ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
A chi spetta dire la parola “Fine”: commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre 2021 in materia di fine vita
di Daria Passaro
Sommario: 1. Il filo sottile della vita di Samantha D’Incà. Liberi di scegliere “un atto d’amore” - 2. Commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre 2021. Fondamento normativo-giurisprudenziale e riflessioni a margine - 3. Note di aggiornamento in tema di fine vita: l’autorizzazione al primo suicidio assistito in Italia tra innovazione e incertezze applicative.
1. Il filo sottile della vita di Samantha D’Incà. Liberi di scegliere “un atto d’amore”
La materia del fine vita, vista al microscopio, si presenta come una fitta rete di pronunce giurisprudenziali, timide disposizioni legislative, innumerevoli casi pratici sottoposti al vaglio del giurista, della politica, della religione, della bioetica e dell’opinione pubblica. Dietro queste maglie c’è la vita appesa a un filo di pazienti la cui sorte è “rimessa”, in qualche modo, al ruolo dei giudici che, nella perdurante assenza di un’esauriente legge sul punto, all’occasione sono chiamati a dettare la “giustizia sostanziale” del caso concretamente rivolto alla loro attenzione.
Alle spalle della pronuncia del Tribunale di Belluno, intervenuta lo scorso 4 novembre, risiede la storia di fine vita di Samantha D’Incà, una giovane di appena trent’anni in condizione di coma irreversibile dal 6 dicembre 2020, a seguito di grave infezione batterica successiva ad un intervento di routine per una banale rottura di femore. Samantha attualmente vive attaccata a una macchina in una Rsa di Belluno, secondo il parere dei medici senza alcuna concreta possibilità di miglioramento delle prospettive di vita.
La condizione di Samantha ha spinto i genitori a chiedere la nomina urgente di un amministratore di sostegno chiamato a compiere le valutazioni relative ai trattamenti sanitari necessari per la sua sopravvivenza.
Precisamente, il padre Giorgio ha chiesto di assumere la nomina di amministratore in favore della figlia, con l’espresso potere di rifiutare per conto di lei le cure di mantenimento in vita - ivi comprese la nutrizione e/o idratazione artificiale - nonché di assumere le determinazioni del caso in ordine alla sedazione palliativa profonda associata alla terapia del dolore.
L’iter intrapreso dai familiari ha richiesto, ai fini di una completa valutazione da parte del Tribunale di Belluno, l’acquisizione di considerazioni qualificate da parte di specialisti in materia, tra i quali figura il Prof. Leopold Saltuari dell’Università di Innsbruck, chiamato a relazionare in ordine alle potenzialità riabilitative della beneficiaria. Il dott. Saltuari ha chiarito come la remissione ad una condizione di autonomia debba escludersi con convinzione, lo stato di coscienza di Samantha dovendosi qualificare come status vegetativo di vigilanza privo di coscienza.
Alla medesima conclusione è pervenuta, in seguito alle osservazioni eseguite presso l’Ospedale di Vipiteno nell’agosto 2021, la dott.ssa A. Alibrandi sull’invariabilità della diagnosi relativa al disturbo di coscienza, ribadendo l’impossibilità di formulare ipotesi prognostiche favorevoli a un recupero funzionale.
Nel settembre 2021, è infine intervenuto sulla questione il Comitato Etico per la Pratica Clinica dell’U.L.S.S. n. 1 Dolomiti, precisando che Samantha, nutrita artificialmente mediante una sonda inserita nello stomaco attraverso la parete addominale (PEG), ormai non risponderebbe a stimoli né verbali né visivi.
Rebus sic stantibus, considerata la probabilità del verificarsi di complicanze e di una mancata risposta alle terapie messe in atto, il Comitato ha espresso l’opportunità di procedere alla sedazione palliativa profonda, palesando la necessità di nominare un amministratore di sostegno chiamato a prestare il necessario consenso informato sul punto. La condizione clinica descritta e l’analisi dei profili bioetici emergenti suggerirebbero, a ben vedere, di non escludere una desistenza dal trattamento di nutrizione artificiale, supportata da un necessario percorso palliativo, dietro necessaria condivisione con i familiari e con l’amministratore di sostegno da nominarsi.
In ogni caso, per quanto afferisce alla ricostruzione delle volontà della donna, in linea con quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017 e dai principi stabiliti dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 21748/2007, il Comitato ha sottolineato la necessità di procedere ad una ricostruzione quanto più solida e genuina possibile, mediante l’analisi complessiva di tutti gli elementi utili.
Sulla base delle intervenute determinazioni qualificate, il padre di Samantha ha rinnovato la richiesta di essere nominato amministratore di sostegno in favore della figlia, con espressa attribuzione del potere di assumere le decisioni e prestare il consenso idoneo a interrompere le attuali terapie ed i trattamenti di sostegno vitale. Il consenso rileverebbe altresì per selezionare, di concerto con i medici, le modalità di sospensione di tali trattamenti e di sedazione palliativa profonda, alla luce del quadro clinico e del parere del Comitato Etico.
Ebbene, dopo quasi un anno in stato vegetativo, con la pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre - nella forma di un decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno in capo al richiedente - si è definita la vicenda giudiziaria della trentenne di Feltre, il tribunale autorizzando il padre a “staccarle la spina”, previo parere dei medici.
Per meglio dire, sebbene il giudice tutelare chiarisca che la decisione sul fine vita per Samantha debba essere in concreto assunta dai medici - melius dietro loro parere - non può non intravedersi nel provvedimento in esame una delibera dalla portata storica, rivoluzionaria perché dimostra che anche senza disposizioni scritte le volontà possono e devono essere rispettate. Una decisione pronta a tenere vivo il dibattito sulla complessa questione del fine vita, vieppiù in considerazione delle sopraggiunte novità in tema di autorizzazione al suicidio assistito.
La decisione del Tribunale di Belluno rimbomba nelle parole dei familiari di Samantha, memori della solidarietà manifestata dalla figlia nei noti casi di fine vita di Eluana Englaro e Dj Fabo, e a tutti gli effetti appare come la concessione di un “atto d’amore”, la libertà di scegliere la fine quando “la vita in un letto, tra dolori e sofferenze, non è più vita, non è dignità, ma soltanto patimento”.
2. Commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno: fondamento normativo-giurisprudenziale e riflessioni a margine
Il percorso argomentativo intrapreso dal Tribunale di Belluno nella vicenda giudiziaria di Samantha D’Incà si pone a conclusione di una minuziosa disamina delle disposizioni normative e delle chiarificazioni giurisprudenziali sul punto.
Il giudice di Belluno, in prima battuta, evidenzia che la legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – attuativa dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea – tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona, stabilendo che nessun trattamento sanitario possa essere iniziato o proseguito senza il consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. A tal fine, sono considerati trattamenti sanitari- in quanto tali rinunciabili- anche la nutrizione e idratazione artificiali, consistendo nella somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.
La possibilità che ad assumere tali determinazioni sia un amministratore di sostegno sorge all'art. 3, comma 4, della stessa legge, disponendo che, nel caso in cui sia stato nominato un ads la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’ads ovvero solo da quest'ultimo, purché si tenga conto della volontà del beneficiario, in riferimento al suo grado di capacità di intendere e di volere.
Nondimeno, un evidente limite al raggio di azione dell’amministratore è sancito al comma 5, che precisa che, qualora l’ads, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), rifiuti le cure proposte mentre il medico le ritenga appropriate e necessarie, la decisione debba essere rimessa al giudice tutelare.
A tal riguardo, il Tribunale rinvia alla sentenza della Corte Costituzionale 13 giugno 2019, n. 144, che ha chiarito come l’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, non consenta di affermare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi ex se, automaticamente e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Lungi da qualsivoglia automatismo, le norme sopra menzionate si limiterebbero a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere, spettando solo al giudice tutelare, in ogni caso, attribuirglielo in occasione della nomina, sempre che in concreto ne ricorra l’esigenza. Detta prerogativa in capo al giudice tutelare comporta che lo stesso verifichi la sussistenza di condizioni di salute tali da rendere necessaria una decisione sull’accettazione ovvero il rifiuto dei trattamenti sanitari di sostegno vitale.
La questione in esame, in linea con l’analisi del giudice di Belluno, si inquadra pacificamente in una nuova dimensione del concetto di salute, da intendersi non come mera assenza di malattia, bensì come stato di completo benessere psico-fisico. Ed è in questo contesto che la giurisprudenza richiamata dal Tribunale afferma la necessità che il consenso all’interruzione dei trattamenti sanitari, manifestato dal “rappresentante legale” del soggetto incapace, sia effettivamente espressivo della volontà dell’interessato.
Invero, la volontà del paziente deve ricostruirsi sulla base delle sue precedenti dichiarazioni e della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti etico-religiosi, risultanti da elementi di prova chiari, univoci e convincenti, affinché sia garantita una decisione nell'esclusivo interesse dell'incapace. Si tratterebbe, dunque, della ricerca del best interest, l’ads dovendo assumere le decisioni non "al posto" dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace, ricostruendo quanto più minuziosamente possibile la presunta volontà del paziente prima di cadere in stato di coscienza.
Una ricerca di notevole complessità, che mira a indagare i desideri espressi dal paziente prima della perdita della coscienza ovvero a desumere la volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
Forte di tali precedenti giurisprudenziali, il giudice di Belluno ha ribadito la necessità – in assenza di espresse Disposizioni Anticipate di Trattamento redatte nelle forme previste dall’art. 4 della legge 22 dicembre 2017 n. 219 – di procedere alla ricostruzione della volontà di Samantha, sulla base delle dichiarazioni rese dai familiari dell’interessata nel corso del procedimento.
Sul punto, il padre della beneficiaria ha riferito la ferma volontà di Samantha, emersa limpidamente nel corso della vita vissuta accanto alla famiglia, di non essere lasciata in condizioni di coma nel caso in cui si fosse trovata tenuta in vita da macchinari, in assenza di una possibilità di risveglio; in spregio a qualsiasi accanimento su chi non è in grado di esprimere la propria volontà. Un trattamento di questo tipo, nella ricostruita volontà di Samantha, sarebbe egoista e disumano.
Nondimeno, il Tribunale ha specificato come solamente a seguito della proposta di trattamento sanitario, formulata dal medico nell’interesse del beneficiario, l’amministratore di sostegno sia chiamato ed autorizzato – in forza di uno specifico provvedimento emesso dal giudice tutelare – ad esprimere (o rifiutare) il consenso informato riguardo alle cure proposte ed ai trattamenti necessari al sostegno vitale, senza che all’attribuzione del potere di prestare (o negare) tale consenso possa ricollegarsi quello di revocare un consenso già prestato o di sollecitare attivamente l’interruzione di tali trattamenti.
E ciò a maggior ragione in un caso come quello in esame, ove la beneficiaria del trattamento di sostegno vitale, da meno di un anno in uno stato vegetativo dichiarato irreversibile, ha appena trent’anni e non ha redatto espresse disposizioni anticipate di trattamento. Tali circostanze hanno imposto al giudice di applicare un principio generale di precauzione, ancor prima di ogni considerazione di carattere etico, atto ad accogliere un’interpretazione necessariamente restrittiva delle disposizioni della legge 22 dicembre 2017, n. 219.
Dopo aver delineato il quadro normativo-giurisprudenziale sopra ricostruito, il giudice ha nominato e attribuito all'amministratore di sostegno i poteri necessari alla cura e assistenza di Samantha e alla sua rappresentanza in via esclusiva, ivi compreso il potere di esprimere, in nome e per conto di lei, il consenso informato al compimento di tutte le necessarie attività diagnostiche, terapeutiche o chirurgiche.
Per quel che rileva maggiormente, è stato altresì’ attribuito all’ads il potere di prestare il consenso all’eventuale interruzione delle attuali terapie e dei trattamenti di mantenimento in vita della stessa, compresa la desistenza dalla nutrizione artificiale somministrata mediante PEG, purché a seguito di specifica proposta dei medici aventi in cura la paziente. I sanitari, difatti, in tanto potranno proporre interventi in tale direzione in quanto sussistano le condizioni di un severo aggravamento e di mancata risposta alle cure erogabili ovvero in presenza di rischi di complicanze, così come ribadito dal Comitato Etico per la Pratica Clinica dell’U.L.S.S. n. 1 Dolomiti.
Questa precisazione impone di scegliere, in concerto con i medici, le modalità di interruzione dei trattamenti ed il percorso di sedazione palliativa profonda idoneo a evitare qualsiasi fonte di sofferenza o dolore. Per converso, deve escludersi il conferimento di un autonomo potere di revoca del consenso (nonché di impulso all’interruzione) rispetto ai trattamenti di sostegno vitale attualmente in corso.
La disamina dell’iter logico argomentativo disegnato dal giudice tutelare del Tribunale di Belluno consente di trarre almeno due conclusioni di immediata percezione.
In primo luogo, la circostanza per cui dietro il consenso all’interruzione di trattamenti vitali si pone un’imprescindibile attività di concerto con i sanitari interessati - i soli a poter dare impulso e proposta alle procedure di interruzione - dimostra come il giudice abbia inteso sottrarre le determinazioni del caso a qualsiasi forma di automatismo e di arbitrarietà da parte dell’ads nominato. Come a voler sancire che, fermo il riconoscimento del potere di rifiutare i trattamenti salvavita, la parola Fine può essere pronunciata allorquando sussista la vigilanza, il concerto e l’osservazione da parte di soggetti “terzi e qualificati”.
La seconda conclusione che si legge marcatamente tra le righe delle dodici pagine del provvedimento, emergendo in formula limpida, è l’importanza delle Disposizioni Anticipate di Trattamento.
La ormai nota novità introdotta dalla Legge n. 219/2017 in merito alle D.A.T. appare di estrema rilevanza perché consente di esprimere anticipatamente le proprie volontà in ordine ai trattamenti sanitari, con una dichiarazione efficace per il futuro nell’ipotesi cui sopravvenga un’incapacità di autodeterminarsi. Il sanitario è, per ciò solo, tenuto al rispetto delle disposizioni anticipate di trattamento e può disattenderle, in accordo con il fiduciario, solo nel caso in cui appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica del paziente, ovvero per sopravvenienza di terapie non prevedibili al momento della redazione, idonee a garantire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita del paziente.
Nel panorama del fine vita, il ricorso alle DAT dimostra la sua urgenza soprattutto in casi come quello di Samantha, ove prestabilire anticipatamente punti fermi mette la persona in condizione di confrontarsi con un medico che le spieghi i trattamenti da ricevere o non in caso di futura incapacità di autodeterminazione, e/o con uno psicologo, trattandosi di una scelta che in larga misura dipende dai propri valori e dai limiti che si decide di fissare.
Un colloquio, quello sulle Dat, che parte sempre dalla persona, dalle sue conoscenze e da domande specifiche, soprattutto quando non si abbia una ferma conoscenza della legge, ma un forte desiderio di autodeterminazione. Redigere le DAT si traduce, allora, in una decisa espressione di autodeterminazione personale, imprescindibile per non lasciare ad altri il peso di scelte che possono essere difficilissime e che rischiano, fatalmente, di discostarsi dalla volontà dell’interessato, affinché spetti a lui e solo a lui dire la parola Fine.
3. Note di aggiornamento in tema di fine vita: l’autorizzazione al primo suicidio assistito in Italia tra innovazione e incertezze applicative
La storia di Samantha, stavolta osservata da lontano, non porta alla luce il solo tema delle DAT ma, in una prospettiva più ampia, tutto il macro-cosmo del fine vita, che al suo interno ricomprende almeno due grandi fenomeni: quello dell’eutanasia legale, in relazione al quale in Italia è in corso un iter referendario volto alla parziale abolizione dell’art. 579 c.p. nella fattispecie del reato di omicidio del consenziente, sì da consentire le pratiche di eutanasia attiva; quello del suicidio assistito, per cui recentemente si è compiuta un’innovazione tanto notevole quanto foriera di incertezze applicative.
Per meglio dire, lo scorso 23 novembre il comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche ha autorizzato il suicidio assistito di Mario, un paziente tetraplegico immobilizzato da dieci anni a causa di un incidente stradale e in condizioni irreversibili, dopo che a giugno il Tribunale di Ancona aveva ordinato di verificare se esistessero o meno le condizioni necessarie a tal fine. Il giudice anconetano aveva così riconosciuto in capo a Mario un vero e proprio “diritto all’accertamento” dei presupposti ritenuti necessari secondo la Corte Costituzionale.
Per la prima volta in Italia un’azienda sanitaria locale ha autorizzato il suicidio assistito ed applicato un’importante sentenza della Consulta del 2019 - pronunciata in relazione al noto caso Fabo e al processo in capo al leader radicale Marco Cappato - secondo la quale non è punibile il mero aiuto alla realizzazione di un proposito suicidario autonomamente cristallizzatosi, purché siano rispettate alcune condizioni.
La decisione dell’ASL Marche si innesta nella vicenda di fine vita di Mario, la cui richiesta di suicidio assistito era stata avanzata nell’agosto del 2020 e inizialmente respinta dall’ASL, rifiutandosi di attivare le procedure di accertamento indicate dalla sentenza della Corte Costituzionale per la non punibilità degli interventi di aiuto al suicidio. Tali condizioni impongono che il paziente, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze psico-fisiche che egli reputa intollerabili.
Mario aveva quindi presentato un’istanza al Tribunale di Ancona, che in un primo momento aveva ribadito le ragioni dell’ASL e pur riconoscendo nel paziente i requisiti previsti dalla Consulta, non aveva ritenuto possibile obbligare gli operatori sanitari a garantire il diritto al suicidio assistito.
L’uomo aveva quindi presentato un ulteriore reclamo, a seguito del quale il Tribunale di Ancona aveva ribaltato la precedente decisione e ordinato all’azienda sanitaria delle Marche non di garantire il suicidio assistito bensì di verificare i criteri utili alla non punibilità dell’aiuto al suicidio.
Pertanto, il comitato etico dell’azienda, organismo indipendente di medici e psicologi chiamato a garantire la tutela dei diritti dei pazienti, ha riconosciuto nel paziente la sussistenza delle condizioni imposte dalla Consulta per l’accesso al suicidio assistito, specificando, tuttavia, che restano da individuare le modalità di attuazione.
Per meglio delineare il macro-cosmo del fine vita, deve precisarsi che il suicidio assistito è altro dall’eutanasia, nel suicidio assistito il farmaco necessario a uccidersi venendo autonomamente assunto dal paziente. Nell’eutanasia, per contro, il medico riveste un ruolo attivo e determinante, provvedendo a somministrare direttamente il farmaco e non limitandosi a sospendere le cure o i macchinari salvavita.
Dal punto di vista della normazione dei fenomeni delineati, attualmente in Italia manca una disciplina legislativa tanto dell’eutanasia attiva quanto del suicidio assistito, venendo in rilievo la sola sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato. Per converso, l’eutanasia passiva, da intendersi come mero rifiuto delle cure, è consentita e regolata dalla legge sul testamento biologico.
Per quanto attiene all’eutanasia attiva, si ribadisce, è in corso la proposta di un referendum per cui a ottobre sono state depositate alla Corte di Cassazione più di un milione di firme e che se venisse autorizzato dovrebbe svolgersi il prossimo anno, abrogando una parte dell’articolo 579 del codice penale, in modo da consentire le pratiche eutanasiche “attive”.
È evidente che, l’intervenuto riconoscimento dell’aiuto al suicidio, per quanto rivoluzionario, lasci aperte e sospese notevoli incertezze sulle modalità attuative. Nel caso di specie, Mario nella sua richiesta aveva fatto una proposta sul farmaco da somministrare per accedere al suicidio assistito (il tiopentone sodico) e sul dosaggio da utilizzare, ma il comitato ha avanzato molteplici perplessità, sostenendo che il dosaggio richiesto (20 grammi) costituirebbe una quantità non supportata da letteratura scientifica e rilevando che la richiesta sarebbe manchevole delle specifiche modalità con cui procedere tecnicamente alla somministrazione.
Nell’orbita di tali incertezze, dopo la decisione del comitato etico dell’Asur, la Regione Marche ha comunicato che dovrà essere il tribunale di Ancona, con nuova decisione, a determinare se il paziente tetraplegico potrà avere diritto al suicidio medicalmente assistito; quasi a rivelare un’amara verità, che ad ogni prudente passo avanti in tema di fine vita debba seguire qualche diffidente passo indietro, qualche passaggio di testimone ai giudici che, ancora una volta, sono chiamati a “dettare legge”.
Del resto, il problema principale in materia permane quello legislativo, mancando una legge sul suicidio assistito, dietro il silenzio del Parlamento e la ritrosia, più o meno espressa, dei partiti politici. Sebbene una proposta di legge in materia di morte volontaria medicalmente assistita sia all’esame delle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, c’è la concreta possibilità che prima dell’approvazione della legge si concluda l’iter referendario sull’eutanasia legale.
Se questo è lo stadio attuale del fine vita in Italia, allora le storie di Dj Fabo, ieri, di Samantha D’Incà, oggi, di Mario, ancora, rivelano un unico dato di fatto: nell’incerto macro-cosmo del fine vita, l’unica certezza pare essere rappresentata dal ricorso al “rinvio indietro” ai giudici, chiamati a dare corso ad una “giurisprudenza creativa”, quella che ad oggi sembra essere l’unica a decidere davvero a chi (e come) spetti pronunciare la parola Fine.
Riferimenti
1) Corte Costituzionale, sentenza del 13 giugno 2019, n. 144;
2) Corte Costituzionale, sentenza del 25 settembre 2019, n. 242;
3) Corte di Cassazione, sentenza del 4 ottobre 2007 n. 21748;
4) Legge sul Consenso Informato e sulle DAT del 22 dicembre 2017 n. 219, pubblicata in G.U. del 16 gennaio 2018, n. 12;
5) Passaro D., Lo scenario italiano del fine vita, in Giustizia Insieme, 15 aprile 2019;
6) Passaro D., A sostegno e a difesa della persona umana: il diritto al rifiuto delle cure tra poteri dell’ADS e prerogative del giudice tutelare., in Giustizia Insieme , 24 marzo 2020;
7) Passaro D., La rivoluzione “clandestina” dopo il caso Dj Fabo: commento alla sentenza del Tribunale di Ancona del 9 giugno 2021, in Giustizia Insieme, 9 luglio 2021;
8) Tribunale di Ancona, ordinanza del 9 giugno 2021.
Temporaneità, eccezionalità e gradualità delle misure per fronteggiare l’emergenza pandemica: la sospensione “prorogata” dell’esecuzione degli sfratti al vaglio della Corte costituzionale (nota a Corte cost. n. 213/2021)
di Francesco Taglialavoro
Sospensione dell’esecuzione degli sfratti per morosità: compressione del diritto di proprietà e solidarietà sociale alla prova dell’emergenza pandemica.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il caso - 3. La normativa di riferimento - 4. La questione di legittimità costituzionale - 4.1. I parametri evocati dai giudici remittenti - 4.2. Le considerazioni dell’Avvocatura generale dello Stato - 4.3. Ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale - 4.4. La decisione della Consulta - 5. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Con una sentenza formalmente limitata alla sospensione dell’esecuzione degli sfratti per morosità, come da ultimo prorogata sino al 31 dicembre 2021, la Corte costituzionale fornisce parametri utili per valutare la legittimità anche di altri provvedimenti di contrasto alla pandemia da SARS COV 2.
Al contrario di quella relativa alla sospensione delle procedure esecutive per pignoramento immobiliare, dichiarata incostituzionale con la recente sentenza n. 128/2021[1], la proroga dell’esecuzione degli sfratti per morosità non contrasta con gli articoli 3, 24, 42, 77 e 111 della Costituzione poiché, a differenza della prima, rispetta i principi della temporaneità e della gradualità.
La compressione del diritto di proprietà del locatore, secondo la Corte, ha però raggiunto «il limite massimo di tollerabilità», ragione per la quale la sospensione deve ritenersi «senza possibilità di ulteriore proroga»: in altri termini, pur permanendo l’eccezionalità delle circostanze che hanno portato all’adozione della misura e anche a fronte di una eventuale nuova graduazione della stessa, un’ulteriore proroga farebbe venir meno il requisito della temporaneità, con la conseguente prevalenza, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, di quello – ad oggi parzialmente sacrificato – del locatore.
2. Il caso
La pronuncia annotata trae origine da due giudizi, rispettivamente celebratisi innanzi ai Tribunali di Trieste e di Savona.
Nel primo[2], a fronte del rifiuto dell’ufficiale giudiziario di procedere alla notifica del preavviso di rilascio, il creditore ricorreva ai sensi dell’art. 610 c.p.c., richiamando il titolo costituito dall’ordinanza di convalida dello sfratto del 25 gennaio 2021 – emessa, però, in relazione ad una morosità risalente al luglio del 2019 – e chiedendo sollevarsi la questione di legittimità costituzionale della normativa che ne aveva impedito l’esecuzione.
Nel secondo[3], anche in questo caso in relazione ad una morosità risalente al 2019, la locatrice aveva ottenuto la convalida dello sfratto il 20 gennaio 2021 e ne aveva minacciato l’esecuzione il 15 marzo 2021: a fronte del rifiuto dell’ufficiale giudiziario di procedere all’esecuzione, motivato richiamando la «attuale impossibilità ex lege di procedere», la locatrice ricorreva al Tribunale, deducendo l’illegittimità costituzionale del «regime di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, disposta in origine dall'art. 103, comma 6, del decreto-legge n. 18 del 2020, convertito nella legge n. 27 del 2020 e successive proroghe».
Nei casi sinteticamente descritti, dunque, gli ufficiali giudiziari avevano semplicemente applicato la legge, rifiutandosi, del tutto legittimamente, di dar corso alle minacciate esecuzioni.
Si ritiene utile, pertanto, iniziare questo commento da una schematica ricostruzione del quadro normativo, la cui evoluzione, peraltro, è stata decisiva per il rigetto della questione di legittimità costituzionale.
3. La normativa di riferimento
Nell’ambito di un più complessivo quadro di misure volte a fronteggiare l’emergenza pandemica causata dal SARS COV 2, il Governo ha disciplinato il tema della sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili con diverse previsioni, tutte contenute in decreti legge poi convertiti.
L’evoluzione del quadro normativo è stata la seguente.
A) Con l’art. 103, comma 6, del decreto legge n. 18 del 2020[4] è stata prevista la sospensione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche a uso non abitativo, fino al 1° settembre 2020.
La latitudine del provvedimento è ampia perché, in applicazione dello stesso, sono state sospese le esecuzioni di tutti i provvedimenti di rilascio, a prescindere dalla loro fonte (che poteva essere uno sfratto per morosità, una licenza per finita locazione, l’esecuzione di un provvedimento di sequestro giudiziario, etc.).
B) Con l’art. 17-bis del decreto legge n. 34 del 2020[5] è stata prorogata la sospensione dei soli provvedimenti di rilascio pronunciati nell’ambito di procedimenti di sfratto per morosità o per finita locazione, al 31 dicembre 2020.
La norma, quindi, ha operato una prima restrizione del perimetro operativo della sospensione, escludendone l’applicabilità a tutti i provvedimenti di rilascio fondati su titoli diversi da uno sfratto per morosità o per finita locazione.
C) Con l’art. 13, comma 13, del decreto legge n. 183 del 2020[6], la sospensione della esecuzione è stata prorogata al 30 giugno 2021, limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze.
Il perimetro della proroga viene quindi ulteriormente circoscritto, espungendo dal campo di applicazione l’esecuzione fondata sugli sfratti per finita locazione.
Quindi:
- Dal primo settembre 2020 è ripresa l’esecuzione degli ordini di rilascio fondati su titoli diversi dallo sfratto per morosità o per finita locazione;
- Dal 31 dicembre 2020 è ripresa l’esecuzione degli ordini di rilascio fondati sugli sfratti per finita locazione;
- Le esecuzioni relative agli sfratti per morosità restavano sospese sino al 30 giugno 2021.
D) Con l’art. 40-quater del decreto legge n. 41 del 2021[7], riguardante la sospensione degli sfratti per morosità, è stato infine introdotto un regime di proroga differenziato in base al giorno di adozione del provvedimento di rilascio.
Nello specifico: per i provvedimenti adottati dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020, la proroga si estende sino al 30 settembre 2021; per i provvedimenti adottati sino dal primo ottobre 2020 sino al 30 giugno 2021, la proroga si estende sino al 31 dicembre 2021.
Il quadro relativo ai soli sfratti per morosità è quindi il seguente:
- sfratti convalidati prima del 28 febbraio 2020: scadenza proroga 30 giugno 2021.
- sfratti convalidati dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020: scadenza proroga 30 settembre 2021;
- sfratti convalidati dal 1°ottobre 2020 al 30 giugno 2021: scadenza proroga 31 dicembre 2021;
- sfratti convalidati dopo il 30 giugno 2021: nessuna sospensione.
4. La questione di legittimità costituzionale
4.1 I parametri evocati dai giudici remittenti
Il Tribunale di Trieste, ritenuta la non manifesta infondatezza delle doglianze della ricorrente, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 6, del decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, dell'art. 17-bis del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34; e dell’art. 13, comma 13, del decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183.
Si tratta, evidentemente, di tutta la normativa richiamata nel precedente § 3 ad eccezione dell’art. 40-quater del decreto legge n. 41 del 2021, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione (datata 24 aprile 2021, mentre l’art. 40-quater è stato introdotto dalla legge di conversione il 21 maggio 2021).
Il Tribunale di Savona, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, ha sollevato la questione in relazione a tutta la normativa qui scrutinata, compreso l’art. 40-quater del decreto legge n. 41 del 2021, con la sola eccezione dell’art. 17-bis del decreto legge n. 34 del 2020, non reputato pertinente.
Quanto ai parametri, entrambi i giudici hanno evocato il possibile contrasto con gli articoli 3, 24, 42 e 117 della Costituzione.
Il Tribunale di Trieste ha aggiunto anche la possibile violazione degli articoli 47 e 77 mentre il Tribunale di Savona ha richiamato anche gli articoli 11, 41, 111 della Costituzione nonché l’art. 6 della CEDU e l’art. 47 della CDFUE.
Quanto all’articolo 3, entrambi i remittenti hanno segnalato l’intrinseca contraddittorietà della disciplina sottesa alle disposizioni impugnate: la sospensione dell’esecuzione dei rilasci ha, infatti, natura generalizzata e prescinde da una indagine sulla causa della morosità (che può ben risalire, al contrario, a periodi antecedenti all’emergenza pandemica[8]).
Il giudice, peraltro, non ha neppure il potere di operare un bilanciamento tra i contrapposti interessi, anche in relazione all’incidenza degli effetti della pandemia nelle rispettive situazioni personali, con l’effetto di rendere la sospensione del tutto irrazionale, soprattutto quando, come nel caso posto all’attenzione del Tribunale di Savona, sia proprio il locatore a versare in situazione di difficoltà economica.
Sarebbe tutelato, in sintesi, esclusivamente il diritto del conduttore di disporre dell’immobile, senza alcun bilanciamento con il diritto del locatore.
Quanto all’articolo 11, la censura va ovviamente letta in correlazione a quella fondata sugli articoli 111 e 117 della Costituzione richiamati in relazione agli articoli 6 della CEDU e dell’art. 47 della CDFUE: secondo il Tribunale di Savona, la normativa scrutinata, impedendo la concreta realizzazione del diritto accertato in sede di cognizione, priverebbe il locatore del diritto di accesso alla giustizia.
Connessa a questa argomentazione è, intuitivamente, quella fondata sulla possibile violazione dell’articolo 24: entrambe le ordinanze hanno ritenuto che le norme scrutinate, impedendo l’esecuzione del rilascio dell’immobile, sottraggano al creditore il diritto di accesso alla tutela esecutiva che è parte essenziale della tutela giurisdizionale.
Quanto all’articolo 42, la continua proroga della sospensione dei rilasci costituirebbe un’espropriazione sostanziale senza indennizzo, con l’aggravante (aggiunge il Tribunale di Savona anche in relazione all’articolo 41), delle difficoltà per il locatore di recuperare ex post i canoni dovuti. Secondo il Tribunale di Trieste, in questo modo, si violerebbe anche la tutela del risparmio nel settore immobiliare riconosciuta dall’art. 47.
Il solo Tribunale di Trieste ha rilevato, infine, la possibile contrarietà dell’articolo 13, comma 13, del decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183, con l’articolo 77 della Costituzione, per assenza dei presupposti di necessità e urgenza «laddove le disposizioni di legge impugnate (…) concorrono a sospendere provvedimenti di rilascio per situazioni di morosità (…) le quali si siano verificate anteriormente al manifestarsi della emergenza sanitaria per la pandemia».
Il Tribunale triestino richiama anzitutto la giurisprudenza costituzionale per la quale la violazione 77 Cost. ricorre nei riguardi di disposizioni “estranee” o addirittura “intruse” rispetto all’oggetto della decretazione d’urgenza: nel caso scrutinato, secondo il remittente, l’art. 13, comma 13, del decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183 sarebbe anzitutto «per se stesso inserito in una decretazione dedicata a situazioni altre e diverse (più precisamente "termini legislativi", "realizzazione di collegamenti digitali", "esecuzione della decisione (UE, EURATOM) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020" e "recesso del Regno Unito dall'Unione europea") rispetto alle quali la disciplina del rilascio degli immobili è sicuramente inconferente»; in secondo luogo, la proroga prevista dall’articolo scrutinato sarebbe in realtà estranea alla normativa dedicata all’emergenza epidemiologica, perché applicabile anche in relazione a morosità che – se preesistenti alla pandemia – nulla avrebbero a che vedere con la stessa.
4.2. Le considerazioni dell’Avvocatura generale dello Stato
Intervenuto in entrambi i giudizi di legittimità costituzionale, il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto il rigetto dei ricorsi per manifesta infondatezza di tutte le prospettate questioni.
Nello specifico:
- quanto all’articolo 3 della Costituzione, entrambi i remittenti non avrebbero colto la ratio legis sottesa alla normativa censurata, che non consisterebbe nella tutela del conduttore incolpevole, ma andrebbe ricercata nella salvaguardia del diritto all’abitazione in una situazione emergenziale nella quale doveva essere garantito il mantenimento dell’ordine pubblico.
- quanto alle censure fondate sugli articoli 11, 111, 117 Cost., 6 CEDU e 47 CDFUE, lette anche in correlazione con la asserita violazione dell’art. 24 Cost. (ricordiamo che, in sintesi, i remittenti paventavano un possibile diniego di giustizia per impossibilità di accesso alla tutela esecutiva), secondo la difesa statale la tutela esecutiva non sarebbe impedita ma soltanto ritardata, in virtù, peraltro, di norme la cui efficacia è destinata a esaurirsi in via definitiva il 31 dicembre 2021.
Non solo: «una ripresa indistinta delle procedure esecutive di rilascio dopo la data del 30 giugno 2021, oltre a problemi di ordine pubblico e sociale, avrebbe determinato una grave sofferenza della macchina organizzativa preposta all’attuazione dei provvedimenti da eseguire».
- Quanto alla possibile violazione degli articoli 42 e 47 della Costituzione, le norme censurate non costituirebbero un’espropriazione in senso sostanziale e non si porrebbero in contrasto con la tutela del risparmio immobiliare, attesa la natura temporanea dei provvedimenti.
- Quanto, infine, alla censura fondata sull’art. 77 della Costituzione, la disposizione di cui all’art. 13, comma 13, si inserirebbe coerentemente nell’ambito del decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183, cosiddetto “mille proroghe” «volto, per l’appunto, a procrastinare la vigenza di alcune disposizioni normative, molte delle quali correlate, come l’art. 103, comma 6, del predetto d.l. n. 18 del 2020, all’emergenza epidemiologica da Covid-19».
Il ragionamento è semplice: l’articolo 13, comma 13, proroga la vigenza di una previsione normativa (di una sospensione, nello specifico) ed è inserita in un decreto dichiaratamente volto a prorogare una serie di disposizioni normative. Non sussiste, quindi, alcuna “estraneità” della disposizione rispetto al decreto in cui la stessa è inserita.
4.3. Ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
Dopo una schematica ricostruzione del quadro normativo, la Consulta affronta il tema dell’ammissibilità delle prospettate questioni.
Poiché lo scrutinio deve essere circoscritto alle disposizioni in concreto applicabili (entrambi i giudizi erano relativi a esecuzioni “tentate” nel 2021), la Corte reputa inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 103, comma 6, del decreto legge n. 18 del 2020 (che aveva previsto la sospensione delle esecuzioni fino al 30 giugno 2020), e all’art. 17-bis del d.l. n. 34 del 2020 (che aveva prorogato detta sospensione sino al 31 dicembre 2020).
Quanto all’art. 40-quater del decreto legge n. 41 del 2021, che, come si ricorderà, non era stato censurato dal Tribunale di Trieste in quanto successivo all’ordinanza di rimessione, secondo la Consulta non occorre disporre la restituzione degli atti al giudice per un nuovo esame, poiché lo ius superveniens «ha semmai aggravato, non certo ridimensionato, il vulnus denunciato dal giudice rimettente»: le stesse questioni sollevate dal Tribunale triestino in relazione all’articolo 13, comma 13, del decreto legge n. 183 del 2020, possono quindi essere riferite anche alla disposizione sopravvenuta (comunque censurata dal Tribunale di Savona).
Quanto ai parametri, la Consulta reputa inammissibili le censure fondate sull’asserita violazione dell’art. 47 CDFUE: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può essere infatti invocata quale parametro interposto soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata anche dal diritto europeo. La questione è dunque inammissibile poiché il remittente non ha indicato «perché, e in che termini, la fattispecie sarebbe disciplinata dal diritto europeo».
La Corte dichiara infine inammissibili le censure prospettate dal Tribunale di Savona in relazione agli articoli 11 e 41 della Costituzione in quanto «del tutto prive di motivazione, limitandosi il giudice rimettente a evocare i parametri costituzionali, senza alcuna specifica adeguata illustrazione dei motivi di censura».
Tutte le altre questioni sono ammissibili.
Ma infondate.
4.4. La decisione della Consulta
La Corte costituzionale reputa portante la censura fondata sulla violazione dell’art. 3 della Costituzione e, a questa, dedica la parte più ampia e interessante della decisione.
Si analizzeranno per prime le questioni definite complementari.
Per quanto attiene alla possibile violazione dell’art. 77 della Costituzione, la proroga prevista dall’articolo 13, comma 13, del decreto legge n. 183 del 2020, formalmente inserita in un decreto legge dal contenuto assai eterogeneo, sarebbe – secondo il Tribunale di Trieste – estranea o addirittura “intrusa” rispetto alle norme approvate per fronteggiare l’emergenza pandemica, in quanto riferibile anche a morosità che, con essa, nulla hanno a che vedere: quest’ultimo dato, peraltro, priverebbe la norma dei fondamentali requisiti della necessità e dell’urgenza.
La Consulta giudica la questione è infondata: la disposizione censurata si colloca all’interno di un provvedimento dal contenuto dichiaratamente eterogeneo, rispetto al quale la proroga dalla stessa prevista non può certamente ritenersi estranea o addirittura intrusa.
In altri termini: una disposizione che “proroga” la vigenza della sospensione dell’esecuzione dei rilasci non può certamente ritenersi estranea rispetto a un decreto legge definito, appunto, mille proroghe.
Del resto, premette la Corte, l’urgente necessità di provvedere può riguardare «una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie, complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse (sentenze n. 149 del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 e n. 16 del 2017 e n. 32 del 2014), ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti per situazioni straordinarie venutesi a determinare».
Quanto alla possibile violazione dell’art. 42 della Costituzione, la Consulta ritiene infondata la censura perché non può dirsi sussistente un’espropriazione in senso sostanziale e senza indennizzo.
Anzitutto per la temporaneità della misura.
In secondo luogo perché, nella vigenza della sospensione, continuano comunque a maturare i canoni di locazione.
La Corte, del resto, ha costantemente ritenuto che l’ingerenza statale nel godimento dei beni sia ammissibile ove sussista un equilibrio tra il diritto sacrificato e l’interesse generale della collettività: nel caso di specie «l’emergenza pandemica, con la conseguente crisi economico-sociale, costituisce senz’altro un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare l’operatività della misura di sospensione».
Pure infondata è la censura dedotta in relazione all’articolo 24 della Costituzione (ma anche quelle sollevate in relazione agli articoli 11, 111, 117 Cost., e 6 CEDU).
Da un lato, in linea per così dire generale, il Legislatore gode di ampia discrezionalità nel conformare gli istituti processuali, col solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute e conseguente compressione ingiustificabile del diritto di azione.
D’altro lato, nello specifico, la misura censurata è temporanea e non impedisce, quindi, in via definitiva, la promozione dell’azione esecutiva.
Veniamo, infine, alla censura fondata sulla possibile violazione dell’articolo 3 della Costituzione.
La normativa censurata sarebbe irrazionale perché, imponendo una sospensione generalizzata delle esecuzioni, senza alcuna valutazione della causa della morosità e non consentendo al giudice di operare un bilanciamento dei contrapposti interessi, finirebbe per sacrificare, in ogni caso, il diritto del locatore a beneficio di quello del conduttore.
Può dirsi, questo sacrificio, conforme al dettato costituzionale?
Secondo la Consulta si, ma soltanto a precise condizioni.
La Corte muove da una assai interessante ricostruzione delle esigenze che animarono i primi provvedimenti emergenziali, quelli che avevano disposto da un lato la sospensione di tutti i provvedimenti di rilascio di immobili, a prescindere, lo si ricorderà, dal titolo che ne aveva costituito il fondamento (art. 103, comma 6, del decreto legge n. 18 del 2020); dall’altro la sospensione di tutte procedure esecutive per pignoramento immobiliare aventi a oggetto l’abitazione principale del debitore (art. 54-ter del decreto legge n. 18 del 2020): il confronto tra l’evoluzione normativa di queste due discipline costituisce il tema portante della decisione annotata.
Analogo il punto di partenza, differenti gli sviluppi e, sia consentito, la sorte.
Il punto di partenza, comune, fu costituito dall’esplosione dell’emergenza pandemica, che colse impreparato l’intero ordinamento e, con esso, l’intera collettività: in un contesto quale quello vissuto nel marzo 2020, dominato dall’incertezza, anche scientifica, innanzi a ad un patogeno del tutto nuovo, appariva decisivo e urgente sospendere il più possibile ogni attività, ogni contatto, persino larga parte della macchina della giustizia.
Fu così, ad esempio, per la straordinaria sospensione di (quasi) tutti i termini processuali sull’intero territorio nazionale, originariamente prevista dall’art. 83 del decreto legge n. 18 del 2020 e poi prorogata, dall’art. 36 del decreto legge n. 23 del 2020, sino al giorno 11 maggio 2020.
La stasi di ampia parte del sistema giudiziario fu, peraltro, aspetto e non certo conseguenza di una più ampia sospensione delle attività che implicassero contatto fisico, con inevitabili ripercussioni sulle condizioni economiche di ampia fascia della popolazione italiana.
In questo contesto emerse, ancora più incisivamente, il dovere di solidarietà sociale previsto dall’art. 2 della Costituzione.
Emerse l’interesse dell’ordinamento ad evitare o quanto meno limitare tutte le attività che potessero creare pericolose occasioni diffusive del contagio; emerse, per quel che più specificamente riguarda la decisione annotata, l’esigenza di non privare anche piccola parte della popolazione del proprio alloggio (o della propria attività commerciale) nel perdurare di una situazione incerta e assai pericolosa per la salute pubblica.
E così, come si è accennato, i primi provvedimenti di sospensione ebbero carattere generale e assai ampio.
Due discipline corsero in parallelo: quella originariamente prevista dall’articolo 103, comma 6, del decreto legge n. 18 del 2020 (sospensione delle esecuzioni di tutti i provvedimenti di rilascio di immobili) e quella originariamente prevista dall’art. 54-ter del decreto legge n. 18 del 2020 (sospensione di tutte e esecuzioni per pignoramento immobiliare aventi a oggetto l’abitazione principale del debitore).
La seconda si arrestò, colpita dalla sentenza di illegittimità costituzionale n. 128 del 2021.
Perché?
Le due discipline, come visto, furono approvate nel medesimo periodo. Anzi: con lo stesso decreto legge.
La seconda, però, beneficiò di una proroga generalizzata, senza alcuna modifica del perimetro applicativo: una semplice proroga, in tal modo, di tutte le espropriazioni per pignoramento immobiliare aventi ad oggetto l’abitazione del debitore, proroga che non teneva in alcuna considerazione l’evoluzione del quadro pandemico e, con esso, della società italiana, lentamente (ma decisamente) ripresasi in seguito alla prima emergenza.
«Il bilanciamento sotteso alla temporanea sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale è divenuto, nel tempo, irragionevole e sproporzionato, inficiando la tenuta costituzionale della seconda proroga» (così, nella sentenza 128 del 2021).
È vero, ragiona la Consulta nella decisione annotata, che in periodi emergenziali il dovere di solidarietà sociale consente al Legislatore un più ampio margine di discrezionalità nel disegnare misure di contrasto della pandemia, bilanciando la tutela di interessi e diritti in gioco.
Però il sacrificio per i locatori non poteva che essere temporaneo.
Così, all’inizio del par. 11.4 della sentenza annotata, manifestando anche graficamente il punto di svolta dell’argomentare e richiamando l’attenzione del lettore: in prima battuta quello del legislatore.
Le misure di contrasto alla pandemia, nello specifico quelle relative alla sospensione delle esecuzioni (espropriazioni o rilasci) devono rispettare i principi della eccezionalità, della temporaneità della gradualità: diversamente sono incostituzionali.
Eccezionalità è, nel periodare della Consulta, predicato della situazione che ha portato alla misura e non della misura medesima: questa è una riflessione importante, perché anche le emergenze si evolvono e, con esse, deve evolversi la disciplina che le fronteggia.
Di qui il ragionamento sulla gradualità e sulla temporaneità, caratteri, questi, riferiti alle misure.
Se si evolve l’emergenza, la disciplina da essa scaturita deve evolversi: ridimensionandosi o espandendosi, a seconda ovviamente dei casi: nel quadro pandemico italiano, a fronte di un progressivo miglioramento del quadro della crisi sanitaria (si pensi, ad esempio, alla mancanza persino di semplici mascherine o camici nel marzo 2020), le misure di contrasto vanno adeguate.
E dunque alleggerite.
Questa è la gradualità.
Il sacrificio di una parte della popolazione a vantaggio (anche indiretto) di un’altra, pur giustificato dai più volte richiamati doveri di cui all’art. 2 della Costituzione, non può comunque essere perpetuo: graduale la misura; temporaneo il sacrificio.
E sono queste le lenti con le quali la Corte analizza la normativa censurata.
Che ne esce indenne, a differenza di quella, semplicemente prorogata, in materia di espropriazioni immobiliari.
Si è visto: il quadro normativo si è evoluto. Dapprima una sospensione relativa a tutti i provvedimenti di rilascio, a prescindere dal titolo che li ordinasse; successivamente una limitazione del perimetro della misura escludendo dalla sospensione tutti i provvedimenti non relativi a sfratti per morosità o per finita locazione; poi la esclusione degli sfratti per finita locazione; infine la graduazione della permanenza della sospensione in ragione della data dell’ordinanza di convalida.
Condivisibile o meno questo ultimo parametro e, più in generale, il tratto della disciplina come graduata, non può revocarsi in dubbio che la normativa in questo specifico settore si sia evoluta. Come l’emergenza pandemica.
Ed è dunque rispettosa della Costituzione.
Per tornare alle parole della Consulta: «nel complesso, quindi, quanto alla proroga nel 2021 della sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, sono stati introdotti «adeguati criteri selettivi» (sentenza n. 128 del 2021), che invece sono mancati nella parallela previsione della proroga della sospensione delle esecuzioni aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore. Ciò rende non irragionevole la proroga, graduata nel tempo secondo le scadenze sopra indicate, della sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio per morosità».
Il sacrificio del locatore, siccome temporaneo, giustificato da una situazione emergenziale e imposto da una normativa che si è adeguata all’emergenza pandemica rispetta, dunque, la Costituzione.
Ma non può, si diceva, essere perpetuo.
Anzi, ed è questo il monito col quale si chiude la decisione annotata, «questa misura emergenziale è prevista fino al 31 dicembre 2021 e deve ritenersi senza possibilità di ulteriore proroga, avendo la compressione del diritto di proprietà raggiunto il limite massimo di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale (art. 42, secondo comma, Cost.)».
5. Considerazioni conclusive
L’emergenza, in relazione ai doveri di solidarietà sociale di cui all’articolo 2 della Costituzione, giustifica dunque misure temporanee e graduali finalizzate al suo contenimento: è questo l’insegnamento più importante che può essere tratto dalla decisione annotata.
Se è la pandemia, dunque, la circostanza eccezionale che giustifica talune misure, le stesse devono però essere graduali e adeguante all’evoluzione della stessa.
Il sacrificio dei diritti individuali, inoltre, non può che essere temporaneo.
La decisione annotata, pur non riguardando né lo stato di emergenza né la generalità dei provvedimenti approvati per farvi fronte, offre pertanto utili spunti al Legislatore: lo stesso, chiamato a fronteggiare la pandemia, deve quindi sempre approvare e mantenere misure proporzionate e adeguate all’evoluzione della stessa.
[1] In Foro it. 2021, 9, I, 2620.
[2] Conclusosi con l’ordinanza n. 107 del 24 aprile 2021, consultabile in Rivista Giuridica dell’Edilizia 2021, 4, I, 1203 nonché sul sito internet della Gazzetta ufficiale al seguente collegamento: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2021-07-14&atto.codiceRedazionale=21C00155
[3] Conclusosi con l’ordinanza n. 124 del 3 giugno 2021, consultabile sul sito internet della Gazzetta ufficiale al seguente collegamento:
https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2021-08-18&atto.codiceRedazionale=21C00185
[4] Come convertito nella legge n. 27 del 24 aprile 2020.
[5] Introdotto dalla legge di conversione n. 77 del 17 luglio 2020.
[6] C.d. decreto «mille proroghe», convertito nella legge n. 21 del 26 febbraio 2021.
[7] Introdotto dalla legge di conversione n. 69 del 21 maggio 2021.
[8] Si aggiunga che potrebbe verificarsi addirittura il contrario: nel caso di morosità verificatesi nel pieno dell’emergenza pandemica, ma accertate successivamente al 30 giugno 2021, infatti, l’esecuzione per il rilascio non è in ogni caso sospesa.
La giurisdizione sulla dismissione di quote azionarie pubbliche di una S.r.l. (Memoria del Procuratore generale Aggiunto della corte di Cassazione – sez. unite civili – causa r.g. 27289/2020 – udienza pubblica 23.11.2021)
Un ente locale propone ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione avverso la sentenza del Consiglio di Stato che ha affermato la giurisdizione amministrativa nella causa avente ad oggetto l’impugnazione degli atti di un procedimento di gara indetto da altro comune per la dismissione di quote azionarie pubbliche di una s.r.l.
Più esattamente, la controversia ha ad oggetto l’impugnazione della scelta e delle modalità di vendita delle quote da parte del socio-ente pubblico che, secondo la sentenza amministrativa impugnata, «non è soggetta alle norme sull’evidenza pubblica e nemmeno a quelle sulla contabilità generale dello Stato, risolvendosi in un’operazione che l’ente pubblico pone in essere con modalità privatistiche, non rilevando in contrario il fatto che la società abbia utilizzato lo strumento della procedura aperta», atteso che «tale determinazione non è stata imposta dalle previsioni normative ma è il frutto di una libera scelta della società». Secondo il ricorrente è proprio da tali affermazioni che discenderebbe l’erronea affermazione della giurisdizione amministrativa.
La requisitoria del P.G. ritiene, invece, corretta la decisione del giudice amministrativo in punto di giurisdizione, in quanto l’indagine sul riparto deve accertare se la controversia abbia ad oggetto un atto posto in essere dall’ente pubblico uti socius ovvero iure imperii, poiché è soltanto nel primo caso che la relativa cognizione è attribuita alla giurisdizione ordinaria. Esemplificando, le conclusioni del P.G. richiamano le pronunce della Suprema Corte che attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l’attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria (così come quella avente ad oggetto la deliberazione costitutiva, modificativa o estintiva della società medesima), mentre riconoscono la giurisdizione ordinaria per quelle aventi ad oggetto gli atti societari adottati a valle della scelta di fondo relativa all’utilizzo del modello societario. Per le stesse ragioni, sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti della procedura di selezione del socio privato, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario per le questioni riguardanti la validità e l’efficacia della costituzione della società pubblica e dei suoi conseguenti atti negoziali.
Il ragionamento prosegue affermando che la scelta di dismettere la partecipazione ha una sicura “matrice pubblicistica” benché effettuata “a valle” della costituzione della società, con conseguente attribuzione della controversia alla giurisdizione amministrativa poiché viene in rilievo l’adozione di atti all’esito di un procedimento amministrativo, governati da regole e principi pubblicistici e che comportano l’obbligo di osservare i principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, implicanti scelte che si collocano “a monte” poiché con essi il socio pubblico agisce prima come autorità e poi come socio. A tal proposito, richiamando la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. V, 23.01.2019, n. 578, la requisitoria osserva che l’amministrazione si comporta “come autorità” quando “determina”, mentre si atteggia come “socio” allorquando “delibera”. Nel caso di specie, trattandosi di atti diretti alla scelta delle modalità di vendita delle quote societarie pubbliche, l’amministrazione non sta esprimendo una privata autodeterminazione rimessa alla propria volontà, bensì una determinazione riconducibile alla supremazia di un potere in una vicenda che non si esaurisce nel contesto infra-societario, ma sorge in sede propriamente amministrativa ed involge un segmento pubblicistico dell’attività. Pertanto, avendo riguardo al criterio del petitum sostanziale – da identificarsi «anche e soprattutto in funzione della causa petendi» - la controversia in esame deve ritenersi attribuita alla giurisdizione amministrativa.
Più in generale, il P.G. afferma che il criterio di riparto c.d. “spaziale”, incentrato cioè sulla distinzione tra atti adottati “a monte” ed “a valle”, non sempre consente di dipanare con certezza la zona “grigia” di confine che sorge quando la vicenda sostanziale sia caratterizzata dalle interrelazioni tra diritto pubblico e diritto privato. Tuttavia, le requisitoria si conclude escludendo la razionalità di un criterio di riparto fondato automaticamente sulla distinzione tra an e quomodo dell’esercizio del potere pubblico, in quanto il quomodo potrebbe essere appositamente congegnato da parte dell’amministrazione in modo tale da escludere l’an (l’applicabilità stessa delle regole e dei principi dell’evidenza pubblica), così violando i principi pubblicistici che governano detta materia ed incidendo sull’individuazione dell’Autorità munita della giurisdizione. Un simile criterio di riparto, secondo il P.G., non si presterebbe a risolvere le difficoltà interpretative ma, al contrario, determinerebbe il rischio di duplicazione dei giudizi dinnanzi all’una e all’altra giurisdizione.
Nel concludere per il rigetto dell’impugnazione sulle questioni di giurisdizione, la stessa requisitoria ritiene fondato l’ulteriore motivo concernente l’ammissibilità della vendita congiunta per violazione dell’art. art. 2468 c.c., riconoscendo su tale punto la giurisdizione del giudice ordinario in quanto avente ad oggetto il novero delle facoltà spettanti al socio in quanto tale, ancorché pubblico. L’accoglimento del motivo non è precluso, infatti, dal rigetto espresso su restanti motivi tenuto conto del principio costantemente affermato in merito all’inderogabilità della giurisdizione stessa per ragioni di connessione (Cass., S.U. n. 9534 e n. 10305 del 2013, n. 32361 del 2018; n. 23904 del 2020).
C.G.
E’ stata la mano di Dio, recensione al film di Dino Petralia
I sogni sono porte del tempo semichiuse sull’immaginario e non hanno confini né scadenze; sono desideri ardenti, appetiti di vita armati di tensione, potenti e fascinosi. Il sogno appartiene a tutti e se è vero che il suo compimento risolve e completa, altrettanto vero è che ne azzera l’inebriamento dell’attesa, sicchè è privilegio dei soli artisti riprodurne l’ebbrezza originaria, ciascuno con il linguaggio di cui dispone.
Ebbene, col suo colorito e opulento "E’ stata la mano di Dio" Sorrentino regista ricostruisce il suo sogno adolescente e lo offre allo spettatore senza individualismi né vanità, affidando ad una napoletanità illesa e alle sue figure narranti il ruolo protagonista del film; una napoletanità intensa oltre la quale non è facile immaginare altro ed entro la quale muovono e si agitano i suoi miti di eterna potenza.
Nelle vesti di Fabietto Schisa, figlio diciassettenne di una coppia di scanzonati e fischiettanti genitori, a loro volta inseriti in un allegro parentado in salsa e costume popolare dalle taglie forti, Sorrentino riattraversa i sogni della sua adolescenza come fermate e ripartenze di un itinerario inizialmente senza meta, assegnando per ogni valico esistenziale un preciso compito didascalico a maschere sapientemente attinte da un campionario umano di chiara marca meridionale. E così, il sogno di avere a Napoli Maradona trova nello zio Alfredo - un sempre efficace Renato Carpentieri - il più convinto e accalorato teorizzatore della divinità del calciatore argentino, divenuto idolo cittadino ancor prima del suo reclutamento; il sogno (appena secondo nell’ideale graduatoria di Fabietto) di possedere sessualmente l’attraente zia Patrizia - una sfolgorante Luisa Ranieri - si acquieta nell’amplesso surrogatorio concessogli dall’anziana e sussiegosa baronessa del piano di sopra, simbolicamente espressiva di una decadente aristocrazia partenopea, siglando così per il giovane adolescente l’ambìto abbandono dell’illibatezza sessuale; la tentazione della seducente trasgressione giovanile ha forma e voce nel turbolento amico contrabbandiere, senza madre e con padre carcerato ma traboccante di generosa e spicciola umanità. E ancora, il suo sogno più ardito, quello di diventare regista dal nulla, parla nel film per bocca di Capuano, sfrontato cineasta napoletano, minaccioso e irriverente verso il giovane ma sincero assertore della triplice esigenza - vero e proprio proclama fondante dell’intero racconto autobiografico - che il buon regista resti unito con se stesso, che abbia qualcosa da raccontare, che rimanga saldo al suo territorio, esattore primario di un obbligo di rendiconto.
La dimensione cittadina che di tutto ci offre Sorrentino appare sulle prime limitante perchè confinata in argini culturali esclusivamente partenopei, ma così non è; la cifra napoletana, con i suoi miti, i riti e l’attraente urbanità, riassume i termini di una nobiltà del passato, che da individuale diventa universale, come universale è il genio calcistico di Maradona, la carnale bellezza di zia Patrizia e la valenza delle citazioni letterarie mobilitate da Sorrentino in mano ai suoi interpreti, "C’era una volta in America" e "Un uomo”, platealmente esibite come espressioni iconografiche di un’intera epoca.
Nella postura estatica di Fabietto al cinema - autentica maestria di un regista che ne incarna l’originale - quel frammento filmico solidifica infine tutti interi i suoi sogni, rappresentando il prodromo più convincente della scena finale, il viaggio in treno verso la Capitale, per afferrare il sogno che la mano di Dio gli sta donando.
La narrazione autobiografica è uno stile ma qui diventa un’occasione per tracciare e ancorare la propria arte a se stesso; non tanto il bisogno di spiegare quanto quello di spiegarsi unificando passato e presente in un diario perenne destinato a sancire il principio per il quale il cardine del furore di ogni talento sta nel dolore, nel distacco, nella solitudine con se stessi, nell’intimo dialogo sull’essere e sul divenire.
E il girotondo di scoppiettanti comparse ha solo il ruolo di animare questa solitudine, conducendo e aiutando il giovane Scotti/Sorrentino alla sua più intima verità.
La (negata) tutela dell’affidamento in materia di incentivi alle fonti energetiche rinnovabili
(nota a Corte Giust. UE, Sez. V, 15 aprile 2021, cause riunite C-798/18 e C-799/18)
di Marco Calabrò
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Principi e ratio della disciplina in materia di incentivi energetici. – 3. La perimetrazione della tutela dell’affidamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia UE. – 4. L’iter motivazionale della pronuncia: non configurabilità della violazione dell’art. 3, par. 3, lett. a) della direttiva 2009/28/CE. – 4.1. Il parametro della prevedibilità. – 4.2. Il parametro della retroattività della norma. – 4.3. Non configurabilità della violazione del diritto di proprietà e della libertà di impresa di cui agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. – 5. Legislazione incentivante, recessività della tutela dell’affidamento e incertezza del diritto.
1. La vicenda.
La Corte di Giustizia UE è tornata ad occuparsi della compatibilità con il diritto europeo di una normativa nazionale che preveda una riduzione di incentivi (nel caso di specie in materia di energia) precedentemente riconosciuti agli operatori economici mediante decisioni amministrative e successive convenzioni. Nello specifico, la controversia ha ad oggetto il disposto dell’art. 26, co. 2 e 3 del d.l. n. 91/2014, conv. in l. n. 116/2014 (cd. Spalma-incentivi), ai sensi del quale si è proceduto ad una rimodulazione degli incentivi per gli impianti di potenza superiore a 200 kW precedentemente assegnati con il c.d. Quarto Conto Energia (d.lgs. n. 28/2011), imponendo ai produttori di energia da fonti rinnovabili che avevano aderito al sistema incentivante di optare per una tra tre nuove ipotesi di modello tariffario, tutte comunque incidenti in senso peggiorativo sulla loro posizione. Ciò, si badi, è avvenuto in un momento nel quale la precedente legislazione incentivante non aveva ancora terminato di produrre i suoi effetti, con la conseguenza che l’intervento legislativo ha evidentemente esplicato un effetto novativo su un rapporto di durata intercorrente tra GSE e società produttrici di energia, rapporto fondato non solo su provvedimenti attributivi delle tariffe incentivanti, ma anche su appositi contratti di durata ventennale stipulati tra le parti.
Alcuni operatori economici colpiti dalla citata riforma impugnavano innanzi al T.A.R. Lazio, i decreti ministeriali attuativi dell’art. 26 cit., dolendosi della presunta illegittimità di una modifica unilaterale delle condizioni giuridiche sulla cui base le stesse società produttrici di energia avevano impostato la propria attività economica, legittimamente fidando su un sistema incentivante la cui durata ed entità erano state espressamente indicate dallo stesso GSE. Con ordinanza n. 11124 del 16 novembre 2018, il T.A.R. Lazio riteneva necessario rimettere alla Corte di Giustizia UE questione pregiudiziale circa la possibilità o meno per un legislatore nazionale – a seguito di una diversa valutazione degli interessi in gioco – di intervenire su situazioni giuridiche già consolidate in forza di provvedimenti concedenti incentivi, nonché in forza di convenzioni già stipulate con la parte pubblica.
Il Giudice nazionale prospetta molteplici possibili contrasti tra la normativa italiana e il diritto europeo: in primo luogo, la sopravvenuta rimodulazione, in senso peggiorativo, del sistema tariffario – incidendo prima del termine della loro naturale scadenza su rapporti di durata “cristallizzati” sulla base di provvedimenti concessori e convenzioni di diritto privato – potrebbe ritenersi in contrasto con i principi generali del legittimo affidamento e della certezza del diritto. Per le medesime ragioni, viene prospettato come la suddetta rivalutazione degli interessi pubblici, in assenza di circostanze eccezionali che la giustifichi, si potrebbe ritenere in contrasto con gli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (rispettivamente libertà di impresa e diritto di proprietà), in quanto – alterando l’effettività delle misure incentivanti già formalmente accordate – determinerebbe una lesione del diritto dell’operatore economico di programmare e gestire la propria attività imprenditoriale sulla base di posizioni contrattuali predeterminate[1].
La vicenda si inquadra nell’ambito del tema dei limiti della tutela del legittimo affidamento del cittadino non nei confronti delle scelte della p.a.[2], bensì a fronte di modifiche dell’assetto regolatorio, tema che ha a lungo impegnato la dottrina, con specifico riferimento alle leggi retroattive, nonché – come si chiarirà meglio infra – in merito a quelle disposizioni che, pur non avendo carattere retroattivo in senso proprio, esplicano i propri effetti su rapporti di durata[3]. Premessa la facoltà del legislatore di intervenire anche incidendo su posizioni giuridiche sorte sulla base di disposizioni precedenti, l’affidamento del privato rileverebbe laddove il contesto nel quale si colloca la norma anteriore ed il contenuto della stessa siano tali da “indurre i destinatari a confidare nella stabilità nel tempo dell’«assetto regolatorio» a fronte del quale (dati i suoi caratteri, da valutare caso per caso) «l’intervento normativo incidente su di esso deve risultare sproporzionato»”[4].
Richiamate le coordinate di riferimento, deve ora osservarsi come la fattispecie oggetto della pronuncia in esame assuma invero una connotazione specifica, in ragione di almeno due ordini di motivi. Da un lato, la normativa sulla base della quale sono sorti i rapporti di durata tra GSE e operatori economici è inquadrabile nella c.d. legislazione incentivante, ovvero in quella tipologia di intervento normativo volto a conseguire obiettivi di interesse pubblico “indirizzando” le scelte imprenditoriali private, per l’appunto attraverso il riconoscimento di un incentivo tale da rendere economicamente conveniente un’attività che altrimenti risulterebbe in perdita[5]. È bene sin d’ora sottolineare come tale modello di intervento pubblico nell’economia – teso, nel caso di specie, ad incrementare la produzione di energia da fonti rinnovabili in un’ottica di tutela dell’ambiente e sicurezza del mercato energetico attraverso la riduzione della dipendenza degli Stati europei dall’importazione di idrocarburi – proprio perché idoneo a “condizionare” profondamente la libera iniziativa economica privata, renda la posizione dell’operatore economico almeno astrattamente più “forte” in termini di legittimo affidamento.
A ciò deve aggiungersi che, nel caso di specie, le tariffe incentivanti non sono state semplicemente disciplinate ex lege e riconosciute ai soggetti richiedenti mediante provvedimento concessorio (ex se revocabile a fronte di una nuova valutazione degli interessi pubblici in gioco), ma hanno altresì formato oggetto di accordi di diritto privato tra operatori economici e GSE, accordi con i quali i primi si obbligavano a realizzare e far entrare in esercizio l’impianto fotovoltaico ed il secondo, per l’appunto, a garantire per un certo periodo di tempo un determinato sistema tariffario “incentivato”.
Come noto, la vicenda in esame aveva già dato vita ad un ampio contenzioso, confluito da ultimo nella sentenza della Corte costituzionale 24 gennaio 2017, n. 16, con la quale la Consulta respingeva le questioni di legittimità costituzionale sollevate, ritenendo, da un lato, non sussistente una lesione del legittimo affidamento degli operatori economici attesa la “non imprevedibilità” della rimodulazione degli incentivi e, dall’altro lato, nemmeno configurabile una lesione della libertà di iniziativa economica in quanto i limiti apposti al suo esercizio non risultavano arbitrari né incongrui, bensì rispondenti “ad un intervento pubblico in termini di equo bilanciamento degli opposti interessi in gioco, volto a coniugare la politica di supporto alla produzione di energia da fonte rinnovabile con la maggiore sostenibilità dei costi relativi a carico degli utenti finali dell’energia elettrica”[6].
Il T.A.R. del Lazio, ritenendo che la pronuncia della Consulta non avesse risolto tutti i profili sollevati, ha ritenuto comunque necessario rimettere alla Corte di Giustizia UE la questione circa la compatibilità delle disposizioni di cui all’art. 26, co. 2 e 3 del d.l. n. 91/2014 cit. con il diritto europeo, prospettando la possibile violazione della libertà di impresa (art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) del diritto di proprietà (art. 17 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, primariamente, del principio del legittimo affidamento, che – benché non espressamente codificato nei Trattati – è ormai assurto da tempo a principio generale dell’ordinamento Europeo, proprio grazie ad un’ampia elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia[7].
Ebbene, pur richiamando la centralità dei principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento nel settore de quo, e pur riconoscendo che l’art. 26 cit. incide sensibilmente in senso peggiorativo sui regimi di sostegno previamente introdotti, con la pronuncia in commento i giudici europei hanno ritenuto che l’intervento del legislatore italiano non configurasse una violazione delle disposizioni di cui alla dir. 2009/28/CE, concretandosi esso in una rimodulazione del sistema incentivante: a) giustificata da idonee ragioni di interesse pubblico, b) prevedibile, c) non retroattiva. E’ sulla verifica della effettiva sussistenza di tali presunti caratteri della normativa contestata che ci si soffermerà nel prosieguo dell’indagine.
2. Principi e ratio della disciplina in materia di incentivi energetici.
Con diverse direttive susseguitesi nel tempo (2001/77/CE; 2009/28/CE; 2018/2001/UE), l’Unione Europea ha individuato la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili come obiettivo altamente prioritario, strumentale ad incrementare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, a stimolare la competitività del sistema produttivo ed a ridurre le emissioni inquinanti in atmosfera[8]. L’Italia ha inteso dare attuazione a tale obiettivo attraverso l’introduzione di eterogenee forme di incentivazione[9], tutte consistenti in strumenti di mercato volti a rendere sostenibili dal punto di vista economico investimenti per impianti FER, atteso il costo di produzione nettamente più elevato rispetto alla produzione di energia elettrica da fonti fossili[10].
Tali interventi rientrano nel più ampio processo di revisione delle politiche pubbliche in materia ambientale, volto ad affiancare all’utilizzo di modelli di command and control strumenti idonei ad utilizzare dinamiche di mercato al fine di rendere conveniente per gli operatori economici orientare spontaneamente i loro comportamenti verso la tutela dell’ambiente[11]. Da tempo sono emersi i limiti connessi alle politiche tradizionali di tutela ambientale, limiti essenzialmente legati alla concentrazione del potere decisionale in capo alla pubblica amministrazione ed alle relative conseguenze in termini di inefficienza derivanti dal carattere accentrato e preventivo della decisione[12]. Accanto all’emersione del fallimento di politiche volte a tutelare l’ambiente solo attraverso rigide determinazioni e programmazioni, spesso sconfessate, si è, nel contempo, sviluppato un differente approccio, essenzialmente fondato sulla convinzione che un utilizzo “orientato” di alcune tecniche di mercato possa rivelarsi utile alla difesa dell’ambiente, in una dimensione di tutela “attraverso il mercato”, ovvero di ricorso a strumenti (quali, per l’appunto, gli incentivi tariffari) “che fanno leva sulle dinamiche di mercato e sulle modalità di funzionamento del medesimo per promuovere la tutela dell’ambiente”[13].
Tra i modelli di incentivazione che hanno svolto un ruolo strategico negli ultimi venti anni per lo sviluppo del mercato energetico italiano, dando impulso alla crescita della produzione da fonti rinnovabili, assume una posizione centrale il c.d. Conto energia[14], oggetto della pronuncia in commento. Esso consiste nell’erogazione di un incentivo aggiuntivo rispetto al prezzo di mercato (sistema feed in premium), il che – comportando il permanere di un margine di rischio in capo al produttore – può condurre tanto ad una situazione di insufficienza della misura incentivante a fronte di un prezzo di mercato molto basso, quanto, al contrario, ad un eccesso di incentivazione. Ed è proprio quest’ultimo il caso che ha connotato l’esperienza italiana, per tale ragione segnata da una “parabola discendente” del sistema incentivante: la progressiva riduzione dei costi necessari per la realizzazione e l’entrata in esercizio degli impianti FER, in uno con il notevole successo registrato dai diversi Conti energia susseguitisi nel tempo, hanno indotto il legislatore italiano a ridurre progressivamente l’entità ed il periodo di operatività delle tariffe incentivanti, operazione che – per le ragioni che si chiariranno infra – ha per l’appunto fatto sorgere il contenzioso di cui ci si occupa in questa sede[15].
Ai nostri fini occorre in ogni caso chiarire che le direttive europee in materia di promozione di energia rinnovabile hanno tutte riconosciuto una ampia discrezionalità agli Stati membri in ordine alla individuazione della tipologia di misure di sostegno ritenute necessarie per il raggiungimento degli obiettivi nazionali di produzione di energia “verde”; in tal senso non sussiste alcun obbligo di introduzione e mantenimento di un regime tariffario incentivante, a patto che gli obiettivi di promozione siano comunque raggiunti[16]. Ciò posto, tuttavia, la stessa Corte di Giustizia UE ha in più occasioni sottolineato che, una volta adottate misure di incentivazione, queste debbano essere gestite nel rispetto dei principi generali del diritto dell’Unione Europea, tra i quali figurano la certezza del diritto e la tutela del legittimo affidamento, essenziali per garantire la fiducia degli operatori economici e, di conseguenza, l’efficacia delle misure stesse[17]. La stessa direttiva 2009/28/CE, della quale la normativa oggetto di contestazione è attuazione, ribadisce in più di una occasione la centralità del rispetto dei principi di certezza del diritto e legittimo affidamento, laddove prevede l’esigenza di “creare la stabilità a lungo termine di cui le imprese hanno bisogno per effettuare investimenti razionali e sostenibili nel settore delle energie rinnovabili” (considerando n. 8), o afferma come “la principale finalità di obiettivi nazionali obbligatori è creare certezza per gli investitori” (considerando n. 14), o, ancora, sottolinea l’importanza di “garantire il corretto funzionamento dei regimi di sostegno nazionali […] al fine di mantenere la fiducia degli investitori” (considerando n. 25)[18].
3. La perimetrazione della tutela dell’affidamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia UE.
Come noto, al principio del legittimo affidamento – benché non espressamente menzionato nella Costituzione italiana – la Consulta ha da tempo riconosciuto un valore autonomo, il cui fondamento viene rinvenuto in alcune pronunce nel solo art. 3 Cost.[19] ed in altre in un parametro composito rappresentato dall’art. 3 e dalla disposizione di rango costituzionale garante del diritto o della libertà di volta in volta incisi negativamente dall’intervento retroattivo del legislatore[20]. In particolare, al cittadino è riconosciuta la tutela del legittimo affidamento sia nelle ipotesi in cui la norma retroattiva incida su posizioni giuridiche soggettive consolidate, sia in quelle fattispecie nelle quali l’effetto negativo della disposizione sopravvenuta ricada su rapporti di durata (c.d. retroattività impropria)[21]. L’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica e, più in generale, nella certezza del diritto[22], rappresenta senza dubbio un elemento fondante lo Stato di diritto; tuttavia, la giurisprudenza della Corte costituzionale chiarisce, da un lato, che affinché si possa configurare un legittimo affidamento tutelabile, la posizione giuridica incisa debba essere collocata in un contesto idoneo a far sorgere in capo al destinatario una ragionevole aspettativa di mantenimento della posizione giuridica favorevole e, dall’altro lato, che interessi pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi in grado di comprimere posizioni consolidate, a patto che “l’incidenza peggiorativa non sia sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito nell’interesse della collettività; per altro verso, che l’intervento di modifica sia prevedibile, non potendosi tollerare mutamenti retroattivi dell’assetto di interessi relativo a rapporti di durata consolidati nel tempo, del tutto inaspettati”[23].
Nella medesima scia anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, sebbene quest’ultima sia tendenzialmente volta a riconoscere una portata applicativa più estesa al principio del legittimo affidamento (espressamente qualificato “principio fondamentale della comunità”)[24], laddove ne sostiene l’operatività anche in ipotesi di normativa sopravvenuta non avente efficacia retroattiva, quale clausola che, più in generale, legittimerebbe i cittadini a fare affidamento sulla stabilità di una disciplina “di fronte ad una sua modifica improvvisa che non potevano ragionevolmente aspettarsi o qualora il comportamento dell’istituzione abbia fatto sorgere nell’interessato un’aspettativa ragionevolmente fondata”[25]. Tale prospettiva rende vieppiù non tollerabile un intervento legislativo che – incidendo retroattivamente su rapporti definiti o di durata – privi il singolo di una posizione giuridica consolidata sulla base della precedente normativa.
Tuttavia, anche la Corte di Giustizia – nel riconoscere ampio rilievo al principio del legittimo affidamento – nel contempo ne perimetra l’operatività, chiarendo che il singolo non può avvalersi del suddetto principio qualora un operatore economico “prudente ed accorto” avrebbe potuto/dovuto prevedere l’adozione di un provvedimento successivo atto a ledere i propri interessi[26]. Il giudice europeo, pertanto, individua un preciso limite alla tutela del legittimo affidamento nella prevedibilità del successivo mutamento (in senso peggiorativo) della regolazione, prevedibilità che evidentemente non consente il pieno consolidamento della posizione di cui beneficiava il soggetto: in tal senso, l’operatore economico che non ha tenuto in debita considerazione i caratteri (precari) della normativa nazionale ed europea di riferimento, ovvero non ha attribuito il giusto peso a precedenti comportamenti analoghi del regolatore, non è legittimato ad invocare la tutela del principio de quo[27].
In altri termini, la Corte esclude che il legittimo affidamento attribuisca all’operatore economico un diritto assoluto alla conservazione di una regolazione favorevole, riconoscendo, come è ovvio, alle autorità nazionali il potere discrezionale di intervenire modificando anche in senso peggiorativo un assetto normativo[28]. Tuttavia, tale intervento può incidere solo su posizioni giuridiche non ancora consolidatesi[29] e, nel contempo, oltre a fondarsi su motivi imperativi di interesse generale[30], deve trovare una sua adeguata giustificazione secondo parametri di ragionevolezza e prevedibilità. Con specifico riferimento ai rapporti di durata, poi, il giudice europeo chiarisce che la tutela del legittimo affidamento pretende che lo ius superveniens contempli anche una disciplina transitoria, nonché, se del caso, misure di compensazione, al fine di preservare gli operatori economici dai pregiudizi derivanti dal passaggio al nuovo regime[31].
In sintesi si può affermare come – secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE – la salvaguardia delle posizioni di vantaggio pregresse sia generalmente affidata al criterio della prevedibilità del mutamento della regolazione, nonché al principio della irretroattività delle norme sopravvenute[32]; come si avrà modo di illustrare, tuttavia, non solo il parametro della prevedibilità si rivela di difficile “oggettivizzazione”, ma in fattispecie quali quella in esame – incidenti su rapporti di durata – la stessa efficacia retroattiva o meno di una disposizione può risultare opinabile e oggetto di differenti ricostruzioni.
4. L’iter motivazionale della pronuncia: non configurabilità della violazione dell’art. 3, par. 3, lett. a) della direttiva 2009/28/CE.
4.1. Il parametro della prevedibilità.
I ricorrenti sostengono che l’art. 26 del d.l. n. 91/2014, nel modificare repentinamente in maniera svantaggiosa per i gestori di impianti fotovoltaici gli importi degli incentivi, violerebbe la stessa direttiva che la norma in questione è chiamata ad attuare: come detto, infatti, la dir. 2009/28/CE richiede agli Stati membri, tra l’altro, di definire una regolazione stabile, presupposto indispensabile affinché le imprese possano effettuare investimenti razionali e sostenibili nel settore delle energie rinnovabili. A ciò deve aggiungersi come, nel caso di specie, si stia discutendo di una legge di incentivazione, atta ad orientare l’iniziativa economica privata verso finalità di interesse pubblico, generando così “nei destinatari uno specifico affidamento nell’ottenimento del beneficio x al realizzarsi della condizione y”[33], affidamento al quale è riconosciuta una particolare “forza” proprio in ragione del “nesso eziologico tra l’incentivo e l’agire del privato”[34].
Ebbene, con la pronuncia in commento, la Corte di Giustizia esclude che possa configurarsi una lesione della direttiva citata e, quindi, del legittimo affidamento, ritenendo di poter qualificare chiaro e prevedibile l’operato del legislatore italiano, tale da consentire agli interessati di immaginare senza ambiguità la possibile evoluzione della loro posizione giuridica e di potersi regolare di conseguenza. In particolare, i giudici sottolineano come il d.gs. n. 28/2011, nell’introdurre il Quarto conto energia, indicasse una durata non predeterminata degli incentivi e prevedesse un tetto massimo di potenza elettrica incentivante, il che avrebbe dovuto indurre l’operatore economico accorto a prendere in considerazione la possibile riduzione o addirittura soppressione nel tempo del regime delle tariffe incentivanti. E’ facile obiettare, tuttavia, che quanto osservato vale senz’altro nei confronti dei soggetti che ambivano ad ottenere l’incentivo, non però per gli operatori economici che, come i ricorrenti, si erano già visti riconoscere il beneficio, non solo con provvedimento amministrativo, ma anche con la stipula di una convenzione ad hoc con il GSE. E’ vero che nei suddetti contratti il Gestore dei Servizi Energetici si riservava di modificare unilateralmente le condizioni di erogazione in ragione di eventuali sviluppi normativi, ma è evidente che tale ius modificandi dovesse essere attuato nel rispetto dei principi del legittimo affidamento e di proporzionalità, il che non è stato. La convenzione, infatti, riconosceva nello specifico al GSE la facoltà di “modificare le clausole […] in contrasto con il quadro normativo di riferimento”; al contrario, nei fatti, il legislatore del 2014 non si è limitato a variare il contenuto di alcune clausole, bensì ha completamente stravolto il modello di incentivazione!
La Corte di Giustizia, tra l’altro, “dimentica” di ricordare una circostanza invero dirimente in ordine al parametro della prevedibilità, ovvero che gli operatori economici avevano in più occasioni ricevuto espressa garanzia circa il mantenimento costante delle tariffe incentivanti per l’intero ventennio originariamente previsto: ci si riferisce alla lettera di riconoscimento delle tariffe, inviata dal GSE, seguita poi dalla stipula della convenzione tesa a regolare i rispettivi obblighi e diritti, documenti entrambi contenenti un chiaro riferimento al periodo di tempo ventennale di costante erogazione degli incentivi. Appare, quindi, quantomeno paradossale l’affermazione secondo la quale, a fronte di tali esplicite e ripetute rassicurazioni, un operatore economico prudente ed accorto avrebbe dovuto immaginare una loro rimodulazione in peius.
Nelle sue conclusioni[35], l’Avvocato Generale sostiene che le modifiche in senso peggiorativo avrebbero dovuto essere tanto più prevedibili a fronte della lunga durata della convenzione (20 anni). Eppure, è evidente come la scelta di una durata almeno ventennale dell’efficacia della misura incentivante derivasse quasi obbligatoriamente dalla necessità di rendere remunerativo l’ingente investimento iniziale (per la realizzazione e l’entrata in esercizio dell’impianto), ed è stato proprio il poter fare affidamento su un determinato incentivo per molti anni a venire ad indurre l’operatore economico ad effettuare un investimento senza dubbio “in perdita” per il primo periodo di attività. In altri termini, la natura stessa della legislazione incentivante in questione presuppone l’instaurazione di un rapporto stabile e duraturo, con la conseguenza che la durata ventennale della convenzione non può fungere certo da “indizio” di una possibile “non tenuta nel tempo” dello stesso regime tariffario.
La pronuncia in esame fonda altresì il presupposto della prevedibilità della rimodulazione del modello tariffario sulla circostanza che anche durante la vigenza dei precedenti Conti energia il legislatore italiano era intervenuto con riduzioni tariffarie “in corso d’opera”. Tuttavia, a ben vedere, nelle precedenti occasioni le suddette revisioni in senso peggiorativo del sistema incentivante trovavano applicazione unicamente pro futuro, ovvero nei confronti degli operatori economici titolari di impianti non ancora realizzati o non entrati in esercizio, non incidendo – come invece è accaduto nel caso di specie – su posizioni giuridiche consolidate, in quanto riferite a tariffe già riconosciute relativamente ad impianti operativi. Ne è prova il precedente della Corte di Giustizia 11 luglio 2019, Agrenergy s.r.l. e Fusignano Due s.r.l. c. Ministero dello Sviluppo Economico, cause riunite C-180/18, C-286/18 e C-287/18, laddove – nel decidere sulla compatibilità con il diritto UE della normativa italiana che aveva preventivamente “chiuso” il regime introdotto dal Quarto conto energia – ha condivisibilmente escluso che in quella circostanza si configurasse una lesione del principio del legittimo affidamento in capo a quegli operatori economici che non erano stati ancora ammessi al modello incentivante de quo (per mancato inserimento in apposito registro tenuto dal GSE e per superamento dell’importo complessivo massimo di incentivazione previsto). In quel caso, dunque, i ricorrenti non risultavano affatto assegnatari di incentivo e, pertanto, non avrebbero potuto vantare alcun legittimo affidamento nell’applicazione di quel regime al posto di quello (meno favorevole) successivamente introdotto dal Quinto conto energia.
4.2. Il parametro della retroattività della norma.
Le istituzioni europee appaiono ben consapevoli del rischio per lo sviluppo del mercato energetico derivante dall’introduzione, da parte degli Stati membri, di misure retroattive incidenti in senso peggiorativo sui regimi di sostegno. Una Comunicazione della Commissione del 2013 affermava inequivocabilmente che “le misure di sostegno devono rappresentare un impegno stabile, a lungo termine, trasparente, prevedibile e credibile nei confronti degli investitori”[36].
L’analisi del tema della retroattività della legge, con specifico riferimento alle normative contenenti incentivi tesi a indurre l’intrapresa di attività economiche altrimenti in perdita, ha indotto in passato parte della dottrina a riconoscere alle leggi di incentivazione una particolare “forza passiva”, tale da escludere del tutto la possibilità di una loro successiva modifica in peius determinante una riduzione o addirittura rimozione dei benefici originariamente concessi[37]: secondo tale orientamento, il peculiare patto di fiducia che si instaurerebbe tra operatore economico e regolatore condurrebbe ad una sorta di irretrattabilità[38] di quelle misure. Pur non aderendo a tale orientamento, la Corte costituzionale – nel chiarire che il principio della irretroattività della legge non penale non assurge a principio costituzionale – ha in più occasioni ribadito che ad esso il legislatore è tenuto comunque ad attenersi fin quando possibile, in ragione della primaria esigenza della garanzia della certezza del diritto[39].
Al riguardo, come già ricordato (v. § 3), la stessa Corte di Giustizia ha di frequente riconosciuto la tutela del legittimo affidamento non solo nei confronti di disposizioni propriamente retroattive, ma anche allorquando comportamenti o esplicite comunicazioni delle istituzioni abbiano ingenerato nel privato fondate aspettative circa il mantenimento di una evoluzione coerente della regolazione, ritenendo così meritevoli di tutela anche posizioni non formalmente consolidatesi.
Ebbene, in ordine alla fattispecie oggetto della pronuncia in commento, a ben vedere i giudici europei avrebbero potuto riconoscere la sussistenza di un legittimo affidamento tutelabile anche senza aderire alla suddetta applicazione estensiva del principio: come detto, nel caso di specie, il diverso (e meno favorevole) sistema incentivante imposto dall’art. 26 cit. riguarda soggetti ai quali l’incentivo era già stato formalmente riconosciuto, sia con provvedimento amministrativo che con la successiva stipula di un contratto di diritto privato. Affermare, come fa la Corte, che le convenzioni concluse con il GSE non assegnavano gli incentivi, limitandosi piuttosto a fissarne le modalità di erogazione, non muta la circostanza in base alla quale le tariffe incentivanti non erano state semplicemente “prospettate” agli operatori economici ricorrenti, bensì espressamente loro assegnate mediante una precedente decisione amministrativa: al fine di riconoscere la tutela del loro legittimo affidamento, pertanto, sarebbe stato sufficiente richiamare l’interpretazione maggiormente restrittiva del principio, secondo la quale la legge con effetti retroattivi non può incidere su diritti quesiti, ovvero su “fatti e rapporti che hanno spiegato tutti gli effetti loro e si sono esauriti sotto l’impero della norma antica”[40].
In altri termini, anche applicando la concezione meno “ampia” di irretroattività della norma, ovvero quella che contempla la tutela dell’affidamento di sole posizioni configurabili come aspettative consolidate e non meramente attese, nella fattispecie de qua la Corte di Giustizia avrebbe dovuto ritenere violativo del legittimo affidamento l’operato del legislatore italiano e, conseguentemente, del GSE. Se è vero, infatti, che la rimodulazione in peius non ha inciso sugli incentivi già concretamente erogati – nel senso che non ne ha previsto la restituzione parziale – essa ha comunque prodotto i suoi effetti su incentivi dovuti (nel senso di già riconosciuti, sebbene da erogare negli anni a venire), il che rende evidentemente non condivisibile quanto affermato dai giudici circa la portata non retroattiva dell’art. 26 cit. contestato. Del resto, incentivi attribuiti da un provvedimento, la cui modalità di erogazione è ulteriormente specificata da una convenzione, non possono essere considerati solo astrattamente previsti, se non ritenendo “dovuti” unicamente gli incentivi già effettivamente “erogati”, il che è evidentemente una contraddizione in termini. La dottrina parla, al riguardo, di “retroattività impropria”, intesa quale idoneità della norma – formalmente efficace solo pro futuro – ad incidere su elementi costitutivi di rapporti di durata i cui caratteri erano stati predefiniti da disposizioni precedenti[41].
La pronuncia in esame sembra piuttosto applicare quella risalente concezione del principio della irretroattività della legge che non individuava quale discrimine i diritti quesiti, quanto piuttosto l’idoneità o meno di incidere sul fatto generatore del diritto[42]; ma appare evidente che l’adesione a tale orientamento condurrebbe ad una sostanziale frustrazione del principio del legittimo affidamento in tutte le ipotesi di rapporti di durata, senza tenere in contro, tra l’altro, il fatto che, a differenza del principio della certezza del diritto, il diverso principio del legittimo affidamento rileva primariamente proprio in relazione alle situazioni giuridiche destinate a durare nel tempo[43].
Attesa la palese retroattività della disposizione contestata, non può sottacersi che in passato la Corte di Giustizia ha, invero, ritenuto recessiva la tutela del principio del legittimo affidamento anche a fronte dell’applicazione di misure meno favorevoli sostanzialmente retroattive, laddove, però, giustificate da motivi imperativi di interesse generale, nonché idonee a realizzare gli obiettivi perseguiti senza eccedere quanto necessario per raggiungerli[44]. Nel caso di specie, tuttavia, il legislatore italiano non solo ha giustificato la reformatio in peius del regime tariffario in ragione di interessi pubblici già ampiamente valutati in sede di introduzione del Quarto conto energia (l’accresciuta remuneratività degli incentivi, a fronte della riduzione dei costi di produzione, e la contestuale esigenza di ridurre i costi sopportati dagli utenti finali), ma nemmeno si è minimamente soffermato sugli elementi atti a dimostrare che le misure peggiorative introdotte non risultavano eccedenti rispetto a quelle necessarie per raggiungere i suddetti interessi pubblici.
Al riguardo, è bene ricordare che l’art. 23 del d.lgs. n. 28/2011, con il quale è stato introdotto il Quarto conto energia, prevedeva che qualsiasi intervento nell’ambito della suddetta misura dovesse essere conforme ai principi di gradualità, al fine di garantire la salvaguardia degli investimenti effettuati e di proporzionalità rispetto agli obiettivi. In aperta contraddizione con tale dettato normativo – nonostante, come si è già avuto modo di osservare, la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia affermi con chiarezza la necessità che eventuali riforme in senso peggiorativo di una precedente legge di incentivazione contemplino una normativa transitoria e misure di compensazione – nulla di tutto ciò è stato previsto al fine di mitigare gli effetti negativi sugli interessi degli operatori economici che in buona fede avevano fatto affidamento sul modello incentivante loro formalmente riconosciuto[45].
4.3. Non configurabilità della violazione del diritto di proprietà e della libertà di impresa di cui agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Gli operatori economici ricorrenti eccepiscono, accanto alla violazione del legittimo affidamento, anche la violazione degli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rispettivamente disciplinanti la libertà di impresa e il diritto di proprietà. Partendo da quest’ultimo – premesso che ai sensi della giurisprudenza CEDU i diritti di credito e le aspettative patrimoniali connesse allo svolgimento di un’attività economica rientrano pacificamente nella nozione di “bene” tutelabile ex art. 17 cit.[46] – la questione è verificare se la tutela della proprietà trovi o meno applicazione in relazione ad incentivi formalmente riconosciuti ma non ancora erogati. Ebbene, la Corte di Giustizia ritiene che, nel caso di specie, la mera assegnazione dell’incentivo energetico nell’ambito di un regime di sostegno, per quanto formalizzato con provvedimento amministrativo e successiva convenzione, non faccia sorgere in capo all’operatore economico una “posizione giuridica acquisita” e, pertanto, non possa rientrare nella tutela del diritto di proprietà ai sensi della Carta dei diritti fondamentali UE. Anche per tale profilo, a ben vedere, assume rilievo centrale il tema del riconoscimento o meno in capo ai ricorrenti di un legittimo affidamento, laddove i giudici europei escludono l’applicabilità dell’art. 17 cit. in quanto quest’ultimo coprirebbe unicamente crediti già percepiti o rispetto ai quali vi sarebbero “circostanze specifiche che possono fondare, in capo all’interessato, il legittimo affidamento di conseguirne il valore patrimoniale”[47].
Nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Saugmandsgaard, si legge, inoltre, che l’investimento effettuato dagli operatori economici per la realizzazione e messa in esercizio degli impianti, inciso negativamente dalla rimodulazione dell’incentivo, non rientrerebbe nel patrimonio tutelabile ex art. 17 della Carta dei diritti fondamentali UE, in quanto la riduzione dell’importo dell’incentivo disposta dal contestato art. 26 cit. non avrebbe comportato una limitazione o una restrizione del diritto di proprietà dei ricorrenti. In realtà, occorrerebbe distinguere tra quegli investimenti realizzati in vista di una ipotetica attività futura e quelli, invece, realizzati e resi operativi a fronte di una posizione giuridica consolidata e connessa proprio all’entrata in esercizio dell’impianto di energia da fonti rinnovabili. Al riguardo, ad esempio nel passaggio tra il Terzo e il (meno favorevole) Quarto conto energia, la giurisprudenza amministrativa ha correttamente ritenuto non sussistente la lesione del legittimo affidamento in quanto la nuova regolazione (peggiorativa) trovava applicazione unicamente nei confronti di quegli operatori economici che non avevano ancora attuato l’entrata in esercizio dell’impianto, considerato fatto costitutivo del diritto alla percezione degli incentivi[48]; al contrario, nella fattispecie oggetto della pronuncia in commento, quel “momento” ritenuto indice del fatto costitutivo del diritto a beneficiare del modello incentivante (l’entrata in esercizio dell’impianto) era ampiamente trascorso e, pertanto, i soggetti vantavano evidentemente una posizione giuridica consolidata[49].
In merito alla eccepita violazione della libertà di impresa di cui all’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali UE, rileva, in particolare, la c.d. libertà contrattuale, ovvero la libertà di disporre delle proprie risorse economiche con consapevolezza e senza restrizioni ingiustificate. Al riguardo, la Corte di Giustizia afferma che in realtà i contratti firmati tra gli operatori economici e il GSE configuravano contratti-tipo, con la conseguenza che la libertà contrattuale non poteva riguardare il loro contenuto (già predeterminato), bensì solo la scelta di sottoscriverli o meno. Tale considerazione, invero, non sembra dirimente, in quanto – come ricorda la stessa Corte – l’art. 16 cit. tutela anche la libertà di condurre la propria attività economica assumendo scelte autonome, responsabili e consapevoli[50]: nel caso di specie appare innegabile che l’art. 26 contestato, rimodulando in modo retroattivo il sistema di incentivazione, ha avuto un notevole impatto sull’organizzazione delle attività economiche del titolare dell’impianto energetico, sia sottraendogli risorse economiche spettantegli (gli incentivi già riconosciuti), sia riducendo il valore degli investimenti infrastrutturali effettuati facendo affidamento sulla durata predeterminata del sistema di incentivazione. La rimodulazione tariffaria effettuata, infatti, modificando ex post “i fattori” sulla base dei quali l’operatore economico ha deciso di investire nelle fonti rinnovabili, incide anche sulle scelte finanziarie dallo stesso effettuate a monte, quali la durata di eventuali finanziamenti, l’efficacia dei contratti stipulati per la disponibilità di aree o per il noleggio di beni, nonché l’entità e la durata dei contratti di assicurazione[51].
5. Legislazione incentivante, recessività della tutela dell’affidamento e incertezza del diritto.
Si è osservato come le leggi di incentivazione vengano oggi inquadrate nell’ambito di quelle politiche di tutela ambientale lontane dal modello tradizionale del command and control e fondate piuttosto su meccanismi tipici delle dinamiche di mercato. Ciò non esclude affatto l’intervento pubblico, semplicemente esso assume un ruolo diverso: non ordina e controlla, bensì disciplina e regolamenta un mercato artificiale, volto a rendere “conveniente” per l’operatore economico assumere scelte rispettose del principio dello sviluppo sostenibile. Tale modello è in grado di funzionare, però, unicamente a fronte di una regolazione stabile, che “confermi” le legittime aspettative di profitto da essa stessa generate nell’operatore economico; in caso contrario i benefici derivanti dall’utilizzo di meccanismi di mercato vengono annullati, contraddicendo la stessa ratio dell’intervento pubblico[52]. E’ evidente che non si intendere mettere in discussione il potere dello Stato di variare l’assetto normativo in ragione di nuove e più attuali valutazioni degli interessi pubblici coinvolti, ma ciò deve avvenire a fronte di motivi imperativi e comunque con effetti non retroattivi, pena il possibile vulnus del principio del legittimo affidamento.
La pronuncia in commento conclude per l’insussistenza di un legittimo affidamento tutelabile in capo all’operatore economico, sostenendo in sintesi che: a) la reformatio in peius in questione non avrebbe carattere retroattivo; b) l’operatore economico “accorto” avrebbe potuto prevedere la successiva modifica del regime incentivante. Come si è cercato di dimostrare supra, invero, le conclusioni cui giunge la Corte di Giustizia non sono condivisibili, né in relazione al profilo della portata retroattiva, né con riguardo alla presunta prevedibilità dell’intervento. La rimodulazione tariffaria operata dal legislatore italiano nel 2014, infatti, ha inciso negativamente non solo pro futuro bensì su posizioni giuridiche consolidate, in quanto espressamente riconosciute con provvedimento amministrativo, nonché disciplinate nel dettaglio mediante successivo contratto di diritto privato, frustrando, senza alcuna forma di compensazione, legittime scelte economico-finanziarie effettuate anche sulla base di ripetute rassicurazioni da parte dello Stato e del GSE circa la stabilità dell’assetto incentivante.
In ordine al profilo della “prevedibilità”, secondo giurisprudenza della stessa Corte, l’operatore economico prudente e accorto non può invocare la tutela dell’affidamento a fronte di prevedibili mutamenti delle regolazione, circostanza che non può dirsi sussistesse nel caso di specie[53]. Le chiare indicazioni normative circa la stabilità del sistema di incentivazione, le espresse comunicazioni in tal senso da parte del Ministero, la sottoscrizione di una convenzione di diritto privato comportante diritti e doveri reciproci, hanno innegabilmente fatto sorgere in capo ai titolari degli impianti un legittimo affidamento, generato da un precedente comportamento univoco tale da far presumere che i successivi interventi sarebbero stati coerenti e compatibili[54]. Del resto, se si volesse seguire con coerenza il ragionamento della Corte, non si comprende come si sarebbe dovuto comportare l’operatore economico “prudente”: dovendosi egli attendere una “possibile” riduzione dell’incentivazione successiva alla formale attribuzione della stessa, avrebbe potuto decidere di non aderire affatto al sistema tariffario agevolato in ragione dell’eccessiva alea ad esso connessa o, al contrario, avrebbe potuto contemplare nel piano finanziario una possibile futura riduzione degli incentivi, senza tuttavia poterne misurare in alcun modo l’entità. Sembra quasi che più che ad un operatore economico prudente, la Corte rinvii ad un operatore economico “veggente”.
Senza poi voler considerare come una parte della dottrina qualifichi addirittura “contraddittoria” una legge incentivante connotata da una prevedibile instabilità[55]. Secondo tale orientamento, il criterio dell’operatore economico prudente non dovrebbe trovare applicazione nelle ipotesi nelle quali sia lo stesso regolatore ad aver indotto l’operatore economico ad effettuare determinati investimenti, ovvero allorquando esista un rapporto di consequenzialità tra il riconoscimento dell’incentivo e l’agire del privato: “si tratterebbe di un affidamento per così dire rafforzato dalla sussistenza del predetto nesso di causalità”[56]. Sarebbe in effetti davvero paradossale legittimare il comportamento di un regolatore che, in un primo momento, interviene per “pilotare” le scelte imprenditoriali in vista del conseguimento di un fine pubblico, e successivamente frustra le legittime aspettative di quegli stessi imprenditori che, con il loro investimento indotto, hanno consentito al medesimo soggetto pubblico di conseguire l’interesse perseguito.
Ebbene, attesa l’esistenza di un legittimo affidamento, ciò che occorre stabilire è se esso sarebbe potuto/dovuto essere sacrificato a fronte di una situazione eccezionale tale da imporre al legislatore un diverso e “anticipato” nuovo bilanciamento degli interessi pubblici in gioco. Insomma, ciò che rileva è il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità dell’intervento in peius, misurabile in relazione alla assoluta necessità dello stesso e, nel contempo, all’adeguata considerazione delle posizioni giuridiche preesistenti. Ebbene, come si è illustrato, nella fattispecie de qua non è possibile registrare alcun evento eccezionale o esigenza inderogabile tale da bilanciare l’incontestabile offensività dell’intervento e, quindi, giustificare la lesione del legittimo affidamento degli operatori economici. A ben vedere, il Governo italiano ha originariamente “sbagliato i calcoli”, introducendo un sistema di incentivi particolarmente favorevole che ha indotto numerosi operatori ad usufruirne: in tal modo gli obiettivi di energia pulita si sono rivelati raggiungibili in un periodo di tempo più breve rispetto a quello ipotizzato ed il regolatore ha così ritenuto di porre rimedio ad una propria errata politica di programmazione energetica riducendo gli incentivi anche nei confronti di coloro ai quali gli stessi erano già stati formalmente riconosciuti.
Sul punto viene nuovamente in rilievo la già richiamata Comunicazione della Commissione del 2013, ove si afferma per l’appunto che “la necessità di modificare le condizioni previste dalla regolamentazione per rispondere agli sviluppi del mercato non giustifica l'applicazione retroattiva delle modifiche agli investimenti già effettuati, nei casi in cui le stesse modifiche siano dovute all'incapacità delle autorità pubbliche di prevedere correttamente tali sviluppi o di adattarvisi per tempo. L'applicazione retroattiva delle modifiche in queste circostanze compromette gravemente la fiducia degli investitori e va per quanto possibile evitata”[57]. Insomma, legittime esigenze di razionale utilizzo delle risorse pubbliche consentono senza dubbio al legislatore di rivedere le proprie politiche di incentivazione, eventualmente “sovrastimate”, ma solo per il futuro, non certo nei confronti di posizioni già acquisite. La stessa Corte costituzionale, in passato, nel perimetrare l’ambito di rilevanza del legittimo affidamento, ha sancito l’incostituzionalità di una disposizione che incideva negativamente su un rapporto di durata, giustificata unicamente sulla base dell’esigenza di contenimento della spesa pubblica: nell’occasione, la Consulta ha espressamente stabilito che una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica non può “risultare, sempre e comunque, e quasi pregiudizialmente, legittimata a determinate la compromissione di diritti maturati o la lezione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi”[58].
Ragionando per analogia, a ben vedere, può sostenersi che al fine di verificare il rispetto del principio del legittimo affidamento da parte del legislatore che incide in senso peggiorativo su posizioni giuridiche preesistenti, si dovrebbero applicare i medesimi criteri che sovrintendono l’esercizio del potere di revoca da parte di una p.a.[59]: adeguata ponderazione dell’interesse privato leso; esternazione delle sopravvenute ragioni di interesse pubblico che hanno indotto il regolatore a “deviare” dal percorso atteso; corresponsione di un indennizzo (misura compensativa) nei confronti del soggetto pregiudicato nell’affidamento. Tale approccio si rivela, del resto, coerente con quella giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia che impone la previsione di una disciplina transitoria e, nel caso, l’adozione di misure compensative, per mitigare gli impatti sfavorevoli su legittime aspettative a fronte di mutamenti della regolazione[60]. In senso analogo anche alcune pronunce della Corte costituzionale, laddove affermano la legittimità di interventi in peius unicamente in presenza di disposizioni volte a temperare gli effetti negativi sui rapporti di durata[61].
Appare significativo, a questo punto, segnalare come le critiche in questa sede sollevate alla pronuncia della Corte di Giustizia in commento si pongano in linea con quanto disposto – sulla medesima vicenda – dal Tribunale arbitrale internazionale, il quale giunge a conclusioni opposte rispetto a quelle della nostra Corte costituzionale e della Corte di Giustizia. Con decisione del 23 dicembre 2018, il Tribunale arbitrale ha condannato lo Stato italiano a risarcire gli operatori economici per violazione dell’art. 10 della Energy Charter Treaty, laddove impone di “creare stabili, eque, favorevoli e trasparenti condizioni per gli investitori”: nel caso di specie, secondo gli arbitri, “al momento dell'investimento, i ricorrenti erano stati indotti a ritenere, ragionevolmente, che le tariffe incentivanti sarebbero rimaste le stesse, come promesse nel Conto Energia, nelle comunicazioni del GSE e nei contratti con il GSE, per un periodo ventennale”, con la conseguenza che – avendo lo Stato fornito assicurazioni espresse che nessuna modifica si sarebbe verificata – esso è responsabile nel non aver accordato “un trattamento giusto ed equo agli operatori economici” attraverso forme di compensazione[62].
In conclusione, dall’esame della pronuncia in commento sembrerebbe emergere un nuovo orientamento della Corte di Giustizia, ovvero che in alcuni settori particolarmente esposti alle oscillazioni dei mercati e agli avanzamenti dello stato della tecnica (quali quello della produzione di energia), la tutela del legittimo affidamento dell’operatore economico assumerebbe un carattere intrinsecamente debole. In realtà, se si può convenire sull’esigenza che in determinati contesti un modello regolatorio “rigido” risulterebbe fallimentare e che il legislatore debba potersi rapidamente adattare alle nuove esigenze che nel tempo emergono dalle dinamiche proprie della materia oggetto di regolazione, è pur vero che l’incertezza endemica che contraddistingue i sistemi giuridico-economici contemporanei[63] non giustifica una negazione quasi assoluta del principio del legittimo affidamento, anzi, al contrario ne pretende un rafforzamento: proprio in ragione delle incertezze “esterne” e non prevedibili, il cittadino e (ancor di più) l’operatore economico deve poter pretendere il più elevato livello di coerenza nelle scelte regolatorie, non potendosi ritenere legittime riforme incidenti in peius su posizioni giuridiche acquisite o su legittime aspettative di diritto, riforme dettate da semplici “ripensamenti” di ordine politico-economico e non da esigenze eccezionali ed imperative[64].
Un’ultima osservazione. Se anche si volesse aderire all’idea che la tutela dell’affidamento non precluda l’intervento retroattivo in peius da parte del regolatore su posizioni consolidate in materia di incentivi, in ogni caso nella vicenda in esame il legislatore italiano ha senza dubbio violato la direttiva 2009/28, che la stessa normativa interna contestata era chiamata ad attuare. Se è vero, infatti, che la citata direttiva non esclude espressamente una rimodulazione degli incentivi, è altrettanto vero che l’intero sistema da essa introdotto si fonda sui principi di stabilità e certezza della regolazione; e questo non solo e non tanto in ragione della tutela dell’affidamento degli operatori economici, quanto piuttosto al fine di consentire il conseguimento degli obiettivi di politica energetica individuati nella medesima normativa europea. Al riguardo, appare significativa la circostanza che nella pronuncia in commento la Corte non si soffermi affatto sul profilo, pur eccepito dai ricorrenti, della violazione del principio dell’effetto utile, ai sensi del quale, come noto, gli Stati membri non sono semplicemente tenuti ad attuare le direttive, ma devono anche astenersi dal porre in essere qualsiasi misura idonea a frustrare il raggiungimento dei risultati dalle stesse individuati[65]: è innegabile che il rischio che il modello di legislazione incentivante “altalenante” offerto dal legislatore italiano possa scoraggiare i futuri investimenti privati nello sviluppo della produzione di energia rinnovabile sia particolarmente elevato. Tale pericoloso indirizzo, tra l’altro, assume oggi vieppiù rilevanza a fronte delle sfide lanciate dall’Unione Europea, con il Green Deal (2019) e il più recente pacchetto di proposte legislative su energia e clima Fit for 55 (2021): la riduzione del 55% delle emissioni di gas serra ed il contestuale 27% di quota di energia consumata da fonti rinnovabili entro il 2030, sono obiettivi ambiziosi che, per essere raggiunti, necessitano di interventi su più fronti (meno burocrazia, autorizzazioni uniche, regole chiare) e che i singoli Stati potranno conseguire unicamente in stretta collaborazione con i privati (cittadini e operatori economici), il che presuppone evidentemente l’instaurazione di un clima di fiducia tra le parti, un impianto regolatorio semplice e certo, tale da far insorgere (e, nel caso, tutelare) una posizione di legittimo affidamento in coloro che saranno chiamati a contribuire, con il loro investimenti, nella prospettata rivoluzione verde.
[1] Il T.A.R. del Lazio ha proposto nello stesso periodo alla Corte di Giustizia UE altre tre domande pregiudiziali identiche, tutte sospese fino alla emanazione della pronuncia che si commenta in questa sede (si tratta delle cause C-306/19, Milis Energy c. M.S.E.; C-512/19, Go Sun e Malby Energy c. M.S.E.; C-595/19 Fototre c. M.S.E.).
[2] La letteratura in tema di tutela del legittimo affidamento del cittadino nei confronti della p.a. è vastissima. Da ultimo, per una completa ricostruzione del tema v. E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 173 ss.
[3] In tema di attività normativa e tutela del legittimo affidamento v., ex multis, P. Carnevale, G. Pistorio, Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino dinanzi alla legge, fra garanzia costituzionale e salvaguardia convenzionale, in Costituzionalismo.it, 2014; D.U. Galetta, Legittimo affidamento e leggi finanziarie, alla luce dell'esperienza comparata e comunitaria: riflessioni e proposte per un nuovo approccio in materia di tutela del legittimo affidamento nei confronti dell'attività del legislatore, in Foro amm., 6/2008, 1899 ss.
[4] V. Cerulli Irelli, Sul principio del legittimo affidamento, in Rivista italiana delle scienze giuridiche, 2014, 255.
[5] M. Luciani, Gli aiuti di Stato nella Costituzione Italiana e nell’ordinamento europeo, in Eurojus, 3/2019, 70.
[6] Corte cost., 24 gennaio 2017, n. 16, in www.cortecostituzionale.it. Per un commento della pronuncia v. E. Mariani, Stabilità degli incentivi alle fonti rinnovabili e potere rimodulativo del Legislatore: il punto di vista della Corte costituzionale, in Federalismi.it, 2017. Alla sentenza n. 16/2017 è seguita, poi, l’ordinanza 12 giugno 2017, n. 138, con la quale la Corte costituzionale ha affrontato i profili che residuavano, da un lato, escludendo la natura sanzionatoria della introduzione del nuovo regime incentivante e, dall’altro lato, evidenziando la carenza di una adeguata motivazione da parte del giudice remittente in ordine alla presunta violazione dell’art. 97 Cost.
[7] M. Gigante, Mutamenti nella regolazione dei rapporti giuridici e legittimo affidamento. Tra diritto comunitario e diritto interno, Milano, 2008, 24.
[8] Cfr. anche il Libro Verde UE: Una Strategia Europea per Energia Sostenibile, Competitiva e Sicura, COM (2006) 105 dell’8 marzo 2006 e la Comunicazione della Commissione 2010/639 del 10.11.2010 (Energia 2020: strategia per un’energia competitiva, sostenibile e sicura).
[9] Ci si riferisce, in particolare, ai Certificati verdi, ai Certificati bianchi, alla Tariffa omnicomprensiva ed al c.d. Conto energia. Per un’analisi dei diversi regimi di sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili si rinvia a M. Cocconi, Gli incentivi alle fonti rinnovabili e i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento del cittadino, in Amministrazione in cammino, 2014, 1 ss.
[10] L. Ammannati, La transizione energetica nell’Unione Europea. Il nuovo modello di governance, in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 11.
[11] M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007.
[12] “Ogni decisione collettiva, che pecchi in eccesso o in difetto, genera livelli di inquinamento troppo alti o, alternativamente, sprechi ed ingiustificate perdite di benessere”, M. Cafagno, Mercato e ambiente, in Studi sul Codice dell’Ambiente, a cura di M.P. Chiti e R. Ursi), Torino, 2009, 67.
[13] F. Fracchia, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in AA.VV., Analisi economica e diritto amministrativo, Milano, 2007, 105 ss.
[14] Per un esame dell’evoluzione della disciplina del modello Conto energia sia consentito rinviare a M. Calabrò, Energia, ambiente e semplificazione amministrativa, in www.giustiziainsieme.it, 2021.
[15] G. Landi, C. Scarpa, Il livello ottimale degli incentivi verso la grid parity, in G. Napolitano, A. Zoppini (a cura di), Annuario di diritto dell’energia. Regole e mercato delle energie rinnovabili, Bologna, 2013, 80 ss.
[16] Corte Giust. UE, 11 luglio 2019, Agrenenergy e Fusignano Due, C-180/18; C-286/18; C-287/18.
[17] Corte Giust. UE, 1 luglio 2014, Alands Vindkraft, C-573-12; Corte Giust. UE, 11 settembre 2014, Essent Belgium NV, C-204/12 e C-208/12. In senso analogo v. anche la Comunicazione della Commissione Europea del giugno 2012 Renewable Energy: a major player in the European Energy market.
[18] In senso analogo anche la direttiva 2018/2001/UE, che ha sostituito la 2009/28/CE, laddove dispone che “le politiche di sostegno all’energia rinnovabile dovrebbero essere prevedibili e stabili […] Gli Stati membri dovrebbero fare in modo che un’eventuale revisione del sostegno concesso ai progetti di energia rinnovabile non incida negativamente sulla loro sostenibilità economica”.
[19] Cfr. Corte cost., 20 maggio 2016, n. 108.
[20] Cfr. Corte cost., 3 8 2005, n. 31. Ma, sul punto, v. F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “trenta” all’“alternanza”, Milano, 2001, laddove afferma che “Il principio di ragionevolezza che si vuole ricavare dall’art. 3 non riguarda il fondamento della tutela del legittimo affidamento, bensì l’applicazione del principio di buona fede per tutelare il legittimo affidamento del cittadino determinato dal legislatore”, 6.
[21] F.F. Pagano, Il principio di affidamento nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, in www.gruppodipisa.it, 2014, 4.
[22] In realtà, la dottrina ha da tempo chiarito come certezza del diritto e legittimo affidamento – benché accomunati dalla comune matrice rappresentata dall’esigenza di garantire la sicurezza dei rapporti giuridici – configurino due principi nettamente distinti: mentre la certezza del diritto – intesa come conoscibilità e prevedibilità delle norme – assurge a valore fondante dell’ordinamento, il legittimo affidamento postula l’esigenza di un bilanciamento di interessi, quello alla stabilità della normativa e quello all’evoluzione della regolazione, anche, se del caso, con effetti pregiudizievoli nei confronti di posizioni pregresse. Sul tema v. A. Travi, Considerazioni critiche sulla tutela dell’affidamento nella giurisprudenza amministrativa (con particolare riferimento alla incentivazione ad attività economiche), in Rivista della regolazione dei mercati, 2016, 6 ss.
[23] Corte cost., 26 aprile 2018, n. 89; Corte cost., 21 luglio 2013, n. 203.
[24] Corte Giust. UE, 5 maggio 1981, in Dir. e giur. agr., 1983, 54; Corte Giust. UE, 10 dicembre 2015, Valsts ienemumu dienests, C-427/14.
[25] V. Pampanin, Legittimo affidamento e irretroattività della legge nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, in Giustamm.it, 2015, 9, il quale cita Corte Giust. UE, 14 luglio 2004, Di Leonardo Adriano Srl e Dilexport Srl, C-37/02 e C-38/02; Corte Giust. UE, 4 ottobre 2017, Commissione c. Italia, C-217/06; Corte Giust. UE, 14 giugno 2011, Pfleiderer AG, C-360/09.
[26] Cfr. Corte Giust. UE, 10 settembre 2009, Plantanol GmbH & Co. KG c. Hauptzollamt Darmstadt, C-201/08; Corte Giust. UE, 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading Kft c. Nemzeti Adò, C-536/12; Corte Giust. UE, 11 luglio 2019, Agrenergy e Fusignano Due, C-18018, C-286/18, C-287/18.
[27] Corte Giust. UE, 10 dicembre 2015, Valsts ienemumu dienests, C-427/14; Corte Giust. UE, 11 marzo 1987, Van den Bergh en Jurgius, C-265/85.
[28] Corte Giust. UE, 7 settembre 2006, Spagna c. Consiglio, C-310/04; Corte Giust. Ue, 15 luglio 2004, Di Lenardo e Dlexport, C-37/02, C-38/02.
[29] Corte Giust. UE, 3 maggio 1978, August Topfer & Co. c. Commissione, C-112/77.
[30] Corte Giust. UE, 20 dicembre 2017, Global Starnet Ltd c. Ministero dell’Economia e delle Finanze, C- 322/2016.
[31] Corte Giust. UE, 11 giugno 2015, Berlington Hungary, C-98/14; Corte Giust. UE, 6 marzo 2003, Nienmann, C-4/01; Corte Giust. UE, 16 maggio 1979, Tomadini, C-84/78. Su tale profilo v. S. Bastianon, La tutela del legittimo affidamento nel diritto dell'Unione europea, Milano, 2012, 104.
[32] A.M. Sandulli, Il principio di irretroattività delle leggi e la costituzione, in Foro amm., 1947, 73 ss.; V. Caianiello, Il problema della retroattività delle leggi e i principi della certezza e dell’affidamento, in Notariato, 2001, 345 ss.
[33] M. Luciani, Gli aiuti di Stato nella Costituzione Italiana e nell’ordinamento europeo, cit., 72.
[34] F.F. Pagano, Disposizioni di natura incentivante e meritevolezza dell’affidamento ingenerato dal legislatore, in www.rivistaaic.it, 2017, 10. In senso analogo anche A. Travi, Considerazioni critiche sulla tutela dell’affidamento nella giurisprudenza amministrativa (con particolare riferimento alla incentivazione ad attività economiche), cit.
[35] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62018CC0798&from=EN.
[36] Comunicazione della Commissione Europea, COM[2013]7243, Realizzare il mercato interno dell'energia elettrica e sfruttare al meglio l'intervento pubblico, 13.
[37] G. Guarino, Sul regime costituzionale delle leggi di incentivazione e di indirizzo, in Scritti di diritto pubblico dell’economia e di diritto dell’energia, Milano, 1962, 174 ss.; A. Loiodice, Revoca di incentivi economici ed eccesso di potere legislativo, in Scritti degli allievi offerti ad Alfonso Tesauro, II, Milano, 1968, 796 ss.
[38] M. Luciani, Gli aiuti di Stato nella Costituzione Italiana e nell’ordinamento europeo, cit., 73.
[39] Cfr. Corte cost., 4 aprile 1990, n. 155; Corte cost., 27 luglio 1982, n. 143; Corte cost., 27 luglio 1976, n. 194.
[40] G. Furgiuele, Diritti acquisiti (voce), in Dig. Disc. Priv., sez. civ., V, Torino, 1980, 370, la cui citazione è presente in V. Pampanin, Legittimo affidamento e irretroattività della legge nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, cit., 3.
[41] V. Onida, Poteri pubblici e tutela dell’affidamento, in AA.VV., Il difficile mercato, Milano, 2017, 22.
[42] D. Donati, Il contenuto del principio della irretroattività della legge, Roma, 1915.
[43] Sui rischi derivanti dalla tendenza di una certa giurisprudenza ad escludere dall’applicazione del principio del legittimo affidamento “tutte le ipotesi in cui la situazione giuridica soggettiva non consista in un diritto perfetto ormai definitivamente acquisito al patrimonio giuridico dell’interessato” v. V. Pampanin, Legittimo affidamento e irretroattività della legge nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, cit., 20.
[44] Cfr. Corte Giust. UE, 20 dicembre 2017, Global Starnet Ltd c. Ministero dell’economia e delle finanze, C-322/2016, con la quale i giudici europei hanno ritenuto compatibile con il diritto UE l’introduzione di nuovi requisiti ed obblighi a carico di soggetti già concessionari nel settore della gestione telematica del gioco lecito.
[45] Per la giurisprudenza della Corte di Giustizia si rinvia alla precedente nota 31. Sul rapporto tra legittimo affidamento e portata garantistica delle disposizioni transitorie, quali misure volte a regolare il passaggio fra assetti normativi, v. G. Matucci, Tutela dell’affidamento e disposizioni transitorie, Padova, 2009.
[46] Cfr. Corte EDU, 9 giugno 2009, n. 16861/02; Corte EDU, 8 febbraio 2011, n. 16021/02.
[47] Sulla ridotta incidenza della giurisprudenza della CEDU in tema di tutela del legittimo affidamento nelle decisioni (maggiormente restrittive) della Corte Costituzionale si rinvia a P. Carnevale, G. Pistorio, Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino dinanzi alla legge fra garanzia costituzionale e salvaguardia convenzionale, in Costituzionalismo.it, 1/2014.
[48] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 2 aprile 2013, n. 3274.
[49] Nelle sue conclusioni, l’Avvocato Generale sostiene, altresì, che il diritto all’incentivo non potrebbe dirsi “acquisito” per il solo fatto di essere stato riconosciuto da un atto amministrativo e da un successivo contratto di diritto privato. A riprova di ciò richiama la decisione (Corte Giust. UE, 26 maggio 2016, Ezernieki, C-273/15) con la quale si afferma che non è “acquisito” un aiuto di Stato laddove sia prevista a monte la sua rimborsabilità nell’ipotesi in cui emerga che il soggetto non era in possesso dei requisiti richiesti. Il parallelismo, tuttavia, non pare calzante: nell’ipotesi degli aiuti di Stato, infatti, era già prevista in partenza una sorta di “fragilità intrinseca” della sovvenzione; al contrario, nel caso degli incentivi energetici l’attribuzione della tariffa agevolata non era assoggettata ad alcuna condizione o verifica successiva: una revisione delle condizioni, non preventivata, non può certo rendere ex post un diritto acquisito un diritto non definitivo!
[50] Corte Giust. UE, 30 giugno 2016, Lidl, C-134/15; Corte Giust. UE, 20 dicembre 2017, Polkomtel, C-277/16.
[51] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 16 novembre 2018, n. 11124. “Operare, come ha fatto il legislatore del 2014, una riduzione degli incentivi già concessi vuol dire alterare l’equilibrio economico-finanziario sulla base del quale il privato ha programmato l’investimento, in quanto i costi dello stesso sono già stati sostenuti – e su di essi non incide la progressiva riduzione indotta dal miglioramento della tecnologia – mentre vengono ridotte le entrate” (F. Scalia, Incentivi alle fonti rinnovabili e tutela dell’affidamento, in Il diritto dell’economia, 1/2019, 257).
[52] M. Cocconi, Gli incentivi alle fonti rinnovabili e i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento del cittadino, cit., 4.
[53] Non è un caso che nelle conclusioni dell’Avvocato Generale si legga che una modifica degli importi degli incentivi svantaggiosa per gli operatori economici “non potesse essere considerata imprevedibile” il che, evidentemente, è molto diverso dal sostenerne la prevedibilità.
[54] Sulla relazione tra coerenza comportamentale e legittimo affidamento v. E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, cit., 176.
[55] F. Scalia, Incentivi alle fonti rinnovabili e tutela dell’affidamento, cit., 256.
[56] F.F. Pagano, Il principio di affidamento nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, cit., 21.
[57] Comunicazione della Commissione Europea, COM[2013]7243, Realizzare il mercato interno dell'energia elettrica e sfruttare al meglio l'intervento pubblico, 13.
[58] Corte cost., 22 maggio 2013, n. 92.
[59] M. Immordino, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino, 1999.
[60] Cfr. la precedente nota 31.
[61] Cfr. Corte cost., 7 luglio 2005, n. 264; Corte cost., 17 dicembre 2013, n. 310.
[62] Tribunale arbitrale internazionale, Greentech Energy Systems A/S, et al v. Italian Republic, SCC Case No. V 2015/095, reperibile in https://www.italaw.com/sites/default/files/case-documents/italaw10291.pdf.
[63] Sulle conseguenze derivanti dall’incertezza e la precarietà che caratterizzano le società postmoderne è doveroso il rinvio a Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, 1999.
[64] “Non si può invero non rappresentare che uno dei più seri fattori di rischio per l’economia di un Paese sia costituito dall’incertezza delle regole che presiedono al corretto esercizio dei poteri pubblici (amministrativi e giurisdizionali) con i quali gli operatori e gli investitori sono costretti a rapportarsi”, M.A. Sandulli, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, in Federalismi.it, 2018, 3-4.
[65] Corte Giust. UE, 11 settembre 2012, Nomarchiaki Afrodiokisi Aitoloakarnanias, C-43-10; Corte Giust. UE, 28 aprile 2011, Hassen El Dridi, C-61/11.
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