ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Un manifesto costituzionale: recensione a Tania Groppi, Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale
di Corrado Caruso*
1. Con “Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale” (Laterza, 2021), Tania Groppi detta un manifesto per le politiche costituzionali del tempo presente. Non si tratta di una paludata opera di diritto costituzionale, di un volume che, a partire dalla Costituzione repubblicana, si inerpica sulle strade scoscese della tecnica giuridica. Il lavoro di Groppi è invece un agile e colto pamphlet che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle derive individualiste ed elitarie della società contemporanea, per certi versi assai lontana dalla società “promessa” dalla nostra Costituzione. È bene però sgombrare il campo da un possibile equivoco: Groppi non cede alla giaculatoria secolarizzata, non compone un cahier de doléance intriso di pessimismo e rassegnazione. Il volume che qui si recensisce è, piuttosto, un richiamo alla necessità di un’educazione culturale ispirata ai principi costituzionali, che costituiscono le ammorsature su cui innestare le risposte politiche agli attuali squilibri sociali.
Groppi parte da un assunto, dimostrato da una analisi ricca di riferimenti teologici, letterari e artistici: il tratto costitutivo della storia umana è la diseguaglianza politica e sociale. Corollario della diseguaglianza è un’organizzazione sociale retta sul principio di gerarchia. Se la diseguaglianza, infatti, è un «dono» dei processi di civilizzazione (p. 6), la gerarchia definisce la struttura dell’ordine sociale. L’organizzazione gerarchica è talmente interiorizzata nella cultura del mondo occidentale da diventare, secondo il senso comune, la norma fondamentale della struttura sociale. Nella prima parte del lavoro, l’A. mira dunque a decostruire il concetto di gerarchia, svelandone le radici storico-culturali, i significati latenti e i reali obiettivi.
La gerarchica gode di un’aura di sacralità, che risale al proprio etimo (il termine deriva dal greco ieros, sacro, e arkein, comandare). Essa dà luogo a «concettualizzazioni basate su riferimenti spaziali», «che definiscono la positio di un determinato oggetto (davanti/dietro, sopra/sotto, destra/sinistra, vicino/lontano, dentro/fuori)» nel contesto sociale (pp. 7-8). Tra questi riferimenti spaziali, quello prevalente è la diade «sopra/sotto», (…) più frequentemente (…) espressa attraverso gli aggettivi alto/basso» (p. 9). In tal senso, «la metafora spaziale è divenuta la principale forma espressiva del principio di gerarchia, inteso quale principio di ordinazione delle cose attraverso una gradazione asimmetrica, e pertanto diseguale» (ibidem). La storia del pensiero e dell’esistenza umana è costellata di riferimenti verticali: esempi si ritrovano nella società stratificata degli antichi romani (si pensi all’opposizione summi infimique su cui Livio erige la distinzione tra la classe dominante e quella subalterna), nell’«ossessione» tomistica per la gerarchia angelica, persino nella fondazione dello Stato moderno, in cui la «société d’ordres articolata in ceti rigorosamente gerarchizzati (…) culmina nell’immortale corpo politico del re» (p. 13). Rare sono le eccezioni letterarie che prescindono dal culto della gerarchica: tra queste vanno annoverate Gargantua e Pantagruel di Rabelais, che rovescia la gerarchia ascensionale tipica del pensiero e dell’iconografia medievale a favore di «un moto discendente, verso le profondità della terra e del corpo umano», e il mito di Sisifo, ove la fatica ascensionale, consistente nella spinta verso l’alto di un immane macigno destinato, inesorabilmente, a rotolare giù, è segnata dall’inutilità e dalla alienazione di un’umiliante coazione a ripetere (pp. 16, 18).
La gerarchia non si limita a descrivere un ordine reale: nella narrazione collettiva assume una valenza ideale, un ordine da raggiungere perché intrinsecamente giusto. Nel senso comune maturato nei secoli, ciò che sta in alto è necessariamente bene. A questa narrazione contribuiscono ragioni cosmologiche, teologiche e antropomorfe (pp. 21-29). L’alto è, infatti, in «pressoché tutte le culture e religioni (…), il luogo del divino». Anche la parola “Dio”, che rimanda all’indoeuropeo deiwos - luminoso, celeste -, si contrappone all’homo, soggetto terrestre, come testimonia la sua origine etimologica (da humus, terra). L’altezza di Dio ritorna nelle sacre scritture (dalla sommità della scala sognata da Giacobbe, Dio lo rassicura sull’avvenire del popolo d’Israele), mentre nel Nuovo Testamento, che esprime l’ordine gerarchico anche attraverso la relazione di precedenza “davanti/dietro”, la giustizia divina si contrappone alla gerarchia terrestre, dalla prima sovvertita a favore dei più deboli: nel messaggio evangelico gli ultimi saranno i primi o, come sottolinea Gesù nel discorso ai Farisei, nel Regno dei Cieli «chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». È questa la conversione dello sguardo che assiste anche la Regola benedettina, nel senso che con «l’esaltazione si discende e con l’umiltà si sale» (p. 28).
La metafora verticale trova giustificazione anche in ragioni antropomorfiche: la verticalità della posizione umana (la testa dell’uomo «è in alto in rapporto dell’ordine dell’universo», ricorda l’A., richiamando Aristotele, p. 23), serve a legittimare gli squilibri sociali, a giustificare diseguaglianze e discriminazioni di ogni genere (p. 31).
2. Il costituzionalismo, movimento politico-filosofico che origina dalle rivoluzioni liberali del XVII e del XVIII secolo, nasce proprio per ribaltare l’ordine gerarchico dello status quo, sostituendo all’homo hierarchicus, il soggetto che è tale in quanto gerarchicamente situato, l’homo aequalis, e cioè «il singolo considerato in quanto essere umano individuale» (p. 38).
La lotta del costituzionalismo è una lotta contro i privilegi tipici della società organicista dell’ancien régime, ed è volta a riaffermare l’eguaglianza di tutti gli individui nelle libertà, a prescindere dalle condizioni di nascita, come recita l’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. L’eguaglianza rivendicata dal costituzionalismo degli esordi è, però, una eguaglianza astratta, che si premura di garantire diritti contro l’intervento dello Stato (le cd. libertà negative e il diritto di proprietà) a prescindere dalle concrete condizioni sociali in cui versa l’individuo. Nello stato borghese, il «diritto “oggettivo” – a partire dal codice civile, il vero testo normativo fondamentale di questa società – diventa uno strumento a garanzia dei nuovi canali ascensionali che in quel periodo si aprono in campo economico e sociale per le figure emergenti come l’uomo imprenditore, vincente e di successo in confronto ai vecchi nobili, etichettati come “parassiti nullafacenti”». Simile evoluzione riflette una nuova distribuzione del potere politico, a favore della frazione di popolazione di censo elevato che concorre a formare le assemblee elettive. Queste rappresentano gli interessi della classe egemone: lo stato assoluto cede il passo alla nazione, un’entità collettiva fondata sulla «grande finzione del suffragio limitato su base censitaria e di genere» (nell’Italia del 1861, ricorda l’A., la nazione, e cioè la parte politicamente attiva del corpo sociale, coincideva con l’1,9% della popolazione, p. 41).
Il costituzionalismo degli albori, sostiene Groppi, non ha rovesciato l’organizzazione verticale tipica delle precedenti organizzazioni politiche: ha solo mutato l’ordine di precedenza dei soggetti egemoni senza scalfire l’esprit della gerarchia sociale. Da questo nuovo ordine restano fuori coloro che non possiedono beni e formano classi subalterne «che continuano una vita misera a dispetto di tutte queste ‘formali’ aperture di possibilità». Lo sbocco naturale di questa divisione sociale è il conflitto di classe, che ricomprende al suo interno le diverse fratture misconosciute dalla omogenea società liberale: i cleavages di natura razziale, culturale, di genere scorrono sottotraccia, assorbiti dalla grande questione economica che divide gli haves dagli haves not. L’eguaglianza rivendicata dal costituzionalismo liberale, nonostante sia presentata sotto il segno dell’universalità, sottintende in realtà un determinato tipo sociale: l’individuo bianco, maschio, proprietario (p. 42).
3. Lo stato borghese non reggerà al confitto di classe e alle tragedie del Novecento. Dalle ceneri della Seconda guerra mondiale nasce, in Europa, una nuova forma di stato, lo stato costituzionale, che segna l’ingresso delle masse dei lavoratori sul proscenio della storia e sigla il grande compromesso tra capitale e lavoro o, come scrive l’A., tra capitale e democrazia, sistema politico contraddistinto «dall’eguaglianza politica» (p. 45). Lo Stato costituzionale è uno Stato pluralista, che fa proprie le «differenze di interessi, di convinzioni ideologiche, di visioni della vita» e redistributivo: esso promuove la coesione sociale, «un insieme di legami di affinità e di solidarietà tra individui» (p. 43).
La coesione sociale richiede un intervento dei poteri pubblici volto ad appianare le gerarchie sociali attraverso una molteplicità di interventi, di natura anche economica. Le Costituzioni del dopo guerra richiedono la predisposizione di «meccanismi redistributivi basati sull’attrazione in capo al settore pubblico di una parte rilevante delle risorse, al fine di destinarle alla spesa sociale» (ibidem). Non a caso, la nostra Carta costituzionale positivizza una nuova generazione di diritti, i diritti sociali, che non proteggono dall’intervento dello stato, ma richiedono, all’opposto, l’intervento dei pubblici poteri sotto forma di prestazioni socio-economiche.
Questo deciso cambio di paradigma può essere riassunto in una norma annoverata, non a caso, tra i principi fondamentali della Costituzione: l’art. 3 enuncia, a fianco dell’eguaglianza formale di cui al comma 1, l’eguaglianza sostanziale (comma 2), «che prende in considerazione l’individuo nella realtà della sua vita e delle sue relazioni, economiche e sociali, rendendo legittimi, anzi necessari, interventi “diseguali”, allo scopo di riequilibrare le condizioni di fatto in favore di quelli che stanno “in basso”» (p. 48). All’art. 3.2 Cost si affianca l’art. 2 Cost., che nel richiedere l’inderogabile adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, determina una «identità costituzionale incentrata sulla fraternità e sulla vicinanza tra le persone» (p. 49). Queste coordinate costituzionali richiamano tutti i soggetti istituzionali della Repubblica al loro inveramento: «[c]he si tratti di soggetti appartenenti al circuito della decisione politica, come il parlamento, il governo, le regioni, o piuttosto di giudici – comuni o costituzionali – è a essi che spetta dare effettività ai principi costituzionali» (p. 49).
4. L’eguaglianza sostanziale «ci proietta in una dimensione nella quale la crescita individuale è funzionale sia allo sviluppo personale sia a quello della società nel suo insieme: in tal modo pone le basi per scavalcare la contrapposizione-contraddizione tra individuo e gruppo sociale, tra diritti individuali e bene comune (…) che aveva dilaniato lo Stato liberale ottocentesco fino a scardinarlo» (pp. 51-52). È la persona, nei suoi concreti rapporti sociali, nelle sue plurime reti di interlocuzione, a richiedere tutela, non un astratto figurino individuale che sottintende, in realtà, un determinato tipo sociale. L’art. 3.2 Cost. disegna una società «pronta non solo ad accogliere, ma ad incoraggiare e sostenere il cambiamento e i cammini di ciascuno, ove ogni persona liberata dalla zavorra che la tiene immobilizzata (…) possa fiorire e trovare il posto più consono alle sue aspirazioni inclusa la partecipazione alla classe dirigente» (p. 55).
A parere dell’A., il disegno delineato dall’art. 3.2 Cost. rinvia a una concezione orizzontale dei rapporti sociali che rende incompatibile con la Costituzione le strategie che mirano a riprodurre, sotto mentite spoglie, una logica ascensionale di tipo verticale. Così è per il concetto di mobilità sociale che, pur patrocinata da autori di diverso orientamento ideologico, trasforma «le disparità e le sperequazioni in fenomeni naturali», innescando «processi competitivi improntati al darwinismo sociale». Essa contribuirebbe a «cristallizzare (…) una visione del mondo articolata secondo l’asse verticale alto-basso e orientata al mantenimento dello status quo», producendo «invidia per quelli che stanno sopra (…) e disprezzo per quelli che stanno sotto» (pp. 56-57). Stesso discorso vale, a parere dell’A., per la retorica del merito, concetto «quanto mai ambiguo e ideologico» (p. 58). I talenti non sono misurabili: non sono meriti ma «doni» ricevuti per motivi insondabili o, all’opposto, per motivi «anche troppo facilmente sondabili, come la famiglia, la ricchezza, l’eredità». In altri termini, «quello che a prima vista consideriamo un “merito” è invece il frutto di condizioni economico-sociali, proprie o dei propri antenati, che condizionano lo sviluppo psicofisico e culturale della persona umana» (p. 59). Il discorso sul merito si intreccia con l’acritica valorizzazione della eguaglianza di opportunità, che in realtà ridurrebbe i rapporti tra individui a una «competizione (…) nella quale tutti (…) debbono essere messi in condizioni di gareggiare (…) per emergere e primeggiare» (p. 61). Anche la creazione di percorsi di eccellenza per «i capaci e i meritevoli», per utilizzare i termini della nostra Costituzione (art. 34), assumerebbe un significato discriminatorio ed escludente: sulla scia di Don Milani, Groppi sostiene che la «meritocrazia» non sarebbe altro che una forma di valorizzazione dei forti e di disprezzo dei deboli. «In definitiva», conclude l’A., «l’unica concezione di mobilità sociale compatibile con la nostra Costituzione è quella che, depurata da ogni accezione gerarchica e meritocratica, sta ad indicare il diritto di ciascuna persona (…) al pieno sviluppo della sua personalità e alla sua partecipazione, su un piano di parità, all’adozione delle decisioni politiche» (p. 65).
5. Groppi dedica l’ultima parte del volume ad un bilancio e alle prospettive del costituzionalismo sociale, volto alla realizzazione dell’eguaglianza sostanziale. Non vi è dubbio, ricorda l’A., che la forza normativa della Costituzione abbia contribuito a una significativa redistribuzione della ricchezza, orientando l’edificazione dello Stato sociale. A partire dalle politiche neo-liberali degli anni ’80 dello scorso secolo, è iniziato però un processo di regressione delle tutele sociali, che ha messo in crisi la forza normativa della Costituzione (p. 73). L’A. accenna alla crisi di progressività del sistema fiscale, richiesta dall’art. 53 Cost., «svaporata in un profluvio di tributi non progressivi» (p. 74), o alla svalutazione prescrittiva dei diritti sociali «propugnata in nome di presunte razionalizzazioni della spesa pubblica», di cui non resterebbe che la garanzia del nucleo essenziale, come in effetti affermato dalla Corte costituzionale (ibidem). L’impoverimento delle tutele sociali troverebbe conferma nella modifica, realizzata sull’onda della crisi finanziaria del 2012, dell’art. 81 Cost e dall’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio, che avrebbe sopravanzato le ragioni del contenimento della spesa pubblica alle garanzie sociali della Costituzione.
Simile processo sarebbe dovuto a una pluralità di fattori, alcuni di essi esterni ai confini nazionali: anzitutto, il peso rilevante delle istituzioni della globalizzazione (come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Commissione europea) che avrebbero svuotato il potere politico dei governi, ridotti a meri esecutori di scelte altrui. Questo svuotamento dei poteri democratici interni causato dalla globalizzazione avrebbe portato alla diffusione di una sorta di apatia politica, di una percezione, da parte dei cittadini, circa «l’inutilità di partecipare a processi decisionali che [non influiscono] sulle grandezze che stanno alla base della propria vita, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, finanziarie, e del lavoro» (p. 80). Questa perdita di fiducia verso i circuiti democratico-rappresentativi, insieme al timore di un arretramento della sicurezza sociale, porta i cittadini ad assecondare svolte autoritarie, come avvenuto in Polonia e in Ungheria. Tali esperienze hanno reso nuovamente attuale il fenomeno delle cd. illiberal democracy, caratterizzate dalla «compresenza» di elementi democratici e autoritari (p. 79).
A questo deve aggiungersi il «processo di individualizzazione», e cioè «la ricerca di soluzioni individuali a problemi collettivi», con la promozione di dinamiche concorrenziali tra individui e «l’indebolirsi dei legami di solidarietà e collaborazione», che portano alla crisi di formazioni sociali e corpi intermedi (p. 77). Simile tendenza è favorita dalle nuove forme di comunicazione di massa offerte dalle piattaforme digitali, che, per mezzo di algoritmi, favoriscono la creazione di eco chambers, di gruppi chiusi che consentono agli internauti di incontrare e diffondere opinioni e commenti con soggetti che condividono i medesimi orientamenti politico-culturali. Viene meno dunque una delle caratteristiche della democrazia pluralista, «che si nutre, al contrario, di “incontri non pianificati”» e di «esperienze condivise» frutto di reciproca comprensione (p. 81).
Per Groppi, dunque, la crisi della democrazia risiede anzitutto nel tramonto del sentimento di comune appartenenza al corpo politico: «[i]l venire meno di una comune appartenenza mina, a sua volta, lo stesso legame comunitario, favorendo la divisione e la polarizzazione» (p. 84). Tale polarizzazione è acuita dalle incertezze economiche del nostro tempo, che generano «una molteplicità di emozioni negative: risentimento, rancore, invidia, sfiducia, insicurezza, paura e finanche rabbia». Queste incertezze, unite alle penurie di risorse, provocano una sorta di guerra tra ultimi: la rabbia sociale non viene indirizza verso chi muove le leve del potere reale, ma verso i più poveri (i migranti, ad esempio), considerati responsabili del progressivo impoverimento collettivo.
6. Di fronte a questo quadro tutt’altro che rassicurante, Groppi propone di “tornare” alla Costituzione. I diritti sociali e i corollari dell’eguaglianza sostanziale non sono semplici opzioni politiche (come nell’ordinamento statunitense, ad esempio), sempre reversibili alla luce degli equilibri che vanno determinandosi in un determinato contesto, ma sono veri e propri principi normativi che conferiscono identità all’ordinamento costituzionale. È necessario, dunque, «”trarre dall’oblio”» le norme costituzionali: «il diritto [costituzionale] non è una variabile indipendente nel mare magnum delle politiche economiche e sociali, ma ha carattere prescrittivo, cioè deve improntare di sé programmi politici, elettorali e di governo, atti normativi di ogni ordine e grado, sentenze di ogni ordine e grado» (p. 91).
Deve essere poi riscoperto l’art 11 Cost., che segna l’apertura internazionalistica dell’ordinamento e impegna l’Italia a dare vita ad organizzazioni internazionali che promuovano la pace e la giustizia tra le nazioni. In altri termini, l’Italia deve portare a livello europeo e internazionale i temi «dello sviluppo e della giustizia (…) in nome degli ultimi, degli oppressi, di chi sta in basso» (p. 91).
Il vero cambiamento deve essere però culturale: è necessario, secondo l’A., riscoprire i sentimenti collettivi che legano insieme la società, lasciando da parte, come insegnano autorevoli neuroscienziati (l’A. cita i lavori di Damasio sul ruolo delle emozioni nel ragionamento umano e nell’assunzione di decisioni individuali), il semplice calcolo razionale o utilitaristico: tra tali sentimenti collettivi, «il sentimento di giustizia, o meglio, di rifiuto dell’ingiustizia, (…) faccia inevitabile dell’empatia, cioè della fraternità, svolge, per la sua fondamentale natura relazionale, il ruolo centrale» (p. 95). Anche i sentimenti, naturalmente, vanno educati: rovesciando il diktat di Margareth Thatcher, che in una famosa intervista richiamò la necessità di «cambiare il cuore e l’anima» dei lavoratori per renderli funzionali alle esigenze del capitale, è dal cuore che, secondo Groppi, bisogna ripartire. Cuore inteso come «unione di sentimento, intelletto e volontà e che spesso viene definito “coscienza”» (p. 96). La voce della coscienza, «nella quale si radica il sentimento di giustizia, è sepolta giù (…) negli insondabili abissi di ogni cuore umano. Essa deve e può essere raggiunta (…) attraverso la crescita spirituale e umana di ognuno. Ritornando alle (…) metafore spaziali, è in basso che occorre cercare, è dal basso che può germogliare la vita, come sempre accade sulla terra» (p. 97).
Quale è il posto del diritto e dei suoi chierici in questo processo, individuale e collettivo, di sensibilizzazione delle coscienze? I costituzionalisti, scrive Groppi, devono uscire dall’autoconfinamento, «concentrati come sono sugli aspetti più “tecnici” [della disciplina], come il costo dei diritti sociali, le garanzie giurisdizionali, i vincoli europei, al punto di lasciare la democrazia in balia di una diseguaglianza con essa inconciliabile» (p. 100). Il giurista, sembra dire l’A., ha da essere engagé, dedito alla attuazione del programma costituzionale, immerso nei «piccoli luoghi vicino a casa» dove nascono i diritti (secondo la nota espressione di E. Roosevelt, p. 101), votato all’inveramento di una democrazia progressiva, guidata «dai principi del costituzionalismo (…) sociale» (ibidem). Oggi, conclude Groppi, «abbiamo bisogno che il diritto, muovendo dai grandi principi, si traduca in contesti in cui “il pieno sviluppo della persona umana” si realizzi effettivamente: ci serve un “diritto piccolo”, che trasformi i principi in politiche che tengano conto di ogni essere umano nella sua concretezza e unicità, scardinando visioni basate su stereotipi, sostenute da fuorvianti metafore» (ibidem).
Non sfugge all’A. che questo rinnovato umanesimo giuridico deve concretizzarsi in una adeguata azione istituzionale: le politiche necessarie a realizzare una trasformazione sociale in senso egualitario devono essere realizzate da «maggioranze politiche che credano nella democrazia costituzionale, da rappresentanti di un’opinione pubblica e di elettori capaci di vedere altro. E vanno attuate attraverso la scuola, le amministrazioni, specie locali, la società civile, le famiglie e in definitiva col contributo di ciascuno di noi» (p. 101).
Anche i giudici e le istituzioni di garanzia sono destinati ad avere un ruolo rilevante, anche in ragione della stasi e dell’incapacità decisionale delle istituzioni politiche. In effetti, «la funzione di presidiare la precettività (…) del diritto (…) implica che sulle loro spalle si scarichi il compito di supplire alle omissioni della politica, dando effettività ai principi nei casi concreti». L’azione giurisdizionale, là ove lasci interagire i principi costituzionali con le concrete dinamiche sociali, dà vita a un «diritto mite», come lo ha definito Gustavo Zagrebelsky, che tuttavia rischia di arrivare in ritardo, quando le violazioni della Costituzione sono «già avvenute e molte volte irrecuperabili» (p. 102).
Non bastano, però, i giudici, secondo Groppi, a realizzare la trasformazione sociale richiesta dalla Costituzione. È necessario invece affidarsi a uno «Stato costituzionale diffuso, depurato dalle reminiscenze gerarchiche, e per il quale occorre al più presto cercare nuove rappresentazioni spaziali». È necessario uno sforzo istituzionale plurale, fondato sull’eterarchia e sulla gestione reticolare dei processi di produzione del diritto (p. 103). Solo in questo modo è possibile riaffermare la precettività del diritto e soddisfare il suo fine ultimo, che risiede nel «contrapporsi alla forza, al privilegio, all’ingiustizia, in una parola a scardinare l’odiosa gerarchia che sottomette chi sta in basso a chi sta in alto» (p. 103).
7. Il lavoro di Tania Groppi è una appassionata apologia dell’eguaglianza sostanziale, considerata, non a torto, condizione di effettività del sistema democratico. Un libro da leggere, per riscoprire l’importanza dell’educazione costituzionale, del sentimento collettivo di appartenenza di una comunità di destini unita nel segno della Costituzione.
La lettura del volume solleva però alcuni interrogativi, sia sul piano teorico sia sotto il profilo istituzionale, che in questa sede non possono che essere accennati. Non vi è dubbio che la Costituzione repubblicana tuteli l’homme situé, secondo l’espressione di Georges Burdaeau, e cioè la persona nelle sue plurime declinazioni sociali. Per la Costituzione, titolari dei diritti sono i cittadini, i lavoratori (anche minori di età), le donne lavoratrici, gli «inabili e i minorati», la madre, il figlio, i coniugi, lo studente e così via. Questa frammentazione degli status è in fondo conseguenza dell’eguaglianza sostanziale riconosciuta nell’art. 3, secondo comma, Cost., che richiede di intervenire sulle particolari situazioni sociali evocate dalle successive disposizioni costituzionali. Vanno però valutate con attenzione le conseguenze di una lettura estensiva di tale principio, il quale richiede, per sua natura, una estesa differenziazione giuridica. Se, infatti, compito del diritto è individuare le condizioni che, di volta in volta, situazione per situazione, ostacolano la piena realizzazione individuale, l’eguaglianza sostanziale richiede un costante processo di individualizzazione giuridica, traducendosi, nei fatti, in una diffusa diseguaglianza normativa. Fino a che punto questo percorso è compatibile con l’eguaglianza formale (eguaglianza davanti alla legge senza distinzioni di condizioni personali e sociali), che rappresenta l’altro corno dell’art. 3 Cost.? L’estrema valorizzazione delle differenze non rischia di incidere sulla stessa coesione sociale, sulla possibilità di fondare una appartenenza condivisa alla comunità politica? Questa sorta di diritto differenziato non rischia di frammentare l’identità collettiva della comunità politica, a favore di un egoistico individualismo, peraltro fortemente criticato dalla stessa A.? In fondo, lo stesso principio di ragionevolezza, sorto grazie alla giurisprudenza costituzionale, ha rappresentato il ponte di connessione tra il secondo e il primo comma dell’art. 3 Cost., individuando, allo stesso tempo, la necessità e il limite delle differenziazioni costituzionalmente richieste.
La sintesi politica realizzata dalla legge, che trova nel proprio etimo la necessità di legare insieme (ligare) la comunità politica, rischia altrimenti di cedere il passo a un diritto singolare, ridotto a conferire dignità giuridica a qualsiasi pretesa portata avanti dall’individuo. Questa attenzione ai bisogni individuali porta con sé precise conseguenze istituzionali, avallando una sovraesposizione delle corti a detrimento delle istituzioni politiche. L’A. è ben consapevole dei limiti di un gouvernement des juges, incapaci, per la loro posizione istituzionale, di offrire una risposta sistematica alle sfide poste dalla diseguaglianza. A parere di chi scrive, si può però evidenziare anche un potenziale (ed esiziale) spostamento (ed accentramento) di potere: la decisione giurisdizionale rischia di diventare un trasformatore permanente di energia sociale in pretese giuridicamente assistite.
Groppi sottolinea, inoltre, come la retorica del merito sia utilizzata per giustificare l’assetto gerarchico verticistico, perciò profondamente ineguale, della società. Tale conclusione presenta più di un aspetto di verità, soprattutto qualora le logiche meritocratiche siano calate su un tessuto sociale squilibrato, con punti di partenza differenziati, sfavorevoli per i meno abbienti. La cultura della valutazione, se correttamente applicata, può però anche portare dei benefici, proteggendo i più deboli da logiche di selezione ispirate ad altri criteri (familistici, corporativi, biecamente corruttivi, etc.). In fondo, è questa la ratio del diritto allo studio sancito dall’art. 34 Cost., laddove richiede di assicurare, ai capaci e ai meritevoli, il raggiungimento dei gradi più alti degli studi.
Per correggere le disarmonie sociali, ed evitare che il merito legittimi e garantisca la sopravvivenza di gerarchie precostituite, c’è senz’altro bisogno di politiche redistributive ed inclusive. Nel nostro ordinamento, come opportunamente sottolinea Groppi, lo stato sociale esprime una formula prescrittiva, che deve essere inverata (e rispettata) da tutti i pubblici poteri.
A parere di chi scrive, le politiche sociali chiamano in causa soprattutto l’intermediazione legislativa. Per ragioni di teoria generale, anzitutto: i diritti sociali, quanto meno quelli che consistono in una prestazione resa dai pubblici poteri, richiedono l’individuazione delle risorse, degli apparati amministrativi necessari a fornire il servizio, della platea dei beneficiari. Inoltre, l’intermediazione legislativa è imprescindibile per ragioni eminentemente politiche, legate alla necessità di imboccare un coerente percorso di riforme. Da tempo sono noti i difetti e le mancanze dello stato sociale italiano: ascrivibile al modello mediterraneo di welfare state, il nostro sistema si caratterizza per un’elevata spesa pensionistica, per essere legato a “categorie” tradizionali di soggetti protetti e per la sua spiccata arretratezza sul piano dei servizi, sbilanciato come è sul versante dei sussidi. Questo assetto, che porta a supplenze “familiste”, cioè a prestazioni di cura e assistenza realizzate dalla famiglia a favore dei suoi componenti più deboli, marginalizza il contributo dello Stato, che interviene solo a fronte dell’impossibilità di fornire assistenza all’interno della famiglia. Proprio la necessità di aggiornare le finalità e l’organizzazione dello stato sociale chiama in causa le responsabilità della politica e la necessità del riformismo legislativo (come insegna la storia, l’Inghilterra adottò uno dei tra più avanzati esperimenti di welfare grazie alla coraggiosa politica laburista del governo Attlee, che diede dignità normativa al rapporto Beveridge).
Tali riforme possono però essere realizzate solo rafforzando i circuiti della decisione politica, oggi dispersa in mille rivoli istituzionali. È senz’atro auspicabile, come scrive l’A., trasformare l’organizzazione del potere, passando da un assetto verticistico a un modello reticolare, ove ciascun centro istituzionale porti il proprio contributo al processo di decisione politica. Rimane però imprescindibile, a seguito di un simile confronto orientato all’intesa, individuare il soggetto incaricato della scelta finale, garantirgli uno spazio di azione politica al riparo da possibili veti incrociati e attivare meccanismi che ne facciano valere la responsabilità di fronte ai cittadini. In fondo, l’apatia e il distacco dei cittadini dalla politica, evidenziata da Groppi, dipendono anche dalla incapacità della democrazia rappresentativa di rispondere alle plurime esigenze del corpo sociale e di calmierare i conflitti che possono sorgere nella cornice pluralista. Di fronte all’accidia democratica, i populismi di oggi e di domani hanno già pronta la soluzione, suadente e sinistra: se una democrazia è immobile o inefficiente, perché non affidare il proprio destino ad un dittatore (più o meno) illuminato?
* Professore associato di diritto costituzionale, Università di Bologna.
Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022
di Pasquale Serrao d’Aquino
Sommario: 1. Introduzione. - 2. I divieti di mutamento di funzioni secondo la riforma Castelli-Mastella del 2006. - 3. La riforma dell’art. 13: una separazione delle carriere a Costituzione invariata. - 3.1. I cambi nei primi nove anni di funzioni giudiziarie. - 3.2. Le possibilità di scelta residue dopo nove anni dal conferimento delle funzioni giudiziarie. - 3.3. Le funzioni di legittimità. - 3.4. I procuratori europei delegati e il procuratore europeo. - 4. La normativa transitoria e la tutela del principio dell’affidamento. - 5. Gli ulteriori problemi sollevati dalla riforma: assegnazione d’ufficio delle funzioni, incoerenza e irrazionalità delle finalità sottese alle norme introdotte.
La modifica dell’art. 13, introdotta dopo la presentazione del d.d.l. Cartabia al Parlamento, attua una separazione tendenziale delle carriere analoga a quella già prevista dalla Legge n. 150 del 2011 e dal d.lgs. 160/2006 nella sua prima formulazione, prima della “controriforma” operata con la legge n. 111 del 2007 . E’ previsto un solo cambio delle funzioni durante la carriera che, solo ove posto in essere nei primi nove anni di funzioni, non comporta il sorgere di incompatibilità assolute di funzioni (requirente) o di settore (penale), anche nell’ambito della legittimità.
A prescindere dalla costituzionalità della riforma, vengono a crearsi numerose difficoltà applicative e incongruenze, quali l’operatività delle incompatibilità anche per le funzioni svolte prima dell’entrata in vigore della legge n. 71 del 2022 e fino al primo cambio di funzioni o trasferimento ad altro ufficio, nonché in tutti i casi di trasferimento o applicazione d’ufficio. Si impone un’interpretazione costituzionalmente orientata che tuteli l’affidamento dei magistrati in servizio a poter effettuare le proprie scelte professionali senza che la novella abbia effetti retroattivi, nonché che eviti le criticità organizzative degli uffici e del Consiglio Superiore della Magistratura derivanti dall’impossibilità di assegnare a determinare funzioni o settori i magistrati non su domanda, determinando con loro pregiudizio la successiva impossibilità di accesso alle diverse funzioni o al medesimo settore.
L’ ipotetica inidoneità a svolgere le funzioni giudicanti penali da parte del pubblico ministero o, all’opposto, le funzioni requirenti da parte del giudice penale, non è ragionevolmente perseguita, posto che le incompatibilità previste sono collegate al momento del cambio di funzione, piuttosto che alla durata delle pregresse funzioni esercitate; analogamente l’ulteriore ratio, sottesa alla novella, dell’alimentare una percezione di estraneità reciproca tra giudici e pubblici ministeri risulta frustrata dall’identità di status di tutti i magistrati, appartenenti al medesimo ordine e soggetti al comune governo autonomo, costituzionalmente garantiti.
1. Introduzione.
I risultati modesti del referendum sulla giustizia del 12 giugno, con le loro percentuali di voto minime, indicative di una scarsa adesione reale della cittadinanza ai propositi riformatori, hanno costituito un’efficace arma di distrazione di massa, nascondendo il velocissimo rush finale operato dall’Assemblea del Senato che ha condotto all’approvazione del DDL Cartabia sulla riforma ordinamento giudiziario il 17 giugno, a distanza di meno di una settimana dalla consultazione popolare.
La magistratura, ferma tra le secche degli scandali della consiliatura passata, indebolita dagli interessati attacchi mediatici da parte della politica, che agiscono sinergicamente con le lacerazioni interne, non è riuscita a compiere un’elaborazione critica dell’andamento della consiliatura attuale, giunta agli sgoccioli, e sembra, con un singolare istinto di rimozione, voler continuare il dibattito sulle riforme che, per forza inerziale, si protrae sebbene superato dall’approvazione del testo legislativo definitivo. Attraversato lo spartiacque tra il prima e il dopo occorre, invece, interpretare la nuova fase storica e focalizzare l’attenzione su tre aspetti: l’attuazione delle norme immediatamente applicabili; la corretta elaborazione delle norme attuative dei principi di delega; il ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura.
Gli interventi sull’ordinamento giudiziario preesistente e sulla disciplina del Consiglio Superiore prevista dalla legge n. 195 del 1958, come successivamente modificata sono così invasivi che, rispetto all’assetto precostituzionale del r.d. n. 12 1941 e alla successiva riforma Castelli-Mastella operata con il d.lgs. 160/2006 e il d.lgs. 109/2006[1], occorre approcciarsi alla legge n. 71 del 2022 come ad un nuovo ordinamento giudiziario 3.0.
In questa sede è opportuno soffermarsi su quella che è l’innovazione più dirompente, costituita dalla separazione quasi integrale delle carriere, prevista da norme direttamente applicabili, rinviando ad altra sede sia un esame complessivo della riforma sia alcune riflessioni di fondo sulla sua costituzionalità e sulla opportunità di questa e altre misure[2].
2. I divieti di mutamento di funzioni secondo la riforma Castelli-Mastella del 2006.
L’art. 13 del d.lgs. 160/2006, come accennato, nella versione risultante dalle modifiche attuate con la legge n. 11 del 2007 (controriforma “Mastella”), conteneva delle disposizioni che irrigidivano i passaggi di funzioni, abbandonando, tuttavia, quella radicale destinazione prevista dalla legge n. 150 del 2011 e dal relativo decreto legislativo attuativo.
Non è fondata la tesi emersa in alcune sentenze, per le quali la finalità dell’art. 13, non sarebbero quelle in seguito illustrate ma, più semplicemente quella di rendere più difficili i passaggi di funzioni per separare le carriere (es. T.A.R. del Lazio n. 3711 del 2022), per la banale considerazione che si tratta di una tautologia: l’irrigidimento dei passaggi non può essere la finalità della norma, se non politica e, quindi, metagiuridica; ogni divieto, come ovvio, deve salvaguardare interessi costituzionalmente rilevanti.
Tanto precisato, la precedente versione dell’articolo, in primo luogo, garantiva la terzietà del giudice anche sotto il profilo dell’apparenza, vietando i cambi repentini dalla scrivania del requirente a quella del giudicante e viceversa, attraverso precisi limiti territoriali, di settore e temporali.
Per i cambi nell’ambito del settore penale era fissata un’incompatibilità a livello regionale, e non solo distrettuale (comma 3). Il divieto era temperato dalla possibilità di cambi infraregionali. Per modificare le funzioni di pubblico ministero con quelle giudicanti civili, così come quelle di giudicante civile per quelle pubblico ministero, bastava per il magistrato, infatti, cambiasse provincia e circondario.
Allo scopo di evitare cadute nella percezione della terzietà del giudice, vi erano due regole distinte: (1) la prima, relativa all’ufficio di provenienza, prevedeva che il giudice civile che intendeva trasferirsi in Procura non doveva avere svolto funzioni penali per cinque anni; la seconda, relativa, invece, all’ufficio di destinazione, prevedeva che chi acquisiva le funzioni giudicanti provenendo dalla procura, non potesse “essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni”; analogamente, chi, al contrario, assumeva le funzioni requirenti, non poteva essere assegnato a funzioni civili o promiscue nella procura di destinazione fino al successivo trasferimento o cambio di funzioni (comma 4).
In secondo luogo, per assicurare che la facoltà di cambio non ostacolasse la maturazione di una certa professionalità nelle funzioni, indipendentemente dal fattore territoriale e dal settore di esercizio, era previsto un tempo minimo per cinque anni tra un cambio di funzioni e quello successivo, oltre che numero massimo di quattro cambi nell’arco dell’intera carriera.[3]
Tali limitazioni valevano anche per le funzioni di legittimità, anche direttive (commi 6 e 14), salvo quella relativa al mutamento di sede, logicamente necessitata dalla giurisdizione nazionale degli uffici di legittimità, con l’eccezione di quelle direttive superiori ed apicali (art. 10, commi 15 e 16). Discutibile, per ragioni che in questa sede non è possibile approfondire compiutamente, era la mancata sottrazione integrale delle funzioni di legittimità, requirenti e giudicanti, per le loro specificità connesse all’assenza di funzioni requirenti della Procura generale, al suo agire nell’interesse della legge (si pensi ad esempio al ricorso ex art. 363 c.p.c.) e, soprattutto, per la sua partecipazione alla funzione nomofilattica, di assicurazione dello ius constitutionis piuttosto che dello ius litigatoris.[4]
In questo quindicennio non sono stati eccessivi i problemi interpretativi di dovuti all’attuazione dell’art. 13, anche per il ridotto numero di cambi di funzione effettuati, disincentivati dalla necessità di trasferimento in altra Regione, con le conseguenze familiari che ne derivano[5] . Essi hanno riguardato essenzialmente i seguenti aspetti:
1) l’applicazione di tali disposizioni anche ai trasferimenti per incompatibilità funzionale, esclusa da un risposta a quesito del CSM del 9 febbraio 2011 sia sulla base di argomenti testuali (secondo l’art. 13, comma 3 esso non poteva ”essere richiesto” più di quattro volte”) sia di incomprimibilità della facoltà futura di scelta del magistrato come effetto eccedente le finalità dell’art. 2 l. guarentigie [6];
2) l’applicazione in genere ai trasferimenti d’ufficio, al primo trasferimento dei magistrati di nuova nomina dopo aver svolto le funzioni nella sede iniziale[7], ai trasferimenti d’ufficio su disponibilità verso le sedi disagiate (s. alle quali i recenti bandi del CSM prevedono espressamente che debbano rispettarsi i vincoli di cui all’art. 13);
3) la possibilità, cambiate le funzioni e mutata la regione di servizio, di ritornare nel distretto di provenienza con le diverse funzioni prima del decorso dei cinque anni di decantazione minima, inizialmente in qualche caso ammesso dal CSM e, successivamente, invece,negato, conformemente alla giurisprudenza amministrativa e, in particolare ad una decisione del Consiglio di Stato (Sez. IV n. 1961 del 2015[8]), la quale ha affermato che tale ritorno è possibile solo dopo cinque anni anche nel caso in cui il magistrato effettui dei trasferimenti cd. intermedi (dall’ufficio A verso l’ufficio B e poi nuovamente a quello A o, comunque, nella provincia, circondario o distretto di A), rilevando, ai fini dell’art. 13, solo il risultato finale;
4) l’estensione di tali divieti ai casi in cui un magistrato, negatogli il trasferimento in un determinato distretto, per essere ad esempio, preferito altro magistrato abbia presentato ricorso e, medio tempore trasferitosi in quel distretto mutando le funzioni con bando successivo, abbia successivamente vinto il ricorso per il posto preventivamente richiesto, trovandosi in tal modo ad essere assegnato, in ottemperanza alla sentenza, ad funzioni nel distretto incompatibili ex art. 13 rispetto a quelle attualmente svolte (es. domanda di trasferimento al Tribunale di Roma rigettata dal CSM, ricorso al giudice amministrativo, trasferimento alla Procura di Roma con successivo bollettone e relativa presa di possesso, accoglimento del ricorso per il trasferimento nel distretto di Roma come giudice). In tale caso il giudice amministrativo, per assicurare effettività alla tutela giurisdizionale ha ritenuto inapplicabile il divieto;
5) più di recente, l’applicabilità di tali divieti anche in caso di passaggio dalle funzioni di legittimità a quelle di merito di diversa natura (requirente o giudicante), ancora sub iudice;
6) la configurabilità del divieto di mutare le funzioni per chi, prima dell’entrata in vigore della riforma Cartabia-Mastella, aveva già esaurito il numero di cambi di funzione ammissibile, ritenuto inapplicabile secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata (v. infra);
7) la rilevanza del periodo fuori ruolo ai fini del decorso del quinquennio di decantazione.
3. La riforma dell’art. 13: una separazione delle carriere a Costituzione invariata.
Il nuovo testo apporta modifiche radicali all’art. 13, non più volte ad assicurare una semplice immagine nella dimensione regionale di terzietà del giudice, ma a realizzare una effettiva separazione delle carriere giudicanti e requirenti. Esse, infatti, secondo la riforma finiscono tendenzialmente per divaricarsi una volta maturati nove anni di funzioni giudiziarie per le incompatibilità che si maturato, per poi definitivamente divenire separate una volta esercitata la facoltà unica di cambio delle funzioni.
La misura adottata, infatti, presenta diverse analogie con quella prevista dal testo originario del d.lgs. 160/2006 (riforma Castelli), successivamente modificato dalla legge n. 11 del 2007 (testo Mastella), che prevedeva l’obbligo di una scelta definitiva tra le funzioni giudicanti e quelle requirenti entro i primi cinque anni.[9]
Nell’interpretazione delle nuove norme, come per ogni modifica normativa occorre distinguere il fine perseguito dalla maggioranza parlamentare rispetto alla ratio obiettivata nelle norme definitivamente approvate dall’Aula. Rispetto alla loro effettiva formulazione i lavori parlamentari, forniscono un mero ausilio attraverso una verifica, con rilevanza decrescente, delle modifiche apportate la testo definitivo, delle Relazioni allegate al testo o delle dichiarazioni di voto. Nella specie, trattandosi di emendamenti non vi sono, tuttavia argomentazioni utili sottese alla modifica del disegno di legge di origine governativa.
La finalità politica generale è quella di “separare le carriere”, non solo ostacolando i passaggi da una funzione all’altra, ma creando in tal modo un’alterità di status che dovrebbe contribuire ad accentuare la terzietà del giudice rispetto alle richieste del pubblico ministero. E’ necessario, tuttavia, perché l’assetto normativo che ne consegue risponda al principio di ragionevolezza che esso presenti una sua coerenza e che l’interprete possa individuare i singoli interessi sottesi alle incompatibilità previste e riconoscerli come meritevoli di tutela.
Ebbene, risulta chiaro che la creazione di una alterità categoriale e la percezione del pubblico ministero come “altro da sé” da parte dei giudici resti una mera declamazione politica di principio, priva di ogni addentellato normativo nella legge 71/2022, la quale, non modificando la Costituzione, non può che confermare l’unicità della progressione in carriera e il comune governo autonomo: giudici a pubblici ministeri sono nominati con il medesimo concorso; l’assegnazione alla prima sede avviene d’ufficio e coloro che sono nella parte bassa della graduatoria non possono scegliere tra funzioni giudicanti e requirenti; il consiglio giudiziario e il CSM restano comuni; lo statuto ordinamentale del magistrato, giudice o pubblico ministero è unitario, non solo quanto alle valutazioni di professionalità, ma anche per ciò che concerne tutte le guarentigie previste dall’ordinamento giudiziario.
Occorre, verificare, quindi, quali siano le più stringenti incompatibilità previste nel cambio di funzione e quale sia la finalità oggettiva della previsione di un solo cambio.
Come può verificarsi in base alla lettura delle norme, il risultato pratico delle modifiche, complessivamente considerate, è quello: A) di rendere incompatibili, dopo un certo periodo, con le funzioni giudicanti penali tutti coloro che hanno svolto funzioni requirenti; B) di consentire il passaggio alle funzioni requirenti solo dei magistrati che non hanno mai svolto funzioni penali.
3.1. I cambi nei primi nove anni di funzioni giudiziarie.
Andando nel dettaglio, l’art. 12 sostituisce il secondo periodo del comma 3 dell’art. 13: «Il passaggio di cui al presente comma (NB di funzioni) può essere richiesto dall'interessato, per non più di una volta nell'arco dell'intera carriera, entro il termine di sei anni dal maturare per la prima volta della legittimazione al tramutamento previsto dall'articolo 194 dell'ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12.»
La regola generale, pertanto, è quella della possibilità di un cambio di funzioni nella prima parte della carriera. Per l’esercizio di tale facoltà i limiti sono quelli che derivano esclusivamente da quanto previsto dai non modificati primo periodo del comma 3 (incompatibilità regionale per i cambio nel medesimo settore penale)[10] e del comma 4[11] (e, quindi, incompatibilità provinciale per i cambi da e verso il civile, con i limiti dei cinque anni sopra indicati).
La ragione per cui scompare il divieto di cambio di funzioni prima del decorso dei cinque anni è perché diviene possibile un solo mutamento di funzioni. Il cambio diviene possibile una volta maturato il termine di legittimazione previsto dall’art. 194 ord. giud. (attualmente quattro anni, ma ridotti a tre per i magistrati di prima destinazione dall’art. 7 della legge n. 71 del 2022)[12]; ancora prima, deve ritenersi, ove il trasferimento avvenga da parte di soggetto non legittimato ex art. 194 ord. giud. (es. trasferimento in sedi a copertura necessaria, trasferimento in base alla legge 104/92 o 100/87).
Per i passaggi nella medesima regione dalle funzioni requirenti a quelle civili e viceversa, restano, invece, i limiti dei cinque anni di non espletamento nell’ufficio di provenienza, o di funzioni giudicanti penali per chi assume le funzioni requirenti e il divieto di assegnazione invece, al settore penale del pubblico ministero che cambia le funzioni, fino a quando questi resta nell’ufficio di destinazione (e, quindi, anche oltre i cinque anni).
È altresì consentito il mutamento dalle funzioni (giudicanti o requirenti) di primo grado a quelle (requirenti o giudicanti di secondo grado), alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (DNAA), il conferimento, previo mutamento delle funzioni, delle funzioni requirenti e giudicanti di legittimità e le funzioni semidirettive giudicanti e requirenti di secondo grado. Per accedere a tali funzioni, infatti, è sufficiente il superamento della seconda valutazione di professionalità, che si consegue dopo otto anni dal d.m. di nomina.
La nuova previsione solleva dei problemi per l’accesso all’ufficio del Massimario e del Ruolo, per il quale occorre, invece, aver conseguito la terza valutazione di professionalità (oltre che anche otto anni di effettivo esercizio delle funzioni), da parte di chi ha svolto funzioni requirenti (art. 7 l. 72/2022, che modifica l’art. 115 ord. giud.). Dal momento che è possibile un solo cambio di funzioni e che, ove esso sia effettuato dopo i primi nove anni di funzioni, infatti, scatta il divieto di assegnazione a funzioni giudicanti penali. Pertanto, l’unico modo che hanno i pubblici ministeri per essere assegnati a tale ufficio è cambiare le funzioni entro i primi nove anni, senza poter transitare direttamente dalla Procura al Massimario della Cassazione, se non venendo assegnati solo al settore civile. Per contro, i giudici che aspirano ad accedere in futuro al Massimario, potendo effettuare un solo cambio di funzioni, dovranno rinunciare a svolgere l’esperienza requirente.
Ad una diversa conclusione si potrebbe giungere solo intendendo che l’equiparazione alle funzioni giudicanti è solo di natura ordinamentale e che non scattano le incompatibilità di settore previste dai commi 3 e 4 dell’art. 13. Si tratta, tuttavia, di una forzatura poco convincente, per tre ragioni: a) le funzioni del Massimario sono strettamente collegate con quelle tipicamente giurisdizionali; b) essi possono essere applicati ai collegi della Cassazione; c) sarebbe illogico che, ove successivamente acquisiscano le funzioni giudicanti di legittimità, non possano essere addetti al penale e, invece, come addetti al Massimario, sia prevista tale possibilità.
3.2. Le possibilità di scelta residue dopo nove anni dal conferimento delle funzioni giudiziarie.
Questa libertà di mutamento delle funzioni, viene drasticamente ridimensionata dopo nove anni dal conferimento delle stesse essendo previste delle incompatibilità assolute tra funzioni requirenti e funzioni giudicanti penali. Prosegue, infatti, il secondo periodo del comma 3 «Oltre il termine temporale di cui al secondo periodo è consentito, per una sola volta, il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, quando l'interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali, nonché il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro».
Chi ha già cambiato le funzioni non può avvalersi di tale facoltà posto che il primo periodo del 3° comma, come su riportato prevede che essa può essere esercitata ”per non più di una volta nell'arco dell'intera carriera”.
Tra coloro che, invece, non hanno cambiato fino a tale momento, chi ha svolto le funzioni requirenti non potrà in alcun modo, nell’intero arco della carriera, essere destinato, quale che sia il luogo di lavoro, a funzioni giudicanti penali: di primo grado e di secondo grado (da vedersi se semidirettive, di legittimità, presso uffici specializzati e se in caso di conferimento di funzioni direttive, possa essere tabellarmente assegnato anche a tali funzioni). Al tempo stesso chi ha svolto, anche per un giorno funzioni penali, non potrà mai assumere le funzioni requirenti (salvo quelle di legittimità, v. infra).
In altre parole, a carriera avviata, il cambio di funzioni è possibile solo: a) se non si sono mai mutate le funzioni in precedenza; b) se non si sono mai svolte funzioni penali oppure se, nel mutamento da requirente a giudicante, si è assegnati definitivamente a funzioni civili o lavoro. Un pubblico ministero non potrà mai essere trasferito al Tribunale di Sorveglianza o al Tribunale per i Minorenni, ove è difficilmente ipotizzabile che possa svolgere esclusivamente funzioni civili, senza alcun ruolo, anche accessorio o come sostituto, che implichi lo svolgimento di funzioni penali.
La tassatività di tale divieto deriva dal periodo successivo per il quale “In quest'ultimo caso, il magistrato non può in alcun modo essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni giudicanti di natura penale o miste, anche in occasione di successivi trasferimenti.”
I due perni della separazione quasi integrale delle carriere magistratuali, accomunate dall’autogoverno unico, sono, per l’appunto, l’unicità del passaggio, che rende la scelta irreversibile, e il fattore impeditivo segnato dall’impossibilità totale di qualsiasi osmosi nel settore penale tra funzioni giudicanti e requirenti: salve le funzioni svolte nei primi nove anni, nessuno che ha svolto le funzioni di pubblico ministero potrà essere inserito un collegio penale o svolgere funzioni penali monocratiche e nessun giudice penale potrà divenire pubblico ministero.
Di scarsa rilevanza, invece, è il fatto che per attuare tale passaggio, sia necessario, come attualmente già previsto che il magistrato previamente partecipi “ad un corso di qualificazione professionale” e che esso sia subordinato “a un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario.” [13]
3.3. Le funzioni di legittimità.
Regole specifiche, non meno insoddisfacenti, sono dettate per le funzioni di legittimità.
Il comma 6 distingue due categorie di funzioni di legittimità assoggettate a regole diverse. Il primo periodo prevede che: “Per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché per il conferimento delle funzioni requirenti di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10 non opera alcuna delle limitazioni di cui al comma 3 del presente articolo.” Il secondo, periodo, invece, dispone che: Per il conferimento delle funzioni giudicanti di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dell’articolo 10, che comportino il mutamento da requirente a giudicante, fermo restando il divieto di assegnazione di funzioni giudicanti penali, non operano le limitazioni di cui al comma 3 relative alla sede di destinazione”.
Solo per il conferimento delle funzioni requirenti e direttive requirenti di legittimità (sostituto procuratore generale e avvocato generale), oltre che direttive superiori e apicali, giudicanti e requirenti (presidente aggiunto, presidente del Tribunale Superiore delle acque pubbliche e procuratore aggiunto – art. 10, commi 15 e 16) “non opera alcuna delle limitazioni di cui al comma 3 del presente articolo”. Per le funzioni giudicanti (e direttive giudicanti) di legittimità (consigliere e presidente di sezione), vi è una deroga solo “le limitazioni di cui al comma 3 relative alla sede di destinazione”, e resta fermo “il divieto di assegnazione di funzioni giudicanti penali. Se ne desume chiaramente che per queste seconde trovano applicazione tutte le altre, ivi incluso il divieto di secondo mutamento delle funzioni.
Le regola dei cambi, pertanto, analogamente a quanto previsto per le funzioni di merito, è asimmetrica per gli uffici requirenti e giudicanti di legittimità.
In pratica, i giudici di merito e i consiglieri di cassazione addetti (o che in passato sono stati addetti) al settore penale, potranno svolgere tutte le funzioni requirenti di legittimità; i pubblici ministeri inclusi i sostituti procuratori generali della Cassazione (e gli avvocati generali), invece, potranno svolgere le funzioni di consigliere di cassazione, ma solo nel settore civile o lavoro.
Il ricorso all’espressione “conferimento” delle funzioni, potrebbe indurre alla conclusione che i divieti non trovino applicazione per i mutamenti interni alla legittimità, in coerenza con il quadro ordinamentale che individua la funzione di legittimità come comune alla Cassazione e alla Procura Generale. Si è recentemente evidenziato[14] che l’art. 104 Cost. prevede che siano membri di diritto il Primo Presidente della Cassazione e la Procura Generale della (e non presso) la Cassazione, a riprova di tale unitarietà. Deve osservarsi, tuttavia, che l’espressione conferimento è identica a quella prevista già dalla precedente versione dell’art. 13, comma 6, finora interpretata nel senso della rilevanza, ai fini del rispetto dei numero massimo dei cambi di funzione, anche del mutamento di funzioni di legittimità.
Si realizzano in tal modo, a regime, due evidenti paradossi: I) chi è stato sempre pubblico ministero può divenire consigliere di cassazione, anche se deve svolgere le funzioni giudicanti civili; chi, invece, ha sempre svolto funzioni giudicanti, non operando la deroga al numero dei trasferimenti e ha ricevuto le funzioni requirenti di legittimità, non potendo a regime effettuare un secondo cambio di funzioni, non può divenire consigliere di cassazione, in qualunque settore; II) inoltre, non distinguendosi tra funzioni requirenti civili e penali di legittimità, anche chi ha svolto la propria carriera interamente nel settore civile, ma espleta le funzioni requirenti di legittimità nel settore civile, senza avere fatto un solo processo penale, superato il periodo transitorio, non può ricevere le funzioni giudicanti di legittimità e, anche secondo la norma transitoria, ove muti le funzioni deve essere assegnato al settore civile o lavoro.
3.4. I procuratori europei delegati e il procuratore europeo.
La legge n. 71 del 2002, trascura speciali funzioni svolte dai procuratori europei delegati e dal procuratore europeo, non affrontando il tema dei cambi di funzioni dei magistrati che intendono svolgere o hanno svolto queste funzioni.
L’art. 5, comma 3 di tale decreto prevede che “Possono candidarsi per l'incarico di procuratore europeo delegato i magistrati, anche se collocati fuori dal ruolo organico della magistratura o in aspettativa, i quali alla data di presentazione della dichiarazione di disponibilità alla designazione non hanno compiuto il sessantaquattresimo anno di età e hanno conseguito almeno la terza valutazione di professionalità. Quando l'accordo di cui all'articolo 13, paragrafo 2, del regolamento prevede la designazione di procuratori europei delegati addetti in via esclusiva alla trattazione dei giudizi innanzi alla Corte di cassazione, la dichiarazione di disponibilità a ricoprire tale incarico può essere presentata unicamente da magistrati che svolgono o che hanno svolto funzioni di legittimità. “[15]
Ebbene, come si coordina l’art. 13 con la disciplina dell’EPPO? Si consideri che l’accesso alle funzioni EPPO è previsto per coloro che “sono membri attivi delle procure o della magistratura dello Stato membro interessato”, con una volontà di ampliare, anche se in modo non tassativo, la sfera dei legittimati non solo ai pubblici ministeri, ma anche ai giudici.
Quale delle due norme deroga rispetto all’altra? E’ legittimo precludere ad un giudice che abbia già svolto le funzioni di pubblico ministero l’assunzione delle funzioni PED, oppure al PED di cambiare funzioni al termine del mandato? Poiché le funzioni PED rivestono carattere nazionale, come si attua il cambio di funzioni senza violare le norme di cui a comma 3, primo periodo e comma 4? Questi è obbligato ad andare al settore civile? Si tratta di una condizione analoga a quella della DNAA?
4. La normativa transitoria e la tutela del principio dell’affidamento.
A temperare transitoriamente il rigore della superazione surrettizia delle carriere operata interviene, appunto, il comma 2 dell’art. 12 del disegno di legge approvato: “I magistrati che prima della data di entrata in vigore della disposizione di cui al comma 1, lettera c), hanno effettuato almeno un passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, o viceversa, possono effettuare un solo ulteriore mutamento delle medesime funzioni nonché richiedere il conferimento delle funzioni requirenti di legittimità ai sensi del comma 6 dell'articolo 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, come sostituito dal presente articolo, a condizione che non abbiano già effettuato quattro mutamenti di funzione.”
Nel ritenere ammissibile il quesito referendario votato il 12 giugno 2022 la sentenza n. 58 della Corte Costituzionale del 2022, oltre a richiamare la precedente sentenza n. 37 del 2000 dettata in tema, afferma significativamente “che la possibilità - rientrante tra i compiti del legislatore - che, a seguito dell'eventuale abrogazione referendaria, si pongano in essere gli interventi legislativi necessari per rivedere organicamente la normativa "di risulta", e per l'introduzione di discipline transitorie e conseguenziali, onde evitare, in particolare, la immediata "cristallizzazione" delle funzioni attualmente in essere.”
La norma è piuttosto generica, non prevede esplicitamente una deroga alle norme sopra riportate e, pertanto, richiede di essere interpretata.
Secondo una prima interpretazione la norma prevede una deroga solo al numero dei passaggi possibili, fermi restando tutti gli altri divieti: chi si trova in una determinata funzione o ha svolto funzioni penali (giudicanti o requirenti), che radicano le nuove incompatibilità, troverebbe la sua condizione definitivamente ingessata, e gli sarebbero inibiti i passaggi su indicati vietati a regime.
Una diversa, interpretazione, invece, porta a ritenere che in ogni caso il primo trasferimento successivo all’entrata in vigore della legge sia sempre integralmente sottratto alle restrizioni previste dal comma 3 novellato dell’art. 13. Escluso, ovviamente un trasferimento “libero”, inibito tanto dalla versione precedente quanto da quella attuale dell’art. 13, esso resta soggetto alle regole della riforma Castelli-Mastella; pertanto, può essere espletato decorsi cinque anni dal precedente mutamento, rispettando i limiti regionali nel caso di permanenza con funzioni diverse nel settore penale, senza essere assoggettato alle incompatibilità definitive sopra descritte.
Si tratta, quanto alla seconda, di una soluzione costituzionalmente imposta.
Per i magistrati in servizio impediti nel mutamento di funzioni o nell’assegnazione al settore penale per ragioni diverse dai divieti preesistenti (cambio funzioni nella regione o distretto e limite dei quattro cambi), la norma, ove interpretata nel primo senso, determinando una parziale cristallizzazione delle funzioni, precludendo l’accesso a determinati settori o funzioni, viola il principio dell’affidamento, di rilevanza costituzionale e avente un riconosciuto fondamento eurounitario.
Il Consiglio di Stato ha già riconosciuto proprio per i mutamenti di funzione dei magistrati l’operatività di tale principio anche nell’ambito dell’ordinamento giudiziario e le necessità di assicurare tutela alla sua lesione (Cons. Stato, V Sez., n. 7695/2020[16]).
Senza ripercorre l’ampia evoluzione dell’istituto dell’affidamento, valevole non solo nei confronti della pubblica amministrazione, ma anche nei confronti del legislatore, è sufficiente richiamare alcuni dei rilievi mossi da tale sentenza ad una delibera del Consiglio Superiore della Magistratura che vietava un ulteriore cambio di funzioni ad un magistrato della procura generale della Cassazione che aveva già cambiato cinque volte le funzioni:
La delibera è stata annullata affermando che il limite dei quattro mutamenti non poteva che valere per il periodo successivo all’entrata in vigore del d.lgs. 160/2006 proprio per la lesione dell’affidamento e l’illegittimità costituzionale di una norma preclusiva dei mutamenti di funzione sulla scorta delle funzioni giudiziarie svolte prima sella sua entrata in vigore.
In tale occasione il giudice amministrativo come, per la Corte Costituzionale, la retroattività nelle disposizioni normative concernenti settori dell’ordinamento diversi da quello penale ”è ammissibile solo nel rispetto dei principi generali di ragionevolezza, proporzionalità e prevedibilità, atteso che il divieto di retroattività della legge, previsto dall'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, costituisce valore fondamentale di civiltà giuridica e può essere compromesso solo per l’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) (cfr. Corte cost., 29 maggio 2013, n. 103).” [17]
È necessario, quindi, se “interessi pubblici sopravvenuti” richiedono “interventi normativi in grado di comprimere posizioni consolidate, è comunque necessario, per un verso, che l'incidenza peggiorativa non sia sproporzionata rispetto all'obiettivo perseguito nell'interesse della collettività e, per altro verso, che l'intervento di modifica sia prevedibile, non potendosi tollerare mutamenti retroattivi del tutto inaspettati” (Corte cost., 26 aprile 2018, n. 89). Sulla scorta di tali principi, il Consiglio di Stato, nel caso esaminato ha evidenziato come “prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 160 del 2006 non sussisteva alcun limite al mutamento di funzioni nella carriera del magistrato, non potendosi prevedere in alcun modo che tali mutamenti di funzione sarebbero stati in futuro pregiudizievoli; anzi, gli stessi, all’epoca in cui sono stati posti in essere, erano considerati un arricchimento della carriera e non un elemento di disvalore. Invero, per la Corte costituzionale, l'imprevedibilità di un intervento normativo è proprio uno degli elementi sintomatici della lesione del legittimo affidamento (cfr. Corte cost., 24 gennaio 2017, n. 16).”
Se tali principi hanno trova applicazione rispetto al caso in cui sono stati già effettuati ben cinque passaggi di funzione, nella medesima e più ancora più irrazionale e inaspettata condizione, lesiva del loro legittimo affidamento, vengono a trovarsi tutti i magistrati italiani, specie coloro che, avendo già svolto nove anni di funzioni, vedono improvvisamente l’accesso a determinate funzioni o settori radicalmente vietato, con una sorta di inaspettata incompatibilità assoluta rispetto alle funzioni penali giudicanti e requirenti, estesa all’intero territorio nazionale e di carattere definitivo.
Per giungere a tale interpretazione non è in alcun modo necessario sollevare l’incidente di costituzionalità. La disposizione transitoria, infatti, non contiene deroghe testuali al regime di nuova introduzione (in tal caso, la questione neppure si porrebbe in quanto già positivamente risolta in termini espliciti), ma neppure ne prevede espressamente l’applicabilità a trasferimenti da essa previsti (se lo facesse, in questo secondo caso, invece, la strada della incostituzionalità sarebbe obbligata non lasciando il dato testuale spazio all’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata e, quindi, dovendo l’interprete andare contro la norma). Nel suo silenzio, pertanto, il contenuto dell’enunciato non è dirimente e, pertanto, sono ammissibili più letture del dato semantico.
Va precisato che non costituisce un dato con valenza ostativa neppure il fatto che l’art. 12, comma 2 del disegno di legge approvato, da un lato, prevede il diritto soggettivo ad un ulteriore trasferimento (“I magistrati che prima della data di entrata in vigore della disposizione di cui al comma 1, lettera c), hanno effettuato almeno un passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, o viceversa, possono effettuare un solo ulteriore mutamento delle medesime funzioni”), dall’altro, con il termine “nonché” – nell’univoco significato di “e anche” - la disposizione precede la possibilità la possibilità ulteriore di “richiedere il conferimento delle funzioni requirenti di legittimità” (e non di quelle giudicanti di legittimità).
È evidente, infatti, che aggiungendosi questa seconda facoltà (accesso alle funzioni di sostituto procuratore generale, ma non di consigliere di cassazione) alla prima (previsione generale della possibilità di un secondo cambio di funzioni), i magistrati in servizio, anche dopo avere mutato le funzioni, come previsto dalla norma generale (da p.m. a giudice di merito o di legittimità), dopo l’entrata in vigore della norma, possono effettuare un secondo cambio di funzioni, circoscritto, tuttavia, alle sole funzioni requirenti di legittimità.
Si tratta, pertanto di due disposizioni distinte: una più generale che assicura a tutti i magistrati il diritto a cambiare le funzioni dopo la modifica ordinamentale; l’altra specificamente dettata per le funzioni requirenti di legittimità , che consente a tal fine anche un secondo passaggio.
Ne deriva che, se la disposizione transitoria non contiene un rimando ineludibile “ai limiti di cui al comma 3” ma, secondo l’intenzione del legislatore, si limita a presupporli, vi è spazio per una interpretazione conforme a costituzione che impedisca la violazione del principio dell’affidamento, del divieto di retroattività e del principio di ragionevolezza.
Risulta, pertanto, conforme all’art. 12 disp. prel. cod, civ. e ai principi sopra riportati, l’interpretazione per la quale la disposizione transitoria non trova applicazione per le situazioni di fatto già consolidate al momento della entrata in vigore della norma, ma solo per quelle che costituiscono esercizio di facoltà da parte dei magistrati esercitate dopo tale momento. Ciò significa che il magistrato che intende ora cambiare le funzioni è soggetto all’art. 13 nella formulazione applicabile le regole vigenti nel momento in cui ha espletato le funzioni, mentre il magistrato muta che muta le funzioni (o, probabilmente, effettua un qualunque altro trasferimento), nella vigenza del d.d.l. di riforma è soggetto alle nuove più stringenti regole del novellato art. 13 a parte da tale momento.
La necessità di tutelare l’affidamento dei magistrati, e la manifesta incostituzionalità della tesi dell’applicabilità delle incompatibilità di settore e di funzioni alle posizioni già consolidate, comporta che il Consiglio Superiore, dovrebbe ritenere inapplicabili tali norme ai bandi in corso (manca all’uopo una norma transitoria), ma dovrebbe altresì opportunamente evidenziare per quelli successivi quale sia il regime transitorio del mutamenti di funzione, con particolare riguardo, ma non solo, per i magistrati che hanno maturato un’anzianità di almeno nove dal conferimento delle funzioni.
Concludendo sul punto, in pratica, deve ritenersi che per il primo mutamento di funzioni (successivo alla riforma), deve escludersi per tutti l’operatività dei rigorosi divieti: sopra descritti a) il pubblico ministero che cambia funzioni, potrà essere assegnato al settore penale se cambia regione; b) il giudice che svolge, o che ha svolto funzioni penali, potrà assumere le funzioni requirenti; c) lo svolgimento delle funzioni penali giudicanti o quelle requirenti farà scattare l’incompatibilità solo a partire dal primo trasferimento o cambio di funzioni successivo all’entrata in vigore della legge. Ad esempio, il giudice con funzioni penali deve ritenersi attualmente non incompatibile, ma se si trasferisce ad altre funzioni giudicanti ed è nuovamente assegnato al settore penale, non potrà acquisire, nella vigenza della norma le funzioni requirenti; allo stesso modo, il magistrato requirente non potrà svolgere le funzioni giudicanti penali ove si trasferisca ad altro ufficio requirente, perché tali passaggi sono avvenuti nell’ambito del regime della riforma attuale.
5. Gli ulteriori problemi sollevati dalla riforma: assegnazione d’ufficio delle funzioni, incoerenza e irrazionalità delle finalità sottese alle norme introdotte.
Accanto a tali temi principali, impregiudicata la questione della costituzionalità della separazione delle carriere introdotta[18], emergono anche altri problemi:
1) i magistrati nella prima destinazione sono assegnati d’ufficio; tale assegnazione impedirà loro di svolgere le funzioni desiderate se non riescono ad acquisirle entro i primi dieci anni di carriera. Es. chi vorrà fare il PM o il giudice penale a Roma (o, come già indicato, quelle di addetto al Massimario) ed è stato assegnato, come regolarmente avviene, come giudice o PM penale nella prima sede lontana, dovrà cambiare le funzioni entro i primi nove anni, se intende esercitare le funzioni preferite nel settore penale;
2) i magistrati assegnati a funzioni promiscue (o come si esprime la norma “miste”) incontreranno gli stessi ostacoli e così anche i magistrati assegnati agli uffici specializzati (minori, sorveglianza); pertanto, decorsi i nove anni, essi non potranno mai assumere funzioni requirenti e i pubblici ministeri mai potranno accedere a tali funzioni. Un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di ragionevolezza potrebbe indurre ad escludere l’operatività dei divieti per gli uffici specializzati;
3) la nuova disposizione prevede che “il magistrato non può in alcun modo essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni giudicanti di natura penale o miste, anche in occasione di successivi trasferimenti”). Appare forzato interpretare la norma nel senso che i trasferimenti successivi vietati sono solo quelli “interni” e non anche quelli esterni, ovvero i tramutamenti successivi; il comma 4, infatti, per il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti civili nella medesima regione, prevede il divieto di assegnazione al penale “prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni”. Proprio tale locuzione, diversa dall’altra contenuta nel medesimo articolo, unitamente all’unicità del passaggio, è quella che determina la separazione delle carriera;
4) le norme disincentivano il trasferimento verso sedi disagiate da parte di chi vuole mutare le funzioni. Un giudice civile che non vuole “bruciarsi” il mutamento di funzioni, non chiederà mai di andare in disagiata con assegnazione al penale o promiscua;
5) in generale, sicuramente si verificherà una fuga dalle funzioni requirenti che renderà difficile la copertura di tali posti;
6) delle due l’una, o il Consiglio, rimeditando il proprio precedente orientamento, ritiene che la norma non trovi applicazione per tutti i trasferimenti o assegnazioni d’ufficio, oppure ogni applicazione interna, endodistrettuale o extradistrettuale o trasferimento d’ufficio, ivi incluso quello ex art. 2 l.g., potrà essere legittimamente rifiutata dal magistrato se implica il cambiamento di funzioni o l’assegnazione a funzioni penali o promiscue; certamente al magistrato non può essere imposto uno svolgimento, anche temporaneo, di funzioni che gli preclude con decisione autoritativa e contingente le successive opzioni di carriera;
7) per le funzioni di legittimità, nessun consigliere di cassazione assegnato dal penale potrà mai avere svolto funzioni in Procura, Procura Generale, DNNAA e Procura Generale Cassazione, limite gravissimo e perdita di patrimonio complessivo di esperienza e professionalità complessive della Cassazione, che, all’evidenza, abbisogna di coagulare tutte tali esperienze e, nel caso, della Procura Generale, uno snaturamento delle sue peculiari funzioni requirenti di legittimità.
Peraltro, deve rilevarsi aggiuntivamente in Cassazione possono essere assegnati come consiglieri meriti insigni che avevano svolto la professione legale nel settore penale: i consiglieri di cassazione penale possono essere ex avvocati di lungo corso, ma non a quelli ex pubblici ministeri (salve le funzioni svolte ad inizio carriera), perfino, come si è visto, nel caso in cui, come quello dei sostituti procuratori generali della Corte di Cassazione addetti al civile o lavoro, non hanno mai svolto funzioni penali.
Per la particolare rilevanza della tematica delle incompatibilità che possono scaturire dall’assegnazione delle funzioni penali d’ufficio, deve ritenersi l’unicità della carriera magistratuale impone un’interpretazione costituzionalmente orientata per la quale non possono sorgere incompatibilità rispetto ad un determinato settore (penale) o funzioni (requirenti) per effetto di un trasferimento o di un’assegnazione o attribuzione di funzioni tabellari avvenuta d’ufficio. In tale caso, infatti, il magistrato viene pregiudicato nell’accesso a determinate funzioni giudiziarie per effetto di una decisione che non ha mai preso, con ciò vulnerandosi la sua legittima aspettativa a poter svolgere, nei limiti dei posti disponibili e, naturalmente, ove abbia le specifiche attitudini, tutte le funzioni giudiziarie previste dall’ordinamento.
Infine, esaminato l’impatto complessivo delle modifiche operate dall’art. 12 della legge n. 71 del 2022 sui cambi di funzione, occorre focalizzare gli interessi dalla stessa perseguiti. Come si è indicato, emerge come: a) resti immutato il comma 4 dell’art. 13 e, quindi, la finalità di preservare, fin dall’inizio della carriera, l’apparenza di terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero in ambito regionale, limitandosi la possibilità di cambio in tale ambito al diverso settore (penale e civile o lavoro); b) sia stato eliminato, invece, il limite dei cinque anni, sostituito dall’unicità del cambio e, se svolto dopo i primi nove, anni dal sorgere di incompatibilità assolute rispetto alle funzioni requirenti o giudicanti penali. Il legislatore, in tal modo non persegue più la finalità di consentire la maturazione adeguata di una professionalità nelle funzioni scelte e, quindi, di impedire continue variazioni. Introducendo tali incompatibilità ritiene, invece, che, svolte le funzioni penali o requirenti, il magistrato dopo un certo periodo, divenga inidoneo ad espletare le funzioni requirenti o giudicanti penali.
La soluzione presenta degli aspetti di irrazionalità perché tale inidoneità è collegata al momento in cui il magistrato cambia, e non alla durata di svolgimento delle diverse funzioni: se ha svolto le funzioni di pubblico ministero per i primi otto anni, può fare il giudice penale, ma se ma cambia dopo i primi nove anni dopo avere svolto per un brevissimo periodo le funzioni “incompatibili”, esse gli sono precluse; allo stesso modo chi è stato giudice civile per 10-20 anni di carriera ed è stato assegnato al penale, d’ufficio o su domanda per pochi mesi, non può cambiare le funzioni dopo i primi nove anni. La riforma, pertanto, non persegue con coerenza il proposito di impedire che chi ha sviluppato la “mentalità” del pubblico ministero negli anni - secondo l’attuale dibattito politico asseritamente incompatibile con quella del giudice - possa divenire giudice penale, ma è orientata ad imporre una scelta professionale definita dopo il primo quarto di carriera nella logica del “separare purché si separi”. L’incompatibilità del giudice penale a svolgere le funzioni di pubblico ministero poi rafforza tale idea perché le è estraneo, non solo il tema della “forma mentis”, ma anche quello della “competenza”, dal momento che può assumere tali funzioni il giudice civile. In parole povere, precludendo proprio a chi ha più motivazione e competenza nel settore a mutare le funzioni, si incentiva in tal modo un’ulteriore riduzione del già ridotto numero di magistrati che mutano le funzioni[19] in modo da stimolare la maturazione di una percezione da parte dei giudici e pubblici ministeri di una reciproca estraneità per essere i loro percorsi professionali non sovrapponibili. Che quest’ultima possa rappresentare una finalità delle norme conforme al principio di ragionevolezza, posto anche che giudici e pubblici ministeri continuano ad appartenere al medesimo ordine, conservando – per espressa previsione costituzionale - identità di status e di guarentigie, e che nulla muti sul piano processuale in termini di “parità delle armi tra pubblico ministero e avvocato”, è poi discorso da affrontare in altra sede.
Conclusivamente le modifiche dell’art. 13, sollevano dei dubbi di costituzionalità che richiedono un approfondimento a parte; creano numerose incertezze interpretative e, inoltre, pongono notevoli difficoltà alla organizzazione degli uffici e alle politica consiliare dei trasferimenti orizzontali e verticali. Appare urgente, pertanto, un ricorso da parte del Consiglio Superiore ai suoi poteri paranormativi, rispettoso tanto dell’opzione legislativa appena esercitata quanto della morfologia costituzionale delle carriere e delle funzioni dei magistrati, quale garante dell’unitarietà della magistratura prevista dall’art. 104 Cost., dell’indipendenza del pubblico ministero, nonché responsabile dell’organizzazione generale degli uffici giudiziari.
[1] V. in tema su questa Rivista, A. Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile, 2017. Sempre su giustiziainsieme è intervenuto sul tema anche il prof. C. Smuraglia, Il delitto Pinelli e il diritto alla verità, 2019, da poco scomparso, e che la Rivista ha recentemente ricordato .
[2] Occorre, tuttavia, quanto meno, richiamare le fonti internazionali, che consentono uno sguardo sulla questione, dall’”esterno”. La prima è la Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000 , ove si prevede (al punto 18) che: “…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice , o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”. Ancora si argomenta che: “ La possibilità di <> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine della garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto . Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”. La seconda è il parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”.
[3] Per il conferimento delle (diverse) funzioni di secondo grado era necessario cambiare distretto. Anche se la norma non indicava esplicitamente se, in tal caso, per il cambio nello stesso settore fosse necessario cambiare regione ai sensi del comma 3, e non solo distretto, come affermava la norma specifica dettata dal comma 4; tale conclusione era obbligata in ragione della collocazione della norma speciale nell’ambito delle deroghe, nonché dalla ratio complessiva dell’art. 13, prevalendo le ragioni di “apparenza” rispetto a quelle enucleabili dalla diversità tra funzioni di primo e secondo grado.
[4] Funzioni incompatibili con il ruolo di parte o, quanto meno, secondo una formula solo sintatticamente contraddittoria di parte imparziale. Sul punto v. C. Sgroi, La funzione della Procura generale della Cassazione, in questionegiustizia.it, 2018.
[5] V. P. Filippi, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum, in questa Rivista.
[6] Ove sono richiamate le delibere che hanno escluso l’applicabilità dell’art. 13 ai trasferimenti ex art. 2; cfr. in tale senso anche sent. del T.A.R. del Lazio n. 6324 del 2009, non impugnata.
[7] Es. con delibera del 12 giugno del 2008 il Consiglio ha affermato che:”La regola per la quale il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti (e viceversa) può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata, prevista dal comma terzo all’art. 13 decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 non si applica per la prima domanda di trasferimento dei magistrati del D.M. 6 dicembre 2007 dalla sede assegnata d’ufficio al termine del tirocinio.”.»
Lo stesso legislatore, con l’art. 3-bis, comma 1 del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, conv. in legg 22 febbraio 2010, n. 24, rimaneggiando la norma che prevedeva il divieto di assegnazione delle funzioni requirenti ai magistrati dei magistrati di aveva successivamente affermato che per le sedi con scopertura superiore al 30% e prima dell’abrogazione del secondo comma dell’art. 13 ad opera dell’art. 1, , comma 2 del d.l. 168/2016, conv. in legge n. 193 del 2016, che prevedeva, appunto, tale divieto, ha disposto che "provvedimento motivato, il Consiglio superiore della magistratura, ove alla data di assegnazione delle sedi ai magistrati nominati con il decreto ministeriale 2 ottobre 2009 sussista una scopertura superiore al 30 per cento dei posti di cui all'articolo 1, comma 4, della legge 4 maggio 1998, n. 133, come da ultimo modificato dal presente decreto, puo' attribuire esclusivamente ai predetti magistrati, in deroga all'articolo 13, comma 2, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, e successive modificazioni, le funzioni requirenti al termine del tirocinio, anche antecedentemente al conseguimento della prima valutazione di professionalita'". Coerentemente ha, inoltre disposto (con l'art. 3, comma 1) che "Il trasferimento d'ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma puo' essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa all'interno di altri distretti della stessa regione, previsto dall'articolo 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160”.
[8] Sentenza che è intervenuta proprio su un caso di trasferimento verso una sede disagiata con cambio di funzioni e sul diniego di un successivo trasferimento nel distretto di provenienza senza che il magistrato avesse maturato la legittimazione quinquennale.
[9] L’art. 2 della legge delega n. 150 del 2015 prevedeva che addirittura l’opzione dovesse essere esercitata già al momento del concorso, anche se poi era consentito il cambio successivo entro tale termine. Art. 2 l. n. 150 del 2005 “Principi e criteri direttivi, nonché disposizioni ulteriori. 1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, comma 1, lettera a), il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) prevedere per l'ingresso in magistratura: 1) che sia bandito annualmente un concorso per l'accesso in magistratura e che i candidati debbano indicare nella domanda, a pena di inammissibilità, se intendano accedere ai posti nella funzione giudicante ovvero a quelli nella funzione requirente” (…) 4) “che, al momento dell'attribuzione delle funzioni, l'indicazione di cui al numero 1) costituisca titolo preferenziale per la scelta della sede di prima destinazione e che tale scelta, nei limiti delle disponibilità dei posti, debba avvenire nell'ambito della funzione prescelta”.
[10] Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all'interno dello stesso distretto, né all'interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell' articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni».
[11] “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all'interno dello stesso distretto, all'interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento. »
[12] L’art. 194 dell’ordinamento giudiziario (Tramutamenti successivi) prevede che il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede, non possa essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di 4 anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell'ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. Su tale previsione interviene l’articolo 7 del disegno di che, aggiungendovi un comma, precisa che “per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione il termine di cui al primo comma è di 3 anni”.
[13] “Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell'ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità’'.
[14] L. Salvato, La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi, in giustiziainsieme.it, 2022, che cita la riflessione di F. Auletta.
[15] L’art. 2, comma 3 del d.lgs. n. 9 del 2021 prevede che 3 “Possono candidarsi per l'incarico di procuratore europeo i magistrati, anche se collocati fuori dal ruolo organico della magistratura o in aspettativa, i quali alla data di presentazione della dichiarazione di disponibilità alla designazione non hanno compiuto il cinquantanovesimo anno di età e hanno conseguito almeno la quarta valutazione di professionalità.” Una delle differenze tra le due funzioni è che il procuratore europeo, a differenza, dei PED, è collocato fuori ruolo.
[16] Richiama, in particolare, Corte cost., 11 giugno 2010, n. 209; 29 maggio 2013, n. 103, nonché Corte cost., 24 luglio 2009, n. 236 e la giurisprudenza costituzionale tedesca, sulla “retroattività “propria”, cioè comportante la modifica di un assetto di interessi già interamente definito e pienamente sedimentato tra le parti o che sopprime integralmente un’aspettativa giuridicamente qualificata connessa a un rapporto di durata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2015, n. 1432), a differenza dalla cosiddetta retroattività “impropria”, che si limita ad introdurre per il futuro una modificazione peggiorativa del rapporto di durata e determina anche una contrazione del momento finale di quello status che si riflette negativamente sulla posizione giuridica già acquisita dall'interessato” e sullo stesso tema Cass. civ., sez. I, 5 maggio 1999, n. 4462.
[17] Inoltre, “l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica costituisce un elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto e trova copertura costituzionale nell’art. 3 della Costituzione”. Pertanto, sebbene “non in termini assoluti e inderogabili”, “dette disposizioni non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l'affidamento del cittadino, che postula, tuttavia, il consolidamento nel tempo della situazione normativa che ha generato la posizione giuridica incisa dal nuovo assetto regolatorio, sia perché protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere sorta in un contesto giuridico sostanziale idoneo a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento.”
[18] Sebbene, come ricorda A. Spataro, la Corte Costituzionale, in relazione ad un precedente quesito referendario ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue: “la Corte non può non rilevare che il titolo attribuito al quesito dall'Ufficio centrale per il referendum "Ordinamento giudiziario: separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti" appare non del tutto adeguato, e in sostanza eccedente, rispetto alla oggettiva portata delle abrogazioni proposte, concernenti piuttosto, come si è detto, l'attuale disciplina sostanziale e procedimentale dei passaggi dall'una all'altra funzione in occasione dei trasferimenti dei magistrati a domanda”, precisando che: “Non può dirsi che il quesito investa disposizioni il cui contenuto normativo essenziale sia costituzionalmente vincolato, così da violare sostanzialmente il divieto di sottoporre a referendum abrogativo norme della Costituzione o di altre leggi costituzionali (…). La Costituzione, infatti, pur considerando la magistratura come un unico "ordine", soggetto ai poteri dell'unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.
[19] V. P. Filippi, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum, in questa Rivista.
Le funzioni dei consigli giudiziari dopo la riforma Cartabia
di Marcello Basilico
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’ingresso della componente laica nel controllo sulla professionalità dei magistrati. - 3. Le pagelle e gli altri nuovi adempimenti per la valutazione di professionalità. - 4. Gli interventi di semplificazione del procedimento valutativo. - 5. Il ruolo del Consiglio giudiziario nelle misure per l’efficienza degli uffici.
1. Premessa.
Uno dei campi d’intervento più significativi della legge 17 giugno 2022, n. 71 riguarda la valutazione di professionalità dei magistrati. Il Consiglio giudiziario (e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione cui s’intendono riferite per automatica estensione le note che seguiranno) nasce come organo istruttorio e consultivo in quella specifica materia, oltre che in quella tabellare. La riforma dell’ordinamento non poteva non investire dunque le sue funzioni e, in parte, la sua struttura.
La nuova legge riserva anche una novità che potrebbe cambiare volto al Consiglio giudiziario: non tanto per la discussa partecipazione dell’avvocatura ai giudizi di professionalità o per le cosiddette “pagelle” sulla capacità organizzativa, quanto piuttosto per il ruolo propositivo che norme meno considerate gli affidano nell’interlocuzione coi dirigenti degli uffici.
La parte numericamente preponderante delle disposizioni relative all’organo è concentrata nell’art. 3 (“Modifiche del sistema di funzionamento del consiglio giudiziario e delle valutazioni di professionalità”). Ma altri, come detto, sono gli spunti da raccogliere nel corpo della legge 71/2022.
Archiviate per il momento, con la sua approvazione, le valutazioni di opportunità sotto il profilo della politica giudiziaria, è il momento di procedere a una disamina dei singoli precetti della riforma e ad una prima riflessione sui relativi aspetti applicativi.
2. L’ingresso della componente laica nel controllo sulla professionalità dei magistrati.
La riforma della ministra Cartabia ha confermato la novità del d.d.l. del suo predecessore Bonafede l’introduzione della facoltà, per gli avvocati e i docenti universitari che formano il Consiglio giudiziario, di assistere e partecipare alle discussioni sulla valutazione quadriennale di professionalità dei magistrati di legittimità e di merito, disciplinata dall’art. 11 d. lgs. 160/2006[1].
Con la l. 71/2022 il testo dell’art. 3, primo comma, lett. a), è stato ampliato attribuendo alla sola “componente degli avvocati” la facoltà di esprimere “un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione”.
È bene ricordare che già l’art. 11, quinto comma, d. lgs. 160/2006, nell’accordare al Consiglio giudiziario poteri istruttori sui “fatti specifici” che gli fossero stati segnalati, ammetteva che tali segnalazioni potessero venire dai consigli dell’ordine degli avvocati. La riconosciuta inerzia del Foro su questo fronte ha rappresentato uno degli argomenti con cui si sono più contestate l’opportunità e la concreta utilità dell’ultima apertura alla componente degli avvocati[2].
L’espressione del “voto unitario” che la riforma ora gli conferisce è condizionata dalla compresenza di tre presupposti: 1) l’esistenza di una segnalazione da parte del consiglio dell’ordine sul magistrato in valutazione; 2) a riferibilità della segnalazione a fatti specifici; 3) la valutazione preliminare dell’incidenza di questi fatti sulla professionalità del magistrato.
Spetta evidentemente al Consiglio giudiziario tutto il controllo sull’esistenza di questi tre presupposti; particolarmente delicata sarà la verifica sulla correlazione tra fatto segnalato e professionalità del magistrato, verifica che dovrebbe selezionare i casi in cui l’evento non abbia attinenza coi parametri specifici su cui si deve basare la valutazione.
L’oggetto della possibile segnalazione trova una precisazione nel disposto dell’art. 11, quarto comma, lett. f, d.lgs. 160/2006: deve trattarsi di “fatti specifici incidenti sulla professionalità, con particolare riguardo alle situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”.
La norma precisa che i fatti specifici possono essere “positivi o negativi”. E’ una puntualizzazione improvvida, perché da un lato potrebbe apparire superflua (è difficile ipotizzare la totale neutralità di una circostanza che attenga all’agire di un professionista quando la si segnali nel procedimento teso a valutarlo) e dall’altro conferisce alla nuova attribuzione della componente forense una carica valoriale che riporta immediatamente al giudizio finale sul magistrato: si puntualizza che ogni contributo al procedimento di valutazione è teso non a delineare la figura del magistrato, ma a pervenire ad un giudizio favorevole o sfavorevole. Quello testé menzionato non è dunque l’inciso ideale per stemperare i contrasti che hanno accompagnato l’elaborazione e l’approvazione della disposizione.
Il prescritto carattere “unitario” del voto sembra escludere la possibilità che gli avvocati componenti del Consiglio giudiziario possano esprimere più di un giudizio: viene loro richiesta un’opinione comune e condivisa. Il voto dovrà dunque essere unico indipendentemente dall’appartenenza o meno di ciascun avvocato al consiglio dell’ordine da cui proviene la segnalazione.
Presa alla lettera, la disposizione in esame pare ancorare il voto “sulla base” solo del contenuto dei fatti specifici segnalati. Sarebbe irragionevole però precludere agli avvocati la possibilità di esprimere una posizione che tenga conto non solo di questi fatti, ma dell’intero complesso di elementi acquisiti nella valutazione di professionalità.
L’ultima proposizione della lett. a) dell’art. 3 l. 71/2022 impone alla componente forense che “intenda discostarsi dalla predetta segnalazione” di richiedere “una nuova determinazione” del consiglio dell’ordine. E’ lampante qui la diffidenza del legislatore verso la possibile dissociazione dei componenti avvocati del Consiglio giudiziario dalla segnalazione del loro ordine.
Per non peccare d’incoerenza rispetto alle premesse di una segnalazione avente ad oggetto circostanze oggettive, la nuova determinazione rimessa all’ordine forense dovrà limitarsi a valutazioni sull’opportunità della segnalazione e sull’attinenza alla professionalità di quanto si era comunicato. In caso contrario quest’ultima disposizione metterebbe a nudo un intento diverso da quello emergente dal complesso del dato normativo: il coinvolgimento della componente dell’avvocatura di un giudizio di carattere soggettivo, che andrebbe ben al di là della mera informazione di fatti specifici.
Siamo di fronte a un passaggio che nella materia in questione esalta il ruolo del legislatore delegato, al quale spetta il compito non banale di attuare la legge in modo sistematicamente coerente.
A riprova dell’attenzione riservata dalla riforma al contributo dell’avvocatura v’è la prescrizione, diretta al CSM, d’individuare annualmente e comunicare ai consigli dell’ordine i nominativi dei magistrati per i quali maturi nell’anno successivo uno dei sette quadrienni che costituiscono i periodi da valutare (art. 3, primo comma, lett. a, l. 71/2022). Nell’intenzione del legislatore ciò dovrebbe consentire ai Consigli giudiziari di acquisire per tempo dal Foro le eventuali segnalazioni.
3. Le pagelle e gli altri nuovi adempimenti per la valutazione di professionalità.
In sede di attuazione Governo (e CSM) dovranno cimentarsi anche in un’altra operazione spinosa: identificare i “criteri predeterminati” che qualifichino le capacità organizzative del magistrato sottoposto alla valutazione periodica. Il generale giudizio positivo dovrà infatti essere accompagnato da una valutazione “ulteriore” dedicata a quel parametro specifico ed espressa con gli aggettivi discreto, buono o ottimo (art. 3, primo comma, lett. c).
La stesura della “pagella” sulla capacità organizzativa si prefigura come un’attività particolarmente sensibile almeno sotto tre angoli visuali: la difficoltà di articolare un giudizio su una qualità che nel singolo periodo potrebbe non emergere appieno, anche a causa delle caratteristiche obiettive dell’attività del giudice o del p.m. in valutazione; il soggettivismo insito in un giudizio siffatto rischia di creare disparità di trattamento nella valutazione compiuta tra diversi Consigli giudiziari o tra magistrati che svolgono funzioni diverse e non comparabili; in difetto di elementi utili a realizzare una confronto efficace tra territori, funzioni o profili del tutto differenti, la prospettiva di una graduatoria tra magistrati ottimi, buoni o solo discreti organizzatori potrebbe caricare la valutazione periodica di professionalità di una valenza pericolosa sotto il profilo delle aspettative dei singoli, una valenza alla quale l’eventuale opera di livellamento della classificazione, compiuta su base nazionale, potrebbe sopperire solo per approssimazione e con risultati a loro volta criticabili in senso corporativo.
È dunque evidente come la riforma renda la valutazione periodica quadriennale ancora più composita e problematica, malgrado il dichiarato intento dei proponenti di semplificarla almeno sul piano dell’estrinsecazione motivazionale.
Secondo la delega, nell’adempiere a quell’attività i Consigli giudiziari dovranno inoltre:
- tenere conto dei fatti accertati nel giudizio disciplinare (art. 3, primo comma, lett. i, n. 5);
- esaminare il parametro della laboriosità anche in ordine al rispetto da parte del magistrato del programma annuale di gestione elaborato ai sensi dell’art. 37 d.l. 98/2011, conv. in l. 111/2011 (art. 3, primo comma, lett. d);
- acquisire dagli interessati “documentazione idonea alla valutazione dell’attività alternativa espletata” che abbia garantito un esonero totale o parziale dal lavoro giudiziario (art. 3, primo comma, lett. e);
- acquisire altresì, ai fini del parametro della capacità, le informazioni necessarie per accertare “gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi o nei gradi del procedimento” nonché provvedimenti a campione relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle fasi o nei gradi successivi (art. 3, primo comma, lett. g).
È difficile immaginare come quest’ultima previsione possa riguardare la valutazione dei magistrati di legittimità e, dunque, per la gran parte, l’operato del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.
Ciò detto, i risultati delle complesse indagini istruttorie così richieste dall’intervento riformatore dovrebbero riversarsi nel “fascicolo per la valutazione del magistrato”; esso raccoglierà anche i dati statistici e la documentazione necessaria a valutare “sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo” il complesso dell’attività da lui svolta (art. 3, primo comma, lett. h, n. 1).
Nell’idea del legislatore il fascicolo individuale dovrebbe evidentemente favorire l’espressione di giudizi comprensivi di una molteplicità di fonti e di elementi, che andrebbero apprezzati in modo organico anziché disarticolato. Fino alla sua istituzione concreta e alla predisposizione d’una disciplina di raccordo con quella dell’attuale fascicolo personale del magistrato (art. 3, primo comma, lett. h, n. 1), la valutazione di professionalità verrà compiuta giocoforza con gli strumenti di verifica tradizionali.
Nessuna delle disposizioni esaminate è costruita come self executive. E’ dunque prevedibile che, mancando allo stato norme transitorie, l’attività futura dei Consigli giudiziari si dipanerà attraverso tre fasi progressive:
- la prima di valutazione di professionalità secondo l’ordinamento previgente;
- la seconda di applicazione dei precetti della riforma, in attesa dell’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato;
- la terza di attuazione piena della riforma.
4. Gli interventi di semplificazione del procedimento valutativo.
L’art. 3, primo comma, lett. i, della legge 71/2022 ha indicato tre momenti di semplificazione della procedura di valutazione di professionalità. Esse vengono circoscritte ai casi in cui la procedura abbia “esito positivo”.
1) L’autorelazione del magistrato in valutazione dovrà contenere “esclusivamente” i dati conoscitivi sull’attività giudiziaria; andrà redatta secondo le modalità e i criteri definiti dal CSM.
2) Se ritenga di confermare il giudizio positivo espresso nel rapporto del dirigente dell’ufficio, il Consiglio giudiziario redigerà una “motivazione semplificata”.
3) Quando ritenga di recepire il parere del Consiglio giudiziario, il CSM a sua volta esprimerà il giudizio di professionalità per richiamo a tale parere, “senza un’ulteriore motivazione”.
Recependo su questi punti le proposte inserite nel disegno di legge 2681 del Ministro Bonafede, il testo della riforma Cartabia non ha però riprodotto la previsione del rapporto del dirigente privo di motivazione in tutti i casi in cui intenda confermare il contenuto dell’autorelazione. Il rapporto diventa così l’unico atto per cui non sia prevista una semplificazione, fulcro permanente della procedura valutativa.
Le norme in questione enunciano le fonti di cui il Consiglio giudiziario e il CSM si avvalgono (rapporto, autorelazione, statistiche comparate, provvedimenti estratti a campione o prodotti dall’interessato), senza menzionare la documentazione su un procedimento disciplinare pendente, i risultati dell’attività per la quale si è goduto dell’esonero dal lavoro giudiziario, le informazioni sulle gravi anomalie relative all’esito degli affari trattati, la segnalazione del consiglio dell’ordine si eventuali fatti specifici rilevanti.
Tutti questi sono elementi che rientrano ormai necessariamente nel perimetro della valutazione di professionalità e che anche quando introducano dei fattori di criticità potrebbero non alterare il giudizio finale di positività.
Il silenzio serbato in proposito dal legislatore nei precetti relativi alla semplificazione delle procedure, lascerebbe intendere che essi siano da prendere in considerazione quando la valutazione risulti comunque non problematica. Il che però stride, ad esempio, con la “gravità” dell’anomalia accertata o con la pregnanza del fatto specifico segnalato dagli avvocati. Non è pensabile dunque che un parere del Consiglio giudiziario, pur non negativo, non ne faccia menzione.
Per superare questa contraddizione bisogna ipotizzare una casistica nella quale il giudizio positivo sulla professionalità non possa essere limitato ad una mera conferma, da parte del Consiglio giudiziario, del contenuto del rapporto dirigenziale, poiché esso deve dare conto nella motivazione dell’esistenza di elementi di possibile problematicità e delle ragioni per cui si è ritenuto che non inficino l’esito favorevole della valutazione finale. Non tutti i pareri positivi, insomma, possono darsi nella forma abbreviata prevista dall’ art. 3, primo comma, lett. i), n. 2.
Se così è, a riforma attuata, l’adozione o meno della procedura semplificata potrà costituire un ulteriore fattore di distinzione nella valutazione dei magistrati: vi sarà chi avrà giudizio positivo senza necessità di motivazione e chi avrà giudizio positivo, ma in forma ordinaria. Ecco un’altra situazione potenzialmente discriminante per le posizioni dei magistrati, che si sa quanto attenti e suscettibili siano alla veste anche formale dei pareri che li riguardano.
Alla normazione secondaria affidata al CSM il compito di sciogliere questi nodi e delimitare le deroghe alla semplificazione ai casi davvero rilevanti, affinché l’esigenza di snellimento da tutti auspicata e perseguita dalla riforma non venga disattesa nei fatti.
5. Il ruolo del Consiglio giudiziario nelle misure per l’efficienza degli uffici.
La riforma Cartabia interviene anche sull’assetto dei programmi di gestione ex art. 37 d.l. 98/2011, con disposizioni tese sostanzialmente a valorizzarne gli obiettivi ai fini del controllo individuale di produttività se non addirittura del controllo disciplinare.
Per i Consigli giudiziari la novità è quasi dirompente, così come si accennava già nella premessa del presente contributo.
L’art. 14, primo comma, lett. c), li individua infatti come destinatari di due iniziative dei dirigenti degli uffici: i “piani mirati di smaltimento”, da predisporre in caso di “gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati dell’ufficio” (ora è il comma 5-bis dell’art. 37); “ogni intervento idoneo a consentire l’eliminazione delle eventuali carenze organizzative”, al verificarsi di un aumento delle pendenze dell’ufficio o di una sezione superiore al dieci per cento rispetto all’anno precedente (comma 5-ter).
In entrambi i casi il dirigente è tenuto a trasmettere al Consiglio giudiziario il proprio provvedimento, anche quando non assuma la forma della modifica tabellare, insieme con la documentazione inerente. Il CG – e qui sta la grossa novità – ha facoltà di “indicare interventi diversi da quelli adottati”.
Pare di potere dire che per la prima volta l’Ordinamento giudiziario assegni una funzione propulsiva che va ben al di là di quella di controllore formale del provvedimento in materia organizzativa che tradizionalmente viene riconosciuta ai Consigli. È indubbio che, nel silenzio delle norme, il vaglio sia qui improntato anche a criteri di efficacia della scelta dirigenziale. In buona sostanza non si esclude che il Consiglio giudiziaria possa indicare soluzioni alternative a quelle adottate dal dirigente, sulla base di una valutazione di loro superiore idoneità a elidere le criticità (i ritardi del magistrato, nell’un caso; l’aumento delle pendenze, nell’altro) accertate.
Il sindacato di adeguatezza così conferito può essere letto non sono nell’ottica di un controllo invasivo della sfera di competenza dirigenziale, ma anche in una chiave di collaborazione molto proficua e foriera di prospettive feconde. Viene a costituirsi un asse di collegamento tra ufficio e Consiglio che potrebbe rendere il secondo maggiormente calato nelle realtà giudiziarie del distretto avviando un dialogo improntato al raggiungimento dei migliori obiettivi di efficienza senza che da ciò debbano derivare necessariamente conseguenze sul piano delle valutazioni di professionalità (del singolo magistrato o del dirigente).
Anche la vigilanza sull’andamento degli uffici (art. 15, primo comma, lett. d, d. lgs. 25/2006), finora esercitata col contagocce e comunque a pelle di leopardo nei diversi distretti, potrebbe beneficiare di una relazione più costante tra le due figure istituzionali. E’ immaginabile a questo riguardo un ruolo finalmente proattivo dei Consigli giudiziari, che si concretizzi in azioni per la raccolta d’informazioni, per lo scambio di prassi tra gli uffici, per discutere e stimolare iniziative organizzative nuove.
Certo, occorrerà fare i conti con le risorse disponibili. Sempre più emerge l’esigenza di una dotazione di personale per l’assistenza dei consiglieri giudiziari, gravati di competenze ulteriori che la semplificazione di cui si è accennato potrebbe non bastare a bilanciare.
Costituisce illecito disciplinare l’omessa segnalazione, da parte del dirigente dell’ufficio, al Consiglio giudiziario della mancata collaborazione del magistrato interessato dai ritardi al piano mirato di smaltimento ora previsto dal comma 5-bis dell’art. 37 d.l. 98/2011. Il Consiglio deve dunque essere investito di tale segnalazione non in quanto organo disciplinare, ma, deve ritenersi, in vista della raccolta più completa possibile delle informazioni sul profilo del singolo magistrato e sull’andamento dell’ufficio.
Anche in questo tema specifico trova dunque riscontro la predilezione del legislatore attuale per una risposta sanzionatoria che pervade purtroppo l’intera riforma ordinamentale.
[1] L’art. 11 d. lgs. 160/2006 è richiamato tanto dall’art. 7 quanto dall’art. 15 del d. lgs. 25/2006, che, nel testo poi modificato dalla legge 111/2007, delineano le competenze, rispettivamente, del Comitato direttivo e dei Consigli giudiziari.
[2] Sia consentito di citare il mio recente contributo “Il Consiglio giudiziario, questo sconosciuto”, in questa rivista, 11 maggio 2022.
Essere presidente di un ufficio giudiziario, oggi.
Intervista di Marcello Basilico, Riccado Ionta e Federica Salvatore a Antonella Magaraggia e Giuseppe Meliadò
Essere un buon giudice è condizione necessaria per essere un buon presidente? Quali altre effettive capacità richiede l’impegno dirigenziale?
Magaraggia Per poter dirigere qualsiasi struttura bisogna conoscerla. Un presidente deve aver esercitato la giurisdizione e, aggiungo, sarebbe auspicabile che avesse fatto esperienza sia nel penale che nel civile (per riuscire a comparare il lavoro nei due settori) e lavorato in più uffici giudiziari (ciò consente di conoscere più modelli organizzativi).
L’essere un buon giudice è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Per essere un buon dirigente bisogna avere capacità organizzative (un giudice organizzato è riconoscibile facilmente, da come gestisce il proprio ruolo o partecipa alla vita dell’ufficio), passione per l’organizzazione (alcuni colleghi la ritengono, invece, un deminutio rispetto all’esercizio della giurisdizione) e un carattere empatico e dialogante.
Meliadò L’esperienza mi dice che senza un bagaglio risalente e autorevole di conoscenze e competenze giuridiche e giurisdizionali è difficile essere un buon dirigente, diffido da sempre degli ottimi organizzatori che non si sono misurati con la complessità e la difficoltà del fare giurisdizione, in quanto hanno una visione del tutto parziale, e spesso distorta, delle problematiche umane e professionali che dovrebbero orientare. E tuttavia ognuno di noi potrebbe testimoniare di come assai spesso ottimi magistrati non hanno inclinazione (passione e propensione) a organizzare non solo il proprio lavoro, ma anche il lavoro degli altri, a rapportarsi con tutti i soggetti che danno corpo a quello che si definisce l’ufficio giudiziario, e quindi non solo a fare giurisdizione, ma anche a organizzare la giurisdizione.
Il fatto è che in questi ultimi anni si sono innestati processi (per quanto lenti e a macchia di leopardo) di cambiamento non solo del ruolo della dirigenza, ma anche dei suoi comportamenti e atteggiamenti, su cui è necessario insistere.
Ed infatti mi sembra che si sia progressivamente acquisita la consapevolezza di come non sia fruttuoso né un atteggiamento di mera denuncia, né la pura attesa di risultati che dipendono solo dagli altri; un atteggiamento che esaltava il ruolo formale della dirigenza, come custode dell’osservanza delle regole e delle procedure, che può assicurare la conservazione, ma non certo il miglioramento di una struttura concepita a torto come sostanzialmente insensibile ad ogni valutazione in termini di efficienza.
Il che vale quanto dire che il limite dell’esistente – che è una verità di fatto non pretermettibile – non può costituire il raggio di azione esclusivo dell’attività del dirigente, precludendo una tensione verso il risultato e il cambiamento organizzativo che rischia di tradursi in una aprioristica rinuncia a esplorare le potenzialità che il sistema offre per ottimizzare le risorse disponibili e perseguire concreti e specifici obiettivi di efficienza e trasparenza dell’attività giudiziaria. Ma per superare il limite dell’esistente, è necessaria una visione generale dell’organizzazione, che va al di là della sola competenza giuridica.
Dirigere bene un ufficio è un compito spesso difficile e gravoso. La partecipazione attiva dei magistrati dell’ufficio in questo senso è un aiuto? Come può essere attuata concretamente, nell’organizzare, programmare e gestire l’ufficio?
Magaraggia La collaborazione dei magistrati è fondamentale. La porta dell’ufficio presidenziale deve essere sempre aperta. La mia lo è stata, anche fisicamente. Nessuna decisione significativa che riguarda il Tribunale può essere presa senza una previa consultazione. Questo è un principio tanto corretto quanto utile perché più la soluzione è condivisa più troverà facile attuazione. Se il Tribunale è piccolo si possono fare riunioni con tutto l’ufficio. Se è medio o grande sono fondamentali i presidenti di sezione, che sono un’ottima cinghia di trasmissione con i colleghi.
Anche le deleghe, lungi dall’essere uno strumento per far lavorare di meno il presidente, se utilizzate con intelligenza, possono essere utili. Un dirigente deve conosce bene i propri magistrati e valorizzare i talenti di ognuno. Questo consente di avere apporti significativi dai colleghi e li fa sentire partecipi dell’organizzazione complessiva. Dirigenza partecipata non vuol dire, peraltro, dirigenza deresponsabilizzata, che cerca a tutti i costi la condivisione. Ci sono, infatti, momenti in cui i dirigenti debbono assumersi la responsabilità delle scelte, anche se difficili o scomode.
Meliadò Il coinvolgimento e la partecipazione consapevole dei magistrati dell’ufficio nei processi di cambiamento e di miglioramento organizzativo sono non solo di aiuto per la dirigenza, ma costituiscono una condizione indispensabile per la loro stessa realizzazione e il loro effettivo successo. Mi limito a ricordare l’esperienza che ha condotto alla costituzione, presso la Corte di appello di Catania, nell’anno 2016, e poi a Roma, nell’anno 2020, dell’ufficio per il processo; ben prima quindi che lo stesso venisse imposto dall’Europa (come a torto si dice) con il PNRR.
Il coinvolgimento dei magistrati della Corte nelle scelte intraprese per ridurre i tempi dei processi e modernizzare la risposta di giustizia è stata realizzata attraverso una articolata rete di punti di contatto e di responsabili per gli obiettivi perseguiti da ciascuna sezione ed è stata preceduta e accompagnata da molteplici gruppi di lavoro su temi particolarmente esposti (dalla comunicazione delle decisioni fra il primo e il secondo grado, all’esame preliminare delle impugnazioni), che si sono risolti in ulteriori momenti di confronto fra i consiglieri, attraverso la partecipazione dei magistrati delegati dei vari uffici.
Gli obiettivi di produttività e la realizzazione dei criteri di qualità e di priorità della Corte – sia in materia civile che penale – sono oggetto di costante rilevazione (con cadenza trimestrale) e di confronto fra tutti i consiglieri del settore. In tal modo le scelte organizzative dell’ufficio (per quanto grande e complesso) sono esposte ad un costante processo di confronto e di condivisa responsabilizzazione, che, senza diminuire la responsabilità del dirigente per le scelte operate, ne rende partecipati e diffusi gli obiettivi e le finalità.
La valutazione dei dirigenti è incentrata sui “risultati conseguiti nella gestione dell’ufficio”, spesso interpretati in termini meramente numerici. Com’è possibile valorizzare l’aspetto produttivo salvaguardando la qualità delle decisioni e l’autonomia ed indipendenza dei magistrati?
Magaraggia Non ritengo che la valutazione sia incentrata solo su questo. Se si scorrono i vari parametri che vengono presi in considerazione nei rapporti sulla conferma si può verificare che vi sono molti elementi che entrano in valutazione.
Personalmente non ho mai ragionato in termini quantitativi né nella gestione dell’ufficio né nella valutazione dei colleghi. Ad esempio, in sede di redazione del programma ex art. 37 D.L. 98/2011, se i ruoli dei giudici civili sono composti di cause molto risalenti nel tempo o complicate è ovvio che i risultati attesi siano quantitativamente minori, ma la valutazione del rendimento, sia dell’ufficio che del collega, deve essere positiva. L’importante è che il dirigente faccia una programmazione adeguata alla situazione del Tribunale e verifichi (e sia valutato per) i risultati sulla stessa e non su parametri standard e uguali per tutti.
Per salvare qualità e quantità credo dovrebbe essere fatto un grande lavoro sulla tecnica di redazione dei provvedimenti, ancora molto datata. Spesso i colleghi si spendono nella stesura dei provvedimenti quando un testo completo, ma sintetico farebbe risparmiare tempo e, aggiungo, ridurrebbe le impugnazioni.
Meliadò Io sono profondamente convinto della validità di un modello di ufficio giudiziario ove alla cultura dell’adempimento burocratico si sostituisce la cultura del servizio, in un contesto in cui prevale, sulle iniziative individuali, l’organizzazione e il lavoro di squadra, e che si pone pertanto come strumento funzionale ad una nuova organizzazione del lavoro giudiziario, per la realizzazione di alcuni obiettivi prioritari, ed innanzi tutto della riduzione dei tempi dei processi e del miglioramento della loro qualità.
Il coinvolgimento dei magistrati intorno ad un modello organizzativo volto a lavorare per progetti e obiettivi condivisi (all’insegna del proposito di lavorare meglio e non solo di più) costituisce la indispensabile premessa per conseguire risultati positivi nella gestione della giustizia civile e penale, garantendo anche un aumento sostenibile della produttività, rispettoso della specificità del nostro lavoro. Ricordo sempre il giovane magistrato che mi raccontava come il suo primo capo ufficio gli dicesse che non gli importava “quel che scrivesse”, ma “quante sentenze sfornasse”; naturalmente quel collega era privo di cultura della giurisdizione, ma anche di reale capacità organizzativa, era un finto organizzatore.
Nell’esercizio delle funzioni direttive che ruolo gioca l’effettiva presenza nell’ufficio e in quale misura l’impegno dedicato a compiti amministrativi, lontani dalla direzione dell’attività dei colleghi, potrebbe essere ridimensionato da interventi migliorativi del CSM o ministeriali?
Magaraggia Un dirigente è al servizio dell’ufficio e, come i giudici e il personale amministrativo, deve essere presente. L’esperienza mi ha insegnato che ogni giorno accade qualcosa di nuovo e di diverso, importante o meno importante, che richiede l’intervento, anche solo rassicurante, del presidente.
Quanto ai compiti amministrativi, non ritengo che la soluzione sia quella di eliminarli o ridurli. Il settore giurisdizionale e quello amministrativo procedono di pari passo e l’uno condiziona l’altro. La visione deve essere unica. Il problema è che il dirigente dovrebbe ricevere maggior formazione (quelle del C.S.M. e della S.S.M. sono ancora carenti) e, soprattutto, avere uno staff tecnico che lo supporti per decisioni che non rientrano nelle sue competenze ordinarie.
Meliadò È questo un punto nodale dell’attuale stato della dirigenza. La devoluzione al Ministero della giustizia della materia delle spese di giustizia, già gestite dai Comuni, per il modo in cui è stata attuata, sta determinando una sorta di mutazione genetica del ruolo dei capi degli uffici, che va rigorosamente attenzionata e denunciata. La mancata istituzione delle direzioni regionali, previste nell’impianto originario della riforma, in grado di far fronte alle complesse questioni connesse alla disciplina degli appalti pubblici e delle altre procedure di acquisto (e cioè, di una problematica del tutto estranea alla formazione esclusivamente giuridica e pubblicistica dei dirigenti amministrativi), sta stabilizzando, infatti, nonostante il tempo trascorso (oltre sette anni) una situazione originariamente concepita come transitoria, che incide sulla funzionalità degli uffici, esponendoli a compiti e rischi gestionali aggiuntivi del tutto insostenibili, e sul ruolo stesso dei capi degli uffici, ed in primo luogo dei presidenti delle Corti di appello.
Lo stabile trasferimento a questi ultimi di compiti delegati determina, infatti, una impropria commistione fra competenze amministrative relative all’organizzazione dei servizi, che rientrano, ai sensi dell’art.110 Cost., nelle attribuzioni del Ministero della Giustizia, e compiti di organizzazione della giurisdizione, propri dei capi degli uffici.
Tale situazione non giova né alla funzionalità degli uffici (se non altro per la necessaria “creatività” con cui si è costretti ad affrontare problemi che implicano specifiche competenza tecniche e scelte gestionali centralizzate, e che, in ogni caso, determinano un’ulteriore distrazione delle scarse risorse umane disponibili), né alla funzione propria dei dirigenti giudiziari, progressivamente assorbiti da incombenze che non attengono alle loro attribuzioni giurisdizionali e ai compiti di gestione e di miglioramento dell’apparato giudiziario alle prime connesse. Si tratta di una condizione ambigua ed insostenibile che merita di essere al più presto sciolta e rispetto alla quale si impone grande attenzione da parte del CSM e della magistratura associata.
L’incarico dirigenziale implica un intenso rapporto con l’avvocatura, chiamata anche ad esprimere un rapporto informativo sul dirigente in sede di conferma. Come deve atteggiarsi il dirigente nei suoi confronti?
Magaraggia L’apporto dell’avvocatura è fondamentale. Ci deve essere una stretta collaborazione tra presidente del Tribunale e presidente del C.O.A. Gli avvocati sono una fonte di conoscenza dei problemi (che, alcune volte, i giudici non vedono) e anche di loro soluzione (anche in questo caso, se è condivisa, trova più facile attuazione). Deve essere, però, un dialogo reale e biunivoco. Nella mia esperienza ho tratto molto giovamento dall’istituzione oltre che degli, ormai diffusi, osservatori sulla giustizia civile, che raccolgono prassi interpretative ed elaborano protocolli, anche di altri osservatori, più legati all’organizzazione. A Verona ne esistono due (uno nel civile e uno nel penale), composti dal presidente del Tribunale, dal presidente del C.O.A. e della Camera penale, da legali, da magistrati e da personale amministrativo. Si occupano dei problemi, molto concreti, segnalati dal foro, dalle cancellerie, dai giudici e dagli utenti, ricercando, in maniera condivisa, i possibili rimedi. I risultati sono stati molto positivi.
Meliadò Il dialogo e l’azione comune fra la magistratura e l’avvocatura costituiscono, insieme ad un ampio coinvolgimento dei magistrati negli obiettivi programmatici e di gestione degli uffici, l’altro pilastro su cui costruire il successo delle strategie di riforma dell’amministrazione della giustizia. Protocolli e intese programmatiche, attività congiunte negli organi di gestione e azioni formative comuni, tavoli di lavoro e osservatori permanenti hanno costituito in questi anni un reticolo prezioso di esperienze che hanno inciso profondamente sulla visione comune dei problemi della giurisdizione e hanno dato corpo a quella cultura dell’autogoverno, ben diversa dall’antica separatezza, che sostanzia la libertà delle formazioni sociali, l’autonomia dell’avvocatura e l’indipendenza della magistratura.
In realtà, in questi ultimi anni, se non è decollata quella “comune cultura della giurisdizione”, che a torto è stata accusata di essere solo un titolo buono per i convegni, e che invece ha avuto il merito di tenere aperto un canale di dialogo importante anche in momenti particolarmente difficili di reciproca incomprensione, si è progressivamente radicata, nella magistratura e nell’avvocatura, l’idea che il perseguimento di prassi e azioni comuni di miglioramento delle rispettive funzioni, oltre che della qualità del servizio giustizia, ha carattere strategico e non presente credibili alternative. Questa comune visione, nonostante inevitabili tensioni e differenziazioni, ha dato anche nel periodo della pandemia i suoi frutti, consentendo di proseguire l’attività giudiziaria, e di assicurare la tutela dei diritti, in una situazione inedita ed eccezionale.
Il dirigente giudiziario concorre, coi rapporti che gli sono richiesti, alla valutazione di professionalità dei giudici e, in sede di conferma, dei semidirettivi. Come avete interpretato questo compito? C’è il rischio di personalismi e di assecondare una visione e una deriva gerarchica degli uffici giudicanti?
Magaraggia I rapporti non devono essere standardizzati, ma rispecchiare il lavoro e la personalità del singolo giudice. Io chiedevo che le autorelazioni fossero il più possibile dettagliate. Soprattutto volevo che venissero elencati dati di fatto (che provvedevo a riscontrare), sui quali esprimevo le mie valutazioni. Se i rapporti sono basati su fatti e sulla loro valutazione si evitano i personalismi sia in senso positivo che in quello negativo. Tra l’altro io, prima di inviare il rapporto al C.G., lo facevo leggere al collega che, se aveva qualcosa da rilevare, me lo segnalava.
Non credo, quindi, che la gerarchizzazione passi per le valutazioni di professionalità. Si dovrebbe, forse, ragionare di più sul fatto che, quando il presidente fa un parere negativo, difficilmente trova seguito al C.S.M., che tiene parzialmente conto di quanto osservato dal dirigente e ha maglie di valutazione molto più larghe.
Meliadò Il problema non mi sembra quello dei personalismi, che è una criticità che per un dirigente serio non dovrebbe ipotizzarsi nemmeno in astratto, quanto quello delle fonti di cognizione che sono poste a sua disposizione per offrire un giudizio coerente con il reale impegno professionale di ogni magistrato. Per i semidirettivi il compito è più agevole, in quanto il capo dell’ufficio opera (o, almeno, dovrebbe operare) a stretto contatto con gli stessi, qualunque sia la dimensione dell’ufficio, ed è in grado di apprezzarne capacità e limiti; si complica per i giudici, rispetto ai quali la valutazione è mediata dal contributo conoscitivo offerto dai presidenti di sezione.
Mi sembra necessario, pertanto, che il dirigente e i presidenti di sezione concordino ex ante le modalità di verifica, specie con riferimento a quegli aspetti dell’attività giudiziaria che non risultano statisticamente verificabili, e che nondimeno valgono a configurare il profilo professionale complessivo del magistrato, in modo da evitare giudizi differenziati sostanzialmente privi di riscontro. Che, in questo contesto, gli uffici giudicanti stiano andando incontro al rischio di una deriva gerarchica è affermazione che merita di essere attentamente monitorata e verificata; allo stato a me sembra che il sistema tabellare contenga in sé tutti gli antidoti necessari per dare persistente tutela al principio, fondamentale nell’organizzazione costituzionale della magistratura italiana, per cui i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni.
I semidirettivi e i magistrati dell’ufficio, invece, non sono chiamati ad esprimersi nella procedura di conferma del dirigente. Un’inversione di tendenza è auspicabile e possibile?
Magaraggia La ritengo assolutamente necessaria. Chi meglio dei giudici e dei presidenti di sezione può conoscere l’operato di un presidente di Tribunale? Aggiungo che sarebbe necessaria anche l’audizione del dirigente amministrativo e del procuratore. L’unico inconveniente di questa scelta è che complica e allunga la procedura che, così articolata, forse, la struttura del C.S.M. non può permettersi.
Meliadò È una prospettiva che mi lascia perplesso, in quanto presenta l’evidente rischio della ricerca del consenso, che può trasformarsi nell’anticamera del condizionamento; lo penso giusto in quanto sono profondamente convinto di una organizzazione pienamente partecipata dell’ufficio, ma con chiare distinzioni di responsabilità.
Completata un’esperienza dirigenziale è possibile professionalmente tornare all’esercizio della giurisdizione alla scadenza dell’incarico? È auspicabile che ciò diventi la regola?
Magaraggia Ritengo che il cd. bagno di giurisdizione sia una scelta un po' populista. Sembra quasi che l’aver fatto il dirigente significhi non aver lavorato. Se un presidente ha acquisito una buona esperienza organizzativa (e non è facile), è irragionevole che la stessa non venga messa a servizio di un altro ufficio. E’ un principio organizzativo elementare. Si dice che così si crea il cd. circuito dei dirigenti. È vero. Il T.U della dirigenza aveva tentato di superarlo, ma, nell’attuazione pratica, ha fallito. Questo è il vero problema e la soluzione non è semplice.
Meliadò La temporaneità degli incarichi direttivi è stata una rivendicazione storica della magistratura italiana, sorretta da giustificazioni ineccepibili; un naturale corollario di tale principio è che, scaduto il mandato, si possa ritornare all’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Altra cosa è la previsione di un obbligo in tal senso, quasi che i dirigenti partecipino di uno status separato da quello degli altri giudici. In realtà, spiace dirlo, ma mi sembra che si tratti di uno dei tanti luoghi comuni che circolano in materia di giustizia, frutto di suggestione più che di riflessione.
Nella narrazione ora circolante penetra anche all’interno della magistratura, l’incarico dirigenziale viene collegato al correntismo. Entrambi voi avete una storia di vita attiva in gruppi associativi dell’ANM. Quale è il rapporto tra questi e gli incarichi dirigenziali?
Magaraggia Sarebbe ipocrita nascondere che l’appartenere ad una corrente abbia favorito alcune nomine. In sistema di autogoverno gestito correttamente questo non dovrebbe accadere. In ogni caso, anche in assenza di favoritismi, l’aver fatto parte di un gruppo consente, probabilmente, a un collega di farsi conoscere di più e, quindi, di avere più chances rispetto a un altro. Quanto affermato non può, comunque, gettare un’ombra generalizzata su chi fa politica associativa. Nella mia esperienza, l’averla praticata mi ha insegnato molto e mi ha consentito di costruire una rete, positiva, di relazioni che sono tornate utili nella gestione del Tribunale.
Meliadò Per i magistrati della mia generazione l’impegno all’interno dell’ANM e dei suoi gruppi associativi rappresentò lo strumento per cambiare la nostra condizione umana e professionale, per rompere l’isolamento cui ci costringeva il nostro lavoro, ricercando, attraverso la riflessione e l’azione comune, un diverso modo di fare il magistrato, in modo da trasformare una magistratura che vedevamo ossequiosa e impotente. Il principio per cui i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni fu, nella sua versione precettiva, il frutto della ostinata determinazione di quegli anni, orienta a tutt’oggi la mia attività di dirigente e mi dispero per quanti non comprendono che quella fu per tutti noi la più grande conquista, realizzata grazie all’aggregazione e al confronto su un nuovo sistema di valori.
Semplificazione ed efficienza del processo civile nella legge 203/2021: note critiche e prospettive[1]
di Pasquale Serrao d’Aquino
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Gli istituti acceleratori: istruzione stragiudiziale; anteposizione alla prima udienza dello scambio degli scritti difensivi; ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto; rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione. - 2.1. Il giudizio di legittimità. - 3. L’Ufficio per il processo. - 4. La (mancata) modifica della geografia giudiziaria. - 5. La digitalizzazione del processo civile. - 5.1. Processo, giustizia predittiva e intelligenza artificiale: prolegomeni.
1. Introduzione.
La riforma del processo civile attuata con la legge n. 206 del 2021[2], mantenendo ferma la finalità dell’accelerazione dei tempi del giudizio, ha subito nel corso dei suoi lavori, tre diverse rivisitazioni della sua struttura: il DDL Bonafede (ddl 1662); l’elaborazione della cd. Commissione Luciani[3], istituita dalla Ministra della Giustizia; nella sua versione finale, quella operata dal maxiemendamento governativo, poi trasfuso nella legge delega.[4]
La riduzione dei tempi processuali del giudizio dovrebbe essere garantita attraverso la scelta della semplificazione, ma il suo impianto generale sembra tradire tale finalità. Le misure collegate all’attuazione del PNRR[5], che mirano all’efficienza del processo civile, invece, contengono dei principi condivisibili e di autentico rinnovamento anche se previsti in una prospettiva per ora futuribile.
La delega persegue cinque obiettivi: 1) portare a compimento la digitalizzazione, consentendone aggiuntivamente la celebrazione del processo da remoto per determinate fasi; 2) riorganizzare e implementare l’Ufficio per il processo; 3) ridurre i flussi in entrata degli uffici giudiziari, con le novità in tema di mediazione e negoziazione assistita); 4) abbreviare i tempi delle diverse fasi processuali; 5) intervenire in alcuni settori (esecuzione[6], famiglia e minori[7], arbitrato [8]) che richiedono migliorie di vario tipo. L’obiettivo primario, tuttavia, resta il raggiungimento degli obiettivi del PNRR: ridurre del 40% tempi del processo e del 90% arretrato, su scala nazionale (sulla baseline dei dati del 2019), target indispensabile per ottenere i fondi europei.[9]
Di tali direttrici, la prima (digitalizzazione) e, in parte, la seconda (riorganizzazione) mi sembrano quelle più centrate.
La terza (deflazione) non mi sembra, invece, destinata ad avere particolare successo, per la persistenza di problemi culturali e di contesto socio-economico che hanno finora portato al fallimento degli istituti della mediazione e della negoziazione assistita. Gli incentivi fiscali costituiscono, però, una novità apprezzabile. Nel parere ex art. 10 l. 195/1958 reso con delibera del 15 settembre 2021, il CSM ha opportunamente indicato che <<Per una “riconciliazione” tra l’utenza della giustizia e la mediazione e perché si realizzi il cambiamento culturale indispensabile perché le ADR costituiscano un’alternativa reale alla tutela giurisdizionale occorre che la procedura sia affidabile e sia conveniente. A tal fine occorre assicurare: a) effettiva competenza del mediatore nella materia (si pensi alla diversità tra i giudizi riguardanti divisioni o diritti reali e cause risarcitorie o di colpa medica); b) terzietà del mediatore, che non deve essere scelto dall’attore secondo criteri opportunistici; c) forme di agevolazione fiscale e di esenzione dal pagamento dell’imposta di registro per le parti; d) incentivazione dei compensi professionali degli avvocati».
L’accelerazione del processo tramite interventi sul rito e con istituti innovativi (punto 4) appare, invece, velleitaria e destinata, per alcuni aspetti, a ridurre i tempi solo nei pochi tribunali già molto virtuosi, per altri a creare complicazioni e dannosa ammuina - in particolare con le ordinanze provvisorie - tanto da avere subito critiche quasi unanimi.
Un impatto minimo, dovendo coniugarsi con il principio del raggiungimento dello scopo e, quindi, non incidendo sulla validità degli atti, ma sul regime delle spese[10], avrà il principio di chiarezza e sinteticità degli atti[11] - termine quest’ultimo che compare per otto volte nella legge 206) e già previsto dal codice del processo amministrativo (art. 3 d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) e da quello contabile (d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174- art. 5) e presente, quanto alla “chiarezza”, nel giudizio di legittimità dall’art. 366bis c.p.c. Maggiore interesse, invece, suscita, pur nel rispetto del medesimo principio, l’aver demandato al legislatore delegato che per «i provvedimenti del giudice e gli atti del processo sia assicurata la strutturazione di campi necessari all'inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense» (comma 17, lett. d), prescrizione potenzialmente prodromica alla strutturazione obbligatoria degli atti sul modello es. dei ricorsi alla Corte EDU, con potenzialità direttamente proporzionali allo stadio dell’evoluzione informatica (v. infra).
Le riforme settoriali previste nella delega (punto 5) presentano aspetti positivi, come l’istituzione del Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie [12], allo scopo di evitare eccessive sovrapposizioni e interventi contraddittori tra uffici minori e sezioni famiglia dei tribunali, rendere più efficienti alcuni istituti dell’esecuzione; esse, tuttavia, determinano anche alcuni inconvenienti, quali l’ eccessiva attribuzione di competenze monocratiche in materia familiare, la perdita di know-how e strutture degli uffici minorili, oltre che della cultura del diritto minorile e della relativa impostazione del procedimento sulla tutela del minore. Quest’ultima risulta messa a rischio sia per l’impossibilità di garantire la specializzazione, creando solo utopisticamente tante unità dedicate alla famiglia quanti sono i tribunali italiani sia perché le decisioni del giudice non possono essere solo il frutto dell’approccio alle questioni proprio dello stretto jus litigatoris. Esse, infatti, richiedono una istruttoria ampia integrata con i servizi sociali e con gli altri uffici giudiziari, interfacciandosi anche il settore civile e quello penale e volta a garantire a tutto campo gli interessi del minore, indagando sull’intero contesto famigliare, e non solo sulle criticità della coppia o sul singolo figlio.[13]
L’aspetto più interessante consiste, tuttavia, nell’intravedere dei segnali di una trasformazione profonda delle caratteristiche strutturali del processo si cui si ritornerà successivamente.
2. Gli istituti acceleratori: istruzione stragiudiziale, anteposizione alla prima udienza dello scambio degli scritti difensivi; ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto; rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione.
La prima innovazione è la possibilità celebrazione del processo in assenza del giudice.
Per stringere i tempi dell’istruttoria la si anticipa, infatti, su scelta delle parti, ad una fase anteriore all’instaurazione del contraddittorio processuale e alla designazione del giudice.
L’istruttoria stragiudiziale[14], fatta in contraddittorio solo tra gli avvocati, è destinata a ad avere uno spazio molto limitato. Da un lato trova applicazione solo nei casi in cui, nell’ambito della negoziazione assistita, la relativa convenzione lo preveda espressamente e a condizione che tutti gli avvocati delle parti vi partecipino. I testimoni, poi, sono obbligati a dire il vero, e sono sanzionati penalmente se mentono, ma non sono obbligati a deporre.
Si tratta di un istituto destinato ad avere un ambito applicativo effettivo “di nicchia”, per conflitti nei quali già in partenza la cooperazione tra le controparti è considerevole ed esse hanno la volontà di chiarire alcuni aspetti controversi (es. su un danno o risarcimento) in vista di una già prevista conciliazione o transazione.
Va ricordato che l’altra forma di esternalizzazione dell’attività istruttoria, l’istituto della cd. testimonianza scritta (art. 257 bis c.p.c.), ha avuto scarsissimo successo, per la poca sfiducia riposta nello stesso da parte di tutti i protagonisti del processo.
Nelle altre ipotesi difficilmente il convenuto sarà collaborativo perché preferirà attendere che il teste sia sentito dal giudice; il teste si sentirà più garantito nel processo vero e proprio. La legge nel caso in cui rifiuti prevede l’intervento del giudice che, tuttavia, avviene prima che si instauri il giudizio, con modalità – non fosse altro che per definire i fatti oggetto di prova e le modalità dei tempo e luogo del’audizione- necessariamente non dissimili quelle dell’accertamento tecnico preventivo ante causam, con un’evidente perdita di tempo. In ogni caso il magistrato, ove le parti non concilino diviene un ricettore passivo del materiale probatorio raccolto e non quello che, con la sua professionalità, garantisce l’acquisizione genuina delle prove, pur potendo selezionare il materiale raccolto e, se del caso, rinnovare l’istruttoria.[15]
Con riguardo all’introduzione della causa, sono state abbandonate le scelte iniziali di utilizzare come archetipo il rito sommario e, successivamente, una sorta di ibrido tra rito ordinario e rito del lavoro, con plurimo scambio anticipato di scritti difensivi. Confermata, invece, l’opzione per la citazione. Senza soffermarsi su condizioni nelle quali “salta” la possibilità di celebrare una sola udienza e di evitare lo scambio di memorie, vanificandosi gli obiettivi acceleratori, deve evidenziarsi – tenendo sempre a conto che l’imbuto del processo resta sempre la decisione per l’eccessivo numero di sentenze che il magistrato deve scrivere – che si tratta di un cambio di passo sostanzialmente inutile per chi ha carico di lavoro elevato, cioè proprio per quelli uffici che avrebbero bisogno di ridurre i tempi del processo e di abbattere l’arretrato.
Più utili sono le alternative fornite al momento della decisione (abrogazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni con anticipazione dello scambio di comparse e memorie rispetto all’ultima udienza, possibilità di decisione ex art. 281 sexies c.p.c. dopo la discussione seguita dal deposito della sentenza anche non contestuale, cosa molto utile nelle cause complesse e collegiali).
Mi sembra pessima, invece, l’idea, sul modello francese della rèfèrès provision, delle ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto: a) non passando in giudicato non impediscono la riproposizione della domanda; b) poco aggiungono alla possibilità del giudice per i casi più semplici di pronunciare sentenza ai sensi dell’ 281 sexies c.p.c.; quanto meno una sentenza concisa la parola fine al giudizio di primo grado; c) implicano l’investimento di tre giudici del collegio e il mutamento del giudice assegnatario del fascicolo in caso di accoglimento del reclamo (coinvolgendo, quindi, 5 giudici, invece che uno solo); d) nel caso in cui sia adottata per genericità dell’editio actionis risulta particolarmente defatigante la definizione con l’ordinanza provvisoria rispetto all’ordine di rinnovazione della citazione.
L’errore (o meglio l’omissione) più grave, dovuto alla brevità dei tempi concessi e, soprattutto, all’assenza di idee condivise circa il “rito migliore” ritengo sia la previsione di riti distinti per processo monocratico, collegiale, ordinario e semplificato, esteso anche al giudice di pace (per l’incremento delle sue competenze) e, soprattutto, la rinuncia allo sfoltimento degli innumerevoli riti speciali sopravissuti allegramente alla forbice del cd. tagliariti (d.lgs. 150/2011).
Sono tre le ragioni per cui senza esercitare questa opzione drastica non vi può essere semplificazione e, quindi, efficienza.
1. Il labirinto dei riti diventa, se possibile, ancora più inestricabile: i modelli generali restano molteplici (ordinario e monocratico, collegiale, semplificato, lavoro, camerale, senza tener conto anche del cautelare uniforme).
2. I subriti, quali riti fallimentari e della crisi d’impresa, protezione internazionale, disciplinari vari, rito familiare oggi unificato, opposizioni a sanzioni varie, riti sommari obbligatori, cause in grado unico, ecc. restano troppi. Trovo davvero difficile sostenere la bontà dell’idea di un rito per ciascuna materia, da applicare in tribunali non specializzati (o parzialmente specializzati), molteplicità destinata ad incrementarsi esponenzialmente con tutte le possibili variabili e interrelazioni tra specialità dei riti rationae materiae e specialità per fasi processuali (riti cautelari, opposizione a decreto ingiuntivo e all’esecuzione), con l’inevitabile effetto di costringere il giudice e gli avvocati ad avanzare faticosamente attraverso una fitta giungla per arrivare ad una decisione di merito. Non ne comprendo la base teorica e mi sembra che sia frutto di una visione atomistica del processo che non tiene conto della specializzazione necessariamente ridotta degli interpreti. Perdutasi da tempo una visione d’insieme del processo, si aggiorna il diritto processuale con interventi per singoli settori e spinti da specifiche emergenze. Nessuno ha il tempo di elaborare una razionalizzazione complessiva e l’autorevolezza necessaria per imporre delle scelte su altre, senza che si levino gli scudi dei supporters di ciascun rito (la plurimillenaria citazione, il pratico rito del lavoro, il duttile rito camerale, la specificità della Crisi di impresa, ecc.) .
Le transizioni da un rito all’altro, anche secondo la riforma, avvengono sulla base di valutazioni non fondate su dati del tutto oggettivi e, quindi, opinabili: secondo la legge delega il rito semplificato è rimesso alla scelta dell’attore, ma deve essere adottato in caso di prove precostituite, fatti non contestati o istruttoria non complessa.[16] Ma cosa ne sa l’attore, nello scegliere, di come reagirà il convenuto, se si costituirà, contesterà i fatti, articolerà prove costituende?
Facile presagire, quindi, che ancora un volta si dibatta sulla correttezza del rito, se ne chieda la conversione, ecc, si ponga il problema delle riconvenzionali, ecc.
È prevista, inoltre, la modifica del sommario-rito semplificato con termini ridotti. Sarà l’unico modello di sommario, oppure restano le forme speciali? Il legislatore delegato, demandando il delegante che esso <<4) sia disciplinato mediante l'indicazione di termini e tempi prevedibili e ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario per lo svolgimento delle difese e il maturare delle preclusioni, nel rispetto del contraddittorio fra le parti», dovrà introdurre, come sembra, uno scambio di memorie a cadenza più rapida rispetto al rito ordinario, oppure n farà a meno?
La prima attività del giudice, dopo il controllo della regolarità del contraddittorio, sarà quello sul rito. E se l’attore ha scelto il rito semplificato e il resistente si è difeso, di nuovo dovranno essere concesse le memorie.
Questo affastellarsi incessante di innovazioni specifiche non si traduce solo in ritardi, ma anche in decisioni ingiuste. Manca una norma di portata generale come quella prevista nella legge 206 solo per l’erronea introduzione col rito collegiale o monocratico e mutuata dall’art. 4, comma 5 del d.lgs. 150/2011. Il principio della salvezza dalle decadenze in caso di errore sul rito ove si siano rispettati i termini del rito (erroneamente) prescelto, ma non quelle del rito ritenuto corretto dal giudice (con concessione di termine per gli atti integrativi)[17], oggi non ha, a mio avviso erroneamente, portata generale. Dovrebbe averla, invece, esplicitamente, perché lo richiede il diritto al giusto processo e il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, relegando gli errori sul rito, innocui per il convenuto, alla regolamentazione delle spese.
Ancora, lo sbarramento, anche per il giudice, per mutare il rito dovrebbe essere fissato alla prima udienza, evitando marce indietro.
Quasi unanimi i commenti negativi alla scelta di novellare:<<difficile sfuggire all’impressione che neppure le proposte in esame si sottraggano al metodo, reiteratamente sperimentato nel corso di interi decenni, degli interventi di mera “novellazione” e di semplice “restyling”che hanno finito per produrre un accumulo di norme e di riti il cui effetto, anziché aiutare a risolvere i problemi, è stato quello di complicarli rendendo sempre più difficoltosa (anche a causa, a volte, della cattiva formulazione del testo) l’attività degli interpreti e degli operatori».[18]
Concludo sul punto condividendo la citazione che Giorgio Costantino, a proposito di questa ultima riforma, dedica a Ludovico Mortara il quale nel 1913 avvertiva che «non vi è lite in cui la controversia di diritto sostanziale possa essere istruita, trattata e decisa senza che uno sciame di moleste questioni di diritto formale venga a deviare e quindi a ritardare il cammino della giustizia. Chiunque vive la vita giudiziaria sa come la percentuale delle sentenze pronunciate su dispute relative alla procedura sia in Italia indicibilmente superiore a quella delle sentenze che risolvono in modo schietto e semplice una pura contesa sul diritto».[19]
2.1. Il giudizio di legittimità.
Il rinvio pregiudiziale[20], importazione della francese saisin pour avis, presenta alcune analogie, oltre che un’identità di fini con l’accertamento pregiudiziale sul contratto collettivo nazionale (art. 420-bis c.p.c.), con la questione incidentale di costituzionalità e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. È destinato ad avere una portata applicativa molto ridotta, essendo ammissibile solo in caso di assoluta novità della questione, gravi difficoltà interpretative, potenzialità diffusiva della questione in quanto suscettibile di porsi in numerose controversie.
Suscita notevole interesse per le implicazioni sottese e, in particolare, l’esistenza di vincoli per il giudice di appello della causa, la libertà interpretativa per gli altri giudizi, l’accentuazione del ruolo nomofilattico della Corte Suprema, in modo non dissimile dal ricorso nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. L’istituto risulta destinato a questioni ritenute “particolarmente rilevanti” e pone il problema dello ius superveniens (che supera certamente la decisione pregiudiziale presa) e,soprattutto, al mutamento di giurisprudenza di legittimità dopo la sentenza di rinvio pregiudiziale e prima della decisione di merito.
L’istituto è ricondotto, credo non del tutto fondatamente, alla nomofilachia discorsiva ed a un più fecondo dialogo tra merito e legittimità[21], avendo, piuttosto, connotazioni verticistiche, sia pur mosse dallo scopo, del tutto condivisibile, di evitare contenziosi seriali nell’attesa del giudice di ultima istanza. Sotto tale aspetto il rinvio pregiudiziale si dimostra utile, ma rischia in caso ricorso all’istituto troppo largheggiante da parte dei giudici di procrastinare il giudizio per la sospensione necessaria che ne deriva: la questione idonea al rinvio può essere solo incidentale, riguardare una sola delle domande cumulative o una domanda accessoria. Sarebbe meglio prevedere la sospensione facoltativa. Inoltre, dovrebbe anche essere prevista la comunicazione sul sito web della Corte di cassazione delle istanze pendenti in modo da rendere edotti i giudizi che la questione già pende.
Può essere utilizzata anche dai giudici tributari, non da quelli della Corte dei conti e dal giudice amministrativo, perché non ammesso il ricorso per cassazione se non per motivi di giurisdizione.
Utile l’eliminazione della sesta sezione “filtro” e l’abrogazione del relativo rito camerale allo scopo di evitare il doppio spoglio, nella sezione filtro e lo spoglio sezionale, con riti diversi. Già ora in sesta ci sono i consiglieri delle sezioni. Secondo i commentatori più esperti delle prassi interne la creazione della Struttura e della Sesta fu un’innovazione di rilievo sul piano organizzativo. Oggi, invece, è diventata un inutile appesantimento in quanto non si è creata una prassi comune sulle inammissibilità; i consiglieri che operano in sesta sono gli stessi tabellarmente assegnati alle singole sezioni; spesso in sesta sono decise cause di non spedita definizione.
Con il maxiemendamento scompare la proposta del relatore con fissazione dell’adunanza camerale comunicata di manifesta inammissibilità o infondatezza o manifesta fondatezza (art. 380 bis c.p.c.), ma è sostituita da una proposta del “giudice” (quindi senza vaglio del presidente o del collegio) di analogo tenore, comunicata alle parti che, ove non seguita da istanza di fissazione dell’udienza, comporta l’estinzione del giudizio per rinuncia implicita, senza condanna al pagamento del doppio contributo unificato.
3. L’Ufficio per il processo.
L’ufficio per il processo dovrebbe costituire il vero propulsore dello smaltimento dell’arretrato e della riduzione dei tempi del processo.
Nell’idea del legislatore le funzioni possono essere opportunamente modulate a seconda delle caratteristiche e dei bisogni effettivi dell’ufficio. Le organizzazioni finora predisposte tendono opportunamente ad una assegnazione degli addetti a singole sezioni o all’intero ufficio, piuttosto che al singolo giudice.
La vera sfida con annessa incognita è l’idea del management del carico della sezione come questione di staff e non del singolo giudice.
Molto dipende anche da cosa debbano fare i magistrati onorari aggregati negli uffici giudiziari gravati da maggiore arretrato, come previsto nelle schede allegate al PNRR[22], con una accorta modulazione tra attività di assistenza del giudice ed assegnazioni di funzioni giurisdizionali vere e proprie, nonché dal ruolo che verrà ritagliato per la magistratura onoraria.
Le riforme del processo civile e penale dovranno poi essere coordinate con la riforma della magistratura onoraria, assegnata ad apposita Commissione, sciogliendo i nodi relativi alla loro condizione lavoristica e assicurando la possibilità di una vera e propria verifica attitudinale in ingresso e controlli di professionalità proporzionati ai sempre più delicati compiti loro affidati (il riferimento, in particolare, è all’attribuzione di compiti decisionali e di gestione del ruolo, oltre che all’incremento di competenze previsto per l’Ufficio del giudice di pace).
Un ripensamento anche del ruolo dei giudici ausiliari di corte d’appello è necessario in vista della loro necessaria scadenza nel 2025 in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 41 del 2021.
È prevista l’istituzione dell’ufficio per il processo anche presso la Corte di Cassazione e la Procura Generale della Cassazione (definito per quest’ultima “Ufficio spoglio”) modellando accuratamente i compiti sulle specificità funzionali e organizzative della Corte Suprema che rendono critica l’assegnazione di mansioni di sintesi dei motivi o di elaborazione di bozze di sentenze.
4. La modifica della geografia giudiziaria.
Ferme le considerazioni positive sopra espresse, non può farsi a meno di evidenziare l’insufficienza di quanto sopra descritto per assicurare le misure necessarie all’abbattimento dell’arretrato.
Un gruppo di studiosi del processo civile ha rimarcato la carenza di risorse globali del nostro ordinamento giudiziario rispetto a quelle di altri Stati europei, sulla base di dati riportati anche nell’Analisi di impatto della regolamentazione (AIR) allegata al D.d.l., pag. 47 in nota e tratti dal rapporto CEPEJ 2016)[23].
Come osservato dalla Commissione Giustizia nel parere reso sul PNRR, “l’amministrazione della giustizia civile in Italia evidenzia una geografia giudiziaria a macchia di leopardo con esiti sconcertanti in merito alla durata dei procedimenti tra i diversi uffici e ciò a parità di risorse. Tale constatazione evidentemente non dipende dalle norme processuali, che sono uguali in tutta Italia, ma da fattori operativi e organizzativi (…).
Il Consiglio Superiore nel corso del 2020 ha elaborato i dati statistici acquisiti in seguito alla redazione dei programmi di gestione ex art. 37 predisposti dagli Uffici giudiziari. Se si analizza la durata media dei procedimenti di contenzioso ordinario, esecuzione immobiliare e procedure concorsuali, sul territorio nazionale emerge come la durata media non sia tanto collegata alle dimensioni dell’ufficio giudiziario quanto alla sua collocazione geografica, evidenziandosi, con alcune eccezioni, un grosso divario Nord-Sud in termini di performance.
Può apparire sgradito il riferimento territoriale. Per evitare fraintendimenti dovuti al riferimento geografico, è opportuno evidenziare che, prescindendo dall’esistenza di specifiche criticità di uffici anche del Nord, non si tratta di una questione meridionale calata nel contesto giudiziario e non se ne possono, ovviamente, trarre conclusioni sulle diverse capacità organizzative. Questo gap è di natura multifattoriale e, in buona parte, dipende anche dal tessuto socio-economico con il quale i singoli uffici giudiziari si interfacciano che alimenta una domanda di giustizia molto elevata.
Risultano indispensabili, allora, misure adeguate, quali incentivi economici e di carriera peri magistrati, che riescano a ridurre il turn over del personale di magistratura nelle sedi critiche, in gran parte coperte in modo pressoché esclusivo con magistrati di prima nomina. Solo con un mutamento delle strategie di assegnazione delle risorse può raggiungersi l’indispensabile scopo di assicurare maggiore stabilità alla presenza dei magistrati che le funzioni giudiziarie orizzonte temporale più ampio e maturando quella esperienza indispensabile ad un servizio più efficiente.
Un’ulteriore necessità di riorganizzazione, come meglio illustrata in seguito, riguarda, le Corti di appello. Gli uffici di secondo grado rientrano tra quelli in maggiore sofferenza quanto alla durata media dei procedimenti civili. La riforma del processo penale e l’introduzione dell’istituto dell’improcedibilità decorso il biennio rendono urgente un incremento degli organici delle Corti di appello e la previsione di misure ad hoc per il settore penale che non si traducono in un solo travaso di risorse dal civile, che porterebbe inevitabilmente al mancato raggiungimento degli obiettivi del PNRR.
5. La digitalizzazione del processo civile.
La digitalizzazione, soprattutto prospetticamente, è la misura più importante della riforma in quanto incide sul processo in più direzioni.
1. Il processo telematico è esteso a tutti gli uffici giudiziari italiani: giudice di pace, molto difficile da attuare per il numero degli uffici e lo scarso grado di informatizzazione, nonché Cassazione e Procura generale, che richiederanno 4-5 anni di transizione.
2. Va completata la digitalizzazione integrale della fase esecutiva del processo. La positiva esperienza delle vendite telematiche deve essere estesa a tutti i settori e fasi dell’esecuzione, dando piena effettività alle misure quali le ricerche telematiche dei beni e del credito del debitore, alle possibilità di pignoramento telematico, ecc. (art. 492 bis c.p.c.).
3. È prevista l’ obbligatorietà e omnicomprensività delle notifiche telematiche: chiunque ha una PEC iscritta in pubblici registri o ha eletto un domicilio digitale deve essere citato in giudizio con PEC.
4. Diviene obbligatorio il deposito telematico degli atti, anche quelli iniziali, come in deroga alle norme vigenti, è stato previsto dalla recente normativa emergenziale per ridurre gli accessi alle Cancellerie.
5. Si prefigura, almeno in prospettiva, il superamento del sistema attuale fondato sull’inoltro di PEC in favore di un possibile sistema basato su upload di documenti, che consentirebbe di superare i notevoli limiti tecnici del sistema quale, ad esempio, il SIGIT della giustizia tributaria.
6. È previsto un ampliamento delle forme di celebrazione del processo da remoto e in forma cartolare mediante scambio di note sull’esperienza del diritto pandemico. Occorre evitare, tuttavia, che il ricorso a tali modalità, certamente utili, non assurga a regola del processo sia per non distorcerne la dimensione simbolica sia perché nelle materie sensibili, come l’interdizione, l’inabilitazione, l’amministrazione di sostegno, la crisi familiare il distacco o l’assenza del giudice – prevista come forma eventuale del processo dalla legge 203- può nuocere alla comprensione della condizione di fragilità delle parti.
7. Quanto alle banche dati, la loro alimentazione massiva e la necessità di algoritmi di ricerca, progressivamente raffinati e selettivi, costituirà un indubbio fattore di impulso alla conoscenza della giurisprudenza, dell’esito dei giudizi, pur dovendosi implementare l’anonimizzazione.
8. Il principio di chiarezza e sinteticità e, soprattutto di redazione degli atti per “campi”, in prospettiva potrebbe essere esteso anche alle sentenze.
L’attuazione di tale principio richiede il coinvolgimento anche del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio Nazionale Forense e CNF allo scopo, non solo di razionalizzare e snellire gli atti, di sistematizzare l’attività domande, repliche e decisioni su singoli aspetti del thema decidendum (e sotto questo aspetto ampia spinta propulsiva può derivare dall’assicurare effettività al principio di chiarezza e sinteticità degli atti, ma anche da quello della redazione per “campi”), ma anche di consentire, nell’ambito degli archivi digitali, l’elaborazione di metadati che consentano: a) di poter agevolmente assegnare, schedare, spogliare, ritrovare, riunire, i giudizi; b) di conoscere i precedenti e l’esito dei giudizi.
Nel medio termine, una volta che il processo telematico diviene l’unica modalità di celebrazione del processo civile, è inevitabile che le norme del processo “tradizionale” (orale e scritto) e quelle del processo telematico confluiscano in un unico quadro regolatorio nel quale gli istituti relativi alle notifiche, al depositi, agli atti introduttivi, memorie, atti giudiziari, udienze di trattazione e istruttorie (in presenza e a distanza), verbalizzazione, documentazione, atti degli ausiliari, rilascio di copie e impugnazioni siano modellati tenendo conto delle potenzialità e dei limiti della dimensione digitale.
Il primo passo sarà l’inclusione delle norme del processo digitale nel codice processuale. quindi, l’evoluzione verso forme tecnologiche sempre più avanzate inevitabilmente porterà a conformare parte delle regole processuali in ragione delle nuove opportunità che esse offrono di interazione tra le parti, sincrona e asincrona, in presenza e a distanza, oltre che di documentazione, ricerca e analisi dei dati processuali.
Limitata l’operatività del processo cartaceo ai soli casi remoti di malfunzionamento dei sistemi informatici, il processo digitale diverrà l’unica forma di processo, sia esso celebrato in presenza che a distanza. Non avrà più senso, pertanto, che le regole del primo “duplichino” quelle del processo tradizionale cartolare e vi si sovrappongano.
5.1. Processo e intelligenza artificiale: prolegomeni.
L’estensione anche alla Corte suprema del PCT e, in prospettiva, al Giudice di pace consente altresì, con l’evoluzione sistemistica, il tracing della lite, di forte ausilio anche per lo stesso giudice redattore della sentenza, agevolato nel verificare l’esito del proprio lavoro e potenzialmente destinatario di un feedback automatico della conferma o riforma della sentenza e delle relative ragioni.
La redazione degli atti e delle sentenze per campi, l’ampliamento contenutistico e della platea degli aventi accesso alle banche dati, risultano essenziali per sperimentare, nei prossimi anni, forme di giustizia predittiva quanto all’esito della lite sulla scorta dei precedenti e della giurisprudenza dei gradi superiori, utili anche nelle procedure di mediazione e di negoziazione assistita, nonché anche alla selezione, accorpamento e gestione dei casi da parte dell’Ufficio per il processo prima dell’istruttoria.
L’uso dell’intelligenza artificiale nelle forme del machine learning e del deep learning può, in prospettiva, garantendo una conoscenza in tempo reale dei precedenti, dei trend, dell’esito finale delle controversie (dalla fase di mediazione a quella di esecuzione), assicurare quella prevedibilità delle decisioni che costituisce il fattore chiave per la deflazione del contenzioso, oltre che del miglioramento della qualità della giurisdizione.
Forme di audizione da remoto possono essere previste, nei casi più delicati con la presenza di un pubblico ufficiale, per testimoni residenti in altre Regioni, per l’interrogatorio libero delle parti, per il conferimento di incarichi ecc., senza necessità di raccogliere prove delegate, di richiedere la presenza di ausiliari residenti in luoghi distanti, ecc.
Nel lungo termine, l’uso dell’intelligenza artificiale, prima come analisi intelligente dei precedenti, poi come giustizia predittiva e, quindi, come possibile ausilio decisionale (almeno per gli small claims), dovrà essere adeguatamente guidato.
I giuristi non dovranno, con una atteggiamento di rifiuto pregiudiziale, farsi scavalcare dai tecnici, questi ultimi forti della suggestione dell’efficienza, mantenendo fermi i seguenti pilastri del giusto processo del futuro:
a) il principio essenziale di “moral neutrality” della tecnologia adottata, rispetto ai fini e alle garanzie del processo;
b) il rispetto tassativo del principio del suo utilizzo under human control e di non discriminazione, già sanciti dalle fonti eurounitarie (il riferimento è d’obbligo alla Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi, adottata dalla CEPEJ il 3-4 dicembre 2018, ma anche, per alcuni versi all’art. 22 del GDPR);
c) la riservatezza dei dati delle persone e, quindi, della necessaria anonimizzazione delle sentenze, messa a rischio dall’accumulo di sentenza digitali nel PCT e dall’accesso sempre più allargato alle banche dati;
b) la preservazione della indispensabile dimensione simbolica e rituale del processo, destinata a svolgersi nell’udienza pubblica (quest’ultima già messa in crisi più banalmente, dalla comodità delle varie forme di udienza non partecipata o a trattazione scritta) essenziali alla conservazione della legittimazione democratica della giurisdizione. Un delicato equilibrio tra le diverse forme di celebrazione va attuato tenendo conto della natura dei diritti controversi (questioni meramente patrimoniali, incidenza del processo su diritti costituzionali, questioni familiari, ecc.) delle fasi processuali, delle risorse disponibili, lasciando, almeno nei casi più delicati, la possibilità per la parte di richiedere il processo, almeno per alcune fasi in presenza.
Si tratta di discorsi forse prematuri, ma che non debbono trovare i giuristi impreparati alle nuove sfide. Il processo, orale, scritto, in presenza, da remoto, sincronico o diacronico, così come il contratto è sempre conformato, non solo dalla sociologia, ma anche dalla tecnologia e, quindi, non può che necessariamente seguirne la sua evoluzione.
[1] Relazione tenuta per la SSM - Struttura territoriale della Corte d’appello di Napoli, 2022.
[2] V. G. Scarselli, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in Giustizia insieme, 24 maggio 2021, www.giustiziainsieme.it; G. Timbolini, Note «a caldo» sulla nuova legge delega di riforma della giustizia civile: le modifiche al giudizio di primo grado, www.judicium.it, 2021; Comunicato dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile del 28 giugno 2021; A. Briguglio, Avanti con la ennesima riforma del rito civile purché sia solo (tutt’altro che decisiva ma) modestamente utile e non dannosa, in www.giustiziacivile.com; cfr. anche B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, pubblicato il 18 maggio 2021 in www.giustiziainsieme.it. P. Biavati, La riforma del processo civile: motivazioni e limiti, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1, 2022, pag. 45 s.
[3] G. Gilardi, span class="markedcontent">no sguardo generale agli emendamenti governativi al ddl 1662/S/XVIII, www.questionegiustizia.it, 2021.
[4] Si veda su singoli aspetti della riforma il numero monografico di questione giustizia n. 3 del 2021 “La riforma della giustizia civile secondo la legge delega 26 novembre 2021, n. 206”, www.questionegiustizia.it.
[5] E. D’Alessandro, La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo, in Giustizia insieme, 31 maggio 2021 www.giustiziainsieme.it; F. Gigliotti, Le linee di intervento del PNRR in tema di Giustizia. Un quadro di sintesi,sempre www.giustiziainsieme.it, 2022.
[6] V. A. Tedoldi, Misure urgenti e delega in materia di esecuzione forzata (legge 206 del 2021) – Parte I, in www.giustiziainsieme.it.
[7] M. Dogliotti, La riforma della giustizia familiare e minorile: dal tribunale per i minorenni al tribunale per le persone, i minorenni, le famiglie, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 333; A. Arceri, Il minore nel nuovo processo familiare: le regole sull'ascolto e la rappresentanza, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 380; A. Carratta, Un nuovo processo di cognizione per la giustizia familiare e minorile, in Famiglia e Diritto, 2022, 4, 349.
[8] E. Dalmotto, L'impatto della prossima riforma dell'arbitrato comune e societario sulla sospensione delle delibere assembleari, in Le società, 2022, 5, p. 639 ss.
[9] Nel corso dell'audizione in Commissione Giustizia, alla Camera, dello scorso 15 febbraio 2022, la Ministra della Giustizia ha affermato che l'andamento dei flussi dei dati di fine 2021, per il settore civile, rispetto al 2019, tutti gli indicatori PNRR sono in calo:- disposition time totale, -11,1>#/strong###; - arretrato in tribunale, -4>#/strong###; - arretrato in Corte di appello, -11,6>#/strong###. La complessiva analisi dei flussi del civile segnala poi, in tutte le fasi del giudizio, una riduzione di pendenze rispetto a 2019:- in tribunale, - 8,6>#/strong###; - in Corte d'appello -13,5%; - in Corte di cassazione, -5%.
[10] In tali termini Commissione Luiso, per la quale «alla luce della giurisprudenza sovranazionale e costituzionale interna», la violazione del dovere di sinteticità e chiarezza degli atti di parte «non possa comportare sanzioni di invalidità o di inammissibilità», potendo invece «essere presa in considerazione dal giudice solo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali». (cfr. Relazione finale)
[11] L.R. Luongo, Il «principio» di sinteticità e chiarezza degli atti di parte e il diritto di accesso al giudice (anche alla luce dell’art. 1, co. 17 lett. d ed e, d.d.l. 1662) ove anche per i richiami, tra l’altro a Cass., sez. trib., 15.07.2020, n. 15007; Id., sez. II, 21.05.2020, n. 9382; Id., sez. V, 5.03.2020, n. 6234; Id., sez. II, 25.02.2020, n. 4971; Id., sez. trib., 12.02.2020, n. 3394; Id., sez. trib., 31.01.2019, n. 2913; Id., sez. trib., 22.11.2018, n. 30240; Id., sez. II, 05.06.2018, n. 14362,
[12] G. Luccioli, Le sfide attuali del diritto di famiglia e dei minori: problemi emergenti, riforme attuate da riformare, riforme ancora da attuare, www.giudicedonna.it, n. 1/2021; G. Sergio, Riflessioni sulle proposte di procedimenti in materia di famiglia e di riforma ordinamentale della Commissione Luiso, 22 luglio 2021, www.questionegiustizia.it; per una critica all’operare del Tribunale per i minorenni A. Proto Pisani,Brevi osservazioni di carattere tecnico e culturale su “Proposte normative e note illustrative” rese pubbliche dal Ministero della Giustizia, in Giustizia insieme, 8 giugno 2021, www.giustiziainsieme.it.
[13] Vedi ad esempio la “Risoluzione sulla organizzazione degli uffici requirenti presso i Tribunali per i Minorenni (art. 23 della circolare sull’organizzazione delle Procure del 16 novembre 2017), delibera del CSM 18 giugno 20184 quanto ai “Criteri organizzativi generali”. Per la quale “La peculiarità del campo e delle modalità di azione delle Procure minorili, sia in ambito penale, sia in ambito civile, determina la necessità di dedicare ampi sforzi organizzativi per costruire intese con gli operatori del settore presenti sul territorio e con gli altri uffici giudiziari.” Esse “possono svolgere un importante ruolo di raccordo fra enti ed istituzioni che sono o, comunque, devono essere coinvolte nel sistema di cura dei minorenni e delle loro famiglie (…) È auspicabile, pertanto, che la dimensione progettuale del documento organizzativo della Procura per i Minorenni non sia circoscritta alla sola organizzazione interna dell’ufficio, ma contenga, direttamente o con autonomi documenti allegati, un programma di attuazione delle iniziative già adottate e l’indicazione di quelle di prossima adozione nel periodo di vigenza del documento organizzativo. Altrettanto importante è la valorizzazione della complementarietà delle competenze proprie delle Procure minorili in campo penale, civile e amministrativo: il prospetto organizzativo potrà, quindi, contenere indicazioni generali circa l’attivazione del controllo, in campo civile, sull’esercizio dei doveri educativi da parte dei genitori di minorenni che si rendano autori di gravi e/o reiterati reati, i per valutare le forme di intervento più idonee per la tutela dei minori appartenenti al nucleo familiare».
[14] Il comma 4, lett. delega di «s) prevedere, nell'ambito della procedura di negoziazione assistita, quando la convenzione di cui all'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, la prevede espressamente, la possibilità di svolgere, nel rispetto del principio del contraddittorio e con la necessaria partecipazione di tutti gli avvocati che assistono le parti coinvolte, attività istruttoria, denominata «attività di istruzione stragiudiziale», consistente nell'acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti in relazione all'oggetto della controversia e nella richiesta alla controparte di dichiarare per iscritto, ai fini di cui all'articolo 2735 del codice civile, la verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte richiedente; t) prevedere, nell'ambito della disciplina dell'attività di istruzione stragiudiziale, in particolare:
1) garanzie per le parti e i terzi, anche per ciò che concerne le modalità di verbalizzazione delle dichiarazioni, compresa la possibilità per i terzi di non rendere le dichiarazioni, prevedendo in tal caso misure volte ad anticipare l'intervento del giudice al fine della loro acquisizione;
2) sanzioni penali per chi rende dichiarazioni false e conseguenze processuali per la parte che si sottrae all'interrogatorio, in particolar modo consentendo al giudice di tener conto della condotta ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96 e 642, secondo comma, del codice di procedura civile;
3) l'utilizzabilità delle prove raccolte nell'ambito dell'attività di istruzione stragiudiziale nel successivo giudizio avente ad oggetto l'accertamento degli stessi fatti e iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della procedura di negoziazione assistita, fatta salva la possibilità per il giudice di disporne la rinnovazione, apportando le necessarie modifiche al codice di procedura civile;
4) che il compimento di abusi nell'attività di acquisizione delle dichiarazioni costituisca per l'avvocato grave illecito disciplinare, indipendentemente dalla responsabilità prevista da altre norme».
[15] Il Parere del CSM del 15 settembre 2021 ha evidenziato che l'idea di una fase ante iudicium da destinare all'assunzione della prova testimoniale nonché di eventuali (per vero alquanto improbabili) dichiarazioni confessorie delle parti, appare in astratto in grado di realizzare un alleggerimento della fase apud iudicem e dunque una riduzione dei tempi processuali. «I rischi correlati all'assenza del giudice nella delicata fase di assunzione e verbalizzazione della testimonianza appaiono solo in parte mitigati dalla pur opportuna previsione del potere del giudice del successivo processo di disporre la rinnovazione dell’assunzione. L’intento deflattivo della norma potrebbe condurre, peraltro, ad un aggravio per il lavoro del giudice. Sarà, infatti, sicuramente più oneroso e dispendioso in termini di tempo ed energie il controllo ex post sulla ammissibilità e rilevanza di lunghi verbali di prova, piuttosto che una valutazione ex ante.»
[16] Comma 5, lett. I), n. 3) «ferma la possibilità che l'attore vi ricorra di sua iniziativa nelle controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica, debba essere adottato in ogni procedimento, anche nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, quando i fatti di causa siano tutti non controversi, quando l'istruzione della causa si basi su prova documentale o di pronta soluzione o richieda un'attività istruttoria costituenda non complessa, stabilendo che, in difetto, la causa sia trattata con il rito ordinario di cognizione e che nello stesso modo si proceda ove sia avanzata domanda riconvenzionale priva delle condizioni di applicabilità del procedimento semplificato».
[17] Comma 5, lett. s), n. 3) «in caso di mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producano secondo le norme del rito seguite prima del mutamento, restino ferme le decadenze e le preclusioni già maturate secondo le norme seguite prima del mutamento e il giudice fissi alle parti un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti introduttivi».
[18] G. Gilardi, span class="markedcontent">no sguardo generale agli emendamenti governativi al ddl 1662/S/XVIII, cit.
[19]G. Costantino, Perché ancora riforme della giustizia?, in www.questionegiustizia.it, richiama L. Mortara, Discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 1913-1914, Regia Corte di cassazione, assemblea generale del 6 novembre 1913, p. 10, in www.giustizia.it/resources/cms/documents/1913_14_Mortara_Procura_generale.pdf).
[20] V. E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in La riforma della giustizia civile secondo la legge delega 26 novembre 2021, n. 206”, cit. C. V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, www.giustiziainsieme.it, che richiama R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, www.giustiziainsieme.it, 2021, e i relativi riferimenti a G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Contratto e impresa, 2/2017.
[21] B. Capponi – A. Panzarola, Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, cit.
[22] Il Piano prevede, infatti, anche l'innesto straordinario di magistrati onorari aggregati nei tribunali più gravati da arretrato nel settore civile, specificando che dovrà trattarsi di professionalità già strutturate e, quindi, in grado di operare da subito a pieno regime, con la finalità specifica di collaborare con il magistrato nell'adozione della decisione e nella redazione della sentenza. Tali magistrati onorari aggregati, dunque, concorreranno all'attività di definizione dei procedimenti mediante la redazione di progetti completi di sentenza al fine di consentire la riduzione dei tempi di durata dei procedimenti civili e la definizione anticipata dei procedimenti per i quali sia stata fissata udienza per la precisazione delle conclusioni.
[23] https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/717-osservazioni-sulle-proposte-di-riforma-del-processocivile?tmpl=component&print=1&layout=default pp. 19/33.
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