché reazioni e controreazioni (feedbacks) comportano una causalità circolare o multi-fattoriale, che introduce nelle procedure giudiziarie non certezze ma ulteriori dubbi.
3. Capacità di intendere e di volere e la criptica nozione di ‘discernimento’. (A cura di Vania Patanè)
1. L’imputabilità è la prima condizione per esprimere la disapprovazione soggettiva del fatto tipico e antigiuridico commesso dall’agente e l’ipotesi della libertà di scelta è il presupposto logico dello stesso diritto penale. Tuttavia, parte della dottrina penalistica è portata a negare l’esistenza di una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio: si parla, piuttosto, di una libertà “relativa” o “condizionata” che presenta graduazioni diverse in funzione del livello di intensità dei condizionamenti, anche di natura inconscia, che il soggetto subisce prima di agire: quanto più forte è la spinta dei motivi, degli impulsi, degli istinti, tanto più difficile risulta lo sforzo di sottoporli al potere di autocontrollo. Secondo tale prospettiva, la libertà del volere andrebbe assunta, quindi, non come dato ontologico, scientificamente dimostrabile, ma come contenuto di un’aspettativa giuridico-sociale.
2. Il limite dell’imputabilità è fissato al compimento del quattordicesimo anno. Si tratta di una scelta di politica criminale, sicuramente arbitraria per la sua convenzionalità e la categoria dell’imputabilità minorile sconta tutte le possibili contraddizioni e ambiguità presenti in un giudizio penale fortemente individualizzato, oltre che le difficoltà di convergenza tra un’interpretazione motivazionale del comportamento, propria del codice psicologico, e una valutazione normativa, propria, invece, del paradigma giuridico. Questo rende discrezionale, in misura abnorme, tutto il percorso valutativo, consegnando alle opzioni culturali di ogni singolo magistrato il compito di definire in concreto il significato della capacità, gli ambiti di indagine e le relative metodiche di accertamento. Si utilizzano sempre più i contributi della psicologia dell’età evolutiva, secondo la quale il processo di maturazione non progredisce allo stesso modo rispetto a tutti i comportamenti dello stesso individuo nello stesso periodo, potendo progredire rispetto a determinati schemi comportamentali e ritardare rispetto ad altri, determinando l’esistenza di diversi e differenti livelli di maturità nello stesso individuo e nella stessa fase o stadio di sviluppo.
Attualmente, la responsabilità penale del minore ultraquattordicenne risulta subordinata al concreto accertamento della capacità di intendere e di volere. Invece, il codice Zanardelli poneva il “discernimento” (coscienza del carattere immorale e antigiuridico del fatto) quale condizione necessaria per l’imputabilità del minore a partire dal nono anno di età. In realtà, nonostante le buone intenzioni, la giurisprudenza e la dottrina, individuando nel concetto di maturità il nucleo essenziale della capacità di intendere e di volere del minore (e quindi della sua imputabilità), hanno, di fatto, riportato la situazione alla stessa indeterminatezza che connotava il concetto di discernimento vigente il codice Zanardelli. Concetto, peraltro, ripreso dalla recente l. n. 70 del 2024, che, modificando l’art. 25 del R.D.l. n. 1404 del 1934, prevede la possibilità di applicare misure rieducative, al minorenne che «dia manifeste prove di irregolarità nella condotta o nel carattere, ovvero tiene condotte aggressive…» financo a minori infra-dodicenni, se capaci di discernimento, senza, tuttavia, chiarire il significato preciso da attribuire a tale nozione.
3. Anche l’applicazione di una misura di sicurezza al minore non imputabile ma socialmente pericoloso è radicato non sulla responsabilità ma sulla pericolosità sociale, ossia su opinabili valutazioni prognostiche, fondate, paradossalmente, sulle stesse circostanze indicate nell’art.133 c.p. La conseguenza ha del paradossale, per soggetti non imputabili, come gli infra-quattordicenni, per i quali il giudizio di pericolosità sociale va fondato su quegli stessi elementi che rilevano per la pena e per la sua quantificazione, cioè per quella stessa sanzione penale per la quale sono ritenuti incapaci.
4. L’idoneità a rendere testimonianza. (A cura di Antonietta Curci)
Da tempo la psicologia scientifica ha abbandonato l’idea che la memoria sia un archivio ordinato e fedele degli eventi, anzi è soggetta a varie forme di errori a causa della sua natura ricostruttiva e non riproduttiva. Schachter (2022) definisce questi errori i “sette peccati” della memoria, tre di omissione e quattro di commissione. Gli errori di omissione comprendono la transitorietà, la distrazione e il blocco; gli errori di commissione riguardano l’errata attribuzione, l’effetto bias e credenze, la credenza nella persistenza dei ricordi traumatici e la suggestionabilità[2].
I testimoni di un processo sono chiamati a rievocare esperienze spesso stressanti, a limite traumatiche, in un contesto altamente formalizzato e potenzialmente ostile. La capacità mnestica di un teste è, dunque, un tema di grande rilevanza per la ricerca e le applicazioni forensi. Negli anni Ottanta, si sviluppò negli Stati Uniti un dibattito sull’accuratezza dei ricordi traumatici, che va sotto il nome di memory wars. Da una parte, alcuni ricercatori ritenevano che i traumi producano ricordi indelebili, al punto da lasciare una cicatrice nei tessuti cerebrali; all’altro, utilizzando il paradigma lost-in-the-mall (Loftus e Pickrell, 1995), altri studiosi hanno dimostrato che è possibile impiantare falsi ricordi. Gli studi più recenti sulla memoria autobiografica mostrano come i processi di memoria siano costruttivi e ricostruttivi, in quanto condizionati dalla moltitudine di fattori che intervengono a livello di codifica e di recupero (Conway e Loveday, 2015). L’esperto chiamato a valutare l’idoneità di una persona vulnerabile (es., minore, anziano, persona con disabilità ecc.) deve, pertanto, considerare la sua capacità mnestica declinata su due fronti, “l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità” (Cass. Pen., Sez. III, n. 8962/1997).
L’esperto, quindi, dovrà ricorrere al proprio bagaglio di conoscenze scientifiche al fine di indagare: a) le capacità cognitive generali del testimone, valutandone la competenza (o l’accuratezza) che riguarda il rapporto tra ciò che è successo e ciò che si ritiene sia successo (realtà oggettiva vs realtà soggettiva); b) la credibilità clinica, che riguarda il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e la motivazione a dichiararlo (realtà soggettiva vs realtà riferita). In questo senso, come anche definito dalle Linee Guida Nazionali per l’Ascolto del Minore Testimone (2010), la valutazione si focalizza sull’accertamento delle capacità cognitive “generali”, come memoria, attenzione, capacità di comprensione e di espressione linguistica, source monitoring, capacità di discriminare realtà e fantasia, verosimile da non verosimile, livello di maturità psico-affettiva ecc.; riguarda, tuttavia, anche le capacità “specifiche”, che corrispondono alle abilità di “organizzare e riferire un ricordo in relazione alla complessità narrativa e semantica delle tematiche in discussione ed all’eventuale presenza di influenze suggestive, interne o esterne, che possono avere agito” . Ciò che il consulente non può fare è estendere la sua valutazione al terreno della decisione giudiziaria ed esprimersi sulla credibilità del teste intesa come attendibilità rispetto ai fatti reato. La scienza cognitiva può supportare la decisione, ma il giudizio finale resta ai giudici. L’intervento dell’esperto può, in certa misura, contribuire alla formazione di quelle “massime di esperienza” (nel caso specifico psicologica) che il giudice usa per fondare il suo convincimento. Ciò che resta imprescindibile è la corretta formazione scientifica dei consulenti, che non si perda nel contrasto tra posizioni o scuole di pensiero, ma che sia in grado di fornire un contributo utile, onesto e oggettivo al giusto processo.
5. Il danno non patrimoniale. Il danno psichico e il nesso causale. (A cura di Ugo Salanitro)
Va preliminarmente osservato che non vi è impermeabilità tra il diritto e le altre culture, essendo anzi usuale che il diritto assuma nozioni e categorie tratte da altri settori della conoscenza. Tuttavia, la trasmissione non è necessitata e richiede un processo di mediazione, giacché il diritto ha la specifica funzione di risolvere conflitti di interessi, per cui non bisogna stupirsi che il giurista adotti una visione diversa del concetto utilizzato dai processi di conoscenza della realtà diffusi in ambito scientifico e sociale.
Nella sfera del danno psichico, gli psicologi tendono a sostenere che i modelli causali utilizzati dai giuristi non siano appropriati perché caratterizzati da un nesso lineare, inidoneo a leggere le tecniche di concatenazione che spiegano le conseguenze dei traumi sulle condizioni mentali delle vittime, le quali sarebbero piuttosto caratterizzate da un andamento circolare, in cui assume rilevanza la predisposizione naturale. In questa prospettiva, anche quando svolgono attività di consulenza in ambito forense, gli psicologi sembrano essere più attratti dall’idea, che percepiscono più vicina ai modelli di ragionamento scientifico, secondo la quale il danno andrebbe risarcito in modo proporzionale al contributo causale e si sorprendono nel costatare che la maggioranza dei giuristi propende per la tesi secondo la quale, anche in caso di concausa naturale, debba ricadere per intero sull’autore del fatto illecito la responsabilità risarcitoria (all or nothing rule).
In realtà, l’idea di una causalità proporzionale non è legata al mondo della psicologia ed è stata accolta in passato non solo dalla dottrina giuridica, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità, sino a essere ripresa da ultimo dalla Cassazione con la sentenza 16 gennaio 2009, n. 975. Oggi, tuttavia, è considerata superata, essendo consolidata (ad esempio, Cass. 24 febbraio 2023, n. 5737) la diversa visione, che affonda le radici nella tradizione, di chi nega che il concorso di una causa naturale possa essere rilevante ai fini della riduzione del risarcimento: visione che trae argomento dagli artt. 1227 e 2055 c.c., i quali sono interpretati quali espressioni di una policy che intende risolvere, a favore del primo, il conflitto tra l’interesse del danneggiato incolpevole a ottenere l’integrale risarcimento del danno e l’interesse del danneggiante, al quale è imputato l’illecito, a non assumere un carico di responsabilità superiore al suo apporto causale.
È rimasto isolato anche il tentativo di tenere conto del contributo della concausa naturale in sede di determinazione del danno, avvalendosi dei poteri equitativi del giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c., nel caso deciso da Cass. 29 febbraio 2016, n. 3893: soluzione che può ritenersi corretta, ma che avrebbe meritato altra argomentazione, poiché si discuteva di una forma di asfissia prenatale provocata da errore medico e produttiva di lesioni cerebrali che incidevano sulla condizione di un neonato già affetto da sindrome di Down. Proprio con riferimento a questa vicenda, infatti, si sarebbe potuto tenere conto che la giurisprudenza e una parte della dottrina articolano il nesso causale in due segmenti con diversi sistemi di regole: oltre al nesso tra il fatto illecito e la lesione, si rinviene una connessione tra la lesione e le conseguenze risarcibili. È in quest’ultima sfera che la giurisprudenza più recente, a partire da Cass. 11 novembre 2019, n. 28986, ha attribuito rilevanza alla preesistenza di una menomazione, sottraendo al danno, calcolato sulla condizione finale della vittima, la quota di risarcimento riferibile alla situazione preesistente.
Tuttavia, non è da questa giurisprudenza che, almeno di regola, si possono trarre argomenti per una riduzione delle conseguenze risarcitorie del danno psichico. Diverso tipo di problema ricorre, infatti, nel caso in cui il danno psichico sia stato provocato da un intervento traumatico illecito che si evolve a causa della predisposizione naturale della vittima: qui non assume rilievo, almeno in via tipica, il nesso causale tra lesione e conseguenza dannosa sulla vita di relazione, ricadendo, piuttosto, tale fatto nel segmento della concatenazione tra illecito e lesione, soggetto, come si è illustrato, alla regola all or nothing.
6. Modello giuridico e cognitivo del dolo eventuale. (A cura di Giuseppe Sartori)
Il dolo eventuale richiede che l'agente, pur non volendo direttamente l'evento, accetti il rischio che esso si verifichi come conseguenza della sua condotta. La sentenza Tyssengroup ha introdotto la teoria del bilanciamento, dove l'agente, dopo aver valutato gli interessi in gioco, accetta consapevolmente l'evento dannoso come prezzo per raggiungere il proprio scopo. La prova del dolo eventuale è indiziaria ed è basata su una serie di fattori come: 1) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa, 2) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente, 3) la durata e la ripetizione dell'azione, 3)il comportamento successivo al fatto, 4) la probabilità di verificazione dell'evento e infine 5) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione.
La sentenza Thyssenkrupp ha quindi spostato l'attenzione dal concetto di "accettazione del rischio" a quello di "accettazione dell'evento", richiedendo una maggiore attenzione alla volontà dell'agente e al suo effettivo processo decisionale. Il dolo eventuale ha come suo elemento centrale la “rappresentazione” delle possibili delle alternative, rappresentazione che è alla base della valutazione della probabilità delle conseguenze.
Le ricerche cognitive rilevanti per il dolo eventuale.
Gli studi cognitivi sfidano la presunzione di razionalità implicita nelle teorie giuridiche del dolo eventuale. Daniel Kahneman ha introdotto i concetti di Sistema 1 e Sistema 2 per spiegare le modalità di pensiero umano. Il Sistema 1 è rapido, automatico e intuitivo, mentre il Sistema 2 è lento, deliberato e analitico. La teoria dell'azione ragionata (TRA) spiega come le decisioni senza pressione temporale siano basate su valutazioni ponderate delle conseguenze e può essere vista come il corrispondente scientifico della teoria del bilanciamento adottata dalla sentenza Thyssenkrupp. Entrambe le teorie (giuridica e scientifica) presuppongono un agente razionale che valuta le conseguenze delle proprie azioni nel caso di decisioni senza pressione temporale. Il modello Tyssengroup, quindi, si può dire abbia una base scientifica quando si applica a processi decisionali che ricadono nell’alveo del sistema 2.
Tuttavia, in situazioni di emergenza o sotto pressione temporale, il cervello tende a usare strategie decisionali semplificate e impulsive (Sistema 1) , mettendo in discussione la capacità del diritto penale di valutare correttamente la volontà e l'intenzionalità dell'agente. Il Sistema 1 è rapido, automatico e intuitivo. Opera in modo inconscio e istintivo, permettendo di prendere decisioni immediate senza un grande sforzo cognitivo. Questo sistema si basa su euristiche, cioè scorciatoie mentali che ci aiutano a navigare nel mondo quotidiano. Ad esempio, riconoscere un volto familiare o reagire rapidamente a un pericolo sono compiti tipici del Sistema 1 così come ogni situazione in cui si reagisce d’impulso ad un pericolo. Tuttavia, proprio per la sua natura automatica, il Sistema 1 può essere soggetto a bias e errori di giudizio. Le scienze cognitive evidenziano come le decisioni umane siano spesso influenzate da fattori emotivi e irrazionali, aprendo nuove sfide per l'accertamento del dolo eventuale e suggerendo un approccio più integrato che tenga conto della complessità dei processi decisionali umani. In breve, quando la decisione avviene sotto pressione temporale, si dimostra empiricamente che manca la rappresentazione delle conseguenze e la loro valutazione del rischio rendendo così empiricamente inapplicabile il modello Thyssenkrupp.
Il contributo delle scienze cognitive alla comprensione del dolo eventuale offre una prospettiva innovativa, sfidando i modelli giuridici razionali. Questo apre nuove opportunità per sviluppare criteri più sofisticati per distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente, promuovendo un approccio ancorato ai dati empirici e scientifici disponibili.
7. Esigenze della regolazione giuridica e concetti della psicologia. (A cura di Angelo Costanzo)
Il linguaggio giuridico si serve sia del linguaggio comune, sia del linguaggio scientifico, sia di propri termini tecnici. Tuttavia, permane una differenza di obiettivi fra la conoscenza (o la terapia) e la regolazione giuridica delle condotte. Accade anche che, utilizzando termini dei quali andrebbe valutata la corrispondenza alle categorie scientifiche, il diritto produca ambiguità o che una condotta sia collocabile in due quadri di riferimento (non teorie compiute) auto-consistenti ma fra loro incompatibili[3].
Una ambiguità è produttiva, se viene risolta. Ma può anche mantenersi essere tollerata e preservata per evitare il palesarsi di incompatibilità disturbanti che richiedano scelte che non si è in grado di affrontare[4].
Del resto, se saperi diversi possono comprendere solo l’oggetto al quale i loro strumenti consentono di accedere, può fra loro stabilirsi un dialogo effettivo, individuando una lingua-franca (o lingua-ponte) per il diritto e le scienze della mente, come strumento di comunicazione tra soggetti di differente lingua-madre dotato di accettabile precisione?
Questo strumento dovrebbe privilegiare la direzione (i termini, i concetti) che va dal diritto alle scienze della mente o la direzione contraria? Chi ne ha proposto l’adozione ha ritenuto che dovrebbe basarsi su concetti neuroscientifici. Ma, presumibilmente, altre branche delle scienze della mente potrebbero proporre soluzioni. Differenti.
In ogni caso, se dei concetti giuridici non risultano abbastanza specifici da consentire una appropriata traduzione in termini dotati di significato per gli scienziati, allora gli esperti non devono fornire ai giuristi e loro opinioni sulla scorta di tali concetti.
In questi ambiti, ci si deve accontentare di una sorta di pidgin (il linguaggio che si forma mescolando lingue di popolazioni differenti, a seguito di migrazioni, colonizzazioni, commerci), che conduce a mere ipotesi su ciò che l’altra parte intendere significare, con rischi per l’adeguato trattamento dei casi giuridici[5].
Anche se non è auspicabile che la definizione dei presupposti della regolazione giuridica rimanga impermeabile alla evoluzione delle conoscenze, il legislatore e i suoi interpreti non sono tenuti a mutare le proprie categorie, perché, nel frattempo vanno emergendo nuove (non sempre consolidate) acquisizioni scientifiche[6].
Intanto, le valutazioni derivanti approccio scientifico a volte entrano surrettiziamente nei processi, travestite da massime di esperienza, con l’uso (più o meno appropriato) di termini mutuati dalle scienze della mente per introdurre opzioni soggettive, facendo leva sulla ambiguità dei significati e sulla facile traducibilità dei concetti utilizzati dallo psicologo in conoscenze diffuse (ma non per questo a tutti comuni).
Invece, le conoscenze specialistiche degli esperti non dovrebbero entrare nei processi per vie surrettizie e neanche attraverso le perizie e le consulenze in sé (che sono solo atti dei periti e dei consulenti), ma acquisite tramite l’esame degli esperti nel contraddittorio tra le parti, con il metodo dialettico, nella linea del razionalismo dialettico che informa la nostra cultura giuridica e che raccomanda di non trascurare i diversi apporti delle scienze e, al contempo, le conoscenze comuni.
[1] Incontro promosso dalla sezione di Psicologia Sperimentale della Associazione Italiana di Psicologia Sperimentale (AIP) e il Centro di ricerca sulla giustizia dei minori e della famiglia “Enzo Zappalà” dell’Università di Catania e svoltosi il 26 settembre 2024 presso il Dipartimento di Giurisprudenza.
[2] Riferimenti bibliografici: Conway, M. A. e Loveday, C. (2015). Remembering, imagining, false memories & personal meanings. Consciousness and Cognition, 33, 574-581.
Loftus, E. F. e Pickrell, J. E. (1995). The formation of false memories. Psychiatric Annals, 25(12), 720-725.
Schacter, D. L. (2022). The seven sins of memory: An update. Memory, 30(1), 37-42.
[3] G. Lolli, Ambiguità. Un viaggio fra letteratura e matematica, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 22, 88, 146, 183 ss., 195 ss, 203.
[4] S. Argentieri, L’ambiguità, Torino, Einaudi, 2008, pp.100-113.
[5] J. W. Buckholtz -V. Reyna- C. Slobogin, A Neuro-Legal Lingua Franca: Bridging Law and Neuroscience on the Issue of Self-Control, Working Paper Number 16-32, in: Mental Health Law & Policy Journal.
[6] B., Magro, Scienze e scienza penale. L’integrazione tra saperi incommensurabili nella ricerca di un linguaggio comune, in: Archivio penale, 2019, n, 1, pp. 1-37.
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