ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia", Cacucci, 2021- a cura di L. Cavallaro e R.G. Conti*
di Roberto Conti
Nel Vangelo di Giovanni, quando Gesù dice di essere venuto al mondo per rendere
testimonianza alla verità, Pilato domanda: «Che cosa è la verità?»
È l’eterna domanda che può trovare risposta soltanto nella verità, non in una
spiegazione o definizione della verità? La verità è. «Io sono colui che sono». E
così la verità è colei che è. Il potere ne vuole spiegazione allo stesso modo che
della menzogna in cui si inscrive può darne.
[L. Sciascia, Nero su nero, Torino, 1979, 216]
…ci sono delle verità – frantumi, come di specchio, di una ignota verità – che, una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili o molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»
[L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, in Opere, a cura di P. Squillacioti, Milano, 2019, Vol. II, Tomo II, 972]
A mio Padre
Sommario:1. Alle origini di una curatela a quattro mani in nome di Leonardo Sciascia - 2. L’alfabeto sciasciano: legge, giustizia, udienza (e verità) - 3. Sciascia alla ricerca del ruolo della verità - 4. Una, nessuna, centomila verità - 5. La dimensione individuale e quella collettiva del diritto di – e del dovere alla – verità - 6. Verità e complessità del diritto - 7. Scienza, diritto e letteratura a confronto con la verità e con il giudicare - 8. Il potere della magistratura - Sciascia, Livatino e la sicilitudine - 9. Il giudice Sciascia - 10. Il non giudice Sciascia - 11. La giustizia ed il sentimento ambivalente di Sciascia - 12. La vicenda del mostro di Marsala e la metafora delle veritù.Nessuna certezza sul pensiero sciasciano e tanti dubbi.
1. Alle origini di una curatela a quattro mani in nome di Leonardo Sciascia
Tre ragioni mi hanno spinto a condividere con Luigi Cavallaro la curatela di un volume dedicato a Leonardo Sciascia.
La prima è essenzialmente di natura familiare.
Vuole infatti, essere un modo per ricordare la memoria di mio padre, avvocato civilista e amante delle buone letture. E proprio in quella che fu la sua libreria, nell’abitazione in cui crebbi, in un pomeriggio domenicale di circa tre anni fa, in visita a mia madre, quasi nascosti fra Silone, Pratolini, Hemingway, Fallaci, Gramsci, Fenoglio, Garcia Lorca, Pavese, Montale, Calvino e Moravia, intravidi i piccoli volumetti di Sciascia.
Prelevai, tra Porte aperte, Todo modo e Il giorno della civetta, il più nascosto e meno visibile, Il contesto.
Mi colpì, immagino per evidente deformazione professionale, l'immagine di copertina che riproduceva uno schizzo di Giudice seduto sullo scranno.
Mi immersi così nella lettura e rimasi calamitato dai luoghi, dalle persone, dalle descrizioni, dal detto e il non detto. Un centinaio di pagine, un intrigo poliziesco, con al centro l'uccisione di una decina di giudici che l’Ispettore Rogas ricollegò subito ad un caso di possibile errore giudiziario a carico di Cres – personaggio descritto meticolosamente ma mai apparso –. Approfittando dunque del riposino di mamma e del viaggio di ritorno in treno, quell’11 febbraio 2018 – come riporta il biglietto ferroviario ritrovato nel libro – proseguii la lettura del piccolo libretto che si fece sempre più incalzante.
Mi passarono davanti figure descritte in modo straordinario, le mani del giudice Azar, '...mani scarne, incordate di arterie, maculate come pietre di lichene...', la personalità di accusati di delitti mai commessi e alla fine assolti, di giudici, di alti magistrati, gli accenni immediati e diretti all’ineluttabilità del “problema della giustizia e dell’ingiustizia che tante inquietudini aveva creato a Sciascia, fin da ragazzo[1] tanto da fargli dire, nella iconica intervista rilasciata al Prof. Claude Ambroise[2], che
“Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo. Un problema che si assomma nella scrittura, che nella scrittura trova strazio o riscatto…”[3]
Ma in quella lettura, allora, colsi solo in parte la profondità, complessità e centralità dell’opera di Sciascia, sulla quale si sono giustamente concentrati anche altri autorevoli giuristi[4].
Mi colpì moltissimo un aggettivo a me fino a quel momento sconosciuto nel significato che Sciascia gli aveva attribuito, parlando delle mani del giudice Azar incordate di arterie. Mi sembrò allora che quel personaggio fosse letteralmente uscito dal libro e si fosse materializzato innanzi a me con le sue mani. Pensai, forse banalmente, che quell’aggettivazione racchiudeva non solo una straordinaria conoscenza del lessico italiano ed una cura del linguaggio – che mi apparve, a posteriori, manifesta in Occhi di capra – ma prim’ancora un’esperienza di vita legata ai luoghi natii di Sciascia, alla lontananza dal continente, al radicamento indissolubile della gente isolana con il territorio e la sua crudezza.
Più di recente trovai conferma di quella ricercatezza dell’Autore nella scelta delle parole allorché, intervistato da Ambroise, Sciascia dichiarava:
“Sì, la parola: la singola parola che suggerisce, suggestiona, si apre come un ventaglio, dispiega immagini”.
Fu dunque l’inizio di una scoperta più matura – ma sempre in punta di piedi – di uno scrittore siciliano che in una famiglia di gens de Justice ben radicata in Sicilia alla quale appartengo non poteva, fin dall’adolescenza, che continuamente comparire e scomparire, essere apprezzato e criticato, anche aspramente quando mio padre parlava di attualità e di politica. Lui che da Presidente dell’ordine degli avvocati di Agrigento per quasi un decennio aveva infiammato i colleghi con la sua potente oratoria.
Apparizioni comunque emotivamente diverse da quelle dell’altro scrittore e drammaturgo agrigentino, Pirandello, per me più direttamente collegate al periodo liceale, alle rappresentazioni teatrali ricorrenti al Supercinema, alle giornate di studio organizzate in città per commemorarlo dal Professore Enzo Lauretta, alla riflessione sulla ricerca dell’essere alle quali noi studenti del corso A eravamo instradati dall’indimenticato Professore d’italiano del Liceo Classico Empedocle Nino Picone Chiodo, anche lui, forse non casualmente, racalmutese come Leonardo Sciascia, anche lui Maestro per noi studenti liceali, condotti per mano sul terreno del ragionare, a volte anche ironico, del riflettere sul senso della letteratura.
Approccio dunque diverso rispetto a quello riservato al più contemporaneo – ed allora vivente – Sciascia, scrittore-intellettuale-politico, pure lui come il primo tessitore di grovigli esistenziali[5] ma più del primo – e forse non casualmente – fonte di ispirazione per rappresentazioni cinematografiche ed anche protagonista di veementi campagne politiche e di stampa, mediaticamente collegate a fatti spesso clamorosi ed intrighi irrisolti della storia italiana.
Non sarà dunque un caso che le sue opere abbiamo dato linfa vitale al c.d. cinema civile – basti pensare a film come A ciascuno il suo di Elio Petri (1967), Il giorno della civetta di Damiano Damiani (1968), Una vita venduta – ispirato a L’antimonio (1976) di Aldo Florio – fino a Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976) – tratto da Il contesto – Porte aperte (1990) di Gianni Amelio, Una storia semplice (1991), L’uomo che ho ucciso – liberamente tratto da 1912 +1 di Giorgio Ferrara (1995) – e Consiglio d’Egitto (2002), entrambi di Emidio Greco.
Né sembra essere senza significato il fatto che Sciascia, pur ombroso, schivo e di poche parole, sordomuto[6] probabilmente amasse – “per il loro valore mediale”[7] – essere intervistato con la sigaretta eternamene accesa, fornire senza mai risparmiarsi le sue risposte – recte, le sue verità – alle domande dei suoi interlocutori, tutte orientate a spiegare le sue opere, i contesti, i sensi, i riferimenti, quasi a volere mostrare, attraverso plurime interpretazioni autentiche, chiarezza e trasparenza rispetto agli itinerari complessi ed inesplicabili che, fra il detto ed il non detto, rendono le letture di Sciascia tanto impegnative quanto metaforiche.
Il caso volle che dopo due giorni da quella lettura, mentre camminavo in uno dei lunghi ed austeri corridoi della Corte di Cassazione incontrassi Pietro Curzio, allora presidente della sesta sezione civile e nello scambiare due parole non riuscii a frenare l’istinto di condividere l’esperienza recente che avevo fatto riavvicinandomi a Leonardo Sciascia.
Mai avrei immaginato che qualche anno dopo il mio interlocutore sarebbe diventato Primo Presidente della Corte di Cassazione, incarnando uno dei ruoli che Sciascia aveva così plasticamente tratteggiato. E mai sarebbe in me balenata l’idea di potere contribuire ad una riflessione così importante come quella che gli autori del volume hanno creato.
La seconda ragione che mi conduce a Sciascia è essenzialmente legata ad una forte vocazione alla curiosità che crebbe quando Luigi Cavallaro mi propose di condividere quel progetto editoriale.
Mi chiesi e richiesi più volte il perché di quell’invito, proveniente da un profondo conoscitore di Sciascia e prim’ancora della sua terra natia. E pur non avendola ancora oggi pienamente trovata, ma comunque provenendo anch’io dalla natia Agrigento, ancorché meno legato alla sicilianità, non foss’altro che per le mie origini meticce – in parte bergamasche ex latere matris – decisi di accettare, incuriosito dall’idea di mettere davanti a Sciascia l’esperienza professionale di alcuni fra i giuristi più insigni del panorama contemporaneo.
Mi domandai, immediatamente e ancora di più dopo i primi concistori con Luigi, divisi fra Roma e Racalmuto, cosa sarebbe potuto uscire fuori da quella che a me apparve essere davvero una ricerca sistematica mai compiuta prima, un itinerario a più corsie che stavamo tentando di tracciare perché fosse percorso parallelamente, ma separatamente, da quegli autorevoli “lettori” delle diverse opere di Sciascia che alla giustizia avevano contribuito parecchio, ciascuno in prospettive ed ambiti particolari e non sovrapponibili.
La matrice comune di questa grande strada era dunque quella della giustizia o per meglio dire, prendendo a prestito un’espressione usata dallo stesso Sciascia, della nevrosi della giustizia[8].
In effetti, proprio quell’approccio originario a Il contesto mi aveva fatto balenare il convincimento che Sciascia avesse una grande fame di giustizia, per le menzogne che alimentano a volte una verità giudiziaria falsa, ma comunque verosimile – icasticamente dimostrate ne La strega e il capitano[9] –per le ingiustizie, alcune reali, alcune immaginate, altre spinte volutamente fino all’eccesso, al paradosso, alla parodia o anche solo alla rievocazione storica di processi a dire di Sciascia ingiusti, nei quali non si distinguono “…l’uccisore dall’ucciso, il boia dalla vittima, il torturatore dal torturato, la gioia dal dolore[10].
Quanto quella nevrosi fosse derivata da ingiustizie subite in prima persona o da persone a lui care – come ipotizza Collura – non è dato sapere, pur tornando alla mente il pensiero del Cardinal Martini che individua il seme del senso di ingiustizia nell’ingiustizia subita “o da noi o da chi ci è caro e che consideriamo parte di noi”[11].
E proprio lo spaccato non proprio edificante del pianeta giustizia che dal primo all’ultimo elemento veniva fuori dal Contesto, pittato – per dirla con un’espressione del dialetto siciliano al quale Sciascia prestò particolare attenzione – come inadatto ad offrire risposte di giustizia che un’umanità spesso dolente attendeva, pur consapevole della loro fallacità e delle a volte intrinseche, pervicaci e ostinate illogicità, giustificava davvero, ai miei occhi, l’esigenza di farsi promotori di un’iniziativa che arricchisse il già importante osservatorio di saggi monografici per il tramite di un volume capace di offrire, per l’autorevolezza degli Autori coinvolti e per le opere individuate come oggetto delle riflessioni stesse, un valore aggiunto.
Ecco dunque uno dei possibili “sensi” della ricerca volta ad approfondire il pensiero di Sciascia con il coinvolgimento, oltre che di Paolo Squillacioti che di Sciascia è uno dei più raffinati conoscitori, di autorevoli giuristi – Irti, Luccioli, Donini, Galliani, Serio, Lupo, Mammone – che pure con il linguaggio hanno dimestichezza al di fuori del genere letterario usandolo però, al pari del nostro, quotidianamente per esprimere opinioni, giudizi, riflessioni sulle “cose di diritto”.
I frutti di questa ricerca appaiono per più versi potenzialmente fecondi proprio perché chiamano a rivisitare Sciascia che a più riprese espresse forti riserve sul ruolo della giustizia e dei suoi attori. Una ricerca, dunque, riservata ai protagonisti, diversi ovviamente per ruolo e funzioni, di un settore al quale Sciascia sembra anelare al punto di affermare che non vi è mondo senza giustizia, ma al contempo guardare nella sua dimensione concreta con aspro disincanto.
Ma accanto a questa e prima di questa esigenza proiettata verso una dimensione a me esterna, ero andato maturando un bisogno, tutto personale, cresciuto nel foro interno, di saperne di più, di approfondire la conoscenza, di farmi un’idea su Sciascia che mi avrebbe in definitiva riavvicinato a mio padre, alle sue letture, alla sua passione per la giustizia. Una passione, la sua, diversa da quella da ma vissuta in trent’anni di magistratura che tuttavia sentivo e sento importante ricordando il “modo” con il quale mio padre esercitava la professione.
Ed in questa ricerca il confronto con Luigi è stato stimolante ed arricchente, poiché come spesso accade l’ignorante che sta accanto all’erudito alza la cresta e dapprima timidamente, poi a volte quasi altezzosamente prospetta, contesta, distingue, a volte addirittura tende a dileggiare il suo più dotto interlocutore, approfittando dell’amicizia e della stima che affonda in un sentimento lontano nel tempo, che non si stenta a poter definire, questo sì, frutto di una sicilitudine [12] a volte, complicata da intendere per chi non proviene dalla Sicilia[13] e dunque ruvida e scorbutica, ma sinceramente sana, autentica, vera e, direi, vitale.
2. L’alfabeto sciasciano: legge, giustizia, udienza (e verità)
Il giudice davanti al quale venne portato Candido, ricorda Romano Belfiore, “restò assorto davanti alla bellezza di quelle due parole, di quelle due idee: la legge, la giustizia[14]”.
In svariate opere si è studiato, volta a volta, il rapporto fra Sciascia e la giustizia, fra la giustizia come ideale potenziale ed il diritto e fra la giustizia ed il potere. Studi approfonditi tesi a cogliere quanto in Sciascia fosse marcata la divergenza e la divaricazione fra i termini delle coppie qui riproposte, ma anche quanto quelle parole – giustizia, diritto, udienza, giudice – insieme a verità (del quale si dirà diffusamente in seguito) e potere fossero nella cassetta degli attrezzi di Sciascia onnipresenti, ambivalenti, capaci di attrarsi come di divaricarsi.
Leonardo Sciascia, nella sua Racalmuto, il 27 aprile 1986 partecipò ad un convegno intitolato “Il problema della giustizia”, dichiarando di sentirsi ossessionato da quella questione. Quando Sciascia descrive la mala giustizia lo fa, per l’un verso, convinto che di fronte ai diritti umani non si può mai indietreggiare, anche a pena di essere indicati come collusi, conniventi, contigui al crimine di matrice mafiosa, terroristica o comune che sia.
Lo strumento per combattere le ingiustizie umane è la legge che non può essere violata per debellare l’ingiustizia, senza diventare essa stessa ingiusta.
Ecco la bellezza dei due valori, delle due “idee”, senza le quali il mondo sarebbe immondo, privo di quel controllo che invece è proprio delle democrazie moderne. Il controllo di garanzia e dei poteri.
Non basta, dunque affidarsi al comodo broccardo che il Procuratore di Porte aperte resuscita nascondendosi dietro il “La legge è legge, non possiamo che applicarla”. Il mondo attende figure professionali attive, proattive, capaci anche, quando occorre, di ribellarsi e disobbedire alla legge attraverso la legge stessa, pur rimanendo nel circuito della legalità[15].
Moderno, Sciascia nel battersi per le regole dello Stato di diritto.
E ci si potrebbe fermare qui, non occorrendo nemmeno ricordare al lettore i fronti sui quali oggi si avverte, forte, che il canone appena richiamato venga protetto, ricercato ed affermato in modo effettivo, tanto a livello nazionale che, soprattutto, nella “nostra Europa” assalita da pericoli e derive sovraniste che vanno via via emergendo soprattutto nell’est europeo, senza ovviamente dimenticare la frattura prodotta nell’UE dalla Brexit.
Il bisogno di giustizia, la sete di giustizia si manifesta rispetto al dominio del potere, sicché per esercitarla al meglio non bisogna essere potere, ma contropotere al servizio di un’idea, di un bisogno insopprimibile. Il problema è che alla giustizia dovrebbe provvedere il giudice che tende, a volte, a diventare esso stesso potere e non servizio, fallendo così miseramente la sua mission[16].
Alla parola Udienza Sciascia dedica, nel suo Alfabeto pirandelliano[17], espressioni memorabili, non esclusivamente riservate all’ambito proprio del processo, se è vero che il “chiedere udienza” è non solo l’ascoltare del giudice, ma anche “istanza di giudizio, a chi sta in alto, sui propri bisogni: per vivere, per sopravvivere”. Dunque, “dall’udienza, dall’ascoltare, dal capire – dal sapere ascoltare, dal sapere capire – il sentimento popolare aspetta giustizia o misericordia, giustizia e misericordia insieme”.
Nel leggere questa rappresentazione dell’udienza dedicata da Sciascia a Pirandello si rimane davvero colpiti, soprattutto nel vedere accostate e fuse le istanze di giustizia e di misericordia, se si pensa che a scriverle era un laico non credente.
Forse esse aiutano davvero il lettore e lo guidano sul concetto di giustizia.
Dico forse perché la spiegazione è assolutamente personale. Sembra infatti che la giustizia non guardi affatto all’amministrazione della giustizia terrena, al dare ciò che è giusto a chi lo reclama, a colpire il colpevole, ma ricerchi qualcosa di superiore e, appunto di misericordioso, affidato alla conoscenza, alla capacità di ascolto e di comprensione, alla condivisione di ciò che è giusto.
Straordinario, a me è parso, l’accostamento di un ragionamento complesso fatto dal laico Sciascia a quello molto più recente di un cattolico “praticante”… Papa Francesco, nel suo Misericordia e Giustizia[18], quando afferma che la misericordia “evita il ricorso al tribunale e prevede che la vittima si rivolga direttamente al colpevole per invitarlo alla conversione, aiutandolo a capire che sta facendo il male, appellandosi alla sua coscienza”.
Sciascia non pensava certo in questi stessi termini ma, forse, l’istanza sottintesa al suo pensiero – che pure si coglie nelle espressioni successive sempre dedicate nell’Alfabeto pirandelliano al termine udienza: ci sono le udienze dei tribunali e ci sono le udienze dalla Madonna dell’Udienza, la sentenze giuste dei tribunali e quelle misericordiose della Madonna – è proprio quella di una convergenza fra la giustizia umana e l’esigenza, non meno umana e terrena, della conoscenza misericordiosa, destinata a ridare dignità all’uomo, colpevole o innocente che sia, ad alimentarne la speranza, a proteggere la memoria.
Dunque, proprio quell’idea universale per cui la misericordia non è la sospensione della giustizia, ma il suo compimento, secondo le parole che sempre Papa Francesco pronunziò il 15 febbraio 2020 in occasione del 91° anno giudiziario vaticano.
Evidente, dunque il filo che lega due personalità, non accomunate nella fede ma sulla via di un umanesimo intriso di valori comuni ed universali.
Da qui, forse, quel ruolo illuministico che Italo Calvino, come ricorda Carlo Vecce[19] gli riconoscerà in una lettera del 1964:
“Tu sei ben più rigorosamente ‘illuminista’ di me, le tue opere hanno un carattere di battaglia civile che le mie non hanno mai avuto”[20].
Ruolo che Giovanni Fiandaca definirà poi come illuministico-pessimista nel suo saggio già ricordato che, in ogni caso, conferma la straordinaria modernità di Sciascia, in definitiva, e si coglie nel pretendere che il giurista sia in perenne contrasto contro l’arbitrio dei poteri e, dunque, alfiere di quel rule of law di cui si diceva poc’anzi, che può tradursi come preminenza del diritto[21].
La legge, in definitiva, serve secondo Sciascia purché chi la applica riesca a scovare i furbi e tutti coloro che, facendosi scudo della legge, ritengono di poterne prescindere.
Una lezione che impone al giudice di dismettere l’abito del detentore del potere proprio per garantire che il potere non sia considerato estraneo alla legge.
Ma tornando all’Alfabeto pirandelliano, vi trova posto anche la parola verità.
Nel ricordare la vicenda dell’assassino della moglie fedifraga da parte di Tararà - per cui v., anche, L. Pirandello, La verità, in Contro gli Avvocati, Palermo, 2019, 97 ss. - e di quello che sarebbe poi diventato in Pirandello Il berretto a sonagli, Sciascia si concentra sugli effetti che può produrre l’ansia di verità, in quel caso cagionando l’inflizione di una pena al reo che non aveva ritenuto di poter nascondere al Presidente della Corte la piena conoscenza del tradimento da parte della moglie al punto da determinare una pena ben superiore a quella che sarebbe derivata per un delitto di onore senza premeditazione. La “rivolta” del reo ad una non verità è il pretesto per far dire a Sciascia che “ci sono delle verità – frantumi, come di specchio di una ignorata verità – che una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili e molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»”[22].
3. Sciascia alla ricerca del ruolo della verità
Va così progressivamente emergendo lo spirito del volume, nel quale la giustizia costituisce soltanto un terzo del titolo che insieme a Luigi abbiamo pensato. Appunto Diritto verità e giustizia.
In questa triade, in cui l’assenza della virgola non è frutto di disattenzione ma, al contrario, ricerca di un’unità di senso tra i valori che tali espressioni incarnano, ciò che più mi ha interessato ed incuriosito, da qualche anno a questa parte, è sicuramente il secondo, ponendo il concetto di verità interrogativi che il giurista ha serie difficoltà a dipanare.
La personale sensazione che ne ho tratto, accostandomi un po’ più da vicino ai racconti – come spesso li definiva Sciascia stesso – ed agli articoli dell’intellettuale, sia pur in punta di piedi e da lettore non erudito e colto, è che in lui serpeggi una radicata prospettiva dicotomica fra giustizia e verità[23].
Dove c’è l’una spesso non c’è l’altra. Il che può sembrare paradossale, a ragionare con la lente tradizionale e comunemente accettata dall’uomo comune che intravede, al contrario, il giudice artefice della verità, almeno di quella processuale, in ciò peraltro accompagnato da ben più articolate posizioni dottrinali
Ma appunto il paradosso è tale nella misura in cui Sciascia intende contestare recisamente il giudizio, il luogo in cui si svolge, il modo con il quale è condotto, i suoi protagonisti – giudici, avvocati, procuratori, investigatori – incapaci (salvo qualche rara eccezione) di essere illuminati e, cioè, di ragionare, come nota ne Una storia semplice il Professor Franzò al suo allievo, diventato Procuratore della Repubblica, ancorché debole in italiano: “L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”, “Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto”[24]. Immagine impietosa in sé, quella del Procuratore, ma ancora più grave se essa dovesse costituire, come spesso accade in Sciascia, metafora di un sistema più che rappresentazione del singolo protagonista del racconto.
Insomma, per Sciascia gli attori della giustizia sembrano tutti impegnati, più o meno in buona fede, a raggiungere una verità che possa acquietare le domande dei tanti che aspettano, appunto, una verità, poco o per nulla interessati a che quella verità sia quella “giusta”. Al punto che per nascondere la verità i solerti inquirenti sono pronti a creare una falsa verità capace di appagare l’ansia di verità, come accade in La storia semplice, quando la morte del Commissario causata dal brigadiere viene affermata come accidentale per nascondere le trame dell’uccisione del diplomatico.
Per questo il ragionare si pone agli antipodi del formalismo – da qui la vicinanza di Sciascia a Salvatore Satta evidenziata dagli studiosi e che si materializza nelle riflessioni sul formalismo interpretativo che il grande processualista, ricordando Capograssi, dedica ne Il mistero del processo[25] – della strenua e bieca ricerca del dato letterale di una norma, assurgendo a prospettiva di tutta’altra fattura, di tutt’altro spessore, di tutt’altra “verità”.
4. Una, nessuna, centomila verità
Esiste, dunque, la verità sciasciana o sono tante le verità di Sciascia?
Già un lettore distratto e disinvolto di Sciascia, come si considera chi scrive, riesce a percepire il peso e la critica di fondo del pensiero sciasciano, a tratti non arrivando a comprenderla fino in fondo perché consapevole di quanto la massimizzazione dei giudizi su “quello che diceva Sciascia” rischia di perdersi per strada – o imboccare strade impervie – e lasciare sullo sfondo un altro mondo pulsante che pure sembra vivere nel pianeta giustizia e che è portatore proprio di quel patrimonio che Sciascia vede ripetutamente (e forse inesorabilmente) perduto.
5. La dimensione individuale e quella collettiva del diritto di – e del dovere alla – verità
Sul tema della verità, sviscerato in ambito giuridico con finissimi studi che muovono dal ragionamento che sorregge la decisione giudiziaria[26], Sciascia sembra dunque gravitare in una dimensione ben diversa da quella del “processo” ove questo non sia – o non sia stato – adeguato alla complessità del caso e offra risposte burocratiche, tese ad affermare una verità qualunque essa sia. Al punto che per questa prospettiva non esiste l’errore giudiziario, come ripete il Primo Presidente della Cassazione Riches ne Il contesto.
La sensazione che si ha accostandosi a Sciascia è dunque quella che la verità mai ritrovata nelle vicende umane non potrebbe comunque essere solo quella affidata al giudice.
Una verità, quella di Sciascia che si alimenta della non verità, dell’impostura – solo a volte smascherata, seppur vanamente, come ne Il Consiglio d’Egitto, per bocca dell’Avvocato Di Blasi che pure riconosce che la menzogna “assume le apparenze della verità” (117) – della doppia verità – come quella rivendicata nel Teatro della memoria dalle famiglie Cannella e Bruneri rispetto allo smemorato di Collegno – o confusione fra verità e sanzione della verosimiglianza – che ne La strega e il capitano vede “la verità dei giudici e la menzogna di Caterina”[27] e, dunque, i giudici nutrirsi delle falsità esternate dalla strega Caterina de’ Medici[28].
Ora, la straordinaria modernità di Sciascia ed il suo essere precursore di esigenze, prospettive ed orizzonti che oggi, a distanza di molti lustri dalla sua scomparsa emerge, così, a tutta prima dal particolare significato che egli attribuisce all’endiadi “verità e giustizia” e che va prepotentemente emergendo nell’attuale fase storica in una dimensione propria dei diritti umani, appunto sganciata dal concetto di nazioni e territorio ed invece collegata al carattere sovranazionale dei diritti umani.
Il farsi coscienza critica della società in nome della verità e della sua ricerca e lo spiccato civismo di Sciascia preconizzano tematiche che assumono crescente valore anche nel nostro Paese a distanza di tanti lustri dalla morte dello scrittore girgintano.
Il diritto alla verità[29] rivolto a disvelare il mai conosciuto rispetto ad eventi tragici che hanno segnato la storia individuale (delle persone) e collettiva del Paese si riempie, infatti, di contenuti e dimensioni plurali, pur ancora da compiutamente definire nei quali si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto la prospettiva individuale – della o delle vittime – e quella collettiva, che vede in gioco lo Stato-persona – tenuto a indagare, condurre i processi, adottare misure ripristinatorie e repressive nei confronti dei responsabili –, ma anche lo Stato-collettività, al cui interno si collocano la polis[30], gli studiosi, i letterati, appunto presso i quali dovrebbe emergere, secondo Sciascia, un’esigenza diffusa alla conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato stesso. Dunque, un “dovere di verità”.
Quella che Stefano Rodotà, nel suo saggio dedicato al diritto alla verità, descrive osservando che «È l’umanità intera, senza confini spaziali e temporali, che compare sulla scena, ed è proprio essa a dover essere traghettata verso tempi illuminati e redenti dalla forza della verità»[31].
Un diritto alla verità che sembra pendere decisamente verso la dimensione collettiva, nella quale la verità diventa “dovere” per la società, da imporre anche a chi si acconcia alla falsa verità, si acquieta sulla portata assorbente e totalizzante della verità processuale e ne rivendica la infallibilità.
Un “dovere di verità e giustizia” che riecheggia ancora nelle parole del Presidente Mattarella di fronte ai familiari delle vittime della strage di Bologna, quando nelle celebrazioni per il quarantennale[32] ritorna ad affermare con forza non solo “il dovere della memoria, l’esigenza di piena verità e giustizia e la necessità di una instancabile opera di difesa dei principi di libertà e democrazia”, ma anche “l’esigenza di piena verità, l’esigenza di giustizia, di verità completa che è stata perseguita con determinata e meritoria ostinazione dall’azione giudiziaria, dalla sollecitazione dei cittadini, dei familiari delle vittime contro ogni tentativo di depistaggio e di occultamento”.
Sembra davvero di risentire in quelle parole del Presidente il fiato di Sciascia – che affiderà alla raccolta intitolata “A futura memoria” una parte importante dei suoi articoli – la sua cadenza dialettale, il suo sguardo intenso nel pensare appunto alle vittime, ma anche alla società intera ed al dovere di verità.
Ora, tutto questo si ritrova in modo adamantino nella produzione letteraria e giornalistica di Sciascia, nel suo anelito a quella “verità pubblica” di cui parla S. Battaglia[33] che va ricercata nel fondo delle coscienze frustrate e che è, essenzialmente, ragione, ragione di una riscossa comunitaria e collettiva.
Qui, forse, sta il senso del pensiero sciasciano che non può essere soddisfatto se non in parte dalla sentenza resa da un giudice sol perché essa costituisce espressione dell’ordine giudiziario e solo in quanto “cosa giudicata”.
La verità sarà tale solo se trae alimento da quel “pezzo di carta” purché esso sia ispirato da quel desiderio, da quella “ossessione” rispetto alla quale Sciascia non sembra mai pago. La decisione del giudice, dunque, come frammento di una verità che può anche giungere a mostrarsi diversa e contraria a quella espressa “in nome del popolo italiano”.
Insomma, quello che Sciascia vagheggia sembra essere il punto di incontro fra verità processuale che pretendono le vittime e verità storica che reclamano, certo, le vittime, ma anche la società – recte, la parte migliore della società –.
A volte l’assenza di giustizia e verità pare infatti essere in Sciascia critica feroce e impietosa rivolta a quella parte di società che non sembra affatto preoccupata della verità. Quindi, sì critica agli attori della giustizia, ma prim’ancora censura profonda dell’umanità e dell’assenza di valori che non sembrano, per Sciascia, trovare adeguato posto e tutela al suo interno, tanto da suscitare l’intervento del letterato che rilegge o a volte riscrive la storia.
In definitiva, la crisi della giustizia nasconde la crisi dell’uomo, del suo sfuggire ai grandi temi che lo circondano, del suo appiattirsi ed acconciarsi a false verità di comodo, del suo fermarsi sulla soglia della verità, del disinteresse per il senso ultimo che il tema giustizia evoca, quello della dignità e del rispetto dell’uomo[34].
Una crisi che Sciascia tenta di sovvertire, facendosi dunque coscienza critica degli stessi vizi della società. Quella passione civica e civile di Sciascia che proprio un suo amico e collega di pari valore, Vitaliano Brancati, non mancava di attribuirgli con grande onestà intellettuale
“Io invidio la tua forza civile, il tuo impegno sociale, la tua capacità di servirti della parola scritta per persuadere o dissuadere”[35].
Il carattere poliedrico della verità ha, in apparenza, centri di imputazione diversi ma che appaiono alimentarsi vicendevolmente e in modo inesauribile, al punto che risulta difficile individuare il confine fra le une e le altre.
La sfera intimista della vittima – primaria e secondaria – in altri termini, si offre alla collettività perché a essa pure pertiene la sofferenza, il dolore, lo strazio, ma anche il diritto alla conoscenza (art. 21 Cost.), così del resto attuandosi concretamente quella precondizione di solidarietà che pure campeggia nella Costituzione (art. 2).
Un’appartenenza della verità alla parte civile della collettività che Sciascia tenta di individualizzare e personificare – e così fa nella figura dell’Ispettore Rogas, in cui emerge una vera e propria ansia di verità, almeno finché egli non incontrerà il Presidente della Corte suprema o in quella del brigadiere de Una storia semplice – per farla uscire da uno stato etereo, incorporeo e diffuso attraverso l’emersione della rilevanza superindividuale della vicenda – attenendo a un’esigenza di verità appunto collegata alla giustizia rispetto a condotte che hanno violentato barbaramente la persona umana, attorno alla quale ruota lo Stato-persona, secundum Constitutionem.
Ecco che l’identità, imputabile in via esclusiva ed individuale alla persona, diventa patrimonio comune quando essa è violata; diventa bene comune da salvaguardare, proteggere anche oltre l’esistenza ed esperienza terrena di colui che è stato vittima, al punto di terminare la propria esistenza lasciando altre vittime a subire il lutto dell’assenza definitiva ed irrisarcibile.
Una verità che, guardata con la lente del Primo Presidente della Corte di Cassazione de Il contesto assomiglia davvero alla non verità. L’affermazione che il risultato finale del processo non può che essere naturalisticamente l’affermazione del vero è per davvero la negazione della funzione giudiziaria. Ed è ancora di recente Luigi Ferrajoli a ricordarcelo quando mette in evidenza, fra le virtù del giudicare, appunto quella del dubbio[36].
Una verità su fatti del passato che, se non ancora raggiunta o se mistificata per effetto di eventi che orientano verso una prospettiva di non verità di ciò che ufficialmente viene espresso come verità, va comunque ricercata, accertata, compresa – come si sforza di fare, vanamente, il Brigadiere Lagandara ne Una storia semplice – per dare sollievo, come si diceva, alla ragione.
Prospettiva che rimane un obiettivo ineludibile anche quando non si riesce a raggiungerla.
Ed in questo Sciascia è sicuramente un precursore dei nostri tempi, avendo colto prima di tanti altri studiosi sfumature ed esigenze allo stato liquido e scomposto che trovano nella sua personale ricerca della verità una forma precisa, un contorno definito, una matura concretizzazione.
Sciascia aiuta a comprendere quanto il diritto alla verità su episodi che hanno caratterizzato particolari momenti storici di una nazione diventi centrale per le democrazie moderne e non sia possibile eliderlo, dimenticarlo, nasconderlo magari affidandosi all’oblio che si va formando quasi naturalmente per il solo trascorrere del tempo. O, peggio, ancora, appiattendosi rispetto alla Ragion di Stato evocata proprio per impedire che la verità venga accertata.
Ed in questo la vicenda delle torture inflitte dalle forze di polizia in occasione del G8, stigmatizzate dalla Corte edu nelle sue sentenze – sulle quali ci siamo soffermati in passato[37] – dimostra la lungimiranza straordinaria di Sciascia[38] nel farsi artefice e portatore di valori universali in un tempo nel quale in pochi avevano compreso l’importanza. La sua tensione - avversione per la ragion di Stato quando è agitata per favorire la non verità sarà quella che spinse i giudici della Corte di Strasburgo ad esecrare i risultati della giustizia nazionale sulle vicende della sparizione di Abu Omar Quando, nella sentenza della Corte edu resa nel caso Nasr e Ghali c. Italia, la Corte di Strasburgo riconobbe che “...malgrado il lavoro degli inquirenti e dei magistrati italiani, che ha permesso di identificare i responsabili e di pronunciare delle condanne nei loro confronti, le condanne in questione sono rimaste prive di effetto, a causa dell’atteggiamento dell’esecutivo, che ha esercitato il suo potere di opporre il segreto di Stato, e del Presidente della Repubblica” riconoscendo che “il principio legittimo del «segreto di Stato», evidentemente, è stato applicato allo scopo di impedire che i responsabili dovessero rispondere delle loro azioni.” Non si può non cogliere un filo rosso con il pensiero sciasciano già espresso ne Il contesto, quando per spiegare l’uccisione di Rogas il Vice segretario del partito rivoluzionario evoca, appunto, la ragion di Stato[39].
In questa prospettiva vanno probabilmente iscritte le sue “ricerche”, alcune davvero risalenti nel tempo, sia da scrittore e poi da deputato, della verità su alcuni dei più gravi fatti della storia politico-giudiziaria dei nostri tempi, andando agevolmente il pensiero alle vicende Majorana, Moro e Tortora.
Verità, come si accennava prima, spesso richiamate come metafora del presente e che “una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili o molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»”.
Verità che, secondo una prospettiva quasi ontologicamente bifronte sembra per l’un verso indirizzarsi quasi inconsapevolmente verso la dimensione primaria della persona, che è per l’appunto rappresentata dalla sua dignità e, per altro verso, si eleva a metro universale della democrazia dei paesi e dei loro processi, infondendo un’ansia di effettività dell’ordinamento giuridico destinata a non cessare[40].
Sciascia sembra volersi ribellare alla deriva di un mondo occidentale che tende a volere cancellare la memoria collettiva ricercando la verità, alla quale sente di affidarsi proprio perché, prendendo a prestito le parole di Michele Taruffo, essa “assicura la libertà dei cittadini contro il potere tirannico”[41].
Ed allora, cos’è questa ansia di verità se non la “colla” che tiene unita la generazione presente a quella che non c’è più o non c’è ancora[42]?
Una colla costituita dai diritti umani in una proiezione che tende a divenire sempre più universale, nella quale il genere femminile del termine verità colora in modo ancora più profondo l’aspirazione a vederla realizzata in tutte le sue declinazioni ed in tutti i suoi possibili sensi, soprattutto quando essa coinvolge i più deboli, i più vulnerabili, facendo di Sciascia un autentico Maestro di verità, consapevole di quella stessa ansia di verità alla quale Moro si riferiva già negli appunti alla sua lezione di filosofia del diritto nel 1944[43] e in alcune lettere dalla prigione delle Brigate Rosse come incommensurabilmente più importante di milioni di voti, come ricordato più volte da Damilano[44].
6. Verità e complessità del diritto
Il percorso che sembra tracciare Sciascia è dunque irrorato dal tema della complessità assai caro a Italo Calvino che di Sciascia fu uno dei primo estimatori, e da quelli ad esso succedanei dalla difficoltà e dalla onerosità.
Il suo radicato europeismo che fece di Sciascia esponente della cultura mitteleuropea e spesso stanziale a Parigi, del resto, sembra essere precursore dell’attuale contesto della giustizia, tutto aggrovigliato attorno a chi si accapiglia sul rapporto fra giudice e legge con prese di posizione che odorano, a volte, di scontri epici fra guelfi e ghibellini ed altre assumono il sapore di vere e proprie crociate, recando con sé il tanfo ideologico che poco si addice all’attuale fase storica in cui la scommessa sta, forse, più che nella ricerca del tarlo dell’una o dell’altra posizione nell’aprirsi alla ricerca di un equo contemperamento fra l’avanzare di un costituzionalismo globale, nel quale assumono crescente peso e significato i principi fondamentali della persona e la necessità di realizzare una giusta convivenza con altri principi ed interessi di rango costituzionale, nessuno dei quali può assumere una posizione tirannica se non quello della dignità. Il che sembra essere, in definitiva, l’anelito di Sciascia, il rispetto della persona, della sua dignità, dei valori che ad essa appartengono e che lo Stato non può né deve mai annichilire, ma al contrario attivamente proteggere.
La tendenza allo scontro che, a volte, prevale invece sul tema del rapporto fra legge e giudice non pare adeguatamente considerare che è proprio la complessità[45] – di Sciascia, della società, del suo dinamismo – a non potere essere imbrigliata in formule astratte e/o all’interno delle categorie che non possono certo in alcun modo essere elise o eliminate, ma che devono continuamente essere riponderate, attualizzate rispetto al contesto, rinvigorite, riempite dal nuovo rappresentato dall’attualità in cui i confini crollano progressivamente a favore di una sempre più avvertita esigenza di protezione e salvaguardia della persona.
Il tutto al fine di raggiungere la giustizia che si compone continuamente attraverso nuovi tasselli che legislatore, giudici, comunità interpretativa – per dirla con Lipari – e società devono sapere maneggiare e, in una parola, conoscere.
Il rigoroso e rigido riferimento alla legge che sembra animare il capitano Bellodi e che – pur ricostruendo la verità[46] - non approda, tuttavia, alla affermazione di giustizia merita, forse, una apertura maggiore all’applicazione ragionata, intelligente, razionale del comando legislativo che trova, dunque, nell’interpretazione del comando normativo – e per lo scrittore nell’interpretazione e combinazione dei fatti in una particolare struttura d'intreccio[47] - e nella coscienza di chi quel dato è chiamato a vivificare nel caso concreto la sua anima, senza la quale la legge rimane astratta declamazione, incapace di raggiungere il suo vero obiettivo, appunto, la giustizia.
Conoscenza, ancora, che è alla base di quel “diritto alla verità” al quale qui si è provato ad accennare e che per questo motivo si lega, quasi inscindibilmente, al tema della giustizia e del diritto.
Sarebbe errato, peraltro, quanto al tema della verità, pensare che la prospettiva giudiziaria possa perseguire percorsi disgiunti, disallineati o anche solo indipendenti da quelli che la società, la cultura, il dibattito civile possono, a loro volta, realizzare.
Anzi, Sciascia convince ancora di più di quanto ci era parso emergere in una recente riflessione sul diritto alla verità[48], quando sottolineavamo la necessità di un collegamento osmotico fra società e giustizia, chiamate necessariamente a interagire secondo un meccanismo che impone alla società e ai suoi individui di chiedere al giudice giustizia e impone al giudice di rispondere a quelle istanze, non ammettendosi il non liquet. Una sinergia composta da diversi tasselli, i quali rendono necessari il dialogo, il confronto, la pluralità di domande, la diversità dei casi, per consentire il raggiungimento di un obiettivo condiviso: appunto, la verità!
Obiettivo che, dunque, non può rimanere riservato alle aule giudiziarie, troppo anguste per esaurire un anelito che aspira, forse, a obiettivi ancora più alti rispetto a quelli della giustizia dispensata nelle e dalle Corti.
Un diritto, quello alla verità, che va per l’un verso rispettato e, per altro verso, adempiuto – per dirla con Rodotà – da parte di chi governa, essendo questi tenuto a realizzare un “regime della verità, nel senso della piena possibilità della conoscenza dei fatti da parte di tutti”[49].
Sciascia, forse, è lì a ricordarlo a tutti quelli che gravitano attorno al mondo della giustizia, mischiando e confondendo il piano del diritto e quello del dovere alla verità, forse inconsapevolmente prefigurando scenari che gli studi filosofici (Bobbio, per tutti) e quelli dichiaratamente giuridici avevano già da tempo precorso cercando di tracciare il contenuto dei diritti fondamentali e la loro radice rispetto alla persona.
Ma, è questo il punto, parafrasando le parole di Sciascia in un suo articolo pubblicato sul Corriere della sera del 26 gennaio 1987, chi ha il coraggio di bussare alle porte della verità? Quanti sono disposti realmente ad incanalarsi in quel percorso aspro? Quanto l’ansia della verità viene insegnata, condivisa, compresa, studiata? Quanto il mondo “non giudiziario”, la scuola, la politica, le istituzioni culturali si impegnano, oggi, per ricercare la verità riconoscendone il valore? Quanto va approfondito il tema del “dovere” di dire la verità, di ricercarla attraverso la storia che nutre la giustizia?
E ancora: quanto la magistratura è pronta a mettere in gioco il comando di una legge se questo dovesse mostrarsi in contrasto con i valori cardine della persona incarnati dalle Carte dei diritti fondamentali quando in gioco c’è la verità?
Quanto essa magistratura è pronta a riscattarsi anche agli occhi della società in nome della quale amministra la giustizia? Quanto essa intende mettersi al servizio della verità e mai del potere e ad essere, in definitiva, disobbediente[50] fino al punto da incarnare un atto di opposizione civile[51],
come lo fu il piccolo giudice[52], pronto a confessare di avere escluso la pena di morte attraverso un’operazione di sussunzione dei fatti all’interno di un unico disegno criminoso -…l’argomento principe sarebbe stato quello dell’infermità mentale; mancandomi, l’ho surrogato assumendo i tre omicidi nella continuità di un unico disegno criminale-?
Interrogativi, questi ultimi, che a ben considerare non riguardano solo e tanto la magistratura, ma appunto la polis che i giudici in parte rappresentano.
7. La prescrizione del diritto alla verità e la lunghezza dei processi come diniego di verità
Forse un aspetto non coerente con la stessa ricerca della verità di Sciascia si intravede quando lo scrittore parrebbe attribuire alla irragionevole durata dei processi la negazione tout court della giustizia[53].
Il che rende ancora di più di straordinaria attualità il suo pensiero, proprio in un periodo nel quale le riforme in discussione in Parlamento anche in materia penale, intendono introdurre dei limiti alla durata del processo penale, giungendo alla conclusione che superato un certo limite temporale, non vi è solo un’esigenza di limitare la durata del processo ed eventualmente di sanzionare la durata che supera quel certo limite, ma ricorre anche la necessità che il processo si concluda senza giungere al suo sbocco naturale, costituto dall’affermazione di colpevolezza o di innocenza.
Sia chiaro, non che questa prospettiva possa essere considerata in sé falsa, al contrario.
Ma la verità di questo postulato deve tuttavia fare i conti con altre verità, alcune delle quali non disponibili da chi è chiamato a partecipare al sistema giustizia che, appunto, vanno comunque tenute in considerazione se si vuole giungere ad un verdetto finale appagante, ragionato[54], e in definitiva giusto.
Chi partecipa a questo sistema – sia esso decisore politico o giudice o procuratore – è infatti chiamato, per funzione, a bilanciare valori, interessi, situazioni, contingenze che rendono indispensabile il sacrificio di taluni dei valori che ruotano sempre attorno al pianeta persona, purché tale sacrificio intenda perseguire l’obiettivo del massimo della tutela della persona e della sua dignità, autentico valore non disponibile, non negoziabile, non bilanciabile, secondo quanto non si stanca di ripetere una sensibile dottrina (per tutti, A. Ruggeri, in numerosi suoi scritti).
In definitiva, proprio la ricerca della verità nel senso anelato da Sciascia non può essere sacrificata sull’altare della celerità del processo, soprattutto quando il processo è lento non sempre e solo per le colpe degli uomini, ma di chi fissa le regole dei processi, pensando anche alle garanzie delle parti che hanno un costo, in termini di tempo.
Sicché si potrebbe arrivare al paradosso che un processo lampo, pur soddisfacendo l’esigenza di verità, sia esattamente ciò che Sciascia non vuole mai sia un processo, assomigliando ad una farsa!
Viene allora da chiedersi se per Sciascia – e non soltanto per lui, a ben considerare – l’opera di bilanciamento fra valori alla quale è spesso chiamato il decisore – giudiziario e non – possa suonare come sinonimo di compromesso al ribasso, di opacità, di ambiguità o piuttosto come massima espressione di quel “ragionare” che Sciascia impone a qualunque decisore purché esso appaia lindo e degno di rispetto.
Il tema si lega a stretto giro a quello della prescrizione dei reati che ha anch’esso agitato la scena politica e che già avevamo provato a collegare all’esigenza di disvelare, nella già ricordata riflessione sul tema, la verità su vicende dolorose del nostro paese.
Quanto e per quanto tempo, in altri termini, l’esigenza di fare memoria e chiarezza su quelle vicende può essere salvaguardata?
Su questo tema la vicenda del caso Davide Cervia, della sentenza resa dal Tribunale di Roma sulla morte del militare nella quale venne affermato, forse per la prima volta in un atto giudiziario, la consistenza del diritto alla verità[55] è di straordinaria importanza, soprattutto rispetto alla condotta dell’Avvocatura dello Stato che, nel giudizio risarcitorio proposto dai familiari del militare scomparso, a dire del legale dei medesimi, imposero come “condizioni” per non eccepire la prescrizione del diritto al risarcimento del danno reclamato la rinunzia alla condanna risarcitoria e la limitazione dell’azione alla verifica circa l’esistenza del diritto alla verità. Posizione che non va qui in alcun modo valutata se non per sottolineare che l’affermazione operata in sentenza dal giudice circa la violazione del diritto alla verità ha collocato tale posizione giuridica nell’orbita di quei valori imprescrittibili che non possono tollerare alcuna barriera procedurale che si frapponga alla verità.
Certo, a questo punto risorgono i mai sopiti dubbi su cosa sia la verità e su chi sia il soggetto legittimato a ricercarla ed a fissarla – il giudice, le Commissioni per verità che hanno già prodotto frutti nelle esperienze sudamericane[56], gli intellettuali, le associazioni no profit–.
Ma ancora una volta, proprio la recente riforma che sta per essere varata in sede parlamentare dimostra la centralità del pensiero di Sciascia e quanto egli sia stato precursore di un tema dai mille risvolti e sfaccettature che ne dimostra comunque la limpidezza del pensiero e la lungimiranza proprie di alcune delle personalità dello scorso secolo.
8. Scienza, diritto e letteratura a confronto con la verità e con il giudicare
Tornando alla verità, viene da chiedersi chi sia realmente legittimato a ricercarla ed affermarla: lo storico, il letterato, il giudice o chi altro?
Per Sciascia
“Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche rendendola più oscura, per come la realtà è.”[57]
La letteratura sembra dunque la forma suprema di verità[58].
In Nero su nero Sciascia scriverà, infatti, che la “letteratura (che per me, e ne ho avuto piena coscienza da quando ho finito di scrivere sulla scomparsa di Majorana, è la più assoluta forma che la verità possa assumere)”, mira dunque ad individuare di volta in volta “l’ordine delle somiglianze”, restituire un senso alle coincidenze.
Nell’Affaire Moro lo stesso Sciascia dirà che “Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità – quanto dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla – sembrò generare dalla letteratura”.
“Soltanto la verità del letterato può dare pace alla ragione e dare soddisfazione alle istanze di verità della parte migliore della società”, se è lo stesso Sciascia a precisare, nello stesso contesto da ultimo ricordato, che “da parte mia, ritengo che lo scrittore sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose”.
Concetto sul quale Sciascia ancora una volta tornerà nel 1977, dalle colonne de La stampa quando, come ricorda D. Perrone[59] in margine alle polemiche suscitate dal suo scritto su Moro, dirà: “L’intellettuale è uno che esercita nella società civile – almeno dall’affare Dreyfus in poi – la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione insomma, che l’intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa – principalmente e insopprimibilmente – dall’amore alla verità, gli consentono di svolgere”.
La ricerca della verità nascosta diversa da quella consacrata in un processo – che è dunque spesso ingiusto – serve a Sciascia per legittimare l’esistenza dell’altra verità alla quale si indirizza lo scrittore[60] in un processo di invenzione[61] e di ricerca intensa e sposmodica, al punto che lui stesso ritiene che il suo impegno trentennale su questioni estremamente complesse del nostro Paese avesse consentito di raggiungere qualche inoppugnabile verità[62].
La verità o le verità di Sciascia che traggono alimento dalla storia – e qui la almeno parziale assonanza di pensiero fra Sciascia e Aldo Moro, per il quale “la verità vive essenzialmente nella storia” (per cui v., infra) – hanno sicuramente maggiore respiro rispetto alla verità processuale[63]. Ambito, quello processuale sul quale non si incentra direttamente l’analisi dello scrittore.
Altra è la prospettiva che lo stesso Sciascia rende manifesta quando dichiara in un’intervista a margine della presentazione del film tratto da Il contesto che quel libro era stato scritto “in omaggio alla verità” che non viene necessariamente agganciata al tema processuale, anzi nettamente diversificandosi da questa per un senso di strisciante sfiducia nei confronti di chi si fa artefice della verità.
Insomma, il diritto, la giustizia e la verità sono per Sciascia parificabili alla scienza?
E che ruolo gioca per uno scienziato l’interpretazione del diritto e dunque il ragionamento sulla portata di senso di una disposizione e quanto quel ragionamento la trasforma in norma?
E quanto i valori dell’uomo – primo fra tutti quello della dignità – sono capaci di squadernare l’astratta formula legislativa per riportarla al caso concreto ed alle necessità di tutela che essa reclama?
Sciascia sembra avere paura della giustizia, dei processi e dei giudici che tendono a creare una verità che fa scudo alla verità reale e lascia spazio all’impostura, di quelli che si ritraggono rispetto alla complessità della ricerca delle fonti, all’analisi del loro significato, alla verifica certosina dei fatti di come gli stessi si sono svolti. Auspica invece un recupero attraverso il diritto ed al suo massimo interprete un pieno recupero della dignità e della centralità della persona.
Il che ancora una volta dimostra al contempo la modernità dell’uomo Sciascia, egli volgendosi sempre e comunque verso la persona e dunque verso l’impronta personalistica che invera la nostra Costituzione, non potendo comunque Sciascia e la polis fare a meno di chi applica la legge e la interpreta, in definitiva ponendosi in linea con chi – P- Grossi – ancora di recente ha affermato che “la giurisprudenza si impone attualmente come presenza di straordinario rilievo”, e dunque esaltando, oggettivamente, il ruolo ed il “mestiere del giudice” [64].
Quando Sciascia si lascia andare al pessimismo – di cui si diceva in precedenza – fino al punto da gridare che “la Costituzione è morta” sembra che il vero chiamato in causa sia l’uomo e chi non si spende per proteggerne la dignità, intravedendo in tutto questo una dimensione minima del processo che lo rende “degno”, altrimenti risultando indegno, immorale e ingiusto. E poco importa che l’indegno possa risultare il giudice di turno – l’Inquisitore – contro il quale l’innocente Diego La Matina si scaglia, uccidendolo, per riscattare “la dignità e l’onore dell’uomo, la forza del pensiero, la tenacia della volontà, la vittoria della libertà”.
Dunque il pensiero che la giustizia e chi la amministra possano essere meri ingranaggi di e del potere, destinati a schiacciare una parte o un imputato o ad insabbiare la verità sembra ossessionare Sciascia che sa quanto centrale sia, appunto, la giustizia per l’uomo.
Nitide testimonianze di quanto detto si scorgono, per l’un verso, nel modo in cui Sciascia incastona la figura del Procuratore ne Una storia semplice – lo stesso che copiava i temi a scuola – che indaga sui tre omicidi, consapevole artefice di una ricostruzione che è agli antipodi della verità, offerta al pubblico per chiudere il caso.
Analogamente, ne Atti relativi alla morte di Raymond Roussel[65] la chiusura immediata del caso, archiviato come suicidio, veniva stigmatizzata per la rapidità impressionante dell’inchiesta da parte della magistratura “il cui passo è nella totalità dei casi di impressionante lentezza e di atroce peso per coloro che si trovano implicati”[66] – mostrando il suo pessimismo di fondo sulla idoneità della giustizia a rendere realmente giustizia.
Ma quel che qui si è descritto è soltanto una delle facce della giustizia e del giudice sulle quali Sciascia si diffonde.
Vi è, infatti, l’altra, forse la più nota che emerge nella vicenda Tortora di cui si dirà appresso.
Sciascia non manca di tratteggiare il suo modello di giudice in un articolo del 14 ottobre 1983 apparso sul Corriere della Sera[67] – e riportato in A futura memoria (se la memoria ha un futuro).
Articolo sul quale già si sono soffermati autorevoli giuristi[68] e che qui merita di essere ricordato, ancora una volta, per l’estrema attualità del pensiero sciasciano in tema di giustizia e di giudici, oggi più che mai dopo che le vicende successive alle indagini di Perugia hanno prodotto una consistente perdita di credibilità dell’ordine giudiziario.
E ciò non tanto per la pur considerevole attenzione che Sciascia rivolge al modo di atteggiarsi del “giudicare”, incline quasi naturalmente a condotte di autoprotezione che lo condurrebbero a “credere impossibile l’errore”.
Del resto, la figura e le idee del Primo Presidente della Cassazione disegnate ne Il contesto costituiva già uno dei punti più elevati di questa prospettiva.
Ma sono, piuttosto, le accuse che Sciascia indirizza alla giurisdizione per ritenersi totalmente estranea ad ogni forma di controllo ad essa esterno al punto da farle assumere una dimensione museale, icasticamente descritta come “altare”:
“un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile e con conseguenti punte di fanatismo”.
Questo stato di cose, secondo Sciascia, avrebbe dunque prodotto una mutazione genetica dell’indipendenza del giudice in origine giustamente riconosciuta, trasformandola in patologica dipendenza partitocratica, alla quale avrebbe poi fatto seguito l’invasione della giurisdizione negli spazi vuoti lasciati dal potere esecutivo e la confusione fra giurisdizione e legislazione.
Ora, al di là della condivisibilità o meno del ragionamento che conduce qui Sciascia, esce forte, e davvero con una portata universale, l’invito a considerare la giurisdizione come servizio, come elemento portante della società al quale il tanto potere conferito le impone di essere quanto più casa di vetro, trasparente e dialogante.
Invito che la magistratura ha il dovere di raccogliere oggi più che mai, mettendosi più che mai nuda al cospetto di quella società (sana), in nome della quale amministrare la giustizia, senza nemmeno tentennare di fronte a chi la accusa di essere, indebitamente, creativa ma tralascia di considerare il suo ruolo, i meccanismi che il sistema prevede a presidio della funzione del giudice[69].
Vi è, anche ed accanto a questa prospettiva, la convinzione che il ruolo del giudice nell’accertamento della verità processuale debba in qualche modo nutrirsi delle modalità di ricerca della verità che non sono proprie della giurisdizione, così attingendo alle figure del letterato e dello scienziato.
Ma qui, evidentemente, il discorso si complica, se appunto si considera la diversità di approccio del giudice alla verità, correlata alla non libertà nella sua ricerca (posto che il giudice non inizia il processo per sua scelta, ma lo conduce al termine perché esso è iniziato per volontà altrui) e, ancora, perché il giudice non è sommamente libero nella ricerca delle prove, ma si inserisce in un circuito processuale e “legale” nel quale la ricerca di ciò che è vero processualmente dipende, in larga misura, da ciò che le parti processuali introducono nel processo e dal “contraddittorio” che nella ricerca storica è assente, nonché dal “tempo” nel quale si ricercano e vengono raccolte le prove[70]. Al netto della questione dei poteri che possono riconoscersi al giudice per integrare l’attività delle parti.
In verità, su questi ultimi aspetti – attorno ai quali si tornerà a riflettere infra – Sciascia non sembra approfondire in termini sistematici il problema, ancorché lo avverta come rilevante, decisivo e forse vitale per la riconduzione del diritto alla giustizia.
8. Il potere della magistratura. Sciascia, Livatino e la sicilitudine
Si diceva, nei paragrafi precedenti, del problema della giustizia che ossessionava Sciascia.
E la denunzia di Sciascia contro la giustizia finisce con l’investire la sua Sicilia e la contaminazione che avvertiva essersi verificata per quella che lui stesso in un’intervista alla televisione svizzera di Lugano definì la sicilizzazione dell’Europa.
Ma in effetti Sciascia conosce nel profondo le contraddizioni della sua Sicilia, metafora del mondo. Sa quanto la realtà isolana sia “lontana dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione”, come scrive aprendo Le parrocchie di Regalpetra.
Ma sa anche che in quella Sicilia – ma si potrebbe dire, ovunque nel mondo – convivono mentalità, prospettive, ideali diversi[71]. E si contrappongono continuamente le due concezioni della giustizia, delle quali parla lo stesso Sciascia ne Il calzolaio di Messina[72].
Ora, sembra utile ricostruire in parallelo due frammenti di vita che coinvolsero, a distanza di pochi anni, Rosario Livatino, magistrato originario di Canicattì e lo stesso Sciascia.
Il nesso di collegamento fra queste due figure lo si trova in due momenti estremamente importanti per ciascuno dei due personaggi che qui si intendono rievocare.
Rosario Livatino, nel suo ormai celebre saggio Il ruolo del giudice nella società che cambia, destinato alla conferenza tenutasi a Canicattì il 7 aprile 1984, dedica alcune delle sue riflessioni al potere del magistrato ed all’introduzione di forme di responsabilità civile del magistrato per danni arrecati a terzi dalla sua attività.
Tema in quel particolare frangente storico assai dibattuto ed al quale Sciascia, come noto, dedicò parte delle sue energie, spedendosi per l’approvazione del referendum proposto dal Partito radicale e a distanza di appena due anni, come si diceva nel giugno del 1986, presiedendo quel convegno nella sua Racalmuto intitolato Il Problema della giustizia oggi, di cui si è già detto all’inizio, i cui resoconti risultano disponibili grazie a Radio Radicale e che appaino sintetizzati nello scritto La dolorosa necessità del giudicare, edito alla fine del 1986 ne Il Giudice.
Livatino, nel tratteggiare il ruolo del giudice, si chiede come la società possa accettare che il giudice abbia un “potere così grande come quello che ha”, trovando risposta nell’immagine che egli deve offrire del suo agire – di persona responsabile, comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire – e nel modo in cui egli deve esercitare le funzioni
“Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque”.
Solo così, prosegue Livatino, il cittadino
“potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole”.
Nella stessa occasione Livatino affrontava lo spinoso tema della responsabilità civile del magistrato, offrendo un numero considerevole di argomenti che a suo dire sconsigliavano l’azione di responsabilità nei confronti dei magistrati, tutti raccolti nell’idea che tale strumento avrebbe intimidito il giudice, vulnerandone l’indipendenza.
L’analisi che Sciascia svolge al convegno appena ricordato muove da premesse assolutamente sovrapponibili a quelle indicate da Livatino quando avverte che il giudice è titolare di un potere che nessun altro cittadino ha un potere enorme.
Questo potere si giustifica, agli occhi di Sciascia, in funzione dell’esigenza di perseguire la giustizia contro “i poteri”. Ciò che non sarà possibile se il giudice diventa egli stesso “potere”
“Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio.”
Come ha osservato Perrone[73], dire ogni volta interamente la verità, quella che è la verità per lo scrittore, significa per Sciascia
“non avere preoccupazione alcuna nel muovere severe critiche al potere, alla classe dominante e alle stesse mode intellettuali ad essi legate”.
Ma questa grande apertura di credito verso il giudiziario si riduce quando Sciascia guarda agli effetti distorsivi prodotti dalla mala giustizia.
E poiché per esercitare quel “potere” ci vuole scienza e coscienza, dice Sciascia, andava trovato un rimedio non contro i buoni magistrati, ma contro i cattivi magistrati. Rimedio che lui stesso individuerà nella responsabilità civile proprio a causa di un esercizio del potere che non è stato rivolto al fine per il quale è stato riconosciuto
“Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli”[74]
Ora il tratto comune che anima la sicilitudine di Sciascia e Livatino sembra dunque ruotare attorno alla consapevolezza della centralità del ruolo del giudice, all’enormità del suo potere, alla indispensabilità del suo ruolo nella società.
Le soluzioni che propongono per rendere accettabile dalla società il ruolo del giudice sono distoniche, ma entrambe intrise di valori comuni che mettono al centro la dignità della funzione giudiziaria, posizionandola su binari paralleli che, tuttavia, si divaricano rispetto all’ottimismo – anche se attentissimo all’etica professionale – di Livatino e al pessimismo di Sciascia sull’amministrazione della giustizia “in concreto”.
9. Il giudice Sciascia
Torniamo ora a ragionare sulla figura del giudice seguendo Sciascia.
Una sola volta Sciascia sembra indossare, forse inconsapevolmente, l’abito del giudice alla ricerca della verità, quando il 7 agosto 1983, a pochi mesi dall’arresto di Enzo Tortora, sulle colonne del Corriere della sera – riprodotto in A futura memoria – assolveva con formula piena il noto giornalista usando un’espressione –
Non mi chiedo: ‘ e se Tortora fosse innocente?’ : sono certo che lo è”.
In quella occasione Sciascia affermava senza tentennamento alcuno
“ho soltanto tenuto conto degli elementi di colpevolezza che i giornali venivano rilevando. Non ne ho trovato uno solo che insinuasse dubbio sulla sua innocenza”
per poi concludere che il metodo utilizzato dai camorristi per accusare Tortora andava accostato ad una autentica follia di criminali, non priva di metodo, consistito nel
“confondere, nell’intorbidire, nel seminare sospetti e accuse, nel coinvolgere quante più persone possibile. Un costruire, insomma, uno di quei castelli di carte che basta poi toglierne una, alla base, perché tutta la costruzione crolli”
E non può non lasciare senza fiato la lettura della sentenza della Corte di Cassazione che quattro anni dopo sembra riprodurre quasi identicamente quel giudizio assolutorio nei confronti di Tortora a proposito della follia del suo principale accusatore e dell’assenza di riscontri esterni alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia[75]; giudizio senza appello che, pronunziato anni prima, anche a proposito dei 200 casi di persone arrestate per omonimia[76] avevano stupito per la sua radicalità gli stessi ex compagni del partito radicale35.
Un uso della toga che lascerebbe senza parole visto con gli occhi di chi quella toga indossa, proprio per l’attenzione che lo scrittore e storico Sciascia riserva ai fatti, alla loro concatenazione logica, alla loro rappresentazione da parte dei chiamanti in correità e reità.
Un essere giudice di un non giudice che supera idealmente la prova d’esame di concorso in magistratura ma che, al contempo, non ha l’obiettivo di assolvere Tortora quanto di ricercare, ancora una volta, la verità nel rispetto dei diritti della persona. E ciò fa allineando i fatti, le condotte, i personaggi identificandoli, collegandoli con indiscusso rigore logico. Salvo a rammaricarsi, dopo l’assoluzione di Tortora, del fatto che i magistrati impegnati in quel processo non avevano saputo far altro che dileggiare lui e gli intellettuali che avevano espresso opinioni sulla non colpevolezza del giornalista.
Quando Sciascia suggerisce provocatoriamente di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale36 non sembra, in definitiva cavalcare una prospettiva di insofferenza e sfiducia verso il corpo magistratuale ma, tutto al contrario, esprimere il desiderio che la visita al carcere possa essere foriera di un più avvertito senso del ruolo del magistrato rispetto al carcere, che si può cogliere solo dopo avere visto il carcere37 e le verità che esso cela. E proprio Calamandrei, anni prima, non aveva mancato di sottolineare che per parlare di carcere bisogna avere subito il dolore che esso provoca[77].
10. Il non giudice Sciascia
Ma quel che dobbiamo chiederci è se davvero a Sciascia interessasse vestire l’abito del giudice o se la sua ricerca della verità fosse semplicemente il frutto di sue personali intuizioni che riteneva di dovere esternare ai suoi lettori e più in generale alla società.
In questa prospettiva, forse, la coincidenza delle sue verità con la verità processuale o con quella più sublime, coincidente con la giustizia perde di rilevanza. A rievocare a ritroso alcune sue prese di posizione su vicende centrali per il nostro Paese – teorema Buscetta[78], omicidio del commissario Calabresi[79] – le opinioni di Sciascia sono esattamente opposte alle verità “processuali” fissate con sentenze passate in giudicato. Mentre la posizione assunta nei confronti di Tortora ha trovato, come si diceva, piena conferma nella sentenza assolutoria definitiva.
Sciascia non voleva, dunque, in alcun modo usurpare la funzione giudiziaria, ma forse rappresentarne la coscienza critica e civile quando come scrittore va alla ricerca della verità:
“Lo scrittore rappresenta la verità, la vera letteratura distinguendosi dalla falsa solo per l’ineffabile senso della verità. Va tuttavia precisato che lo scrittore non è per questo né un filosofo né uno storico, ma solo qualcuno che coglie intuitivamente la verità. Per quanto mi riguarda io scopro nella letteratura quel che non riesco a scoprire negli analisti più elucubranti, i quali vorrebbero fornire spiegazioni esaurienti e soluzioni a tutti i problemi. Sì la storia mente e le sue menzogne avvolgono di una stessa polvere tutte le teorie che dalla storia nascono”[80].
11. La giustizia ed il sentimento ambivalente di Sciascia
Forse è venuto il momento di chiedersi cosa c’è e cosa dovrebbe esserci nella valigetta del giurista secondo Sciascia, visto che è ricorrente la figura dell’avvocato, del giudice, dell’investigatore.
Questo è uno dei punti di analisi che le voci coinvolte nel libro in uscita sapranno indagare.
Cosa c’è e cosa dovrebbe esserci per realizzare o avvicinarsi a quell’anelito di verità e giustizia che Sciascia individua solo per dimostrare che gli uomini hanno fallito, talvolta per incuria, talaltra per malanimo, talaltra ancora per terribile ponderazione e macchinazione di un ordito deliberatamente negazionista della verità giusta e quindi dei valori dell’uomo?
E dunque cosa occorre(rebbe) di più fare per soddisfare e saziare il palato fine di Sciascia? Quanto la ricerca della verità può essere realizzata con gli strumenti a disposizione del giurista di oggi, senza pregiudicare i valori fondamentali dell’uomo? Quanto la complessità che affatica oggi più che mai le giornate del giurista è dominata o quanto è invece vissuta con disappunto, con fastidio, con leggerezza? E quanto la società è oggi disposta a cogliere le intime contraddizioni fra la complessità della società, delle regole, della proteiforme varietà delle fonti normative e giurisprudenziali, e la ricerca spasmodica di una verità, qualunque essa sia, purché espressa nell’atto conclusivo del processo, dell’indagine, della ricostruzione anche solo storica di un fatto?
Proviamo ad andare con ordine.
Quando Sciascia insiste sul ragionamento che dovrebbe star dietro alla giustizia a quale diritto vivente egli pensa, a quello burocraticamente rassicurante e certo, geometrico, meccanico che dunque si aggancia alla regola – recte, alla disposizione – figlio di quel giuridicismo di cui parla, sapientamente, Giovanni Fiandaca nella sua indagine a proposito di Sciascia e la giustizia[81], ovvero pensa ad un diritto ragionato, pensato, complesso, variegato, capace di superare le derive formalistiche, la carta bollata e se vogliamo il testo normativo in nome della ricerca del contesto, per cogliere il quale è necessario attingere alla complessità delle fonti e degli orizzonti che l’interprete avrà il compito di unificare? Pensa al terribile Inquisitore di Diego La Matina, al Primo Presidente della Corte di Cassazione Riches de Il contesto – per il quale “che un imputato l’abbia commessa o no, per i giudici non ha mai avuto importanza”–, al Senato-persecutore della povera Caterina ne La strega e il capitano – al procuratore Giacosa o al giudice istruttore Mari de I pugnalatori ed all’acume, coraggio e pazienza che agli stessi era stato loro attribuito nel costruire l’accusa nei confronti del “notabile” Sant’Elia[82], al giudice Coras de La sentenza memorabile[83], al giudice a latere o ancora al Procuratore generale – attento alla salvaguardia della carriera – o al Presidente della Corte di assise, rigoroso, imperscrutabile e pronto a scaricare silenziosamente il peso e la responsabilità della decisione sul suo a latere, il piccolo giudice di Porte aperte?
Viene agevole pensare che l’ideale di giudice al quale Sciascia sembra ispirarsi sia proprio quello che, pur nel rigoroso rispetto della legge cerca di ritrovare, di scoprire, di “inventare” il comando della legge che possa evitare l’irreparabile, l’ingiustizia, la violazione dei diritti dell’uomo. Solo in questo modo chi pratica la giustizia può dire di esercitare degnamente il “mestiere del giudice”.
Quel mestiere di giudice che, appunto, il protagonista di Porte aperte dichiara di non avere più interesse alcuno a svolgere dopo il suo trasferimento in una piccola pretura di provincia all’indomani del verdetto che aveva escluso la condanna a morte dell’imputato.
Cosa c’è dietro questa ricerca di disvelare la verità non di comodo se non l’attenzione, che pure il giurista dovrebbe coltivare, ad inventare, a scoprire, a scavare nel fondo delle vicende poste al suo vaglio per opporsi all’ingiustizia e, anzi, per estirparla, in modo da dare e ridare all’uomo la sua dignità? E quanto questo non rende ancora più attuale Sciascia in un mondo del diritto sempre più votato e indirizzato verso la postmodernità, per dirla ancora con Grossi, proprio per il caos normativo che costituisce la regola dell’essere giuristi del nostro tempo?
Quando il piccolo giudice a latere di Porte aperte studia l’articolo di dottrina sulla pena di morte reintrodotta dal codice Rocco, non ne condivide le ragioni e si sforza di trovare nella legge il rimedio all’ingiusta pena capitale, quel giudice cosa fa se non esercitare il suo ruolo di interprete del diritto, di vivificatore del comando legislativo, di lettore della legge alla ricerca del suo senso conforme ai diritti fondamentali.
E questo vuol forse suggerire un ossequio formale e cieco alla legge – quello al quale avrebbe aspirato il Presidente della Corte di assise descritto sempre in Porte aperte, in soggezione rispetto al suo giudice a latere sul quale poi pavidamente scarica la responsabilità collegialmente assunta – o, piuttosto evocare nel giudice il dovere di coscienza critica, l’anima della legge, il cuore pulsante della disposizione che diventa norma nell’esercizio della sua concreta applicazione?
Non è, forse, che il giudice, a seguire i lfilo del pensiero sciasciano, potesse ritenersi degno della funzione solo se attinga in profondità il senso della legge aattraverso i plurimi canoni dell’interpretazione, proprio attraverso quell’attività di invenzione del diritto rispetto al fatto, nel senso “buono” che Paolo Grossi echeggia a più riprese nelle sue riflessioni?[84]
E non sarà forse un caso che sia stato proprio Sciascia a dare come titolo ad un’opera dedicata alla “scoperta delle decorazioni di un pittore -Cambellotti- inserita in un edificio commissionato dal regime fascista, quello di “Invenzione di una prefettura. Le tempere di Duilio Cambellotti nel Palazzo del Governo di Ragusa”.
Titolo che disvela certamente il contenuto figurativo del volume, ma nel quale sembra emergere l’idea del complesso ricercare dell’uomo verso ciò che non appare direttamente ma va, appunto, ricercato, trovato, compreso, contestualizzato.
Proprio tutto questo in realtà sembra fare il piccolo giudice quando candidamente dichiara, ripercorrendo i passaggi della decisione:
“Sono convinto di aver fatto il mio dovere di uomo e di giudice; sono convinto di aver lavorato, tecnicamente, con gli argomenti giuridici, come meglio non si poteva”.
Qui viene fuori il mestiere del giudice. Un mestiere duro, difficile, oneroso e per il quale la riconosciuta indipendenza – anche economica – della funzione da ogni altro potere reclama livelli di professionalità e accortezza assai elevati, ai quali Sciascia sembra tenere in modo particolare.
Un giudice che Sciascia avrebbe voluto
“schivo e silenzioso com’era”
amando
“la giustizia schiva e silenziosa, non petulante, la giustizia che non fa spettacolo, la giustizia piena di pudore, la giustizia che alberga nell’animo di tanti anonimi giudici, tanti «piccoli giudici» che ogni giorno, nella sofferenza e nell’angoscia, soli con la propria coscienza, decidono della sorte dei loro simili” [85]
Una qualità probabilmente il giudice deve avere:
“il candore: mettersi di fronte ad un caso candidamente, senza prevenzioni, senza riserve”. Con queste parole Sciascia tratteggiava la figura di Cesare Terranova, ricordando che “aveva lo sguardo di un bambino”[86]
Ma quel magistrato dovrebbe essere, anche d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo ma anche – e soprattutto – di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza…[87] capace di esercitare quella funzione tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendo conto.
12. La vicenda del mostro di Marsala e la metafora delle veritù.Nessuna certezza sul pensiero sciasciano e tanti dubbi.
Un dubbio peraltro mi assale quando sono quasi al termine di questa riflessione ed è quello che sia davvero improbo cercare la verità di Sciascia sulla giustizia, la sua verità e rappresentarla come tale, al punto che quanto fin qui rappresentato possa essere esso stesso frutto di una indebita trasfigurazione del pensiero sciasciano.
Questo dubbio si è andato insinuando progressivamente ricostruendo diacronicamente la vicenda del c.d. mostro di Marsala alla quale si è già fatto cenno in precedenza.
Ma questa possibile “verità” sul ruolo della giustizia non è l’unica, per Sciascia.
Un passaggio di Sciascia sulla vicenda del mostro di Marsala contenuto in Nero su nero è forse dimostrativo dell’ambivalenza del pensiero di Sciascia sulla giustizia e sulla verità.
Da un lato Sciascia loda l’operato del Procuratore che ha individuato il colpevole dell’uccisione delle tre vittime riconoscendo che il magistrato non si era lasciato fuorviare dalle apparenze e maldicenze, cercando la verità “finì col trovarla”.
Per altro verso Sciascia dimostra quanto la ricerca della verità affidata ad un giudice potrebbe essere e rimanere fallace, ancorché nel caso di Marsala, a suo dire, i dubbi sull’operato del Procuratore espressi dal giudice istruttore (Libertino Russo) sulla complicità di un ipotetico mandante erano dei falsi dubbi nati dall’applicazione del metodo mafioso – quello della chiamata in correità che lo stesso Vinci avrebbe fatto nel corso del processo circa un ipotetico mandante “ricco” degli omicidi.
Da qui la conclusione di Sciascia che il processo contro il mandante non andava celebrato, non potendosi auspicare che ai ricchi
“ne faccia vendetta la “giustizia”. “Non mandare mai a chiedere per chi suona”: se la campana della “giustizia” suona a morto”24.
Il richiamo ad Hemingway e ad uno dei suoi più celebri romanzi – che pure campeggiava nella libreria di mio padre – sembra avere un che di funesto quasi, forse, a volere dimostrare che quella della giustizia suona sempre – o quasi sempre – “a morto”.
E proprio questo viaggio nella ricerca della verità che Sciascia compie a proposito della vicenda del mostro di Marsala (Vinci) sembra essere esemplare per i protagonisti, tre magistrati, Ciaccio Montalto, Terranova e Borsellino che hanno avuto nella vicenda un ruolo particolare, intrecciandosi a loro volta con la figura di Sciascia.
Dunque, Sciascia sembra, come si diceva, per un verso lodare l’attività inquirente di Terranova, rivolta a non incolpare sulla base di dicerie o elementi deboli e per altro verso guardare non di buon occhio il giudice istruttore (del quale il Pubblico Ministero Giangiacomo Ciaccio Montalto avrebbe condiviso l’impostazione, dichiarandosi dubbioso circa la responsabilità esclusiva del Vinci) che voleva instillare il dubbio che l’attività inquirente non fosse stata completa sulla base di uno strumento tipico dei processi di mafia, la chiamata in correità.
Sciascia sembra avere trovato la verità che sembra coincidere con quella della giustizia umana.
Va però rimarcato che sarebbe stato proprio Ciaccio Montalto a ribellarsi alla verità creduta anche di Sciascia con una requisitoria che sembrava essere ispirata da quella verità che Sciascia invocava a gran voce:
“Non può ritenersi che l’ordinamento giuridico quale categoria ed entità morale possa riconoscersi in una sentenza la quale abbia realmente mutato il bianco in nero ed alla menzogna abbia conferito l’autorità e la forza della verità. E sento il dovere (o, forse, meglio, il diritto) di ricordare che la verità, anzi l’ansia di verità, non può subire coartazioni per ragioni di opportunità o per qualsivoglia altra ragione da chiunque provenga perché si dicano determinate cose o se ne tacciano altre”[88] . Quello stesso Ciaccio Montalto che sarebbe stato, invece, individuato come colui che era andato alla ricerca della verità nel processo “Vinci” da Vincenzo Consolo una verità diversa da quella processualmente accertata.
E non può a questo punto non stupire che a molti anni di distanza, di fronte alla verità processuale conclamata da una sentenza di condanna divenuta definitiva a carico del Vinci per la vicenda qui ricordata sarebbe stato proprio Paolo Borsellino a riaprire il caso per cercare una nuova verità sulla base delle accuse del condannato Vinci. Procedimento poi peraltro archiviato.
Dunque, a riaprire il caso ed a porre in discussione la verità processuale che Sciascia aveva ritenuto giusta sarebbe stato proprio, sulle orme dei dubbi che Ciaccio Montalto aveva espresso nel corso del dibattimento di primo grado, quel Paolo Borsellino identificato, almeno dalle cronache, come essemplo[89] di professionista dell’antimafia dallo stesso Sciascia e, in definitiva, come nume tutelare di un modo di combattere la mafia “ingiusto”, tutto fondato sull’ingiusto sistema delle chiamate in reità e correità.
E sempre il caso volle che i tre magistrati che si occuparono della vicenda del mostro di Marsala – Terranova, Ciaccio Montalto e Borsellino – siano stati assassinati dalla mafia.
Tutti accomunati da un tremendo destino che li ha consacrati come autentici servitori dello Stato, morti per cercare in modo vibrante la verità.
E non è un caso, allora, che la figlia del giudice Borsellino, Fiammetta, insieme agli altri familiari, a quasi trent’anni dalla morte di suo padre, reclami in modo tambureggiante il diritto alla verità sull’uccisione del magistrato, implicitamente evocando la lezione sciasciana su quell’esigenza di verità, individuale e collettiva, imprescrittibile.
E non è un caso, ancora, che Sciascia venga spesso ricordato visivamente in una fotografia con lo stesso Borsellino mentre, entrambi seduti a tavola, sembrano sereni, portatori di espressioni del volto “vere” ed autentiche, ancorché il primo sia stato individuato dallo stesso Borsellino come l’autore di quell’articolo sui professionisti dell’antimafia che cominciò a fare morire Giovanni Falcone, in quell’ormai storico discorso pronunziato a Casa Professa il 25 giugno 1992.
Quanto di sciasciano e di tragicamente pirandelliano nelle vicende appena rammentate e nei protagonisti, forse a conferma di quello che avrebbe dovuto essere l’epitaffio che lo stesso Sciascia aveva scelto per sé, come lo aveva espresso il La Sicilia come metafora:
“Ha contraddetto e si è contraddetto’, come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante ‘anime morte’, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano”.
Una ricerca di verità che vibra nelle corde dei diversi protagonisti e che evidenzia quanto l’ansia estrema di verità di Sciascia – come la definisce il diplomatico Roccella poco prima di essere ucciso ne Una storia semplice[90] – sia davvero il sentimento che anima le persone per bene, non destinato ad acquietarsi[91], ma sempre di più in bilico, in un equilibrio instabile e complesso, al punto che peccherebbe davvero di falsità ed impostura chi intendesse rappresentare in modo inoppugnabile la verità di Sciascia.
Chi si ponesse come interprete fedele e autentico di Sciascia finirebbe, in definitiva, per tradirlo, mistificandone le ricerche e dimenticandone il pensiero, e soprattutto il senso finale della sua ricerca della e delle verità.
Quando Sciascia afferma di avere detto “qualche inoppugnabile verità”, ma al contempo di avere in altre occasioni fallito, ma mai in malafede[92], sembra voler dire che per rispondere al quesito finale - Chi può mai trovare la verità? - è il procedere per approssimazioni, per dati esperienziali, a dare alimento alle passioni, senza le quali una moderna democrazia non può vivere, pur con le contraddizioni ed i nodi problematici che non sempre potranno sciogliersi.
Tutti siamo fallibili, ma almeno proviamo ad esserlo vivendo fino in fondo e con coscienza il nostro tempo, rifiutandoci di scendere a compromessi. Poi sbaglieremo, inciamperemo, cadremo, ma almeno, con la coscienza a posto.
Bene ha fatto, dunque Domenico Cacopardo nel chiudere le sue riflessioni su Sciascia e la giustizia con questo “monito”:
“E il senso di giustizia di Leonardo Sciascia si esercita e si afferma proprio nel non dichiarare chiusa la sua personale istruttoria nei confronti della Sicilia e dell’Italia: nessuno ha l’ultima parola, nessuno chiude alcunché. Tutto scorre in un limaccioso alveo di fiume, nel quale l’acqua pulita, quando c’è, è una effimera chiazza che si dissolve in breve tempo”[93].
Ed è stato bello, qui, provare ad indossare, forse indegnamente, i panni del piccolo giudice di Porte aperte, pur consapevole di non esserne all’altezza, ma semmai di renderne testimonianza attiva.
I molti “sembra” ed i molti interrogativi che hanno preceduto ed accompagnato queste riflessioni troveranno sicuramente conferme o smentite ben più consistenti nelle riflessioni, avvertite e articolate, che animano il volume “Diritto verità giustizia” e potranno finalmente tornare in soffitta, avendo esaurito il compito, invero assai stimolante, di mero co-istigatore di questa splendida scommessa-ricerca che “Diritto verità e giustizia” secondo Sciascia ha per chi scrive rappresentato.
*Sono grato a Tecla Mazzarese e ad Antonio Ruggeri per la lettura dello scritto, del quale nondimeno solo io porto la responsabilità.
[1] M. Collura, Il maestro di Regalpetra, Milano, 2019, 117.
[2] C. Ambroise, 14 domande a Leonardo Sciascia, in Leonardo Sciascia, Opere, 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Milano, 1987, XIII.
[3] C. Ambroise, 14 domande a Leonardo Sciascia, in Leonardo Sciascia, Opere, cit., XIV.
[4] M.Ferro, La collusione dei poteri nel Contesto di Leonardo Sciascia, in Quotidiano giuridico, gennaio 2020; A. Centonze, La giustizia e la ricerca della verità giudiziaria secondo Leonardo Sciascia, in questa Rivista, 29 febbraio 2020 e, ibidem, A. Apollonio, Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra "verità" e "giustizia".
[5] M. Collura, Il maestro di Regalpetra, 272.
[6] M. Collura, L’isola senza ponte. Uomini e storie di Sicilia, Milano, 2007, 195.
[7] J. Francese, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, Firenze University Presse, 2012, 24.
[8] M. Collura, Il maestro di Regalpetra, cit., 159.
[9] L. Sciascia, La strega e il capitano, Milano, 1999, 65. V., sul punto N. Panichi, Verità della menzogna, menzogna della verità. Sciascia legge Montaigne, in Todo modo, 2015, 47
[10] L. Sciascia, Opere, a cura di P. Squillacioti, Milano, 2014, v.II, Tomo I, 1912+1, 884.
[11] C. M. Martini - G. Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Torino, 2003,54.
[12] L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in La corta pazza. Saggi letterari, storici e civili, ora in Opere, a cura di P. Squillacioti, Milano, 2019, Vol. II, Tomo II, cit., 233.
[13] L. Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria, in L. Sciascia, Opere, cit., vol II, Tomo II, 989: “I siciliani, dirà parlandoci di Verga, Pirandello 'quasi tutti hanno un'istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di questo aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa da soli, diffida o, e ognuno è e si fa isola da sé, e da sé si gode – ma appena, se l'ha – la sua poca gioia; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato. Ma ci sono quelli che evadono”. Ed ancora L. Sciascia, Emilio Greco, in L. Sciascia, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, in Opere, cit., Vol.II, Tomo II, 452.
[14] E. Romano Belfiore, La mafia si combatte con le leggi, diritto e potere, verità e giustizia nel pensiero di Leonardo Sciascia, in Criminalia, 2010, 600.
[15] V. le considerazioni sul punto già espresse in Il giudice disobbediente del terzo millennio, Intervista di R. Conti a V. Militello, D. Galliani e G. Silvestri, in questa Rivista, 5 giugno 2019.
[16] R. Scarpinato, « L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A. Visconti, Milano, 2014, 224: “occorre che i magistrati non si lascino corrompere o non siano omologati al potere.”
[17] L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, in L. Sciascia, Opere, Vol. II, Tomo II, cit., 969.
[18] Papa Francesco, Misericordia e Giustizia, 3 febbraio 2016, in www.vatican.va
[19] V.AA.VV., L’eredità di Leonardo Sciascia, a cura di C. De Caprio e C. Vecce, Napoli, 2012, Introduzione, 8.
[20] Sullo stesso punto si sofferma L. Bianchi, “Il secolo educatore”: Leonardo Sciascia e l’Illuminismo, in L’eredità di Leonardo Sciascia, cit., 49.
[21] V, di recente, sul tema R. Spano, Rule of Law: la Lodestar della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte di Strasburgo e l'indipendenza della Magistratura, in questa Rivista, marzo 2021.
[22] V.L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano,, cit.,971. Sul tema v., anche L. Sciascia, Pirandello e il pirandellismo, in Opere, cit., Vol. II, Tomo II, 95 ss, in cui Sciascia ricorda, altresì, la novella “La verità” scritta da Pirandello nel 1912, nella quale si realizza “ il paradigma del mondo pirandelliano: dalla verità di Tararà alla consapevole lucida acuta sofisticazione di Ciampa”.
[23] Quanto questo atteggiamento, culminato negli insuccessi della giustizia che vengono scolpiti ne Una storia semplice – malgrado l’arguzia del brigadiere Lagardana – e in Il Giorno della civetta – ove pure il capitano Bellodi sembra approdare alla verità pur non giungendo ad alcun risultato di “giustizia, sia stato influenzato, in tutto o alche solo in parte, da alcuni episodi che videro lo stesso Sciascia a contatto diretto con la giustizia, in occasione della triste vicenda giudiziaria nella quale rimase coinvolto il padre o dell’altra, che lo vide aspramente contrapposto a Berlinguer, non è dato sapere da chi qui scrive – sul punto v. M. Collura, Il maestro di Regalpetra, cit., pagg.159 e 300 –.
[24] V. ancora, sulla centralità della figura del Prof.Franzò, J. Francese, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, cot.,133.
[25] S. Borzì, Vita e diritto: da Il mistero del processo di Satta a Porte aperte di Sciascia, in L. Pogliaghi (a cura di), Giustizia come ossessione. Forme della giustizia nella pagina di Leonardo Sciascia, Milano, La Vita Felice, 2005, 78: “Dal rifiuto del formalismo deriva la continua insistenza sullo stretto rapporto tra la vita dell'uomo e la legge. Quest'ultima, per assolvere alla funzione che le è propria, deve innanzi tutto garantire il rispetto della dignità dell'uomo, evitando di tradursi, come nel formalismo, in fredda e inumana attuazione di una norma. Del resto, se la norma meccanicamente applicata garantisse, essa sola, la giustizia, non si spiegherebbe come alcune situazioni, che nascono dall' attuazione di quelle norme, possano essere palesemente ingiuste”.
[26] M. Taruffo, Processo e verità nella transizione, in M. Taruffo, Verso la decisione giusta, 133.
[27] N. Panichi, Verità della menzogna, menzogna della verità. Sciascia legge Montaigne cit., 52.
[28] N. Pachini, Verità della menzogna, menzogna della verità. Sciascia legge Montaigne, in Todo modo, 2015,V, 52.
[29] Al tema della verità e di quanto essa abbia condizionato l’opera letteraria di Sciascia dedica particolare attenzione il volume di recente edito, a cura di A. Apollonio, Verità impossibili. Voci dalla magistratura siciliana sull’opera di Leonardo Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2020 e, in particolare, la prefazione del curatore, della quale si riporta il passo, denso di significato della pag.11: “la verità esiste ma – essendo le cose del mondo ordinate sulla base di decisioni prese d’imperio e calate dall’alto, conformi alla legge e all’opportunità del momento – la verità non è possibile raggiungere: la si può solo prospettare, teorizzare e persino narrare (è questo lo spirito con cui vengono costruiti La scomparsa di Majorana e l’j). Il mondo sarebbe dunque una fittissima trama di verità impossibili, puntualmente soffocate dalle verità costituite. Quando Sciascia, in una delle sue frasi più celebri e ripetute (tratta appunto dall’Affaire), afferma: «Bisogna rifondare la verità se si vuole rifondare lo Stato» vuol dire esattamente questo: è lo stesso concetto di verità che deve essere rimodulato: deve essere anzitutto liberato dal giogo del potere, dalla sua manipolazione”.
[30] R. Scarpinato, «L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, cit., 224:“perché la verità si manifesti al livello istituzionale, perché assuma una forma legale occorre la volontà e la collaborazione di tutta la polis.”
[31] S. Rodotà, Il diritto alla verità, in G. Resta e V. Zeno-Zencovich (a cura di), Riparare, risarcire, ricordare: un dialogo tra storici e giuristi, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, p. 498; id., Il diritto alla verità, in Id., Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 211 ss.
[32] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della commemorazione delle vittime della strage di Bologna, in www.quirinale.it.
[33] S. Battaglia, La verità pubblica di Leonardo Sciascia, «Il Dramma», 5, maggio 1970, 218.
[34] Bellissimo il saggio dedicato a Sciascia da G. Tranchina, Leonardo Sciascia: e quanto parleremo di giustizia «ce ne ricorderemo, di questo pianeta»?, Relazione svolta, il 17 novembre 1994, nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, in occasione del Convegno su «La giustizia nella letteratura e nello spettacolo siciliani tra ‘800 e ‘900, da Verga a Sciascia, in Quando parleremo di giustizia, Palermo, 2010, 19.
[35] M. Collura, L’isola senza ponte, cit., 197.
[36] L. Ferrajoli, Magistratura e democrazia, 28 luglio 2021, in Questione giustizia.
[37] R. G. Conti, Il diritto alla verità, fra amnistia, prescrizione e giurisprudenza nazionale della Corte edu e della Corte interamericana dei diritti umani, in Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, a cura di R. Romboli e A. Ruggeri, Torino, 2019, 237.
[38] Cfr. Interpellanza n.2-00243 dell’On. L. Sciascia, riportata da A. Camilleri, Un onorevole siciliano, Le interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia, Milano, 2009, 43: “Noi non vogliamo che le forze dell’ordine – che veramente desideriamo siano tali senza dimostrare gratuitamente la forza, e portatrici di un ordine che nulla abbia a che fare con la violenza – vengano quotidianamente mandate allo sbaraglio…e personalmente ritengo che debbano essere messi a loro disposizione strumenti legislativi più adeguati al corso delle cose, ma senza mai venir meno ai principi costituzionali”.
[39] L. Sciascia, Il contesto, cit., 116: “La ragion di Stato: c’è ancora, come ai tempi di Richelieu. E in questo caso è coincisa con la ragion di Partito... L’agente ha preso la più saggia decisione: uccidere anche Rogas ... Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivolu- zione ... Non in questo momento”.
[40] M. Taruffo, Verità e giustizia di transizione, in Criminalia, 2015, 23: “Prendendo ora in considerazione una dimensione per certi versi più specifica, ma di valenza non meno generale, va sottolineato che il principio di verità si configura come condizione essenziale per l’effettività dell’ordinamento giuridico. Se è vero, come pare indubbio, che le norme giuridiche, singolarmente e nel loro insieme, sono destinate a regolare i comportamenti dei consociati, pare altrettanto evidente che questa finalità verrebbe completamente frustrata qualora i cittadini pensassero che la violazione delle norme non comporterebbe alcuna conseguenza o provocherebbe conseguenze del tutto casuali, e qualora non vi fosse nessuna ipotesi credibile circa le conseguenze delle condotte dei singoli, siano esse conformi o contrarie a quanto prevedono le norme giuridiche. In altri termini, l’effettività dell’ordinamento giuridico si fonda sull’ipotesi che il sistema sia in grado di stabilire la verità rispetto a tali condotte, dato che solo in questo caso le relative conseguenze sarebbero conformi a ciò che l’ordinamento prevede”
[41] M. Taruffo, Verità e giustizia di transizione, cit., 22.
[42] A. Ruggeri, La dignità dell'uomo e il diritto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi), in Consulta online, n. II/2018 (3 giugno, http://www.giurcost.org/studi/ruggeri76.pdf).
[43] M. Damilano, Un atomo di libertà, Aldo Moro e la fine della politica in Italia, Milano, 2018, ricorda testualmente il passo di Moro: “La verità più profonda delle cose è nella ideale sintesi di valore e fatto, per cui la verità vive essenzialmente nella storia… Per ciò è bello vivere”.
[44] M. Damilano, Un atomo di libertà, Aldo Moro e la fine della politica in Italia, cit.: “C’è un’altra verità da cercare, quella di cui scrisse Moro in una delle sue ultime lettere disperate e mai consegnate a Riccardo Misasi…” “Quello che io chiedo al partito è uno sforzo di riflessione in uno spirito di verità” aveva scritto il Presidente, ora prigioniero, a rischio della vita. “Perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è verità”…Ma negli ultimi giorni della sua vita, in maniche di camicia, con un foglio di carta a quadretti e una penna da cartoleria come sola arma a disposizione per farsi sentire, con la coscienza come unica voce da ascoltare, Aldo Moro aveva concluso che tutto si racchiudeva in questo, un atomo di verità, più resistente di milioni di voti. Un atomo di verità, un granello di verità…” Più di recente v. l’assai interessante webinar dedicato al tema Il diritto alla verità https://www.facebook.com/MEMOMediatecaMontanari/videos/591814995097707/ con M. Damilano e F. Messina.
[45] F. Messina, Il diritto alla verità. Presentazione dell’incontro con Marco Damilano – 3 giugno ore 18.00 – diretta su “zoom” e bacheca Facebook “Memoteca Montanari”, in questa Rivista, 1 giugno 2020.
[46] A. Gelmi, Sollevare la verità alla superficie, un itinerario sciasciano, in Todomodo, II, 2012, 168.
[47] A. Piras, Oltre la cronaca «l'affaire Moro» tra storia e letteratura, in Todomodo, Il, 2012, 224.
[48] R. G. Conti, Il diritto alla verità, fra amnistia, prescrizione e giurisprudenza nazionale della Corte edu e della Corte interamericana dei diritti umani, in Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, cit.
[49] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., 224.
[50] V. Il giudice disobbediente nel terzo millennio. Intervista d. R.G. Conti a G. Silvestri, V. Militello e D. Galliani, cit.
[51] R. Scarpinato, « L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, cit., 221: “Dunque far emergere la verità, raccontare la realtà quale essa è e quale non trova spazio in quella ufficialità che è occupata dal potere, costituisce un importante atto di opposizione civile.”
[52] G. Tranchina, Leonardo Sciascia, cit., 28, nel descrivere la figura ideale di giudice: “E la sola via che gli è aperta a tal fine – avverte ancora Carnelutti – è quella di sentire la sua miseria: bisogna sentirsi piccoli per essere grandi»
[53] V. Intervento On. L. Sciacia, Camera dei deputati del 23 gennaio 1980, in A. Camilleri, Un onorevole siciliano, Milano, 2009, 53: “Già la giustizia in Italia non è mai stata celere e si sa che uno degli elementi costitutivi e primari della giustizia è la prontezza con cui viene amministrata, ma affermare che arrivando dopo una dozzina di anni può significare ancora giustizia, vuol dire appunto avere smarrito il senso della realtà.”
[54] Non è, allora, un caso, che la giurisprudenza della Corte edu abbia escluso che la lunghezza del processo non è ex se dimostrativa della violazione dell’art.6 CEDU- cfr. Corte edu, Pirozzi c. Belgio (n. 21055/11), 17 aprile 2018, ove la Corte ha osservato che “delay in prosecuting a crime does not, necessarily and in and of itself, render criminal proceedings unfair under Article 6” - par.26-.
[55] V. Maimone, Il caso Davide Cervia, Torino, 2020, 159, in ci si ricorda la vicenda del sequestro di persona del militare, le vicende dei familiari e la sentenza del Tribunale di Roma il 23 gennaio 2018, nella quale il diritto alla verità venne configurato, come espressione degli artt.2 e 21 Cost., come “diritto ad acquisire, senza ostacoli illegittimamente posti, informazioni e conoscenze ritenute utili o necessarie, sia in sé, sia quali precondizione per l’esercizio di altri diritti fondamentali. Ogni attività, fatto o comportamento che impedisca, limiti o condizioni l’acquisizione di informazioni lede conseguentemente quel diritto”.
[56] Sul ruolo di tali Commissioni v. M. Taruffo, Verità e giustizia di transizione, cit., 21 ss. Quanto all’esperienza brasiliana, in particolare U. Celli, Il diritto alla verità nell’ottica del diritto internazionale: il caso brasiliano, in Annali della facoltà giuridica dell’Università di Camerino, n. 6/2017, 212 (https://afg.unicam.it/sites/d7.unicam.it.afg/files/CELLI_DirittoVerit%C3%A0.pdf).
[57] L. Sciascia, La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle Padovani, Milano, 1987, 87.
[58] M. Di Lello Finuoli, L'intreccio tra 'Verità' e 'Giustizia' nelle opere di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A. Visconti, cit., 257 ss.
[59] D. Perrone, Scrittura e verità nell’opera di Leonardo Sciascia, L’eredità di Leonardo Sciascia, Atti dell’incontro di studi Napoli 6 - 7 maggio 2010 - Palazzo Du Mesnil, a cura di C. De Caprio e C. Vecce, Napoli, 2012, 31.
[60] C. Ambroise, Verità e scrittura, in L. Sciascia, Opere, 1956-1971, a cura di C. Ambrosie, Bompiani, Milano 1987, pp. XLIV-XLV.
[61] L. Bossi, La verità storica nel Consiglio d'Egitto di Leonardo Sciascia, tra finzione politica e impostura letteraria, in Todomodo, VIII, 2018, 129.
[62] L. Sciascia, Tradimenti e fedeltà, La Stampa, 6 agosto 1988 e in, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Firenze, 1989, 154- pure in L. Sciascia, Opere, cit., 1310.
[63] Anche se va detto che non sono mancati nella dottrina processualistica esempi virtuosi rivolti a ricercare nella conclusione del processo “la verità” anche per effetto dell’opera proattiva del giudice. Per tutti, v. il terzo capitolo di M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Laterza, Roma-Bari, 2009; M. Taruffo, Tre divagazioni intorno alla verità, in M. Taruffo, Verso la decisione giusta, Torino, 2020, spec.128 ss. Ma v., in diversa prospettiva, anche B. Cavallone, In critica alle posizioni di Taruffo, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv.dir.proc., 2010, 1.
[64] P. Grossi, Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno-dal monismo legalistico al pluralismo giuridico, Milano, 2021, sul quale v. M. Serio, Riflessioni su “Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno-dal monismo legalistico al pluralismo giuridico” di Paolo Grossi, in questa Rivista, 24 giugno 2021.
[65] L. Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, in Opere, Tomo I, Vol. II, cit., 255.
[66] L. Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, cit., 270.
[67] L. Sciascia, Semplice discorso sul caso Tortora, sul caso giustizia e sui casi nostri, riportato in A futura memoria, (se la memoria ha un futuro), in Opere, cit., Vol.II, Tomo II, 1248.
[68] Per tutti, G. Fiandaca, La giustizia secondo Leonardo Sciascia, in Todo Modo, 2019, 157.
[69] G. Zagrebelsky, La giustizia come professione, Torino, 2021, 144.
[70] M. Taruffo, Verità e giustizia di transizione, cit., 38: “Se un’indagine viene svolta – magari senza particolare energia – a venti o trent’anni di distanza, può essere difficile scoprire le prove di quanto è accaduto, soprattutto quando – come spesso accade – esse sono nelle mani degli stessi organi (Stato, esercito, polizia, paramilitari) di cui hanno fatto parte i responsabili. In questi casi, che rappresentano la quasi normalità, è evidente che le prove sono sparite, sono state nascoste o sono state distrutte.”
[71] Ed infatti, in Il quarantotto, in Gli zii di Sicilia, Milano, 1992, 174 ss., premiato con l’assegnazione del premio “Libera Stampa” a Lugano – su cui v. Il Quarantotto da Gli zii di Sicilia di Sciascia. Recensione di Rosalia Centinaro, 11 gennaio 2016, in www.gaspareagnello.it – Sciascia così si esprimeva, dando voce al capitano Ippolito Nievo: “io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; e il colonnello Carini sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all'azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori… una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e famigliare la morte… Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice…”.
[72] L. Sciascia, Il calzolaio di Messina, in L. Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria, in Opere, cit.,Vol. II, Tomo II, 1024, citando Tilgher sul contenuto della tragedia – Il calzolaio di Messina rappresentata al teatro Odelaschi di Roma nell’aprile del 1925 in uno spettacolo allestito da Luigi Pirandello – : “si configurava come un urto tra due opposti atteggiamenti dello spirito, come antinomia di due contrarie concezioni della Giustizia: l’una per la quale la Giustizia è atto essenzialmente sociale, funzione impersonale e anonima dello Stato, l’altra per la quale la Giustizia è idea dell’animo individuale, oggetto di adorazione fanatica”. V., poi, nello stesso racconto, il commento di Sciascia alla stessa vicenda, ricordando la genesi della tragedia ed il racconto di Denis Diderot -Entretien d’un père avec ses enfantes- in cui l’autore individua la storia del calzolaio di Messina “come apologo di una specie di aporia della giustizia, nel conflitto fra il diritto oggettivo e il diritto naturale, tra la giustizia delle leggi e la vera giustizia” (p.1035).
[73] D. Perrone, Scrittura e verità nell’opera di Leonardo Sciascia, cit., 32.
[74] L.Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, Il Giudice, cit.
[75]Cass.pen., 13 giugno 1987, pagg. 223 e 226, in https://www.csm.it//documents/21768/121598/Cassazione+n.+3492+del+13+giugno+1987+parte+terza/a7dbdc0b-3230-431f-8763-03cec1b28024
[76] L. Sciascia, Semplice discorso sul caso Tortora, sul caso giustizia e sui casi nostri, in Corriere della sera, 14 ottobre 1983, e in A futura memoria, cit., 1253.
[77] P. Calamandrei, Bisogna aver visto, Il ponte, 1949.
[78] L. Sciascia, Ma la mafia non ha una sola cupola, Corriere della sera, 27 dicembre 1987, ed in A futura memoria (se la memoria ha un futuro), in Opere, cit., 1305.
[79] L. Sciascia, Scopriamo chi ha ucciso Pinelli, in L’espresso, 28 agosto 1988.
[80] L. Sciascia, La Sicilia come metafora, (Intervista di M. Padovani), 81 ss.
[81] G. Fiandaca, La giustizia secondo Leonardo Sciascia, cit., 160. Indagine di recente ripresa in occasione del webinar organizzato dall’Università di Palermo in memoria di L. Sciascia il 15 aprile 2021 sul tema Leonardo Sciascia tra giustizia sperata e giustizia negata: una ambivalenza irriducibile,
[82] L. Sciascia, I pugnalatori, in L. Sciascia, Opere, cit., 408.
[83] Figura, peraltro, non facilmente decifrabile quella del giudice Coras, come nota J. Francese, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, cit., 120, in qualche modo vittima, forse inconsapevole, dell’ennesima impostura.
[84] V., sul punto, S. Borzì, Vita e diritto: da Il mistero del processo di Satta a Porte aperte di Sciascia, cit., 77.
[85] G. Tranchina, Leonardo Sciascia, cit., 30.
[86] L. Sciascia, L’espresso, 7 ottobre 1979, e poi in A futura memoria (se la memoria ha un futuro), in Opere, cit., 1197.
[87] L. Sciascia, Per la responsabilità dei magistrati, in Corriere della sera, 7 agosto 1983, poi in A futura memoria, (se la memoria ha un futuro), in Opere, cit., 1246.
[88] Cfr. V. Consolo, Esercizi di cronaca, Palermo, 2013, 68.
[89] Sull’uso di questo termine v., ad es, L. Sciascia, La strega e il capitano, Milano, 1999, 75. V. anche J. Francese, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, cit., 123.
[90] R. Romano, Sciascia e la sua «Storia semplice», in Le forme del comico, Atti delle sessioni parallele del XXI Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti) Firenze, 6-9 settembre 2017, a cura di Francesca Castellano, Irene Gambacorti, Ilaria Macera, Giulia Tellini Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2019, 1378.
[91] Come è lo stesso Sciascia a testimoniare nell’esergo dedicato in Una storia semplice a F. Dürrenmatt ed al saggio da quest'ultimo edito, Giustizia, Milano, 2011. Saggio nel quale l’autore svizzero, tratteggiando a più riprese e con profondo disincanto il mondo della giustizia ed i suoi protagonisti, non manca di ricordare che “non occorre che un giudice sia giusto, così come non occorre che il papa sia credente – Giustizia, cit., 170 –.
[92] L. Sciascia, Tradimenti e fedeltà,in La Stampa, 6 agosto 1988, e in Opere, cit., 1311.
[93] D. Cacopardo, Sciascia 2019: il suo senso della giustizia, quanto mai attuale ..., in TP24, 21 novembre 2019.
Un’intervista impossibile a Guido Calabresi
di Roberto Conti
Potenza del Covid!
Non è un caso se oggi ci troviamo a dialogare con Guido Calabresi, Accademico della Yale University e giudice della Corte federale di appello di New York.
Nel pieno della prima crisi pandemica da Covid, Giustizia Insieme si rivolse a Lui per riflettere sul tema delle scelte tragiche che in Italia e negli Stati Uniti stavano drammaticamente affrontando le strutture sanitarie, chiamate a offrire aiuto e cura ad un numero impressionante di contagiati e spesso a selezionare gli ingressi nelle terapie intensive, insufficienti per rispondere alle necessità di tutti i malati.
Fu lui, pur rammaricato di non potere direttamente affrontare l’argomento per essere giudice della Corte federale di New York, a indirizzarci a Philip Bobbitt, coautore dello storico saggio "Scelte tragiche", che offrì ai lettori della Rivista un rilevante contributo sul tema- Tragic choices, 42 anni dopo. Philip Bobbitt riflette sulla pandemia - .
Fu ancora Calabresi a suggerirci il Prof. Tyler della Yale University per aprire un focus sul tema delle discriminazioni razziali negli Usa - Le lacerazioni razziali negli Stati Uniti: la comprensione del fenomeno di Tom Tyler - e dobbiamo ancora a Lui il ricordo, di straordinaria potenza espressiva, dell’indimenticata giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Ruth Bader Ginsburg - Remembering Ruth Bader Ginsburg -.
La cifra della generosità ed umanità di Calabresi si arricchisce con l'intervista che segue.
Il lungo dialogo che Calabresi ci ha regalato, senza mai mostrare stanchezza o fretta di terminare l'intervista, ruota attorno ai temi del ruolo del giudice, dei diritti fondamentali e della politica che Calabresi affronta con lucidità impareggiabili, mettendo a fuoco questioni e nodi che quotidianamente impegnano i giuristi del nostro tempo attraverso riflessioni destinate ad aprire orizzonti ancora inesplorati e sui quali lo stesso Calabresi confida di volere tornare in modo sistematico in un prossimo futuro. La funzione contromaggioritaria della giurisprudenza, la certezza e l’incertezza del diritto, la comparazione come veicolo di confronto indispensabile se praticato in modo accorto e ragionato, la competizione fra civil law e common law, l'uso delle tecniche di tutela giurisdizionale più efficaci per rendere effettivi i diritti fondamentali, ma anche l'esperienza concreta di giurista "Giudice" e "Accademico" sempre e comunque "umile".
Insomma, un Calabresi a tutto campo, che si è pure lungamente soffermato sul tema della crisi del sistema giudiziario italiano, affrontando lo spinoso tema dell’accesso alla giustizia di ultima istanza ed anche in questa occasione offrendo un affresco di straordinaria chiarezza sulle differenze fra il nostro sistema e quello nordamericano.
Grazie Professore Calabresi, accademico, giudice ed uomo tanto americano quanto italiano, con l'augurio di rivederTi in presenza in Italia.
R.C.
R. Conti Caro Guido, ti volevo innanzitutto ringraziare a nome di Paola Filippi e di tutta la redazione per averci regalato parte del tuo tempo. La nostra rivista Giustizia Insieme, nell’anno ormai passato, ha trattato diversi argomenti proprio sul tema della “Pandemia” e del ruolo del giudice. Immagino ricorderai che Ti inviai anche l’intervista alla allora Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia su come la Corte costituzionale stava affrontando la crisi pandemica.
G. Calabresi Certo. È stata per me una gioia conoscere Marta Cartabia e poterla far venire diverse volte qui a Yale e vedere questa notevole, notevole studiosa, Giudice e adesso Ministro!
Il contesto delle domande che ti volevamo porre è dunque strettamente collegato alle riflessioni che ruotano attorno al tema del mestiere del “Giudice” che Tu hai affrontato in quelle conversazioni all’Università di Macerata del 2012, poi trasfuse nel volume di grande successo in Italia Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano - Il Mulino, 2012 -. Proprio da quel saggio ci piace partire per sentire, oggi, il Tuo pensiero sul mestiere del Giudice, sul suo ruolo rispetto alla tutela dei diritti fondamentali anche nel sistema italiano, certamente diverso da quello americano, ma che sappiamo poi, alla fine, essere collegato da un ceppo di valori che comunque sono in fondo universali. Veniamo alla prima domanda.
D. Nel tuo Il mestiere di giudice, ad un certo punto, comparando l’esperienza americana e quella europea non mancavi di lodare il dialogo fra le Corti costituzionali, la Corte di Cassazione, le Corti in genere e la Corte europea dei diritti dell’uomo, rammaricandoti del fatto che gli Stati Uniti, pur esportatori di idee, non erano capaci di importarle, malgrado la naturale vocazione al confronto ed alla contaminazione. In particolare, così ti esprimevi: “…Ora, in questo stato di cose, che cosa tiene legati i giudici al rispetto dei limiti? Che cosa impedisce loro di arrogarsi un potere eccessivo? Che cosa li aiuta a conservare qualcosa della metodicità e cautela dei loro omologhi del passato in un mondo tanto accelerato e proteiforme? Il metodo dialogico è la soluzione moderna affinché il giudice sia inserito in un contesto di costante confronto, conforto, ispirazione, influenza, scambio e limite con altre Corti, altre giurisdizioni, altri Stati, altri interlocutori istituzionali. Il dialogo attenua la ferocia repentina e drastica con cui il giudice assolverebbe il suo ruolo nel contesto giuridico moderno, riaccostandolo alla prudenza mite, incessante ma graduale, che apparteneva ai suoi predecessori della common law al fine di aggiornare e migliorare il diritto”.
Ora, in Italia e in Europa si avverte, nell’ultimo periodo, una sorta di ripiegamento sulle idee di dialogo e confronto, evidenziandone i rischi di un’incertezza ad esse sottesi, insieme ad una perdita di “sovranità” dei singoli Stati in favore di apparati burocratici e tecnocratici. Sei ancora dell’idea che il dialogo sia un elemento portante della giurisdizione o l’incertezza, che nasce dal fatto di confrontarsi fra più Corti, ti ha, in qualche modo, fatto ricredere della sua opportunità come risorsa fino al punto da considerarlo un problema?
G. Calabresi Bene, per me il dialogo rimane il modo fondamentale in cui le Corti fanno il proprio mestiere, e costituisce la parte centrale di quello che noi facciamo. Certo, ci sono persone che credono che il mestiere di Giudice sia meramente di risolvere una disputa e che si accontentano di dare una soluzione alla causa in modo da potere andare a casa tranquilli. Ci sono dei grandi Giudici che la pensano così, ma ci sono anche altri grandi Giudici che invece “vogliono creare il Diritto!”, vogliono farlo, sia di destra che di sinistra, dei grandi nomi…e lì c’è un problema. Per me invece il mestiere di Giudice è di dialogare con altri Giudici, con altre Corti, attraverso il tempo, con la burocrazia, con i legislatori, e insieme creare il Diritto…questo determina certi problemi perché non c’è dubbio che le burocrazie sono burocratiche, che i Parlamenti, sia locali che di Stato, hanno tanti tanti difetti. Ma, d’altra parte anche noi Giudici abbiamo i nostri difetti. La questione è dunque se in questo modo, attraverso il dialogo, si possa spingere questi altri – le burocrazie e i legislatori - a fare quello che loro dovrebbero fare, ossia ad indurre i burocrati a non essere così burocratici, i legislatori di vari Stati a fare il loro mestiere, a non nascondersi e evitare di prendere posizioni politiche che sono spiacevoli. Ora, il Giudice può, proprio perché è indipendente, cercare di fare in modo che queste Istituzioni facciano il loro mestiere e così ci aiutino – noi giudici – nel decidere i casi specifici e nel portare un poco avanti il diritto. In un certo senso questo è il modo moderno di quello che era lo sviluppo del diritto tramite il Common Law “case by case”, il metodo casistico se si vuole parlare dei Gesuiti. Detto questo, non c’è dubbio che questo modo di fare determina alcune incertezze, ossia se uno dicesse “il diritto è così basta” tutto sarebbe più certo. Anzi, a questo proposito ritornerò tra poco, e parlerò sul come si tratta il “fare giustizia” in casi di incertezza. Credo davvero che questo tema sia una delle questioni fondamentali e che prescinde dalla questione del dialogo, proprio per comprendere come fa un Giudice a cercare di fare il suo mestiere, aggiornare il diritto sapendo poi che per le persone è importante sapere che cos’è la legge per potere aderire a questa.
R.C. Certo, torneremo più avanti su questo tema. Grazie Guido, le domande successive riguardano il ruolo dei diritti fondamentali per un Giudice ed il suo essere contromaggioritario.
Anche Tu ti sarai accorto che rispetto al tema dei diritti fondamentali, che così tanto hanno interessato nella crisi pandemica, si è spesso gridato alla morte dei diritti delle persone ed alla loro compressione da parte del mondo della politica e dei Governi. Tu vedi un contrasto fra la politica e i Giudici quando si parla di diritti fondamentali? Credi che il ruolo dei Giudici rispetto ai diritti fondamentali metta in discussione la terzietà del Giudice rispetto al potere legislativo?
G. Calabresi Sì, il problema da noi si chiama da tempo, sempre, il problema “contra maggioritario.
R. C. Esatto! Quando il Giudice si occupa dei diritti fondamentali sembra che vada contro la legislazione, sembra che si muova su posizioni alternative e quindi finisca col fare lui stesso il legislatore. Tutto questo, in definitiva, evoca il tema del giudice contromaggioritario. Essere contromaggioritario per un giudice è una possibilità, un’opportunità o un dovere? E quanto scelte contromaggioritarie rischiano di apparire devastanti rispetto a temi etici o religiosi (pensa alla questione del crocifisso nei luoghi pubblici che tanto si agita in Italia) se giungono a risultati che danneggiano concorrenti diritti?
G. Calabresi Procediamo per gradi. Prima di tutto ci sono certe situazioni in cui il dovere del Giudice è di essere “contromaggioritario”, ossia quando la legislazione è discriminatoria, ossia tratta male persone o gruppi per via di cosa sono, per ragioni di razza, per ragioni di religione, per ragioni di tante cose così, è proprio lì che un Giudice ha il dovere di essere contromaggioritario. Vorrei che fosse chiaro che noi Giudici non siamo come la maggioranza che dice “faccio…”, anche dopo la crisi del contro-maggioritarianismo al tempo di Roosevelt e della vecchia Corte Suprema. Ricordo che quando la Corte Suprema nel grande caso Carolene Products, 304 U.S. 144 (1938) ha detto che le Corti non debbono fare tante cose perché sono contromaggioritarie, ha incluso la famosa “nota 4” che ha detto “ma quando si tratta di discriminazione agire è un dovere del Giudice”, è un dovere. Per questo che Brown v. Board of Education 347 U.S. 483 (1954), e i casi che riguardano i gay, ecc., sono i casi in cui proprio spetta alla Corte agire. Teniamo conto anche, che quando si parla di discriminazione il potere del Giudice è sempre un po’ limitato. Ossia, se davvero la democrazia vuole certi valori, quando un Giudice dice “Ma non potete far questo discriminando!”, dà sempre alla maggioranza il potere di dire “Vogliamo fare quello ma non vogliamo discriminare e quindi siamo pronti a subire gli oneri che questa azione impone”. Intendo dire che questo diventa un modo di non essere contromaggioritario perché c’è sempre la possibilità di un “second look” legislativo. Questo è in contrasto con quando un Giudice dice invece “questa è una decisione di due process, invece che equal protection” .
Detto questo, c’è anche… e questa è una cosa che proprio sento particolarmente di dovere dire ed ho nel cuore attualmente, c’è anche un problema quando la maggioranza fa qualche cosa non perché vuole discriminare, non perché vuole trattare male certe persone, ma perché la maggioranza vuole un risultato, ma lo vuole solo quando non ne subisce gli oneri. Ossia dice “facciamo questo…” non perché vuole discriminare verso quelli che subiscono gli oneri, ma perché gli oneri non sono sulla maggioranza. Quando la Polizia persegue i crimini legati al commercio di droga e lo fa solo nelle case dei poveri fa così non perché vuole discriminare contro i poveri, ma perché la maggioranza non essendo povera sa benissimo che “la polizia non verrà a casa mia!”. E io chiamo queste decisioni careless ossia “non mi importa”. E mi capita di osservare tali azioni di maggioranza spesso da quando faccio il Giudice.
Più volte mi accorgo di casi in cui ci sono violazioni dei diritti fondamentali, che non sono collegate a discriminazioni, quanto al fatto che si preferisce una prospettiva perché gli oneri sono altrove, e quindi “non mi importa”. Pensiamo invece ai principi fondamentali della nostra Costituzione. Lì si parla del diritto di proprietà e c’è proprio scritto “si può prendere la proprietà ma si deve dare un risarcimento”, ossia “dobbiamo pagare”. Tutti noi desideriamo avere un parco o una bella strada se non ci costa. Ma la Costituzione dice che per averla dobbiamo pagare. Quindi c’è anche questo fenomeno meno evidente, meno diretto rispetto alle vicende in cui c’è discriminazione, nel quale il ruolo delle Corti è, e deve essere, particolarmente incisivo. Le Corti devono dire “quando si va vicino ad un diritto fondamentale e l’onere è messo solo sugli altri, siamo noi Corti a dire lo volete davvero? Siete pronti a subire gli oneri voi? Se no diciamo di no”. E questo è un dovere altrettanto forte anche se più sottile rispetto all’antidiscriminazione. Ma è una prospettiva d’importanza davvero notevole. Anzi, penso davvero che è quello di cui, se ho tempo perché è molto difficile, vorrei scrivere.
Poi c’è il fatto di tante situazioni dove, quello che ha fatto la maggioranza è stata una cosa necessaria in un momento di crisi, per cui certi valori, certe libertà (non le libertà di cui le Costituzioni dicono “no questo non si fa mai e basta”) si possono limitare, ma solo quando c’è una crisi.
Qui la Pandemia è stato un bell’esempio, perché alcune scelte deve prenderle la maggioranza e non spetta alle Corti dire “no”, perché è proprio la maggioranza che deve dire “c’è bisogno della vaccinazione, c’è bisogno delle mascherine…” e se le Corti si mettono a dire di no, perché sono cose che in certo senso limitano la libertà, questo è a mio avviso un grande errore.
Però, attenzione, quello che le Corti possono e devono forse fare, a crisi pandemica finita, è di dire alla maggioranza “state attenti che questa crisi è finita, diteci voi se volete queste cose davvero ancora o se è solo per inerzia che rimangono lì”. Anche questo è un obbligo che grava sulle Corti, un compito che non è contromaggioritario, perché richiama la maggioranza a fare quello che è il suo mestiere, ripensare e non perpetuare una scelta soltanto perché tempo fa, in periodo di crisi, venne adottata.
Tutto questo discorso ci riporta alla nozione del dialogo, che in definitiva non è altro che un modo di parlare di queste cose.
Poi ci sono tante cose che invece le Corti come la nostra Corte fanno, che possono sembrare contromaggioritarie perché contro la volontà della maggioranza di oggi, ma che invece sono maggioritarie, nel senso che fanno sì che persone che attualmente sono escluse dal popolo, dal diritto di votare, riescono ad esercitare i loro diritti come gli altri. In questo modo le Corti si assicurano che queste persone “escluse” possano parlare, partecipare al dialogo. In America questo fenomeno è stato particolarmente rilevante a proposito dei gay, che in quanto erano “closeted”, rinchiusi, non potevano discutere, professare e proteggere i loro diritti. Qui le Corti hanno espresso il principio che è importante che certi gruppi possano “parlare” così che poi possano far parte della discussione politica. Ecco, qui le Corti è come se portassero dentro alla discussione quei gruppi minoritari.
In Italia questo è accaduto quando si è riportata la Chiesa dentro la discussione politica, dopo gli anni in cui era esclusa, o quando si sono riportati i comunisti che erano esclusi, insomma si riporta la gente dentro, in modo che così la maggioranza può essere veramente una maggioranza senza che vi siano esclusioni.
R. C. Grazie Guido, io passerei ad alcune domande che poi riguardano il ruolo dei diversi sistemi di Common Law e Civil Law, visto che nella nostra Italia si pensa che sia un corso un processo di forte contaminazione, soprattutto nell’ambito del diritto giurisprudenziale, fra i due sistemi, ancorché dal punto di vista normativo questa assimilazione non sembra trovare particolare spazio. Ed in tutto questo pensi che i giudici debbano avere un ruolo diverso in ragione della diversità delle tecniche di tutela che i sistemi (common law, civil law) prevedono - controllo accentrato di costituzionalità, controllo diffuso in capo ad ogni giudice, diversa “forza” del precedente, ruolo dell’interpretazione -?
G. Calabresi Dunque, ci sono delle differenze fra i due sistemi e ciò è dimostrato dal mestiere di certi Giudici in un sistema e di altri Giudici nell’altro. Io credo però che quelle differenze sono molto meno importanti, ossia ci sono differenze di struttura, ma non sui problemi fondamentali.
Invece, quello che è molto vero è che il mestiere di Giudice non può essere indipendente dalla struttura politica che esiste in un dato paese, ossia se si è in un paese come una volta si pensava fosse e forse lo è tutt’ora l’Inghilterra, dove la maggioranza vince e può fare quello che vuole e lo fa, e poi un’altra maggioranza che prende il suo posto vince e fa lo stesso, il mestiere di Giudice è davvero profondamente diverso da un altro paese.
Pensa al nostro paese dove ci sono divisioni, inerzie, e la maggioranza spesso non può fare quello che vuole o un paese dove c’è una minoranza che è la balance wheel, che è quella che decide se si va in una direzione o in un’altra e questa minoranza in questo dominerebbe la legislatura anche se si sa benissimo che non è affatto la maggioranza, il mestiere di Giudice in un paese come quello è ben diverso da quell’altro, dove la maggioranza veramente agisce.
Così io credo che non si possa criticare – come ha fatto il mio amico Posner e poi ha capito che ha sbagliato – Aharon Barak, perché questo grandissimo Giudice si comportava, in un paese come l’Israele dove c’erano una molteplicità di problemi di tanti tipi, in un modo ben diverso da come si comportava un Giudice del settimo Circuit nell’Illinois, come Posner.
Insomma, questo bisogna capire… che siamo sempre Giudici, ma è anche vero che quello che noi facciamo non può essere tolto dal sistema politico in cui noi ci troviamo.
Per esempio la grande scuola Legal Process di Harvard criticava il Giudice Bazelon, Presidente della Corte Federale del District of Columbia, perché era molto aggressivo. Ma questi di Legal Process non tenevano conto che il Distretto di Columbia non aveva un proprio Parlamento ed era governato dal Congresso. E quando questo Giudice diceva “in questa città multietnica, multirazziale, un Parlamento dominato in quel tempo da persone del sud, agricoli… era il mio mestiere di cercare di fare in modo che le leggi qui siano più come quelle di Detroit, New York…” faceva il vero mestiere di giudice. Il suo punto di partenza era particolare e tutto diverso da quello di un Giudice della Corte Suprema del Massachussetts dove, ad esempio, il Parlamento poteva fare, e a cui quegli studiosi di Legal Process pensavano.
R. C. Sei stato molto chiaro e netto, Guido. Ma consentimi, ancora, una domanda su civil law e common law. Secondo Te esiste un sistema perfetto di giustizia costituzionale nell’alternativa tra sistema diffuso e sistema accentrato o, piuttosto, occorre battere la via dei sistemi giusti, prendendo il meglio che ciascuno dei prototipi suddetti può dare, sia il common law che il civil law? Insomma, sei per un’alternativa secca fra i due sistemi o pensi che esista una strada mediana, un percorso che il giudice possa realizzare individuando il miglior sistema che realizzi la migliore tutela dei diritti? Cosa prenderesti, in definitiva, potendo scegliere, dall’uno e cosa dall’altro sistema?
G. Calabresi Sì, tornando alla domanda che mi hai posto, penso che molto più che la differenza fra Civil Law e Common Law che risale a questioni strutturali, c’è proprio il problema di come si trova un Giudice in Italia.
Cosa fa un Giudice di Cassazione in un paese dove c’è la legislatura ma ci sono lentezze in certe cose, cosa fa un Giudice che si trova a fare il Giudice in comune con un’Europa che ha i suoi Giudici. Tutto il contesto nel quale opera in un certo senso definisce quello che è il giusto per quel Giudice in quel momento ed è per quello che i Giudici inglesi nel ‘700 facevano così tanto e perché poi alla fine dell’800-‘900 molto di meno.
R. C. Passiamo al tema della comparazione che a Te è tanto caro. Bene, Guido la prossima domanda è sul ruolo della comparazione per i Giudici e il ruolo delle Corti straniere nell’esercizio della giurisdizione nazionale. Tu te ne sei occupato in modo diffuso. Sempre nel tuo Il mestiere di giudice riconoscevi che fosse difficile far comprendere ai giudici che dalla comparazione con le Corti straniere si possono imparare molte cose. Oggi, a distanza di poco meno di dieci anni, come vedi la situazione nel Tuo Paese e come immagini essere quella in Italia?
G. Calabresi Rispondo senz’altro, ma poi non dimentichiamoci di tornare alla questione della certezza… Quello della comparazione per me rimane una cosa assai triste perché in America, specialmente la Corte Suprema in questo è semmai regredita, è andata indietro, rispetto alla prospettiva di guardare all’estero.
È vero come mio nipote, il Professore Steven Calabresi, ha scritto in un articolo, che non c’è stato nessun “Presidente della Corte Suprema che non ha in un certo punto o l’altro citato casi dall’estero”.
Detto questo, la tendenza a dire “noi siamo noi e sappiamo noi quel che vogliamo e non dobbiamo essere influenzati da persone all’estero…” è fortissima.
E ho davvero paura che questa tendenza a rinchiuderci si vada ancora di più approfondendo ed ho paura che la Corte Suprema Americana attuale stia facendo peggio.
Noi alla Corte Federale d’Appello di New York nella maggior parte dei casi siamo quelli che decidiamo i casi come se fossimo in ultimo grado, perché la Corte Suprema ci controlla ma tratta così pochi casi che la maggior parte delle cose siamo noi che le facciamo.
Noi della Corte Federale siamo più attenti a quello che succede all’estero. E lì mi pare che vale la pena distinguere quello che è il valore dei precedenti giurisprudenziali resi dagli altri paesi, e altre cose dall’estero che ci dovrebbero influenzare.
Tengo a dire che la comparazione richiede un livello di attenzione particolare. Ci sono certe cose diverse fra Paese e Paese e bisogna stare attenti che quelli esistenti in altri Paesi derivino veramente da valori che abbiamo anche noi. Dunque, si può imparare da questo e imparare da quello, ma questa attività va esercitata sempre con una certa dose di scetticismo. Così anche certe tendenze a trasporre certe procedure americane in Italia immediatamente o viceversa non funzionano, non funzionano…
I trapianti, come quelli medici, sono pericolosi, sono importanti, ma bisogna stare attenti!
D’altra parte ci sono anche certe tecniche, certi modi di fare, certi modi di trattare, come dicevo, ad esempio, il dialogo come usiamo noi, che sono state sviluppate dalle Corti Canadesi per via dell’esistenza della “non obstante clause” che potremmo tutti sperimentare. Penso ancora, quando è in discussione la conformità di una legge alla Costituzione, al concetto di leggi che stanno avviando verso la “invalidità costituzionale”.
Un concetto, quest’ultimo, già emerso ed utilizzato dalle Corti italiane, poi ribadito dall’Austria e dalla Germania. Una tecnica che sarebbe utilissima anche per noi. Infatti, si vedono certi sbagli che noi abbiamo fatto, che la Corte Suprema ha fatto, proprio perché non aveva disponibile questa possibilità.
In questo, mi viene da dire, siamo davvero tutti cugini. Mi spiego meglio: non siamo la stessa persona, ma abbiamo spiriti in comune e da questo nascono modi di cercare, di trattare i problemi, che se uno li guarda sapendo che non possono applicarsi direttamente, ma vedendo che sono certe cose che ci possono aiutare è una cosa importantissima. Fare questo è un valore inestimabile.
Io, in definitiva, sono ottimista e penso che prima o dopo questo verrà fatto anche più spesso nella nostra Corte Suprema. Lì ci sono certi Giudici, come il grande Giudice Breyer, che dice sempre che bisogna aprirsi a questa prospettiva.
R. C. Proprio dallo spunto che ci hai dato sulla giurisprudenza della Corte costituzionale che dichiarava inammissibili le questioni di costituzionalità rinviando al Parlamento la decisione è davvero recente la vicenda della ordinanza della Corte costituzionale su un caso che ha molto interessato l’opinione pubblica, noto come caso Cappato, nel quale la Corte costituzionale, chiamata a verificare la legittimità del reato di aiuto al suicidio contestato ad un soggetto che, raccogliendo la volontà del malato in condizioni irreversibili, lo aveva condotto in una clinica svizzera per potere interrompere la propria vita con l’assistenza di personale sanitario, ritenne di rinviare la decisione della questione di legittimità costituzionale, concedendo un termine al legislatore per introdurre una modifica legislativa che eliminasse l’illegittimità accertata ma non dichiarata della disciplina prevista dal codice penale. Quando fu pubblicata quella decisione mi venne immediato il pensiero a ciò che avevo letto nel tuo Il mestiere del giudice. Come forse saprai, in questo caso italiano la Corte costituzionale, scaduto il termine di un anno, dichiarò incostituzionale la disposizione del codice penale. Come valuti questa posizione del giudice costituzionale italiano?
G. Calabresi Questa domanda mi fa sorridere perché io scrissi quel che tu hai ricordato anni fa proprio pensando a queste idee italiane sul dialogo fra giudici e legislatore. Poi, quando è stata pubblicata questa sentenza della Corte costituzionale, mi trovavo in Italia e mi sono incontrato con un Giudice della Corte Costituzionale, (che non era Marta Cartabia). Ora, questo Giudice aveva sotto braccio il mio libro! Non so perché ciò fosse accaduto, ma certo la cosa mi ha divertito davvero, perché si era davvero materializzato uno strano dialogo di un Giudice americano che aveva visto certe cose italiane e riflettuto su queste cose da accademico e quindi un dialogo fra Giudice e Accademico l’aveva scritto. Ora mi è apparso straordinario che questo dialogo sia poi ritornato in Italia dove è Stato applicato.
E anche questo è interessante perché, naturalmente, queste cose funzionano se poi in certi casi dove il Parlamento non agisce le Corti dicono “allora bisogna che andiamo avanti noi”.
Guardiamo il problema in America del gerrymandering, ossia la creazione di distretti politici che per ragioni politiche avvantaggiano un partito in contrasto con gli altri. Si tratta di un fenomeno drammatico negli Stati Uniti. Accade, infatti, che proprio in certi Stati c’è una maggioranza di uno, ma siccome la legislatura è di quell’altra si creano i distretti per le elezioni, in modo che è quasi impossibile per la vera maggioranza raggiungere la maggioranza legislativa.
Ora, questo fenomeno è arrivato davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti, e questi hanno detto “guarda non sappiamo come fare è molto difficile dire quello che è troppo o che non è troppo, e quindi diciamo che questo è invalido secondo la Costituzione ma non possiamo fare niente”.
Il risultato finale è stato che siamo rimasti in questa situazione.
Poniamo invece che avessero fatto quello che ha fatto l’Italia in quel caso che tu hai ricordato, e avessero detto “per noi è molto difficile risolvere il problema, quindi diamo alla legislatura 3,4,5 anni per risolverlo, perché la legislatura può fare e dire questo va bene e questo non va, se non lo fanno poi vediamo”. Ecco, forse in quel caso i legislatori avendo paura di quello che la Corte avrebbe potuto fare avrebbero agito!
D’altra parte questo vuol dire che a quel punto la Corte può avere il dovere di agire e così è successo in Italia. Se poi quando ha agito la Corte ha agito in modo giusto o no, io avrei delle buone idee ma quello come Giudice non posso dirle! Ma posso dire che hanno fatto il loro mestiere agendo nel modo che hanno praticato.
R. C. Guido, tu stesso hai tenuto a ricordare che non potevamo tralasciare di tornare al tema dell’incertezza rispetto all’attività del giudice. Anche in Scelte tragiche, quando riflettevi con Bobbitt, sul tema dell’allocazione delle scarse risorse rispetto ai vari dilemmi, avevi scolpito da par Tuo il ruolo dei diritti fondamentali. Ora, secondo Te, come si può fare comprendere all’esterno che affidare ad un giudice il controllo di garanzia rispetto ai diritti fondamentali impone dei limiti al canone della certezza e prevedibilità, disegnandosi la decisione sempre di più sul caso esaminato dal giudice? Quali sono gli antidoti ai pericoli che si ventilano rispetto ad un controllo giudiziario che viene visto come rivolto a modificare alla radice il principio della separazione dei poteri? Come si fa a distinguere la teoria del diritto libero dalla teoria dei diritti fondamentali?
Il tema si collega strettamente alla situazione italiana della giustizia. Tu stesso ne facevi cenno poco fa. L’Italia attraversa un grave problema che si può riassumere con il concetto di “crisi della Giustizia”. Non vale la pena qui affrontarlo nella sua complessità. Quanto alla forza del diritto giurisprudenziale, pensi che il passaggio da un sistema di “non vincolatività” del precedente giurisprudenziale a quello dello “Stare Decisis” di stampo anglosassone, potrebbe fare recuperare terreno alla certezza del diritto?
G. Calabresi Dunque prima di tutto, io non credo che la crisi giudiziaria di cui si parla in Italia sia dovuta ad una mancanza di certezza, la crisi giudiziaria esiste per questioni di lentezza, per tante questioni, non ultimo quello dell’accesso alla giustizia.
La questione della certezza è una delle cose che noi come Corti dobbiamo affrontare. Dobbiamo anzitutto chiarire che lo stare decisis di cui oggi parliamo è diverso da quello esistente in Inghilterra nell’800 nel quale proprio non si poteva cambiare nulla e si raggiungeva un grado molto elevato di certezza.
Ma oggi le Corti americane, come quelle inglesi, hanno sempre potuto cambiare il diritto: adagio, ma l’hanno potuto fare e non credo che le Corti di paesi di civil law abbandonino leggermente i loro precedenti e dicano “ma anche se hanno fatto così tutti tutti, noi oggi facciamo in un altro modo”. Non credo affatto che succeda così.
Guarda io lo vedo nel fatto che noi come Giudici della nostra Corte abbiamo tanti casi che sembrano così semplici che decidiamo con sentenze che non hanno la forza di precedenti. Viene così a crearsi un catalogo di casi in un certo senso che non sono precedenziali che si affiancano ai casi che hanno invece forza di precedente, dove ci dovrebbe essere lo stare decisis ed in modo molto forte.
Francamente il cambiamento del diritto nei due tipi di decisioni non è poi tanto diverso.
La questione dell’incertezza e della certezza del diritto invece è importante. Questo è il problema, se si può fare solo diritto che si applica da qui in poi come fanno le legislature, ci son tante persone che non hanno alcun interesse a cercare di cambiare il diritto. Pensa ad un soggetto che è stato danneggiato da un incidente stradale. Lui non ha alcun interesse a fare progredire la legislatura o a spingere in modo da dire “cambiate la legge così c’è il risarcimento in questi casi in futuro”. Lui ha un interesse opposto, vuole il risarcimento per un avvenimento passato.
Può accadere, così, che in un dato momento storico non ci sono abbastanza persone a cui veramente interessa un progresso delle forme di tutela e così questi soggetti non aspettano che sia il legislatore ad operare né si rivolgono a lui, ma preferiscono andare dalle Corti proprio perché le Corti possono aggiornare il diritto anche ex post, in un certo senso, dire “no il diritto è sempre stato così”. In altri termini, c’è tutto un modo che può portare al cambiamento e ad indurre alcune persone che hanno a cuore lo sviluppo del diritto ad indirizzarsi alle Corti che non sono irrimediabilmente legate alla decisione precedente.
D’altra parte, quando si procede in questo modo, c’è sempre il pericolo che persone che hanno fatto affidamento sul diritto com’era prima del cambiamento adottato dalle Corti vengano trattate male per effetto del cambiamento.
Quindi: come si fa a rispettare le aspettative giuste delle persone e, pure, aggiornare il diritto?
Ci sono molte tecniche, la tecnica di incominciare a dire tramite obiter dicta o nei casi italiani dire “va bene in questo caso la cosa è così così…”, può funzionare. C’è poi una tecnica usata spesso in America nei casi dell’infortunistica.
Se uno dice, in questo caso cambio il diritto ma lo cambio solo in questo caso e nei casi che sono già davanti a me ma non nei casi di infortuni già avvenuti che non sono ancora stati portati in Corte. A parte ciò il diritto cambia, ma solo per infortuni che avvengono in futuro. Quella che paga è la compagnia di assicurazione. Per la compagnia di assicurazione perdere un dato caso o due, che non sono casi drammatici, non fa niente, fa parte della loro esperienza. E gli assicuratori avranno tempo di cambiare i prezzi per la maggioranza di casi, ossia gli infortuni futuri.
Ora, ti accorgi che quest’evoluzione del diritto ha consentito tanti aggiornamenti in questo campo da parte delle Corti. Le Corti hanno potuto soddisfare le aspettative di quelli che perdevano. Ma hanno potuto dare l’incentivo a venire davanti alla Corte e fare affermare i loro diritti a quelli che vincevano solo se il diritto cambiava.
Devo dirti che non ho mai scritto questo che sto dicendo oggi. Ma l’idea certe volte mi è davvero balenata, di dire “se in un caso ordinario (e parlo di diritto comune non di questioni costituzionali), se in un caso ordinario in cui uno vince e uno perde, si facesse pagare una piccola tassa “in più”, a chi perde il caso, e queste tasse fossero conservate ed a disposizione delle Corti di Common Law, questa riserva potrebbe essere usata se e quando si presentasse un caso in cui è giusto cambiare il diritto ma non sarebbe giusto fare pagare a chi perderebbe inaspettatamente. Questo fondo potrebbe consentire di raggiungere l’obiettivo del cambiamento del diritto senza gravare sulla parte che aveva fatto affidamento sul diritto che in precedenza era considerato certo. La Corte, in definitiva potrebbe dire, a chi cercava di cambiare il diritto, “ti do il risarcimento, il pagamento, cambiando il diritto”. Ma quello che perde non paga e questo è un cambiamento solo per il futuro.
Se, in conclusione, ci si mette a riflettere e pensare sul serio al problema di quanto la certezza del diritto è importante e di trattare equamente, sia chi ha aspettative giuste, e chi giustamente vuole un aggiornamento del diritto, io credo che si possano trovare modi di risolvere questo problema. È un problema a cui non abbiamo veramente pensato, perché diciamo sempre “ah, è difficile” e poi andiamo avanti…
R. C. Grazie Guido, la prossima domanda è collegata un po’ al nostro sistema italiano. Tu stesso parlavi della crisi della giustizia che noi avvertiamo molto per la ragione della lunghezza dei processi ma soprattutto per come è costruito nel nostro sistema l’accesso al Giudice di ultima istanza, la Corte di Cassazione. Ciò perché la nostra Costituzione ritiene che l’accesso al Giudice di ultimo grado debba essere tendenzialmente garantito a chiunque sia parte di un giudizio che lo ha visto nel merito o vincitore o soccombente. Ecco che in nome di questo egualitarismo la nostra Corte di Cassazione è una delle Corti, forse una delle Corti occidentali, che ha il più grande numero di decisioni ogni anno (nel civile ti dico che vengono pubblicate 35 mila sentenze l’anno, nel penale altre 55 mila sentenze l’anno). Tutto questo crea un meccanismo veramente complicato perché quella funzione che la Corte di Cassazione dovrebbe avere di garantire l’uniformità dell’interpretazione del diritto si disperde in decine di migliaia di sentenze ogni anno, redatte da centinaia di magistrati che magari rispetto alla stessa vicenda che in quell’anno o nell’anno precedente non riescono a dire “il diritto vivente in modo univoco e costante”.
Le suggestioni che vengono, ancora una volta dal tuo Scelte tragiche sono notevoli. La crisi pandemica ed il piano di rilancio di un sistema, come quello italiano, colpito alla radice in modo pesante dalla pandemia rende evidente che uno dei temi che non potrà trascurarsi sarà proprio quello del ruolo della Corte di Cassazione, di come essa potrà svolgere la funzione che l’ordinamento le assegna se i meccanismi di accesso alla sua giurisdizione continueranno ad essere informati al canone dell’eguaglianza al quale fa da pendant l’accesso “libero” ed indiscriminato a difesa del diritto alla giustizia. Un’eguaglianza che, tuttavia, rischia di risolversi in gravissime diseguaglianze se si guarda al peso ed al valore economico delle diverse decisioni che il giudice di legittimità è chiamato ad adottare e che, forse, richiederà uno sforzo aggiuntivo di riflessione sull’egualitarismo al quale tu e Bobbitt avete dedicato notevole attenzione – Scelte tragiche, 17 –. Per questo, il dilemma che sta alla base della scelta, che potremmo dire di primo grado seguendo il Tuo ragionamento, se consentire l’accesso alla giustizia di legittimità a tutti coloro che lo richiedono o solo ad alcuni, in un sistema di scarsità di risorse sarà uno dei temi centrali nel futuro del nostro Paese. Come lo sarà quello correlato alle scelte di secondo grado, che chiameranno il giudice di legittimità a selezionare, nel caleidoscopio delle decine di migliaia di ricorsi in ingresso, quelli che meritano di essere decisi con priorità, riproponendosi i dilemmi che tu e Bobbitt avete richiamato sul metodo migliore per rispondere alla scelta tragica “di turno”. Scelte che, a ben considerare, non possono ritenersi circoscritte, quanto alla soluzione, al mondo dei giudici che compongono la Corte, poiché la Giustizia non appartiene soltanto a loro, ma è della società nel suo insieme, risente dei valori e della cultura che lì si ritrova. Un fascio di questioni che si mostrano certo “tragiche” per chi fosse chiamato a risolverle e chi per esse dovesse non avere accesso al giudice di ultima istanza o dovesse averlo con grande ritardo perché ritenuto meno meritevole di quella tutela rispetto ad altro. Ritorna, ancora una volta, il ruolo del e dei metodi di allocazione delle risorse ed il loro grado di accettabilità da parte di una società. All'orizzonte ecco affacciarsi un futuro costellato da scelte dilemmatiche che, combinandosi secondo vari metodi, chiamano i decisori – politici e giudiziari - ed i destinatari delle decisioni a verificarne i contenuti, le modalità, l’incisività, l’utilità e ad assumerne, ciascuno, il peso in modo responsabile. A me è venuto da pensare che anche quella che riguarda la scelta tra consentire un accesso in nome dell’egalitarismo a tutti e invece limitarlo con delle scelte che ovviamente lasciano fuori e tagliano fuori molti dall’accesso alla giustizia crea dei dilemmi notevoli, non solo per i Giudici che dovrebbero decidere quali delle cause decidere prima in questo contesto di numeri pazzesco, ma anche per il decisore politico, che appunto si trova di fronte ad una Costituzione che, in nome del principio del super egalitarismo, - come sai meglio di me il principio di eguaglianza è una sorta di diritto dei diritti - in nome di questo principio garantisce un accesso indiscriminato che però poi diventa crisi reale della giustizia esercitata quotidianamente. Quanto secondo te una società è capace di sopportare una giustizia lenta che consente l’accesso egalitario e quanto preferisce una giustizia pronta, capace di incidere sulle questioni nodali o vitali non mettendo al primo posto il canone dell’eguaglianza nell’accesso?
G. Calabresi Guarda, il fatto della tua domanda, di guardare all’accesso alla giustizia come scelta tragica, mi ha divertito moltissimo!
Io credo che sia assolutamente vero e che in questo si vedono anche le differenze tra i vari paesi. Ritorniamo al libro “Scelte Tragiche”, e guardiamo al modo in cui l’Italia trattava cose, come l’accesso all’educazione, accesso ai trapianti artificiali, ecc.
Nominalmente era eguaglianza, tutti debbono avere lo stesso accesso, in teoria. Ma poi in prassi diventava un sistema pieno di chi ha, chi non ha. E questo era in contrasto con paesi come l’Inghilterra dove era tutta questione denominata di utilitarianismo, ma che poi, anche lì diventava governato da chi ha, chi non ha.
Se si guarda a quella che è la struttura di giustizia, noto che in Italia vi sono dichiarate queste stesse teorie di eguaglianza, in sé bellissime, che poi in pratica diventano cose che non funzionano.
Noi in questo siamo un sistema un po’ strano perché prima di tutto si è deciso che l’accesso alla Corte finale è limitatissimo, ossia nessuno ha diritto di accedere alla Corte Suprema.
La Corte Suprema può decidere quello che vuole sentire ed è completamente una decisione loro.
R. C. E invece per le Corti federali d’appello?
G. Calabresi Per queste il discorso è diverso. Il diritto ad un appello ad una Corte come la mia è realmente un diritto di cui tutti godono. Ma, come spiegherò, questo funziona per via della struttura giudiziaria federale.
Proprio per questo, alla nostra Corte è possibile essere davvero egualitari quanto all’accesso all’appello.
La mia Corte, infatti, non solo deve sentire tutti gli appelli che ci sono, ma dà diritto a uno di portare il caso, di fare il dibattito lui senza avvocato se vuole.
Noi siamo l’unica delle nostre Corti d’Appello che fa questo. E io regolarmente vedo, quando ho una seduta di una settimana, nel corso della quale trattiamo trenta o quaranta casi, che ci sono sempre 4 o 5 casi dove “Tizio” viene lì, senza avvocato, e ti dice “questo è il mio caso”. Questo contatto diretto della Corte con queste persone è di importanza fondamentale dal punto di vista della giustizia egalitaria. Avere infatti la possibilità di dire a questi individui, per esempio, “guarda, io capisco che sei stato trattato male ma questa è una questione non federale ma statale capisci perché noi non possiamo agire?” consente a quelle persone di andare via con la testa alta. Una tale persona avverte e sente di essere stato ascoltato da una “grande” Corte.
Ma infatti noi possiamo fare così, e consentire un appello a tutti, perché noi siamo Corti Federali e ci sono tutte le Corti statali che trattano la gran maggioranza di casi.
Quindi, a livello federale, che in un certo senso è la cosa più importante, si può avere questo diritto d’appello a una Corte che è molto importante e che riconosce veramente e sicuramente il diritto a tutti. Ma poi ci sono le Corti statali, come quelle dello Stato di New York, che hanno migliaia e migliaia di casi che non vengono mai davanti a noi. In un certo senso noi nascondiamo il problema, avendo fatto una scelta tragica di dividere i casi tra quelli federali e quelli statali. E lì poi diventa una questione di quale Stato. Ci sono gli Stati che riescono ad offrire giustizia ed accesso pieno, avendo abbastanza Giudici, e invece ci sono Stati che fanno peggio dell’Italia. E questo può cambiare da un tempo all’altro.
Penso al caso del Connecticut, per esempio, dove la Corte Suprema si chiamava “la Corte Suprema degli Sbagli” perché sentiva solo casi dove c’erano questioni di errori di legge. Tutti la chiamavano “la Corte degli sbagli Supremi”. Quando era una grande, grande Corte questo “scherzo” non gli importava. Dopo, in un momento di decadenza, hanno cambiato il nome. Poi la Corte è diventata grande di nuovo, ma non si poteva ritornare al nome precedente. E questo rifletteva anche la realtà dell’accesso rapido alle corti inferiori del Connecticut.
Anche negli Stati c’è spesso il diritto solo ad un appello, ad un livello intermedio di corte intermedia. E questo fa parte un po’ del concetto americano. Malgrado questo però in molti Stati si trovano ritardi che sono notevoli.
D’altra parte proprio perché se si può creare una questione di diritto federale si può andare a Corti come la mia, che perché sono meno oberate possono funzionare con grande sveltezza, si può dare un senso di giustizia non ritardata.
In casi importanti nella nostra Corte federale, ad esempio, i casi vengono davanti a noi in poco tempo. Quando abbiamo sentito un caso non è detto che dobbiamo scrivere la sentenza entro 60 giorni. Ci sono casi molto complessi che possono richiedere anche un anno per la redazione della sentenza.
Ma ad ogni riunione di Corte (che avviene ogni tre mesi) il Presidente legge la lista dei casi per i quali la decisione non è stata depositata entro 60 giorni. Il giudice che sta scrivendo la sentenza deve spiegare perché c’è ritardo. E questo ci ricorda che “in generale bisogna finire entro due mesi”.
Sono tutti modi di trattare quella che è una scelta tragica.
Essendo una scelta tragica non c’è una soluzione perfetta però si possono fare anche in Italia, strutturalmente certe cose. Si potrebbe avvantaggiare di più del federalismo. In Italia non si è pensato a quel modo per forse fare meglio. Ci sarebbero grandi difficoltà a creare un sistema giuridico veramente federale in Italia. Ma certo bisogna pensare con coraggio perché tuttora il problema è enorme.
R. C. Guido, ti piace ancora fare il mestiere del Giudice? Dopo tanti anni che tu lo eserciti ed hai continuato ad essere il giurista luminare del diritto?
G. Calabresi Quando sono diventato Giudice avevo già 61 anni, quindi non giovanissimo, son 27 anni e più che lo faccio.
A ottobre compio 89 anni e mi piace e mi diverte moltissimo, mi piace perché, sì, ci sono i grandi casi in cui si scrive la sentenza che è molto bella, e che viene citata in tutte le riviste. Ma penso che in questi “grandi” casi ciascuno potrebbe invece scrivere un articolo. La bellezza sta in tutti i piccoli casi che fa piacere trattare bene.
Ma la cosa più bella di questo mestiere è quando ci sono i casi difficili, quando sembra che la legge e la giustizia siano in contrasto, i casi in cui – ne parlavo nel libro – ci si sveglia la notte per dire “è veramente così? La legge?”.
Proprio in queste occasioni ci si accorge che la legge non è quello che sembrava, si trova il modo di vedere che c’è modo fare giustizia seguendo la legge e questa parte del mestiere è una cosa unica.
Non è quello che si fa come accademici, non è quello che si fa come Procuratori, è proprio una cosa che il Giudice può fare e quando arriva il giorno dopo e dice agli altri Giudici “guarda io credo che si può fare in questo modo e loro ti dicono accipicchia, bravo!” confessandoti che l’altra soluzione li aveva infastiditi parecchio.
Ecco, tutto questo fa del mestiere di giudice una cosa bellissima.
Adesso c’è il fatto che l’ultima amministrazione ha nominato un numero considerevole di Giudici anche alla nostra Corte. Noi abbiamo tredici Giudici attivi, una quindicina-ventina di Giudici anziani come me, ma 5 di questi 13 Giudici attivi che sono a pieno tempo completo, sono stati nominati dall’ultima amministrazione. Ora, io non intendo parlare di politica. Ognuno dei Giudici probabilmente, ha la sua ideologia venendo da punti di vista che son ben diversi dal mio.
I cinque che sono stati nominati alla mia Corte sono tutte persone molto intelligenti, ma hanno da imparare a fare il mestiere di Giudice!
Ossia devono imparare che se uno era un Prosecutor per 26 anni, adesso è un Giudice che è stato Prosecutor. Se uno era un “apparatchnik” burocratico adesso è un Giudice che era Stato un “apparatchnik”. Io gli dico: guarda, io in un certo senso ero e rimango accademico, ma adesso sono un Giudice che era accademico.
Proprio questa attività d’insegnamento con estremo garbo ai Giudici nuovi, rende poi questo mestiere particolarmente interessante in questo momento.
Adesso ci sono le nomine dei nuovi Giudici in cui la nuova Presidenza ha deciso di cercare di nominare Giudici che vengono da esperienze lavorative ben diverse. Mentre in precedenza venivano nominati Prosecutor, la nuova amministrazione sta nominando persone che erano pro-bono, persone che difendevano i poveri.
Ora, credo sia importante cercare di insegnare a tutti questi che sì, portiamo la nostra esperienza, non possiamo non portarla – io sono emigrato e ovviamente questo fa parte del mio modo di guardare le cose – e dobbiamo tutti trasmettere la nostra esperienza agli altri.
Nel fare il Giudice è proprio questo che rende la cosa sempre più bella.
R. C. In parte hai già risposto a questa domanda. Ma tu, che sei un Giurista riconosciuto a livello universale, fossi costretto a scegliere tra la professione di accademico che ti ha visto primeggiare nel tuo mondo della scienza giuridica ed economica ma anche nel nostro mondo, e quella del Giudice cosa sceglieresti? E credi che le due cose si possano coniugare? Per esempio nel nostro sistema chi fa il Giudice non può fare il professore universitario in modo continuativo.
G. Calabresi Guarda. Ritorniamo a quando ero molto giovane, avevo forse 33-34 anni. Accadde che il Senatore Repubblicano del Connecticut ed in modo assolutamente indipendente da questo il Senatore Democratico di quello stesso Stato, il Connecticut, mi telefonarono dicendomi: “ti vorrei fare diventare Giudice di prima Istanza Federale” per poi andare avanti in tutta quella carriera.
Era, quella, una situazione estremamente complicata, ciascuno di loro effettivamente poteva dire al Presidente degli Stati Uniti che cosa voleva. Io dissi di no, che non ero qualificato perché non avevo mai svolto la professione di avvocato. In realtà, la vera ragione fu che non potevo fare il Giudice di prima Istanza e fare allo stesso tempo il professore, insegnare e scrivere.
In quel preciso momento storico volevo fare l’accademico e dissi di no, pensando che non si sarebbe mai più ripresentata un simile opportunità.
Molti molti anni dopo, inaspettatamente, il Presidente Clinton mi chiese se volevo diventare Giudice di Corte d’Appello. Quell’incarico si poteva svolgere in America, continuando ad esercitare l’insegnamento. Allora dissi di sì ed ho continuato a fare tutte e due le cose.
Tu mi domandi quale sceglierei, non ti posso dare una risposta, è come quando qualcuno mi chiede sei Italiano o sei Americano?
E io gli dico sono Italiano e sono Americano. E quando insiste chiedendomi ma quale sei, Io rispondo: sono Italiano e sono Americano. Finalmente qualcuno mi chiede “ma quando c’è il mondiale per chi tifi?” ed io non ho alcuna difficoltà a dire: be’, ovviamente io tifo per l’Italia! Ma se ci fosse un mondiale di Baseball tiferei per l’America. E non è perché uno gioca meglio o peggio, ma perché quello sport è tipicamente americano.
E così, allo stesso modo, quando sto facendo il Giudice non mi immagino di non fare il Giudice, quando insegno non mi immagino di non insegnare.
Quello di scegliere tra le due cose proprio non saprei.
Ovviamente se dovessi farlo deciderei, ma da bravo Giudice dico: “tratterò di quel problema se e quando mi avviene!”
Si può fare tutte e due le cose, e non c’è dubbio che certe cose che ho visto facendo il Giudice mi hanno fatto capire certi problemi di teoria, di lavoro accademico, che nessuno aveva capito proprio perché non aveva visto certi casi trattati in un certo modo.
Per di più, io scherzo un po’ e dico che quando insegno posso insegnare a un livello più teorico perché tutti i ragazzi, gli studenti, dicono “questo è un Giudice, mi insegna veramente le cose come sono…” e quindi mi permettono di discutere certe cose che sono forse più teoriche di quelle che farei se non ci fosse questa falsa credenza che io insegno loro “la legge com’è”. Quindi, indubbiamente, ci son dei vantaggi!
Poi nel fare il Giudice, come ho detto prima, tutti i Giudici portano la loro esperienza. Ci sono Giudici che dicono “ma guarda si faceva così…”quando eravamo procuratori.
Io porto il fatto che sono ancora parte dell’Accademia e quindi sono quello che più spesso degli altri trova un modo di guardare le cose che è differente, che è originale, perché questo fa parte di quello che si fa come studioso. Appunto, guardare le cose in modo differente.
Qui l’originalità sta appunto nel fatto di essere studioso. Ma bisogna essere umili in tutte e due le cose. Ossia non si deve credere che, perché uno vede certe cose, si deve fare in quel modo. Quello è sempre uno sbaglio. Basta dire che “posso portare qualche cosa alla mia corte perché ho maturato questa esperienza”, e quello che porto può essere davvero utile per la Corte.
È poi vero che un po’ ci si scherza su questi temi.
Ricordo che ad una mia lezione invitai Sonia Sotomayor, grande Giudice della Corte Suprema. In quella occasione lei ha parlato con i miei studenti a cui io avevo detto “guardate voi ragazzi diventerete nel futuro come la Sonia Sotomayor, sarete anche voi grandi personalità del diritto”. Questi ragazzini del primo anno non ci credevano ed avevano un po’ di paura.
Lei disse ai miei studenti: “Guardate quando ero qui studente di Guido tanti anni fa, avevo più paura di voi, ero una ragazzina che veniva dal Puerto Rico, non avevo niente, non avrei mai sognato. Ma invece è vero, questo è molto bello”. E poi ha aggiunto: “Ma guardate, anche lui ha dovuto imparare perché quando è diventato Giudice le sue prime sentenze erano scritte come se fossero articoli di professore! E ha imparato che infatti è un mestiere un po’ diverso!”.
Tutto questo mi ha divertito moltissimo, cara e bravissima persona, e perché c’è davvero tanto da imparare da tutti e due i mestieri, e questo è molto bello.
R. C. Molto bello…senti Guido, quanto ti manca l’Italia?
G. Calabresi Moltissimo!
Guarda, il fatto che ad ottobre saranno due anni che non siamo lì è una cosa che sia Anne, mia moglie, che io sentiamo moltissimo: e quindi abbiamo già fatto i biglietti per cercare di venire e fare il raccolto delle olive, alla fine di ottobre di quest’anno.
Tornare è una parte fondamentale di chi sono, ed è diventato una parte fondamentale di mia moglie che è la più vecchia Yankee che esiste; la prima persona a scendere dal Mayflower, e cinque streghe di Salem erano tutte antenate sue. Ma Lei ha capito che cos’è questo paese e cosa rappresentano questi rapporti personali.
Certe cose mediterranee, per esempio il fatto che si pensa che lo straniero può essere Apollo, e Isaiah, Cristo, e quindi deve essere accolto in un modo che nei paesi nordici non viene fatto, tante di queste cose sono diventate tanto parte nostra. E questo poi si vede anche nei rapporti personali. Tanti amici e persone che conosciamo di cui sentiamo la mancanza, ma c’è qualche cosa che c’è proprio nell’aria dell’Italia che è speciale, che è speciale!
E mi rende triste quando gli Italiani all’estero parlano male dell’Italia.
Sì, ci sono tante cose da criticare, ma il mondo poi crede a queste critiche, invece di poter capire quello che c’è che è così umano, così umano dell’Italia che è la cosa per cui ne sento la mancanza.
R. C. Ti manca…
G. Calabresi Sì quando c’è stata la finale del campionato europeo di calcio naturalmente ho guardato la partita con tutta la mia famiglia, tutti a urlare proprio perché era un modo…
R. C. …di sentirsi vicini…
Guido sei stato come immaginavo straordinario, ci hai dato e mi hai dato una grande grande emozione, nell’ascoltarti e nel vederti così giovane, giovane così quanto sarebbe bello vedere nelle personalità, nelle grandi personalità del nostro tempo questa vivacità, questa apertura, questa disponibilità che non solo, penso, tratteggia il Tuo animo italiano, ma è delle persone veramente grandi. Perché sono le persone grandi ad essere le più disponibili, aperte, umane, profonde come lo sei stato tu anche in questa occasione. Un’occasione, il nostro incontro, che in fondo per te non rappresenta nulla, invece per noi di Giustizia insieme è una cosa che rimarrà nei nostri ricordi e metteremo al servizio e all’uso di tutti i nostri lettori perché possano godere di quello che Tu oggi ancora rappresenti, in termini di profondità di pensiero, di orizzonti aperti capaci di scrutare anche oltre il quotidiano.
Speriamo che ci sia davvero l’occasione di incontrarci e di tornare a riflettere sui due volumi che hanno fatto da apripista a questa conversazione, piccoli fisicamente ma grandi perché hanno accompagnato tante generazioni di giuristi in un periodo difficile.
G. Calabresi Guarda il buon Dio mi ha dato moltissimo, una cosa che mi dà è ancora un’età notevole di essere ancora lì, se ci sono delle grane fisiche non sono quelle piccole grane che rendono la vita impossibile.
Finora quelle non ci sono, quanto durerà non lo so ma è un tale piacere potere fare quello che posso e poi con persone come te che fai così tanto di bene che sono io a ringraziarTi, grazie.
R. C. Guido, spero tu possa avvertire anche se in mezzo c'è l'Atlantico, il calore di un abbraccio forte. Grazie, da tutta Giustizia insieme.
G.Calabresi Arrivederci in Italia.
I pascoli di carta, la “mafia dei pascoli” e la giustizia lontana, A.Apollonio,Rubettino, 2020
Recensione di Alessandro Centonze
Sommario: 1. I pascoli di carta e la conferma letteraria di Andrea Apollonio. – 2. I fili narrativi del racconto e lo sguardo di Apollonio sulla “mafia dei pascoli” siciliana. – 3. La coralità narrativa del romanzo e la galleria dei personaggi de I pascoli di carta. – 4. L’ambientazione nebroidea-tirrenica del racconto che fa da sfondo alle indagini di Salvatori.
1. I pascoli di carta e la conferma letteraria di Andrea Apollonio
Andrea Apollonio è un magistrato salentino, poco più che trentenne, che, da qualche anno, svolge le funzioni di sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Patti, scelta quale prima sede di servizio dopo il superamento del concorso in magistratura, avvenuto nel 2018.
Andrea Apollonio è anche autore di saggi giuridici di contenuto prevalentemente penalistico ed è soprattutto, dal mio personale punto di vista di magistrato siciliano, rappresentativo di una figura professionale purtroppo in via di estinzione nel mondo giudiziario italiano: quella del giurista umanista.
Queste brevi premesse mi sembrano necessarie per inquadrare il suo ultimo romanzo, intitolato I pascoli di carta, da poco pubblicato dalla Casa editrice Rubettino, che fa seguito a precedenti cimenti letterari, con cui il giovane collega salentino ha fornito un’ulteriore conferma dei suoi talenti di giurista umanista.
I pascoli di carta, infatti, esprimono le due anime di Apollonio: quella del giovane e appassionato magistrato inquirente che presta servizio in un ufficio giudiziario siciliano di frontiera e quella del giurista colto e raffinato.
Di entrambe queste anime di Apollonio mi vorrei occupare in queste mie breve riflessioni, sottolineando gli aspetti della sua opera letteraria che meglio mettono in evidenza la sua personalità.
2. I fili narrativi del racconto e lo sguardo di Apollonio sulla “mafia dei pascoli” siciliana
Dopo queste brevi premesse, mi sembra opportuno evidenziare che I pascoli di carta, nella sua cornice nebroidea-tirrenica, è un romanzo riconducibile al filone giallo, di ispirazione cosmopolita, i cui punti di riferimento sono, fin dalle prime pagine, evidenti, richiamandosi l’autore, più o meno esplicitamente a Leonardo Sciascia e a Friedrich Dürrenmatt. I riferimenti letterari del romanzo, in realtà, sono molteplici e variamente disseminati nel corso della narrazione, insieme ad altre citazioni cinematografiche e pittoriche; ma certamente Leonardo Sciascia e a Friedrich Dürrenmatt costituiscono i più evidenti punti di riferimento della trama narrativa del giallo nebroideo-tirrenico dell’autore.
Con Leonardo Sciascia e Friedrich Dürrenmatt, infatti, Andrea Apollonio condivide la scelta di utilizzare il giallo come metodologia narrativa, allo scopo di descrivere i malesseri e il malcostume di una società periferica e sconosciuta al grande pubblico – quale è quella siciliana nebroidea-tirrenica –, ma senza farsi condizionare dalla ricerca di un colpevole, che, ai fini del disvelamento della trama, assume un rilievo non decisivo. Il romanzo di Apollonio, infatti, come il Giudice e il suo boia e la Promessa di Friedrich Dürrenmatt ovvero Il contesto e Todo modo di Leonardo Sciascia è sostanzialmente un giallo incompiuto o meglio un giallo dove il contesto noir, essendo lo strumento utilizzato per descrivere i malesseri e il malcostume dell’area geografica in cui Salvatori opera professionalmente, è più importante dell’individuazione del colpevole, che, ai fini della ricostruzione della trama narrativa, assume un rilievo secondario; allo stesso modo di quanto avviene nei romanzi di Sciascia e Dürrenmatt che si sono citati, che rappresentano una variante, quasi parodistica, dei romanzi gialli.
In questa cornice letteraria si inseriscono le vicende del pubblico ministero Salvatori – che è chiamato per tutto il racconto con il solo cognome, del quale l’autore salentino fornisce solo alcune, vaghe, indicazioni personali –, che, quale magistrato della Procura della Repubblica di Pasicò, si trova a indagare sul duplice omicidio Trisotta-Carino, verificatosi ad Alzapietra, a margine dei lavori di contenimento di una parete rocciosa, svolta dall’impresa del commendatore Rosello; cognome, quest’ultimo, che, all’evidenza, richiama uno dei personaggi de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, rendendo ancor più evidente la matrice letteraria e culturale del racconto.
In realtà, le indagini sul duplice omicidio Trisotta-Carino sono precedute da un altro episodio delittuoso, costituito dal ritrovamento di un messaggio di contenuto intimidatorio trovato all’interno del cantiere edile del commendatore Rosello, anche se tale rinvenimento costituisce una sorta di prologo narrativo finalizzato a introdurre i protagonisti del racconto di Andrea Apollonio.
A margine di questi lavori edili, vengono uccisi l’ingegnere Trisotta e Carino – un grosso commerciante di carni locali, con dei piccoli precedenti in materia di macellazione abusiva –, i cui cadaveri vengono trovati in un appezzamento di terreno di Alzapietra.
Di questi due omicidi Salvatori comincia a occuparsi quale pubblico ministero di turno, oscillando, fin da subito, tra due tesi differenti, ma, in qualche modo collegate; la prima è quella che vede Trisotta come obiettivo dell’agguato; la seconda, invece, è quella che vede Carino come obiettivo dell’attentato; in entrambi i casi a questi omicidi sembrano fare da sfondo gli interessi della criminalità mafiosa locale, che, di volta in volta, avvicina e allontana il protagonista alla verità, come in una sorta di andirivieni narrativo che, in qualche modo, riecheggia la prima parte dello sciasciano A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia, espressamente citato in alcuni punti del racconto.
La presenza incombente della criminalità mafiosa, del resto, sembra fare da sfondo anche a un terzo episodio delittuoso, verificatosi in concomitanza con il duplice omicidio Trisotta-Carino, costituito dall’attentato in danno del dottor Guarreri, il sindaco del centro nebroideo di Portorisi, che, in un primo momento, sembra collegato al duplice omicidio, che costituisce il nucleo centrale della trama de I pascoli di carta.
Con il procedere del racconto, però, si scopre che gli episodi delittuosi su cui Salvatori si trova a indagare riguardano un tipo di criminalità organizzata diversa da quella nota a tutti i siciliani, collegata alla presenza opprimente ed egemonizzante di Cosa Nostra, che è la “mafia dei pascoli” nebroidea.
La “mafia dei pascoli” nebroidea è quella che si sviluppa nelle vaste aree destinate a pascolo dei Monti Nebrodi, coinvolgendo interessi misconosciuti ma di grande rilievo economico, collegati alla gestione dei grandi allevamenti di bovini e alla percezione degli ingenti finanziamenti comunitari, concessi alle imprese zootecniche della zona. Quest’ultimo filone investigativo, infine, assumerà un rilievo decisivo per comprendere in quale contesto erano maturati gli omicidi indagati da Salvatori, anche se, per ovvie ragioni, non ritengo opportuno anticipare al lettore gli sviluppi finali della trama del romanzo di Apollonio, pur dovendosi precisare che tale passaggio della narrazione viene affrontato dall’autore in modo originale.
La “mafia dei pascoli”, dunque, è il vero protagonista del romanzo di Apollonio, che così viene descritta in uno dei tanti colloqui che Salvatori intrattiene con il maresciallo dei carabinieri di Alzapietra, che indaga sul duplice omicidio Trisotta-Carino; così, in particolare, il sottufficiale dell’Arma, rivolgendosi al giovane magistrato pavese, definisce tale, misconosciuta, forma di criminalità organizzata nebroidea legata alla gestione delle imprese zootecniche locali: «Questa è un’altra mafia. Molto meno raffinata, più animalesca, che puzza di terra. Che viole prendersi i pascoli con la violenza, l’intimidazione, l’inganno. Che il grande pubblico scopre, che i grandi giornali nazionali scoprono, solo nel momento in cui alza la testa e attacca un uomo dello Stato, un sindaco […]» (p. 166).
Ed è questa una forma di criminalità organizzata che Apollonio riesce a descrivere, forte delle sue conoscenze professionali, in termini esemplari, collegandone l’operatività e la continua espansione criminale alla gestione illecita degli ingenti finanziamenti comunitari erogati alle imprese di allevamento di bestiame nebroidee; gestione illecita che dà il titolo alla sua opera narrativa. Nello stesso contesto espositivo sopra richiamato, il maresciallo dei carabinieri che collabora alle indagini coordinate da Salvatori afferma: «La gran parte sono pascoli di carta. Le bestie, i terreni, esistono solo sulla carta. Basta poco, basta indicare su un pezzo di carta di fare pascolo su determinati terreni, magari con la complicità di un notaio che certifica e di un funzionario che registra, e il gioco è fatto. Le domande vengono inoltrate dai centri assistenza, che ovviamente non si accorgono delle irregolarità o delle anomalie nella documentazione presentata […]» (p. 166).
Ed è ancora, in questo ambito, che gli uomini politici che, come il sindaco di Portorisi, il dottor Guarreri, vogliono contrastare questi centri illeciti di interesse – troppo lontani dalle attenzioni dei grandi investigatori isolani – vengono aspramente contrastati, sul piano politico e sul piano personale. Anche in questo caso, a ben vedere, Apollonio riecheggia episodi di cronaca, ponendo, tra l’altro, in luce l’eterno dilemma che attraverso la società civile siciliana, perennemente in bilico tra un’antimafia di “sostanza”, rappresentata dallo stesso Guarreri e un’antimafia “di facciata”, spesso inquinata da interessi mafiosi, rappresentata da Carminio Ragusano, le cui vicende giurisdizionali fanno da sfondo alle indagini di Salvatori.
3. La coralità narrativa del romanzo e la galleria dei personaggi de I pascoli di carta
Dopo avere descritto il contesto socio-culturale nel quale si inseriscono le indagini condotte da Salvatori, mi sembra opportuno concentrarmi su quelle che, a mio avviso, sono le due più evidenti connotazioni stilistiche del romanzo di Apollonio, rappresentate dalla coralità della narrazione e dall’ambientazione nebroidea-tirrenica del racconto, nella quale si sviluppano le investigazioni dal giovane magistrato pavese condotte sul duplice omicidio Trisotta-Carino.
Per la verità, I pascoli di carta, in senso stretto, non è un romanzo corale, essendo incentrato su alcuni personaggi-chiave del racconto e su una trama narrativa lineare, che costituisce uno dei punti di forza del racconto.
Apollonio, però, utilizza una tecnica del tutto originale, polifonica, inserendo nel racconto alcune riuscite figure minori, che, da una parte, gli servono per descrivere, con uno sguardo apparentemente obliquo, il mondo giudiziario nel quale opera Salvatori, dall’altra, sono funzionali a raccontare il modo di approcciarsi del giovane magistrato pavese a una realtà periferica e misconosciuta, quale è quella nebroidea-tirrenica, al contempo atipica e affascinante.
Per queste, concomitanti, ragioni, la galleria di personaggi giudiziari che ne viene fuori, fin dalle prime pagine del romanzo è davvero riuscita; mi limito, qui di seguito, a citare le figure più rappresentative della tecnica narrativa polifonica utilizzata dal nostro autore per descrivere l’ambiente giudiziario nebroideo-tirrenico dove opera il protagonista de I pascoli di carta.
Cominciamo dal maresciallo della Stazione dei carabinieri di Alzapietra che indaga sul duplice omicidio Trisotta-Carino – con una lunga esperienza nell’antimafia “alta”, quella delle direzioni distrettuali antimafia, ripetutamente sbandierata a Salvatori –, che, in qualche modo, ricorda le figure di sottufficiali dei carabinieri descritte nei racconti di Mario Soldati o nei romanzi di Andrea Vitali.
Riuscita è anche la descrizione del procuratore della Repubblica di Pasicò, un sessantenne triestino malamente divorziato, precipitato in Sicilia quasi per caso e poco pratico di cose siciliane, che, pur sembrando ostile, alla fine, avrà un occhio benevolo e comprensivo nei confronti di Salvatori, per ragioni che non ritengo opportuno svelare.
Accennata, ma efficace, è la figura del procuratore del capoluogo della provincia di Pasicò, che interviene tronfiamente dopo l’attentato al sindaco Guarreri, per avvisare, con modi spicci e sbrigativi, che dell’episodio delittuoso si sarebbero occupati i pubblici ministeri della sua direzione distrettuale antimafia, competenti territorialmente; intervento che viene descritto con toni che sembrano esprimere una velata critica alla distinzione tra “giustizia di mafia” e “altra giustizia”, sempre più dominante nel mondo giudiziario italiano. Mi sembra utile, in questo senso, richiamare il passaggio della narrazione che riguarda il procuratore del capoluogo in questione, in cui si afferma: «Salvatori non aveva molta esperienza di coordinamento tra uffici, ma riusciva a capire da sé, che una decisione di quel tipo […] doveva essere quantomeno concordata con il procuratore, quello di Pasicò […]» (p. 77).
Proseguendo in questa carrellata di personaggi giudiziari della narrazione di Apollonio, ritengo utile richiamare la figura di Carminio Ragusano – il protagonista dell’antimafia “di facciata” della narrazione – così descritto dall’autore: «Era un signore sulla sessantina, dai capelli grigi e innaturalmente lucidi; gli occhiali di fine montatura dorata non riuscivano a nascondere sguardi carichi di intelligenza. Per il pizzetto candido sul mento che, di tanto in tanto, lisciava, e l’ampio arco sopraciggliare, ma anche per i lineamenti levantini, ricordava la figura del Caravaggio […]» (pp. 91-92).
Infine, non si può non concludere questa panoramica sui personaggi giudiziari di Apollonio che con il riferimento al procuratore generale Ficarra, un magistrato in pensione che aveva operato in un’importante città siciliana, che, con il suo comportamento ambiguo, dà un decisivo impulso alla narrazione, fino all’inaspettata conclusione del racconto. Così, in particolare, viene descritto il vecchio, luciferino, magistrato in pensione: «L’uomo – a dispetto della sua età – era un magistrato da poco in pensione, che – adesso lo ricordava – nei suoi ultimi anni di carriera era stato procuratore generale in una grande città siciliana. Voleva dire che era stato uno dei più alti magistrati inquirenti della Sicilia, anche se molto chiacchierato. Si diceva infatti che aveva preso parte a una cena con Oronzo Bontempo, anche definito “il papa dei Nebrodi” per via della sua influenza quasi religiosa su tutti i comuni nebroidei: anche lui anziano, sulla settantina, imperversava soprattutto nel mondo mafioso degli anni Novanta ed era stato alleati dei corleonesi […]» (p. 147).
4. L’ambientazione nebroidea-tirrenica del racconto che fa da sfondo alle indagini di Salvatori
Mi sembra utile, a questo punto, concentrarmi su un’altra connotazione stilistica della narrazione di Apollonio, soffermandomi brevemente sull’ambientazione nebroidea-tirrenica de I pascoli di carta, che fa da sfondo allo sviluppo delle indagini condotte dal magistrato pavese sul duplice omicidio Trisotta-Carino.
L’ambientazione nebroidea-tirrenica, in realtà, è una delle caratteristiche più originali di un’opera narrativa davvero notevole; caratteristica che risalta ancora di più alla luce del fatto che l’area nebroidea-tirrenica, nonostante la sua bellezza, è poco praticata dalla letteratura siciliana.
A dire il vero, ci sono alcuni autori anche importanti – come Vincenzo Consolo, Bartolo Cattafi e l’inarrivabile Stefano D’Arrigo – che si sono occupati di quest’area, ma, sinceramente, nessuno di loro è riuscito a raccontare tale zona, al contempo montana e marittima, con l’efficacia descrittiva del nostro autore; e lo stesso D’Arrigo, che pure ha descritto con incomparabile efficacia il mondo dei pescatori tirrenici, non si è occupato dell’area montana, quella propriamente nebroidea, che rappresenta – come abbiamo detto – il bacino geografico nel quale si verificano gli episodi delittuosi narrati ne I pascoli di carta.
L’autore, tuttavia, si muove in questo contesto geografico in modo non convenzionale, utilizzando una tecnica descrittiva originale, che mescola indicazioni geografiche reali, come, a titolo meramente esemplificativo, quelle di Alcara Li Fusi, Floresta, Capo d’Orlando, San Fratello, Capizzi, Cesarò, Troina, Capizzi, a indicazioni fantasiose come Pasicò, Portorisi e Alzapietra, creando un’area geografica e topografica al contempo vera e fittizia, dando vita a un universo letterario originale, che, a mio parere, costituisce uno degli elementi di maggiore interesse della narrazione.
Ne viene fuori un mondo geografico e letterario funzionale alla descrizione delle indagini condotte da Salvatori, ma, in qualche modo, autonomo rispetto ai suoi protagonisti, che diventa esso stesso uno dei protagonisti della trama romanzesca de I pascoli di carta, dove la Sicilia narrata emerge come un luogo atipico, montano e marittimo; aspro come le montagne nebroidee e dolce come le coste tirreniche dove abita il magistrato pavese.
Dopo essermi soffermato su questo ulteriore elemento di originalità de I pascoli di carta, mi resta soltanto di consigliare a tutti i lettori – che mi auguro siano tanti – di immergersi nella lettura di questo riuscito romanzo sulla Sicilia nebroidea-tirrenica, guidati da Apollonio.
Dubbi molto ragionevoli di Giorgio Spangher
Se c’è una notizia di reato, cioè di un fatto sussimibile in una fattispecie incriminatrice, si avvia un procedimento per verificare se quel fatto di cui alla notizia configura o meno un reato.
Qualora la notizia si configuri come un fatto non riconducibile ad una ipotesi criminosa, si procede alla cestinazione (autoarchiviazione); dal registro notizie non reato non parte nessun procedimento.
Quando per quella notizia di reato viene formulata una imputazione si sviluppa un processo teso ad accertare la presenza o meno di un reato.
Ogni qual volta nel corso del procedimento o del processo si accerta che quel fatto di cui alla notizia non si configura come reato, il procedimento, con i vari provvedimenti previsti dalla legge, si arresta (archiviazioni e varie decisioni in relazione alle diverse fasi e gradi).
Il dato emerge con chiarezza dall’art. 129 c.p.p.: obbligo dell’immediata declaratoria delle cause di non punibilità e soprattutto del suo secondo comma.
In alcuni casi, il legislatore pur a fronte di una notizia di reato (da verificare) richiede la presenza di un elemento aggiuntivo per poter avviare il procedimento (si pensi alle due situazioni di Salvini in relazione alla presenza o meno dell’autorizzazione a procedere).
Anche se emerse nel corso del procedimento, il riconoscimento di una condizione di procedibilità retroagisce all’origine (reato ritenuto procedibile d’ufficio; derubricazione anche in Cassazione; declaratoria di improcedibilità e travolgimento di tutto quanto si è fatto).
E’ vero che solo la decisione definitiva chiarisce se un fatto è o non è reato, ed infatti gli effetti della decisione intermedia sono sospesi durante il termine per impugnare e durante l’impugnazione, sia che si tratti di condanna, sia che si tratti di proscioglimento.
Diverso è il caso nel quale lo sviluppo del procedimento e del processo si imbatta nell’operatività del novellato art. 344 bis c.p.p.
In questo caso, il provvedimento e il processo iniziano e si avviano senza preclusioni; il giudice può decidere tutto quanto previsto dalla legge, il processo si può concludere regolarmente; come ogni altro processo.
Non saremo in presenza di un reato (come sostenuto da qualcuno), ma qualcosa ci sarà pure, se può essere applicata una misura cautelare, possono essere fatte intercettazioni, disposti sequestri e perquisizioni, decise provvisorie esecuzioni civili, confische e quant’altro.
Con la nuova previsione si stabilisce che se il giudizio d’appello o quello di cassazione non vengono definiti nei termini fissati dal legislatore il giudice deve dichiarare con sentenza l’improcedibilità (dell’azione penale!); invero più che di una improcedibilità sembrerebbe trattarsi di una improseguibilità.
Non è questa l’occasione per una disgressione ed un approfondimento sugli elementi di dettaglio della norma (peraltro problematici): tempi differenziati in relazione alla gravità dei reati, nonché indifferenti a quelli delle fasi precedenti; proroghe, numero delle stesse e soggetto che le dispone; limiti alla tutela degli interessi civili; incertezza sull’operatività della previsione alle impugnazioni delle sentenze di non luogo e dell’appello della parte civile per i soli interessi civili; individuazione del termine a quo in caso di conversione del ricorso nonché dell’annullamento con rinvio e quant’altro previsto dalla riforma.
Considerati gli effetti della decisione deve riconoscersi che quel fatto non è né reato, né non reato, non c’è né condanna, né proscioglimento, perché la precedente decisione è comunque travolta dalla nuova. Il soggetto sottoposto a misura cautelare non avrà diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, eventualmente patita. Forse l’imputato potrà avvalersi della l. Pinto, limitatamente alla fase delle impugnazioni. Vengono meno le misure cautelari personali e reali (anche quelle a favore della vittima); nessuna decisione sul querelante; si caducono i provvedimenti civili provvisoriamente esecutivi. L’inammissibilità prevarrà sulla improcedibilità! Quale valore ha il materiale probatorio in un diverso procedimento?
Qualche “toppa” parziale si potrebbe porre con l’inserimento di un terzo comma dell’art. 129 c.p.p.
La questione che allora si pone riguarda il riconoscimento di una copertura costituzionale o sovranazionale alla previsione ovvero il suo contrasto con le stesse previsioni o con altre disposizioni sovraordinate.
Non è poi questa l’occasione per considerare altresì se la improcedibilità possa riguardare solo lo sforamento dei termini di alcune fasi (come nel caso di specie, le impugnazioni) ovvero debba coinvolgere, per essere legittima, tutte le fasi del procedimento, nella previsione dei rispettivi termini di durata.
Per legittimare la scelta normativa, sembrerebbe agevole il richiamo alla durata ragionevole del processo.
La durata ragionevole è un elemento – importante – del giusto processo, ma non è l’unico, dovendosi integrare con gli altri elementi che connotano un processo equo.
Indubbiamente il tempo nel processo incide sotto vari profili (tempo delle indagini, tempo per lo svolgimento delle attività processuali; impugnazioni, misure cautelari). Si tratta di un ruolo non secondario, ma che non può non spingersi fino ad annullare completamente il diritto delle parti e della vittima, ad ottenere una decisione, nonché il diritto-dovere del giudice di pronunciarsi.
Se appare corretto ritenere che il decorso del tempo possa togliere offensività ad un fatto di reato - se il fatto non è offensivo prevale l’esclusione della sua configurabilità come del fatto di reato – può lo stesso dirsi che il tempo del processo possa togliere ogni valutazione sulla natura o meno di un fatto di reato (senza neppure una valutazione che si possa escludere che si tratti di un fatto di reato).
Se qualcosa si cerca di salvare agli effetti civili (con differenza rispetto alla prescrizione sostanziale: C. cost. n. 182 del 2021) ma è dubbio che ciò sia possibile, nulla si salva agli effetti penali.
L’esercizio della giurisdizione è una delle attività essenziali e strutturali di una società e di uno Stato che non può essere pregiudicata o addirittura azzerata da elementi che ne devono connaturare l’esercizio, sicchè pur dovendosi misurare non essi in termini qualitativi e quantitativi, questi elementi non possono prevalere su di essa, ma possono essere suscettibili di rimedi compensativi, proporzionati alla lesione che si è determinata.
Anche riconoscendo che l’imputato può rinunciare all’improcedibilità, l’opzione non opera, né per il p.m., né per la parte civile, né per la persona offesa, né per il giudice.
Non sembra allora azzardato sostenere che quanto detto metta in seria discussione il principio di effettività della tutela e della stessa giurisdizione di cui anche all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove la durata ragionevole si configura come un elemento della stessa, unito, tuttavia, ad altre connotazioni, del pari dell’art. 111 Cost.
E’ vero che spetta allo Stato assicurare l’efficienza delle sue funzioni – giustizia inclusa (nonostante le riserve sull’art. 97 Cost.) – ma quale può essere – se può essere – il limite non superabile oltre il quale, cioè, anche i rimedi compensativi (riduzioni di pena e/o indennizzo) possano essere ritenuti inadeguati.
Il dramma dell’Afghanistan: è fallita l’esportazione della democrazia o il sistema internazionale dei diritti umani?
di Tania Groppi
Le drammatiche scene che ci arrivano da Kabul dopo la rapidissima presa del potere da parte dei talebani seguita al ritiro delle truppe occidentali ci colpiscono e ci interpellano, su tanti piani.
Come costituzionalista, spesso impegnata con organizzazioni internazionali e non governative in attività di “institution building”, avverto ancora una volta quel che spesso ho vissuto di persona, sul campo.
Ovvero la difficoltà – che in certi casi diventa impossibilità – di dare, arrivando dall’esterno, come alieni che vengono da terre lontane, un contributo per la creazione, e soprattutto la stabilizzazione, di istituzioni democratiche in contesti altamente conflittuali, culturalmente complessi e assai distanti da quell’Occidente nel quale la democrazia costituzionale è nata e si è sviluppata.
Possiamo trovare innumerevoli spiegazioni per lo sgretolamento delle istituzioni afghane, costruite con gran dispendio di consulenze, soldi, energie, e vite umane, in questi ultimi venti anni.
Spiegazioni legate a vizi di origine, a quella ‘esportazione della democrazia’ con le armi che ha connotato l’amministrazione Bush; alle peculiarità dello scenario afghano, con le sue turbolente tribù; alla geografia di quell’angolo di mondo, tra alte montagne; alla geopolitica, che ne fa un crocevia di interessi di potenze regionali e mondiali fin dall’epoca del “Grande gioco” che vedeva protagoniste la Russia Zarista e l’Impero britannico; e poi c’è sempre lui, l’Islam, con tutto quel che ne deriva quanto al rapporto con la modernità, diritti umani e democrazia inclusi.
È innegabile: ci sono molteplici fattori locali dietro al fallimento del tentativo di creare una democrazia costituzionale in Afghanistan. Tentativo che c’è stato, che non possiamo cancellare, nonostante le parole pronunciate dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nella conferenza stampa del 16 agosto, con le quali ha smentito che gli Stati Uniti abbiano mai cercato di costruire una democrazia (“a unified, centralized democracy”), in quella che, secondo Biden, sarebbe stata soltanto una missione antiterrorismo, senza alcuna finalità di “nation-building”. Tentativo nel quale anche l’Italia è stata impegnata in prima linea (con interventi finalizzati al “ristabilimento dello Stato di diritto”, tra i quali quelli di ‟riabilitazione e sostegno al sistema giudiziario e penitenziario afghano”) e che ha viste coinvolte tante persone di buona volontà, tra esse molti giuristi, chiamati a formare il personale giudiziario, delle amministrazioni pubbliche, specialmente le donne, a dare pareri su progetti di legge, a collaborare con università e centri di ricerca.
Tuttavia, nonostante le peculiarità della situazione afghana, ritornano – e ancora una volta con sofferenza, impotenza e finanche vergogna – gli interrogativi che sempre accompagnano, anche in altri scenari, in altre remote e meno remote parti del mondo, questo tipo di attività. E che ci riportano ai fondamentali del diritto comparato, ai “legal transplants”, all’ “import-export” degli istituti giuridici, alla grande “IKEA del diritto comparato”, alla circolazione dei modelli e, infine, alla diffusione globale del costituzionalismo, secondo un sogno accarezzato dopo il 1989. E, ancora più a monte, a riflettere sull’impatto della storia, della cultura, delle tradizioni, dei “costumi” avrebbe detto Montesquieu, su quelle fragili sovrastrutture che sono istituzioni e diritto. Sull’esistenza di uno strato profondo che lega popoli e paesi al loro passato, come un destino già scritto e inscalfibile.
È possibile cambiare, per le nazioni? Uscire da secoli o millenni di violenza e povertà? Quali fattori possono innescare un cambiamento? Che ruolo può avere, in tutto ciò, il diritto? Quanto, e come, si può contribuire dall’esterno a questi processi? Temi e domande sui quali offre spunti di grande interesse, accompagnati da diversi esempi, Jared Diamond, nel suo libro dal titolo (italiano) “Crisi. Come cambiano le nazioni”.
Ma non finisce qui. Se l’institution building è un’attività estremamente complessa e delicata, i cui esiti sono legati a molteplici fattori, purtroppo assai poco controllabili, il dramma che stanno vivendo in questo momento in Afghanistan tante persone, bambini, donne e uomini, ci porta su un altro piano, ovvero quello della garanzia dei diritti umani.
È questo l’altro pilastro del “mondo nuovo” che si è cercato di costruire dopo la Seconda Guerra Mondiale. Accanto alla democrazia costituzionale, chiamata ad esplicarsi a livello nazionale, si è avviata la creazione di un sistema internazionale di tutela dei diritti umani, intesi come diritti universali, che non possono dipendere dalla sovranità di alcuno Stato. Un sistema che ha il suo perno nelle Nazioni Unite e nella Dichiarazione Universale dei diritti umani, una dichiarazione che fu scritta, come ci ricorda il bellissimo libro di Mary Ann Glendon (“Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la Dichiarazione Universale dei diritti umani”) con il contributo di tutte le culture e le religioni, attraverso una convergenza assai più ampia dell’area comunemente ricondotta alla nozione di Occidente.
Nel dramma degli afghani, e soprattutto in quello che stanno vivendo in queste giornate di incertezza e paura le donne e i difensori dei diritti umani, la vera grande domanda (e, purtroppo, il dramma nel dramma) è: “dove sono le Nazioni Unite?”. La risposta è un grande vuoto, una grande impotenza, un grande silenzio. Un silenzio inaccettabile.
Se “l’esportazione della democrazia”, fosse pure al fine di costruire un’attiva società civile o di tutelare il rule of law, può essere in ogni momento tacciata di colonialismo culturale, così non è per i “diritti umani universali”, sui quali non è possibile ammettere eccezioni. Ecco, mi pare che non abbiamo molta scelta, e che da lì occorra ripartire. In Afghanistan e qui da noi. Per gli afghani in Afghanistan e per quelli che dovranno lasciare il loro paese. Per tutti coloro ai quali, ovunque nel mondo, sia impedito “l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (per usare le parole dell’art. 10, comma 3, della Costituzione).
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