ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Edipo, la giustizia e le relazioni familiari[*]
di Rita Russo
Sommario: 1. La vicenda di Edipo - 2. La violenza familiare e la negazione della identità personale - 3. Una riflessione sulla giustizia.
1. La vicenda di Edipo
Il fascino delle tragedie greche si mantiene inalterato attraverso i secoli perché consente a ciascun lettore o spettatore di esplorare, ad ogni singola rappresentazione o lettura, significati sconosciuti e nuovi.
La tragedia, del resto, è uno specchio che riflette l’uomo, nel suo essere – come diceva Aristotele – animale sociale; ogni diversa umanità, ogni diversa società trova in essa rappresentati, se ha la volontà di fermarsi a guardare con occhio critico, le sue vicende, le sue pecche e le conseguenze degli errori che commette. Aristotele, nella Poetica, scrive che la tragedia “mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”. La tragedia indica quindi un percorso di catarsi, intesa non in senso mistico, ma come razionalizzazione delle passioni: questo è il grande passo compiuto dalla civiltà greca, che tramite le sue produzioni intellettuali, la poesia, il teatro, la filosofia, la legislazione e l’istituzione dei tribunali, costruisce l’uomo moderno, razionale, che pone sé stesso quale misura di tutte le cose.
Nell’Edipo re di Sofocle assistiamo alla rappresentazione drammatica delle vicende di una famiglia, anzi di due famiglie – perché Edipo ha una famiglia biologica da lui sconosciuta ed una famiglia legale che occulta le sue vere origini – ove si producono veleni che, generati nel microcosmo familiare, inquinano per osmosi anche la società.
Una drammatica e potente rappresentazione di una storia oscura e violenta, che travolge Edipo, eroe dell’intelligenza piuttosto che della forza, ma eroe solo, che aspira ad agire razionalmente in un contesto familiare e sociale che si muove invece su linee irrazionali, scatenando una tempesta di eventi ingovernabili.
Edipo è un eroe dalla personalità complessa: in cerca di verità sulla propria identità e sul proprio destino, capace di grandi gesti di pietà filiale come lasciare gli agi della vita a Corinto per non danneggiare i genitori, acuto a sufficienza per sciogliere l’enigma della Sfinge, ma anche tanto cieco da non cogliere gli indizi sulle proprie origini; a volte generoso ed a volte intemperante e, alla fine della storia, spietato con se stesso e con la propria famiglia, nel rivelare una verità che tutti gli consigliano di tenere nascosta: fiat iustitia et pereat mundus.
Nella tragedia sono rappresentate relazioni familiari disfunzionali, avvelenate da due tossine che ancora oggi interessano le famiglie contemporanee: la violenza e la menzogna.
Dalla famiglia queste tossicità si estendono alla società, che nella tragedia è afflitta dalla peste a causa di un evento, l’omicidio di Laio re di Tebe prima di Edipo, il cui autore è rimasto per lungo tempo sconosciuto; evento che tuttavia non è altro che un singolo anello di una lunga catena di violenze familiari, ritenute lecite, anzi giustificate.
L’assassino di Laio è lo stesso Edipo, suo figlio, che dopo averlo ucciso, sposa la madre, Giocasta, e diviene re (tyrannos) di Tebe, da inconsapevole autore di un esecrando doppio delitto, il parricidio e l’incesto. Edipo non sa che Laio e Giocasta sono i suoi genitori, perché entrambi hanno deciso di sopprimerlo alla nascita per salvaguardare il regno ed il potere, un infanticidio che non sembra pesare sulla coscienza di Giocasta, la quale anzi, più tardi, si vanterà con Edipo di avere in tal modo sventato la profezia; ma la tragedia puntualmente avviene, così come predetta, nonostante il tentativo dei protagonisti di evitarla. Tutti loro si macchiano di hybris, la superbia che viene punita dagli dei, perché cercano di governare gli eventi, ma ciecamente, senza conoscere fatti ed antefatti. Edipo, salvato da un pastore, è stato affidato ad un coppia di genitori adottivi, i sovrani di Corinto, che si guardano bene da rivelargli la verità sulle sue origini, e quindi, una volta appresa la profezia, si allontana da Corinto per non uccidere colui che crede suo padre e non sposare colei che crede sua madre. Non accetta però di avere perduto il suo rango e la sua identità sociale e quando per via incontra Laio, che procede regalmente sul suo carro con la scorta di servi, reclamando a colpi di scudiscio la precedenza su Edipo che viaggiava da “semplice pedone”, lo uccide ed uccide anche la scorta del re; per assicurarsi la impunità del precedente delitto, diremmo oggi noi, codice penale alla mano.
La violenta fine di Laio ha radici nel suo stesso passato, altrettanto violento. Laio, infatti, è stato maledetto per avere rapito e violentato un giovane uomo; ha poi violentato la sua stessa moglie, Giocasta, che voleva astenersi dai rapporti coniugali per non generare il futuro assassino del padre; quando nasce Edipo gli buca e lega le caviglie, stigma di solito riservato agli schiavi, e lo consegna, o meglio lo fa consegnare da Giocasta, ad un servo, perché lo uccida. Il bambino viene privato così dapprima della sua identità sociale e del suo status familiare e poi- almeno nelle intenzioni dei genitori- della vita.
I genitori adottivi di Edipo, dal canto loro, sebbene accoglienti e affettuosi, non si dimostrano molto più rispettosi dei diritti di Edipo. Quando costui li interroga, dopo aver sentito dire che egli è “figlio falso”, negano scandalizzati: e negando segnano il destino di Edipo, ed in fondo anche il loro, perché il giovane lascerà la città dove era stimato e rispettato, per evitare di agire contro coloro che crede i suoi genitori.
In altre parole, Edipo proviene da una famiglia biologica violenta e cresce in una famiglia adottiva dove le relazioni sono insincere: i sovrani di Corinto l’hanno adottato perché non possono avere figli, ma egoisticamente preferiscono mentire, a se stessi prima che al figlio, e accettano la separazione piuttosto che rivelare le origini, che peraltro, per quanto a loro conoscenza, sono umili, perché il bambino gli è stato consegnato marchiato come uno schiavo.
2. La violenza familiare e la negazione della identità personale.
Spogliata dai suoi risvolti mitologici, la storia di Edipo è una storia che ancora oggi si ripete, almeno in parte, per molti bambini dell’età contemporanea.
In primo luogo, la storia si ripete per i bambini vittime di abusi e abbandono morale e materiale da parte dei genitori, atti illeciti che le istituzioni contrastano con molta fatica, e non sempre efficacemente, anche perché la consapevolezza che i bambini sono portatori di diritti ed interessi propri, che appartengono a loro stessi e non al gruppo familiare, è una conquista relativamente recente.
I Tribunali e le Corti sono congestionati da processi di minori non riconosciuti dal padre che faticano ad ottenere lo status e da processi che riguardano figli che, seppure riconosciuti, sono stati privati dell’assistenza morale e materiale dei genitori. Molti di loro reclamano il risarcimento del danno, che tuttavia non è mai integralmente riparativo dell’offesa subìta, perché l’essere privati del supporto dei genitori, prestazione infungibile ed incoercibile, ha conseguenze non sempre rimediabili.
Il tempo del minore è un tempo breve e prezioso, in cui la personalità si forma, e per formarsi in maniera armonica necessita di un sound enviroment, come ha precisato la Corte europea dei diritti dell’Uomo in data 6 luglio 2010 (Neulinger e Shuruk c. Svizzera), affermando che l’interesse del minore comprende tanto l’interesse a mantenere regolari rapporti con entrambi i genitori quanto l’interesse a crescere in un ambiente sano, stabile ed affidabile. Il bambino ha diritto di vivere nella propria famiglia salvo che questa sia assolutamente inadeguata ed ha diritto ad essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. È questo lo “statuto dei diritti dei figli”, enunciato dall’art 315 bis, che costituisce una conquista recente, poiché introdotto nel codice civile nel 2012, dalla legge n. 219.
Dall’epoca in cui Sofocle scriveva della vicenda di Edipo (presumibilmente nel 425 a.C. o poco dopo) ad oggi, sono trascorsi ventiquattro secoli, durante i quali si è tramandata senza incertezze l’idea che le esigenze dei figli sono recessive rispetto a quelle dei genitori; fino a non molto tempo fa si riteneva che l’interesse della famiglia fosse superiore e prevalente su quello dei singoli individui che la compongono. Soltanto da una trentina d’anni si parla di diritti del bambino e di interesse del minore, da quando nel 1989 è stata firmata la Convezione di new York sui diritti del fanciullo, ratificata in Italia nel 1991, attuata molto lentamente nella legislazione nazionale, con interventi dapprima parziali (la legge sull’affidamento condiviso nel 2006, la riforma della legge sull’adozione dei minorenni nel 2001) e infine con la riforma della filiazione avvenuta nel 2012.
La prospettiva si è in un certo senso rovesciata, poiché oggi si parla non più di interesse superiore della famiglia, ma di superiore o prevalente interesse del minore, perpetrando così un errore di fondo, quello di applicare alla famiglia la regola del conflitto, da dirimere individuando una parte vincente ed una soccombente, anziché promuovere la cultura della mediazione.
L’interesse del minore che deve tenersi in considerazione non è superiore, cioè prevalente su qualsiasi altro interesse, ma il migliore (best interests of the child), quello che tra più scelte possibili garantisce il suo benessere psicofisico.
La cultura del conflitto tra diritti dei genitori e diritti dei figli, rappresentata nella vicenda di Edipo dal parricidio/regicidio consumato dal protagonista e poi da lui stesso tenuto ai suoi danni (“chi ha assassinato l’altro, può inventare l’attentato a me”), non può che contribuire a innescare la spirale della violenza.
Ed infatti, i Tribunali e le Corti, civili e penali, sono congestionati anche da processi che riguardano bambini che sono o sono stati vittima di violenza, agita da uno o da entrambi i genitori, anche nella forma della violenza assistita.
Le violenze familiari sono sempre vicende oscure, in cui non è facile definire il ruolo dei protagonisti: spesso è incerto se le donne, mogli e madri che, come Giocasta, sono a loro volta vittime di violenza da parte del marito o del compagno, siano esse stesse autrici della violenza sui minori oppure conniventi, ovvero vittime di una ulteriore forma di violenza quale è l’essere costrette al silenzio su ciò avviene a danno dei figli.
Anche il minore sul quale la violenza non è agita direttamente, ma che viene esposto ad assistere alla violenza esercitata da uno dei genitori sull’altro, è da considerare vittima di violenza; ed anche questa è una conquista relativamente recente, poiché solo nel 2013 è stata introdotta, quale circostanza aggravante comune dei delitti contro la vita l’incolumità e la libertà, la presenza del minore, e l’aggravante ad effetto speciale prevista dell’art 572 c.p. e cioè l’aumento di pena fino alla metà se il fatto è commesso in presenza di un minorenne, è stata definitivamente configurata nel 2019 (dalla legge n. 69, codice rosso).
Il minore vittima di violenza, diretta o assistita, è un soggetto fortemente a rischio di divenire a sua volta una adulto violento, in una sorta di ciclo perpetuo dell’abuso che vede riproporre gli stessi schemi comportamentali appresi da una generazione all’altra, sia esso il ruolo dell’aggressore che della vittima; si tratta di quella trasmissione intergenerazionale della violenza di cui la vicenda di Edipo è un esempio.
Edipo stesso, infatti, da vittima di violenza si trasforma in autore di violenza (“son malvagio e figlio di malvagi”): dapprima perché reagisce in modo spropositato – e sarà lui stesso ad ammetterlo davanti a Giocasta – ad un diverbio per una questione di precedenza, uccidendo l’offensore e tutta la sua scorta, tranne un servo che riesce a fuggire e che più tardi rivelerà i fatti; in seguito, nel momento in cui scopre il suo duplice delitto, punendo ferocemente se stesso, anche oltre il suo stesso editto, con il quale aveva prescritto l’esilio, ma non anche l’accecamento. Non solo: egli abbandona i figli maschi al loro destino, raccomandando al cognato/zio di prendersi cura solo delle figlie femmine. I due figli di Edipo, maledetti dal padre come “incestuosa stirpe”, saranno a loro volta violenti, muovendosi guerra ed uccidendosi a vicenda.
Soltanto Antigone, beneficiata da un ultimo gesto di affetto paterno, proverà ad interrompere la spirale della violenza, con un atto di solidarietà e di pacificazione, che la rende un simbolo, nei secoli a venire, non solo della libertà di coscienza, ma anche di quella pietas che vuole la riparazione del torto piuttosto che la vendetta.
La famiglia di Edipo non è inquinata soltanto dalla violenza, ma anche dalla menzogna. Ad Edipo viene negato più volte il diritto ad avere consapevolezza delle proprie origini. In primo luogo, dal padre biologico, che prima di mandarlo a morte, gli buca e lega le caviglie, per rendere irriconoscibile la sua origine legittima e nobile. Edipo diventa così figlio di nessuno, al più di uno schiavo, tanto che egli stesso crede, quando il messo gli rivela che era stato abbandonato, di essere di stirpe servile e di ciò non si preoccupa, pensando che forse Giocasta arrossirà della “bassa nascita”, ma non lui, che si reputa figlio della Fortuna che gli è stata propizia, con il sottinteso orgoglio di essere homo faber fortuna sui, perché è arrivato al trono grazie alla sua sapienza e non alla sua ascendenza. Ad Edipo viene negata la consapevolezza della sua identità personale e l'accesso alle origini anche dai suoi genitori adottivi, che, quando lui li interroga per la prima volta, negano, ardenti di sdegno, che Edipo sia un “figlio falso”; gli viene negata la verità anche dal dio, perché l’oracolo, inetto a far venire alla luce alcunché di utile, non risponde alla sua domanda se non ambiguamente, profetandogli il parricidio e l’incesto, ma restando volutamente silente sulla vera identità dei suoi genitori.
Anche questa è una storia contemporanea, che interessa ancora oggi i figli adottivi, nonché coloro la cui identità giuridica e sociale è stata scissa dalla identità biologica.
Soltanto nel 2001 la legge sull'adozione dei minorenni è stata modificata per riconoscere il diritto del figlio adottivo ad essere informato di tale condizione, in primo luogo dai genitori, che “vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni”, e il diritto di accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei genitori biologici.
Non si tratta però di un diritto perfetto, perché è esercitabile soltanto al raggiungimento dei 25 anni – e qui sembra essere sfuggita al legislatore l'antinomia di stabilire una età ben più alta di quella in cui si consegue la piena capacità di agire – ed inoltre l'accesso deve essere consentito dal Tribunale per i minorenni, il quale deve valutare che esso “non comporti grave turbamento all'equilibrio psico-fisico del richiedente”. Anche in questo caso sembra essere sfuggita al legislatore l'incongruenza di prevedere che un Tribunale per i minorenni valuti l'impatto della conoscenza sull'equilibrio psicofisico di una persona ampiamente maggiorenne e quindi – si suppone – in grado di decidere da sé se può o non può sostenere il peso della rivelazione delle proprie origini. La norma è congegnata in così aperta contraddizione con il principio di autodeterminazione, da lasciare il dubbio che essa serva a proteggere non già l'interesse del figlio adottivo ma l'interesse dei genitori.
Inoltre essa conteneva, nella sua originaria formulazione, un divieto rigoroso di accesso alle origini nel caso di bambino nato da parto anonimo. Il divieto è parzialmente caduto soltanto pochi anni fa, dopo che la nostra Corte costituzionale nel 2013, con la sentenza n. 278, sulla scia di quanto affermato nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo (Godelli c. Italia), ha affermato – con una sentenza manipolativa – che il figlio nato da parto anonimo ha diritto a far interpellare la madre attraverso una procedura riservata, per chiedere se essa vuole rinunciare all’anonimato. Tuttavia, per rendere effettivo il diritto all'interpello, si è reso necessario anche l’intervento delle sezioni unite della Corte di Cassazione, adite con ricorso nell’interesse della legge ai sensi dell’art 363 c.p.c., le quali nel 2017 con la sentenza n. 1946 hanno affermato che, ancorché il legislatore non abbia introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile nella volontà contraria della madre.
Non diverse problematiche riguardano i figli i nati da procreazione medicalmente assistita, ai quali i genitori intenzionali consegnano una identità giuridica in tutto o in parte scissa dalla identità biologica e che non possono andare alla ricerca delle loro origini se le banche dati dei donatori di gameti sono anonime. Per questo, nel 2019, il Consiglio di Europa, con una raccomandazione, ha auspicato la rinuncia all’anonimato per tutte le future donazioni di gameti negli Stati membri, senza però alcun effetto retroattivo sul diritto di accesso alle banche dati già sigillate dall’anonimato.
3. Una riflessione sulla giustizia.
La giustizia di Edipo è una giustizia ancora connotata da forti elementi di irrazionalità: la discrezionalità con la quale il re decide se indagare o meno; quando decide di indagare lo fa sotto la spinta potente della collettività ferita, che reclama le difese dal male, ma anche per paura che il regicidio si ripeta a suo danno; l’uso della tortura sul testimone, la punizione feroce che non ferma la spirale della violenza perché vendetta reclama vendetta. Una giustizia intransigente, che nella spettacolarità della punizione cerca di far dimenticare il colpevole ritardo con il quale si è mossa.
Il dialogo tra Giocasta ed Edipo rivela una idea di giustizia servente al potere: il neonato viene soppresso per evitare non soltanto il parricidio, ma anche e soprattutto il regicidio; quando però il re viene effettivamente assassinato non si procede ad alcuna indagine, perché nel frattempo un altro re, più giovane e più capace, ha preso il suo posto. Il testimone dell’omicidio, infatti, riesce a tornare a Tebe ed a parlare con la regina, ma vedendo che Edipo ha preso il potere, chiede di essere allontanato e a ciò Giocasta acconsente senza porsi – e porre al testimone – troppe domande; del resto anche lei ha tutto da guadagnare nello scambio tra uno sposo e re anziano, gravato da una maledizione che gli impedisce di generare figli e di farli sopravvivere, ed uno sposo giovane, re sapiente che scioglie gli enigmi e padre prolifico.
Nella generazione successiva assistiamo allo scontro tra Creonte ed Antigone, che invece rappresenta le tensioni di una società che cerca di stabilire regole di base che leghino tutti, anche il re e la sua famiglia, e di verificarne nel tempo la loro validità. Edipo era un tyrannos, termine che originariamente non aveva alcuna accezione negativa, ma indicava solo colui che governava accentrando in sé i poteri legislativi, giudiziari e militari. Ed infatti Edipo decide, prima ancora di avere individuato il colpevole e sentito la sua storia, solo in base alla configurazione della fattispecie, quale sarà la punizione (l’esilio) con una norma ad hoc, nata sul momento; in seguito inquisisce, e poi nel momento in cui individua il colpevole, lo punisce, divenendo carnefice di sé stesso. Creonte invece, per quanto nei secoli sia stato indicato come uno spietato tiranno, è molto meno tyrannos di Edipo: è un uomo di governo che crede nella necessità di rispettare la legge, senza eccezioni (“saprò rendere prospera la città con queste leggi”). Creonte ha ereditato, dopo la morte di Edipo e la sanguinosa guerra tra i suoi due figli, una situazione di governo difficilissima, ed è un convinto assertore della necessità di rispettare le regole, senza le quali la polis, la comunità organizzata, non può funzionare. Antigone invece crede che la legge degli uomini debba cedere il passo di fronte ai valori della pietas e della solidarietà familiare (“leggi divine, non scritte, incrollabili”).
La vicenda di Antigone e Creonte rappresenta la contrapposizione dialogica tra lo ius positum e i valori (o secondo altre letture, lo ius naturale).
Creonte ritiene che lo ius positum sia immutabile e che vincoli anche il re e la sua famiglia; per questa ragione impedisce ad Antigone di seppellire il fratello, anche se la vicenda riguarda i suoi nipoti e, di riflesso, anche suo figlio Emone, fidanzato di Antigone; per questo punisce Antigone quando disobbedisce alla legge. Questa soggezione alla legge scritta, che non ammette eccezioni per coloro che detengono il potere, costituisce un passo avanti rispetto alle vicende della generazione precedente, dove il re decide se perseguire o non perseguire e quando l’omicidio di un altro re, dove una regina può tranquillamente suggerire di troncare una inchiesta e di insabbiare la verità, quando si rivela pericolosa per la famiglia reale.
Alla fine della storia, poi, si fa un'ulteriore passo avanti e cioè si ammette che anche lo ius positum può essere cambiato quando quella regola non è più condivisa dalla società, che parteggia per Antigone e la ritiene degna di essere coperta d’oro; la democrazia richiede che la legge, pur se promulgata dal sovrano, sia approvata dalla collettività (“città non è quella ove uno solo può”). La pietà per i defunti, ritenuta minusvalente da Creonte, quasi fosse solo il portato della emotività di una donna, si rivela invece un potente collante naturale tra le persone, e quindi utile a mantenere la società compatta; da qui il ripensamento – sia pur tardivo – di Creonte.
Se fossimo in una favola di Esopo, si potrebbe dire che la morale della storia – o una delle tante che se ne può trarre – è il riconoscimento della necessità di trovare un punto di equilibrio tra la vincolatività della regola e la possibilità di cambiarla quando si rivela non più utile al funzionamento della società, anzi dannosa.
Vi è anche un’altra felice intuizione nella tragedia di Sofocle.
La famiglia è rappresentata come il nucleo fondante della società organizzata: non solo perché il potere si trasmette per via familiare, ma anche perché i veleni che si producono all’interno della famiglia contaminano la società, cagionando una epidemia che non può essere vinta se non con un atto di giustizia.
Ciò dovrebbe indurci a riflettere sull'importanza della giurisdizione in materia di famiglia e minori, molto spesso ritenuta di second'ordine, gestione di interessi piuttosto che tutela dei diritti, salvo il caso in cui si discuta, più che dei diritti della persona, della ripartizione dei grandi patrimoni.
Invece, ora come allora, ci ritroviamo spettatori di tragedie che testimoniano come i veleni nascono nelle formazioni sociali più piccole (i nuclei familiari) e da qui si trasmettono alla formazione sociale più grande (la polis, o comunità organizzata) che le contiene.
L’unico strumento che può arrestare la diffusione del veleno è una giustizia efficacemente amministrata, non soltanto punitiva, ma anche riparativa, e che intervenga con la dovuta tempestività.
Nella storia di Edipo manca un soggetto terzo che affermi i diritti dell'individuo all'interno del nucleo familiare: nessuno impedisce a Laio e Giocasta di mandare a morte Edipo, nessuno impedisce ai sovrani di Corinto di mentirgli sulle sue origini. L'oracolo del dio, che tutti – e quindi anche Edipo – consultano per sapere cosa fare nei passaggi incerti dell’esistenza, non è un organo di giustizia, perché non è tenuto a rispondere, o meglio risponde ciò che vuole, senza alcuna altra spiegazione, senza rispettare alcuna regola, se non quella dell’enigma.
La giustizia invece deve parlare una lingua chiara, comprensibile a tutti, attenersi a regole predeterminate e soprattutto rispondere, in tempo utile e in modo completo, alle istanze di chi la interroga.
La società contemporanea ha trovato il punto di equilibrio faticosamente cercato dai protagonisti dell’Edipo re e di Antigone nella separazione dei poteri, nella istituzione di una giustizia imparziale ed indipendente e soprattutto nel consenso espresso dalla collettività a trascrivere alcuni valori fondamentali nelle Costituzioni (o in altre Carte dei valori). Valori che ispirano la legislazione positiva e che al tempo stesso ne costituiscono il limite e la prova di resistenza, perché la ricerca dell’ordinamento giusto, o più semplicemente dell’ordinamento adeguato a garantire il regolare funzionamento di una società organizzata, è un ricerca mai conclusa, che ogni generazione trasmette alla successiva.
[*] Il testo è la rielaborazione dell’intervento tenuto al convegno “Camminando tra miti ed attualità”, organizzato da CAMMINO (Camera minorile per la persona, le relazioni familiari e i minorenni), Siracusa, 3 luglio 2022.
Il collegio consultivo tecnico. Misura di semplificazione e di efficienza o inutile aggravamento amministrativo?
di Fabio Francario
Sommario: 1. Importanza dell’istituto nella cornice del N.G.E.U. e del P.N.R.R. - 2. Ragioni della difficoltà d’inquadramento sistematico dell’istituto. - 3. Focus sulla normativa specifica del Collegio consultivo tecnico - 4. Una ipotesi ricostruttiva - 5. Osservazioni conclusive: il collegio consultivo tecnico di fronte all’alternativa tra l’essere una reale misura di semplificazione ed efficienza o un inutile aggravamento amministrativo.
1. Importanza dell’istituto nella cornice del NGEU e del PNRR.
Attualmente, la figura del Collegio consultivo tecnico è annoverata tra le misure di semplificazione in materia di contratti pubblici contemplate nell’ambito del Capo I del Titolo I del d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale). Non si tratta di una figura completamente nuova[i], ma nelle intenzioni del legislatore vorrebbe assumere un ruolo strategico per garantire il rilancio dell’economia nello scenario post pandemico. Per essere pienamente compresa va quindi considerata nel contesto del quadro normativo e degli obbiettivi predefiniti a livello comunitario dal Next Generation EU (NGEU) e a livello nazionale dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Il programma di intervento straordinario, voluto dalle Istituzioni europee non solo per contrastare la pandemia, ma per favorire la ripresa e lo sviluppo economico e sociale, viene sviluppato in Italia dal PNRR ed è opinione diffusa e condivisa che si sia di fronte ad una occasione irripetibile. La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa. Dal momento che la pubblica amministrazione assume un ruolo vitale nell’attuazione del complesso piano, l’attenzione del legislatore si è pertanto concentrata anche sulla necessità di approntare uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa nell’ambito delle misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano. L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, tutti convergenti nell’unica finalità di garantire la celere conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni: rimozione del fenomeno della “paura della firma”, previsione di meccanismi procedimentali sostitutivi e de - giurisdizionalizzazione della soluzione dei conflitti
Le principali misure di semplificazione specificamente dedicate ad accompagnare la realizzazione del PNRR sono individuate nel d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito con l. 11 settembre 2020 n. 120 e nel d.l. 31 maggio 2021 n. 77 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure).
La prima linea d’intervento seguita è stata quella di rimuovere la difficoltà di assumere decisioni in un quadro normativo, economico, tecnico e sociale estremamente complesso, incerto e farraginoso, intervenendo sul regime giuridico della responsabilità amministrativa e penale dei funzionari pubblici al fine di rimuovere la c.d. “paura della firma”. Sotto questo profilo l’attenzione è stata rivolta all’elemento personale della pubblica amministrazione, al “fattore umano”. L’art. 21 del d.l. n 76 del 2020 è intervenuto sul tema della responsabilità erariale, limitando la responsabilità dei funzionari pubblici per danno erariale alle sole ipotesi in cui ne venga accertato il dolo e precisando che tale limitazione “non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. L’ulteriore precisazione che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” vale a chiarire anche che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece sostenuto da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile. L’art. 23 ha invece circoscritto il reato di abuso d'ufficio alla violazione di puntuali disposizioni di leggi e atti con forza di legge da cui non residuino margini di discrezionalità.
La seconda linea d’intervento ha invece interessato i procedimenti amministrativi, e si è concretizzata nella previsione di misure di semplificazione, finalizzate a garantire la definizione dei processi decisionali, in tempi rapidi e comunque la certezza della loro conclusione. Il d.l. 76/2020, oltre a introdurre modifiche della disciplina generalmente dettata dalla legge 241/1990, recate dall’art. 12, generalizza di fatto l’impiego della figura del Commissario straordinario per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali di particolare complessità, prevedendo che i Commissari operino in deroga alla disposizioni di legge in materia di contratti pubblici (“fatto salvo il rispetto dei principi …”) e che possano essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazioni appaltante (art. 9). Il d.l. 77/2021 prevede invece la possibilità di attivare meccanismi sostitutivi commissariali in caso di mancata adozione di atti e provvedimenti necessari all'avvio dei progetti del Piano, ovvero di ritardo, inerzia o difformità nell'esecuzione dei progetti da parte dei soggetti attuatori del PNRR (art. 12), così come nel caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente idoneo a precludere la realizzazione in tutto o in parte la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR o nel PNC (art. 13). Sotto il profilo più strettamente organizzativo, il d.l. 77/2021 prevede inoltre l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di una cabina di regia con poteri d’indirizzo, d’impulso e di coordinamento generale sull’attuazione degli interventi del PNRR (art 2); l’istituzione di una Soprintendenza speciale presso il Ministero della cultura con competenza per i beni che siano interessati dagli interventi previsti nel PNRR e con poteri comunque di avocazione e sostitutivi delle Soprintendenze locali nei casi in cui si renda necessario per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR (art. 29); l’istituzione di un Comitato speciale presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici tenuto a esprimersi sui progetti di fattibilità tecnico economica delle opere non solo a livello meramente consultivo, ma con potere anche decisorio, sostitutivo della conferenza dei servizi competente all’approvazione definitiva del progetto nei casi in cui siano stati espressi dissensi in seno ad essa (art 44).
La terza linea d’intervento è stata quella che si è ormai soliti definire come “de-giurisdizionalizzazione”, per indicare misure o istituti volti ad evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’intervento del giudice arresti o ritardi la realizzazione degli interventi pubblici. La necessità di realizzare gli interventi previsti nel PNRR e nel PNC ha fatto sì che il legislatore abbia non solo dettato norme specificamente volte ad accompagnare la realizzazione di tali piani, ma abbia altresì colto l’occasione per intervenire a regolare in via generale il rapporto tra processo amministrativo e opere pubbliche cercando di limitare la possibilità d’intervento del giudice sull’appalto. Sotto quest’ultimo profilo, l’art. 4 del dl 76/2020 coglie l’occasione per dettare diverse disposizioni volte ad assicurare la stabilità dell’aggiudicazione e del conseguente affidamento del contratto. In primo luogo, estende l’applicazione dell’art. 125 comma 2 del c.p.a. agli appalti aggiudicati entro al 31 dicembre 2021 (termine poi spostato al 30 giugno 2023), il che comporta lo spostamento della tutela sul versante puramene risarcitorio, dal momento che esso statuisce che “la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato e il risarcimento del danno avviene solo per equivalente”. Precisa, in secondo luogo, che “la pendenza di un ricorso giurisdizionale nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto” non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione dello stesso e che “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente”. Precisa ancora, in terzo luogo, che di norma i giudizi in materia di appalti dovrebbero essere definiti nel merito con sentenza in forma semplificata in esito all’udienza cautelare. Dunque, sembrerebbe d’intendere, a meno che l’aggiudicazione non venga immediatamente sospesa dal giudice amministrativo, il contratto deve essere stipulato e non può esser più caducato e il ricorrente che abbia ragione dovrà limitarsi ad una tutela meramente risarcitoria. Sotto questo profilo, senza entrare nei profili concernenti la costituzionalità di tali norme con riferimento soprattutto all’art 113 Cost., è dunque evidente l’intento di limitare quanto più possibile l’incidenza della pronuncia giurisdizionale sull’affidamento dei lavori. Le previsioni, come detto, sono d’ordine generale, ma il PNRR è stato comunque l’occasione per generalizzare tale disciplina.
Con specifico riferimento invece alle opere previste nel PNRR e nel PNC, oltre a misure acceleratorie[ii], nella prospettiva della de-giurisdizionalizzazione sono state previste anche misure volte a cercare proprio di evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale.
L’art. 6, espressamente dedicato sin dalla rubrica al Collegio Consultivo Tecnico, reca infatti previsioni dichiaratamente volte a scoraggiare il ricorso al momento giurisdizionale per la risoluzione di dispute o questioni che possono insorgere nell’esecuzione dell’appalto, al fine di evitare che l’incidente giurisdizionale comprometta o ritardi la realizzazione dell’intervento. Per i lavori diretti alla realizzazione di opere pubbliche d’importo pari o superiore alla soglia comunitaria, l’art. 6 prevede infatti che il CCT debba essere obbligatoriamente costituito “per la rapida risoluzione delle controversie o dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”. L’istituzione rimane facoltativa per i lavori sotto soglia.
Se si guarda ai diversi istituti giuridici che il legislatore ha pensato d’impiegare per accompagnare la realizzazione del Piano, la prima considerazione da fare è che, tanto l’impiego della figura del commissario, quanto degli altri meccanismi sostitutivi che consentono di portare a conclusione i procedimenti spostando verso l’alto il livello decisionale, non sono una novità, ma solo la generalizzazione, per le opere PNRR e PNC, di tali misure. Altrettanto può dirsi per la stessa limitazione del possibile contenuto della tutela giurisdizionale. In tutti questi casi, si è sostanzialmente di fronte ad una estensione di norme e istituti già dettati per altre situazioni: per l’impiego dei commissari è esplicito il rinvio all’art 4 del d.l. 18 4 2019 n. 32; per il superamento del dissenso il modello è quello dell’avocazione ormai generalmente prevista dall’art 14 quinquies della l. 241/1990; anche per la limitazione dei poteri del giudice si estende la norma già dettata a suo tempo per le infrastrutture strategiche e codificata nell’art 125 c.p.a..
Anche il CCT, di per sé, non è una novità assoluta, ma, in questo caso, la disciplina non si limita al mero richiamo o adattamento di un istituto predefinito nella sua struttura giuridica. La disciplina recata dal decreto semplificazioni (d.l. 76/2020), come modificata e integrata dal decreto semplificazioni - bis o governance PNRR (d.l. 77/2021), si presenta fortemente innovativa e lascia chiaramente intendere che, nelle intenzioni del legislatore, l’istituto dovrebbe assumere un ruolo assolutamente strategico nell’ambito delle misure di accompagnamento strumentali alla garanzia di realizzazione del PNRR.
2. Ragioni della difficoltà d’inquadramento sistematico dell’istituto.
Nonostante l’attenzione che viene adesso specificamente dedicata all’istituto dal legislatore e il ruolo strategico che gli viene attribuito per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali del PNRR, dire esattamente cosa sia il CCT e, soprattutto, che natura ed efficacia abbiano le sue decisioni, non è cosa semplice.
Per diverse ragioni.
Innanzi tutto perché le nuove norme, per quanto dedichino particolare attenzione all’istituto, risultano comunque scarne, lacunose e contraddittorie. Le disposizioni recate dagli articoli 5 e 6 del d.l. 76/2020 attribuiscono al Collegio funzioni e compiti eterogenei; prevedono che esso emani atti aventi natura ed efficacia profondamente diverse (pareri, determinazioni, atti aventi natura di lodo irrituale); ne prevedono la costituzione, a seconda dei casi, come obbligatoria o facoltativa; quando obbligatoria, richiedono necessariamente la presenza dell’operatore economico all’interno dell’organismo, anche se la funzione di questo è limitata alla sola consulenza.
Per quanto la preparazione e l’intelligenza dell’interprete possano, sotto questo profilo, cercare di armonizzare la ricostruzione del dato normativo, vi sono in ogni caso perlomeno due altre ragioni che, oggettivamente, impediscono di rispondere in maniera precisa all’interrogativo sulla natura del CCT e delle sue decisioni.
La prima è proprio nel fatto che, come detto, la figura s’iscrive chiaramente nel novero delle misure di “de -giurisdizionalizzazione”, pensate cioè per evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’incidente giurisdizionale arresti o ritardi la realizzazione degli interventi previsti nel PNRR o nel PNC. L’istituto generale di riferimento è quindi quello delle cd ADR (Alternative Dispute Resolution), categoria pensata appunto per includere le diverse ipotesi in cui dispute o controversie tra le parti vengono definite prima e al di fuori della sede giurisdizionale. Il riferimento alle ADR vuole però dire tutto e niente, stante la irriducibilità delle stesse ADR ad un modello unico. Al di là della radice comune dell’offerta di una “giustizia non giurisdizionale”, le varie forme di ADR non sono riducibili a un’unica tipologia perché non sono un fenomeno unitario e sempre uguale a sé stesso. Se si guarda l’esperienza maturata nell’ambito della contrattualistica internazionale, nel quale si origina la figura dei dispute boards per accompagnare l’esecuzione dei contratti di durata, si vede subito che i modelli sono diversi e tendono a distinguersi a seconda che abbiano carattere aggiudicativo o assistenziale; a seconda cioè che siano diretti a risolvere una lite insorta tra le parti attraverso categorie assimilabili a quelle giudiziarie ovvero a comporre la controversia attraverso procedure di tipo conciliativo in ragione di criteri equitativi piuttosto che di giustizia. Talora con soggezione agli effetti della decisione, talora con libertà di aderire o meno alla proposta conciliativa. Ferme in ogni caso le garanzie di indipendenza, terzietà e professionalità dei membri, i dispute boards possono quindi formulare tanto pareri o raccomandazioni non vincolanti (Dispute Review Board – DRB), quanto possono assumere decisioni immediatamente vincolanti per le parti (Dispute Adjudicative Board – DAB) .
Oltre a quella della mancanza, nell’esperienza delle ADR, di un unitario modello di riferimento, l’ulteriore ragione che rende fortemente problematico l’innesto dell’istituto nell’ordinamento pubblicistico è che forme e strumenti di “giustizia non giurisdizionale”, che di per sé non sono certamente ignoti al nostro sistema di diritto amministrativo, sono tuttavia fortemente condizionati dal vincolo d’indisponibilità gravante sull’esercizio del pubblico potere finalizzato alla cura del pubblico interesse. Il che, per tradizione, porta a circoscriverne l’ambito all’esperienza dei ricorsi amministrativi, rimedi a carattere decisorio in cui non viene però garantita la terzietà del giudicante rispetto alle parti. La possibilità di impiegare rimedi alternativi, che possono ritenersi espressivi non già di autotutela amministrativa, ma di una logica partecipativa e consensuale, è quindi generalmente consentita nei soli casi in cui le questioni riguardino situazioni disponibili di diritto soggettivo. L’art 12 c.p.a. afferma chiaramente che “le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti cpc”. Il Codice dei contratti pubblici dedica un apposito capo, il secondo, titolo dedicato al Contenzioso, nella parte VI del Codice ai rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale, prevedendo le figure dell’accordo bonario (art 205), della transazione (art. 208) e dell’arbitrato (art. 209), oltre che del parere precontenzioso ANAC (art. 211).
Chiarire che sono deducibili in arbitrato le sole controversie che riguardino situazioni (giuridiche soggettive) disponibili, circoscrivendo in tale ambito l’operatività delle ADR, non basta però a risolvere tutti i problemi, in quanto in ambito pubblicistico, al di là dei vincoli modali derivanti dalle previsioni specificamente recate dall’art. 209, bisogna comunque fare i conti con i limiti che in linea di principio derivano dal divieto di arbitrato obbligatorio[iii] e dalla preclusione del ricorso all’arbitrato irrituale[iv]. Il principio della libera disponibilità esclude che, in assenza di una espressa volontà della parte, l’arbitrato possa essere reso obbligatorio per effetto di una norma di legge; il medesimo principio, per altro verso, non è però tale da giustificare anche che l’arbitrato si svolga nelle forme irrituali, perlomeno in assenza di una espressa previsione o disciplina di legge.
La mancanza di un unitario modello di riferimento, l’assorbimento dei rimedi non giurisdizionali nell’ambito dell’autotutela amministrativa e l’esclusione della possibilità di decidere le liti concernenti situazioni disponibili nelle forme dell’arbitrato irrituale o rendendo obbligatorio ex lege il ricorso all’arbitrato sono tre fattori che allo stato impediscono un coerente inquadramento sistematico dell’istituto sulla base delle figure tradizionalmente note.
3. Focus sulla normativa specifica del Collegio consultivo tecnico.
I dati salienti che immediatamente si ricavano dalle disposizioni recate dagli articoli 5 e 6 del d.l. 76/2020 e successive modifiche e integrazioni sono apparentemente incoerenti.
La costituzione del Collegio è obbligatoria per i lavori d’importo pari o sopra soglia, ma rimane facoltativa per quelli sotto soglia; i membri del Collegio devono essere nominati da entrambe le parti, ma in caso di disaccordo alla nomina del Presidente provvede unilateralmente la parte pubblica; il Collegio deve essere formato assicurando eterogeneità, esperienza e qualificazione professionale dei membri, ma questi possono essere anche legati da rapporti di lavoro o collaborazione con le parti; il Collegio rende pareri o determinazioni aventi natura di lodo arbitrale irrituale ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c.; l’acquisizione del parere in alcuni casi è obbligatoria, in altri rimane facoltativa; l’osservanza o inosservanza delle pronunce rese dal Collegio influisce in ogni caso sulla responsabilità contrattuale ed erariale e sul regime delle spese del contenzioso giurisdizionale che venga eventualmente intrapreso successivamente.
Attesi i già ricordati divieti di istituire forme di arbitrato obbligatorio ed irrituale, il solo fatto che l’istituzione del Collegio possa essere ritenuta obbligatoria e che le pronunce possano avere valore ed efficacia di lodo irrituale basta a rendere immediatamente l’idea di come sia problematico l’impiego della figura in ambito pubblicistico. La possibilità che il Collegio assuma determinazioni aventi natura di lodo contrattuale rivelerebbe un carattere decisorio, ovvero aggiudicativo, che mal si concilierebbe con una pura e semplice funzione di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto, che lascerebbe chiaramente propendere nel senso di una natura non aggiudicativa del board.
Le linee guida elaborate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ed adottate dal MIMS con d.m. n. 12 del 17 gennaio 2022 (Adozione delle Linee guida per l’omogenea applicazione da parte delle stazioni appaltanti delle funzioni del Collegio consultivo tecnico) hanno cercato di completare la trama normativa disegnata dalla fonte primaria riempiendone i vuoti. Non solo. Hanno soprattutto fornito una chiave interpretativa che spiega le apparenti contraddizioni con il fatto che il legislatore ha volutamente tenuto insieme i possibili modelli, preoccupandosi di creare le condizioni per l’ammissibilità dell’istituto in ambito pubblicistico e rimettendo alla scelta delle parti l’opzione per un modello puramente consultivo o aggiudicativo in modo che potessero tener conto delle specificità del caso concreto.
Particolare importanza in tal senso assumono le norme recate nell’ambito del paragrafo terzo (“Insediamento, funzioni e competenze”), che richiamano l’attenzione sull’importanza del verbale attestante l’effettivo insediamento del Collegio, per il fatto che in questo momento le parti sono chiamate a consumare la scelta se attribuire o meno alle determine del Collegio valore di lodo arbitrale ai sensi dell’art 808 ter c.p.c.. Il CCT può infatti operare come collegio arbitrale solo se il consenso sia stato ritualmente prestato dalle parti ai sensi dell’art. 6 comma 3 del d.l .76/2020, norma avente forza e valore di legge che dispone che le determinazioni del Collegio hanno natura del lodo contrattuale previsto dall’art 808 ter c.p.c. “salva diversa e motivata volontà espressamente manifestata in forma scritta dalle parti stesse”. La previsione recata dalle linee guida, lungi dal porsi in contradizione con quelle di rango primario, è chiaramente volta a creare certezza sulla effettiva e consapevole volontà delle parti al riguardo e si spiega in ragione del fatto che l’arbitrato non può essere imposto alle parti obbligatoriamente e richiede, specie se irrituale, accettazione espressa e in forma scritta della clausola arbitrale[v]. La chiara ed espressa dichiarazione di volontà delle parti sul punto è dunque necessaria per evitare che l’attività che verrà successivamente svolta dal CCT possa essere eventualmente invalidata lamentando il fatto che le determine con valore di lodo contrattuale siano state adottate senza una positiva enunciazione in forma scritta di una volontà in tal senso. Questo spiega anche perché le linee guida richiedano in questo momento anche la comparizione dei rappresentanti delle parti, dei quali il Collegio dovrebbe pertanto assicurarsi siano munite del potere di rappresentanza idoneo ad impegnare sotto questo profilo la parte. Le linee guida non recano disposizioni di dettaglio per quel che riguarda tempi e modi di svolgimento del contraddittorio sui quesiti posti; ma, tenendo presente che il termine a disposizione del Collegio per pronunciare sui quesiti posti è di quindici o massimo venti giorni (dalla formulazione dei quesiti), il verbale potrebbe rappresentare la sede opportuna anche per prevedere una eventuale disciplina di dettaglio, specie nel caso le parti optino per attribuire la natura di lodo contrattuale alle determinazioni del Collegio.
Anche se le parti abbiano manifestato espressamente la volontà di attribuire alle determine del CCT valore di lodo arbitrale ai sensi dell’art 808 ter cpc, va tuttavia precisato che non tutte le questioni possono essere decise con tale efficacia. Sotto questo profilo, le Linee guida chiariscono che possono essere decise con valore di lodo irrituale le sole questioni che sarebbero altrimenti oggetto semplicemente di un parere facoltativo, da rendere su “controversie e dispute tecniche di ogni natura” ai sensi dell’art 6 dl 76/2020. Restano infatti escluse le questioni che sono oggetto di parere obbligatorio ai sensi dell’art 5 del dl 76/2020 per i casi di sospensione volontaria o obbligatoria dell’esecuzione dei lavori, salva la sola ipotesi di cui alla lett. C) dell’art. 5 del dl 76/2020 (“sospensione per gravi ragioni d’ordine tecnico … in relazione alle modalità di superamento delle quali non vi è accordo tra le parti”). Non possono essere quindi decise con efficacia di lodo arbitrale irrituale le questioni relative a sospensione dell’esecuzione dei lavori derivante dall’applicazione di disposizione di legge penale, del codice antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d lgs 159/2011 o da vincoli inderogabili posti da fonti dell’Unione europea; oppure determinata da gravi ragioni di ordine pubblico o di salute pubblica; o ancora da gravi ragioni di pubblico interesse. In tutti questi casi è infatti evidente che non si è in presenza di interessi disponibili delle parti, vuoi perché la decisione amministrativa è vincolata a monte dalla norma di legge penale o unionale, vuoi perché sussiste un forte margine di apprezzamento discrezionale circa la sussistenza di ragioni di pubblico interesse; ed è pertanto esclusa la possibilità di devolvere in arbitrato le relative questioni. Nulla è invece espressamente detto con riferimento all’ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 5 del dl 76/2020, che prevede che il CCT renda “parere” preliminare rispetto alla decisione di risolvere il contratto “nel caso in cui la prosecuzione dei lavori per qualsiasi motivo … … non possa procedere con il soggetto designato … … salvo che per gravi motivi tecnici ed economici sia comunque … possibile o preferibile proseguire con il medesimo soggetto”. La possibilità di pronunciare in tal caso con efficacia di lodo irrituale sembrerebbe comunque preclusa non solo dall’impiego del termine “parere”, ma anche dal fatto che la decisione circa la risoluzione del contratto rimane espressamente riservata alla stazione appaltante[vi].
Anche con riferimento al problema del rapporto con gli altri rimedi, le linee guida offrono un importante chiarimento, precisando che, se le parti hanno riconosciuto natura di lodo contrattuale alla decisione del CCT, il rimedio è alternativo all’accordo bonario.
4. Una ipotesi ricostruttiva
4.1. Il quadro apparentemente problematico e contraddittorio disegnato dalla normazione primaria non deve scoraggiare l’interprete perché le difficoltà d’inquadramento e di coordinamento con istituti preesistenti si verificano praticamente tutte le volte in cui si introducono nuovi meccanismi di adr con l’intento di de-giurisdizionalizzare la decisione o composizione di una lite. L’attenzione è portata a concentrarsi sull’efficacia e sull’ utilità della nuova figura, piuttosto che sulla sua coerenza sistematica, perché un rimedio adr nasce atipico quasi per definizione; e a questo dato, in ambito pubblicistico, si aggiunge il profilo problematico della sua ammissibilità, originato dalla limitata disponibilità delle situazioni soggettive.
Le linee guida aiutano a capire che il legislatore ha inteso tenere insieme più modelli, preoccupato di consentire l’ingresso rimedio in ambito pubblicistico, lasciando alle parti la scelta di quale di volta in volta adottare nel caso concreto. Dalla scelta del modello aggiudicativo o consultivo deriva poi un regime giuridico a tratti differenziato in punto di natura ed efficacia giuridica delle decisioni e del collegio stesso. Vedendo il fenomeno nel suo complesso, l’impressione che si ha è dunque che non si è di fronte a un tipico organismo arbitrale, né ad un tipico organismo di mediazione o conciliazione, né ad un tipico organismo consultivo, ma che si sia di fronte ad un organismo giustiziale di diritto pubblico atipico. Volendo avere una visione unitaria, l’idea è che il CCT rappresenti una forma di espressione di funzione giustiziale amministrativa, contaminata dalla necessaria partecipazione del soggetto interessato nell’organismo decisionale e dall’attribuzione a quest’ultimo del potere di pronunciare in maniera irrituale. Il profilo è senz’altro meritevole di ben altro approfondimento sotto il profilo della trattazione scientifica, ma si può comunque provare a spiegare un po’ meglio l’idea anche solo nell’ambito di queste note.
Le uniche figure di adr finora ritenute ammissibili in ambito pubblico sono state i ricorsi amministrativi e gli arbitrati rituali.
I ricorsi amministrativi (in opposizione, gerarchico, gerarchico improprio e, volendo, ricorso straordinario al Capo dello Stato) vengono sempre decisi da organi amministrativi, ai quali l’interessato rivolge la sua domanda di giustizia. Non solo il decidente non è un vero giudice, terzo e imparziale, ma l’interessato non partecipa nemmeno alla formazione della decisione. Può solo domandare e la decisione viene presa, unilateralmente, dall’Amministrazione.
Anche nel caso del CCT, la costituzione dell’organo non ha base negoziale, ma legale. La regola, per gli appalti sopra soglia, è che l’organo deve essere necessariamente costituito presso la stazione appaltante, che decide se il collegio debba essere costituito da tre o cinque membri. In caso di disaccordo sulla nomina del Presidente, la nomina è riservata alla parte pubblica ed è sempre la parte pubblica (stazione appaltante) a prendere unilateralmente la decisione quando l’istituzione è facoltativa (ante operam). E’ quindi un organo consultivo costituito per assicurare la realizzazione dell’interesse pubblico primario alla esecuzione dell’opera pubblica, che rende pareri obbligatori nelle ipotesi di sospensione di cui all’art 5 e facoltativi in tutti gli altri casi. Pareri che, a seconda dei casi (808 ter cpc), possono essere vincolanti o meno per la definizione di una controversia tra stazione appaltante e operatore economico. In alcuni casi, cioè, decidono (significativamente in tali casi le disposizioni usano la locuzione “determinazione” e non “parere”); in altri suggeriscono la decisione. È dunque un organo consultivo necessario, che però non rende solo pareri, ma può anche assumere vere e proprie decisioni. Se ci si fermasse a questa sola considerazione, il cumulo di funzioni consultive e decisorie non rappresenterebbe una novità assoluta nel nostro Ordinamento, dal momento che il sistema dei ricorsi amministrativi e della giustizia amministrativa più complessivamente considerata già ammette e tollera l’ipotesi che un unico soggetto (a cominciare dal Consiglio di Stato) possa cumulare esercizio di funzione giurisdizionale e consultiva.
I veri elementi di novità o, se si preferisce, di rottura rispetto allo schema tipico dei ricorsi amministrativi, noti in ambito pubblico come adr, sono due.
Il primo è quello della necessaria partecipazione, come componente dell’organo decidente, dell’operatore economico, e cioè della parte privata direttamente interessata (rectius: di membri da questa nominati). La decisione, parere o determinazione che sia, non viene presa più unilateralmente dalla sola amministrazione. Rispetto al sistema dei ricorsi amministrativi, s’introduce l’elemento della consensualità, in luogo della unilateralità, nella decisione sul ricorso (o nella resa del parere).
L’altro elemento di novità o di rottura che si coglie, con riferimento alle forme di adr ritenute ammissibili in ambito pubblico, riguarda la possibilità d’impiego della forma dell’arbitrato irrituale. La rottura rispetto all’impiego tradizionale del modello arbitrale non risiede nel fatto che si introduce una forma di arbitrato obbligatorio, cosa che non avviene (è obbligatoria la costituzione del Collegio, non la decisione in forma arbitrale, che dipende pur sempre dalla concorde volontà delle parti); ma nel fatto che una norma di legge consente che, perlomeno nell’attuale contingenza storica, dispute o controversie con la PA possano essere decise anche a mezzo di un arbitrato irrituale. La previsione legislativa predetermina requisiti e modalità di scelta degli “arbitri” (art 6, comma 2) e delinea i tratti essenziali del procedimento (art. 6, comma 3), sottraendo entrambi i profili ad una assoluta libertà negoziale e superando con ciò le riserve più volte formulate dalla Corte di Cassazione e legittimando così l’ingresso della figura in ambito pubblicistico.
Dunque, un rimedio giustiziale sicuramente atipico in ambito pubblicistico per il fatto che la norma di legge consente che dispute e controversie vengano risolte di comune accordo anche in forma irrituale.
Rimossi i limiti di forma e procedura altrimenti ostativi all’ingresso dello strumento in ambito pubblicistico, nella migliore tradizione delle adr il legislatore si è poi preoccupato essenzialmente di garantire l’efficacia e l’effettiva utilità della nuova figura, senza preoccuparsi troppo di avere un modello unico di riferimento.
Ecco così che, a seconda dei casi, il CCT può emanare semplicemente pareri che si auspica le parti osservino convinti dalla particolare competenza dei membri del Collegio, oppure può emanare vere e proprie decisioni vincolanti per le parti (può cioè avere, secondo il linguaggio delle adr, sia carattere assistenziale, che aggiudicativo); ecco che i membri devono essere particolarmente competenti e qualificati, ma possono anche essere in qualche modo legati da un rapporto con la parte; ecco che il CCT sembra poter decidere secondo diritto o anche secondo equità o in via conciliativa, come lascerebbero intendere anche la sostanziale riproposizione della norma sulle spese processuali prevista per la mediazione civile dall’ art 13 d.lgs. 28/2010 e la previsione dell’onere della “scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte” che tende a svincolare la decisione dalla domanda delle parti; ecco che i pareri possono essere anche non vincolanti, ma in ogni caso condizionano fortemente il regime della responsabilità erariale; ecco che la stessa istituzione del CCT è di regola obbligatoria per gli appalti pari o sopra soglia, ma diventa facoltativa ante operam e per gli appalti sotto soglia.
Tutti elementi di un puzzle che, alla fine, presenta una nuova e atipica forma di adr, risultante dalla contaminazione del rimedio giustiziale amministrativo con gli elementi tipici privatistici del consenso e della irritualità delle forme.
5. Osservazioni conclusive: il Collegio consultivo tecnico di fronte all’alternativa tra l’essere una reale misura di semplificazione ed efficienza o un inutile aggravamento amministrativo.
Le norme non sono del tutto chiare e appaiono a tratti contraddittorie, ma le antinomie derivanti dalla lettera o dal senso logico delle espressioni impiegate possono e devono esser risolte seguendo il criterio interpretativo della finalità perseguita dal legislatore.
Il criterio teleologico rende evidente come la ratio normativa sia quella di estendere in ambito pubblicistico una forma atipica di adr, diversa dai ricorsi amministrativi e dall’arbitrato, in modo da avere uno strumento in grado di garantire “la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto” e di “favorire, nella risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche eventualmente insorte, la scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, per non pregiudicare il raggiungimento degli obbiettivi individuati nel PNRR e nel NGEU.
L’istituto non viene pensato come misura deflattiva del contenzioso, finalizzata ad evitare l’aggravio dei carichi di lavoro dei tribunali ordinari e a rinverdire la stagione dei giudizi arbitrali per accertare maggiori compensi o risarcimenti all’operatore economico. Al contrario, l’istituto è pensato proprio per rendere l’esecuzione del contratto impermeabile e insensibile alla lite, per evitare cioè che si originino situazioni contenziose che possano ritardare o pregiudicare la realizzazione dell’opera pubblica PNRR o che, una volta ultimata, possano aumentarne il costo finale secundum eventum litis. Risulta quindi espressamente concepito come rimedio finalizzato ad assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera. La chiave di volta dell’operazione è tutta nella particolare competenza e qualificazione che viene richiesta ai membri del collegio. Questo deve infatti essere composto in maniera da assicurare al suo interno la presenza di tutte le professionalità necessarie per decidere qualsiasi disputa o controversia, senza possibilità di avvalersi di consulenze tecniche d’ufficio e deve prendere le proprie decisioni in termini strettissimi (15 – 20 giorni). E questo anche quando si chieda di pronunciare non un semplice parere, ma un vero e proprio lodo arbitrale.
Ai membri del collegio può essere quindi chiesto di pronunciarsi in un tempo nemmeno paragonabile a quello di un arbitrato o meno che mai di un giudizio ordinario e senza nemmeno la possibilità di avvalersi di consulenze specialistiche esterne per l’attività istruttoria. Ed è evidente che la scommessa può funzionare solo se si assicura un elevato standard qualitativo delle professionalità coinvolte.
Non sembra però che tutti i segnali vadano in tal senso.
Il recepimento delle linee guida, licenziate dal CSLP già a ottobre del 2021, è stato a lungo ritardato attendendo che la legge 29 12 2021 n. 233 (di conversione del dl 6 11 2021 n. 152 recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza – PNRR e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose) modificasse l’art 6 del d.l. 76/2020 introducendo il comma 7 bis, che ha disposto che “ In ogni caso, i compensi dei componenti del collegio consultivo tecnico, determinati ai sensi del comma 7, non possono complessivamente superare:
a) in caso di collegio consultivo tecnico composto da tre componenti, l'importo corrispondente allo 0,5 per cento del valore dell'appalto, per gli appalti di valore non superiore a 50 milioni di euro; tale percentuale e' ridotta allo 0,25 per cento per la parte eccedente i 50 milioni di euro e fino a 100 milioni di euro e allo 0,15 per cento per la parte eccedente i 100 milioni di euro;
b) in caso di collegio consultivo tecnico composto da cinque componenti, l'importo corrispondente allo 0,8 per cento del valore dell'appalto, per gli appalti di valore non superiore a 50 milioni di euro; tale percentuale e' ridotta allo 0,4 per cento per la parte eccedente i 50 milioni di euro e fino a 100 milioni di euro e allo 0,25 per cento per la parte eccedente i 100 milioni di euro”.
All’atto pratico, ciò ha implicato la riduzione di circa due terzi del compenso stimabile in base al testo originario delle linee guida, che avevano previsto e continuano a prevedere che il compenso debba essere composto da una parte fissa proporzionata al valore dell’opera e da una parte variabile in ragione della quantità e dell’attività concretamente svolta con il limite che il compenso complessivamente riconosciuto a ciascun componente non può comunque superare il triplo della parte fissa (cfr. par. 7.2. linee guida). Soprattutto, ha implicato il completo azzeramento del corrispettivo che dovrebbe esser dovuto per la parte variabile, che dovrebbe cioè dipendere dalla qualità e quantità delle prestazioni effettivamente rese dal collegio, dal momento che, nella generalità dei casi, il tetto così imposto implica che la sola parte fissa già consumi il massimo della somma disponibile. Il corrispettivo è stato così reso completamente indifferente rispetto alla durata dell’appalto e all’impegno concretamente richiesto per qualità e quantità delle prestazioni rese. A dispetto della chiara previsione recata dal comma 7 dell’art 6 del d.l. 76/2020 secondo la quale “i componenti del collegio consultivo tecnico hanno diritto a un compenso a carico delle parti e proporzionato al valore dell’opera, al numero, alla qualità e alla tempestività delle determinazioni assunte”. Disincentivare l’assunzione dell’impegno e delle responsabilità connesse all’esercizio della funzione non pare in linea con gli obbiettivi che ci si prefigge di raggiungere attraverso l’istituto.
Un secondo fattore di rischio per il raggiungimento dell’obbiettivo perseguito dal CCT può derivare da un approccio manifestamente superficiale all’istituto da parte della giurisprudenza, specie se questa si mostra non sufficientemente preparata e poco incline a confrontarsi con il carattere innovativo della figura come in precedenza delineato e ricostruito.
Già si è detto della (non necessaria e) distratta lettura delle norme primarie nel caso si debba procedere alla risoluzione del contratto “per qualsiasi motivo” da parte della Sezione Quinta del Consiglio di Stato (sent. 4650/2022). Ad essa si può aggiungere la mancata comprensione delle ragioni che hanno indotto le linee guida a dettare criteri restrittivi per la nomina dei presidenti dei CCT, manifestata dal TAR Lazio con l’ord.za 2585 del 19 aprile 2022, che ha censurato le linee guida nella parte in cui determinano “la impossibilità per gli avvocati del libero Foro di essere nominati Presidenti di istituendi Collegi”. La “esperienza e qualificazione professionale adeguata alla tipologia dell’opera” e la “comprovata esperienza nel settore degli appalti delle concessioni e degli investimenti pubblici” sono requisiti richiesti non dalle linee guida, ma dalla stessa fonte primaria (l’art 6 del d.l. 76/2020) che ne ha poi demandato la declinazione in concreto alle linee guida. La limitazione operata dalle linee guida, all’accesso alla funzione di presidente (non anche di componente) del CCT, non ha interessato solo la categoria professionale degli avvocati, ma tutte le categorie astrattamente abilitate dalla norma primaria: “ingegneri, architetti, giuristi ed economisti”. Per nessuna di tali professioni la semplice iscrizione all’albo consente di assumere l’incarico in seno ad un CCT e rimane pertanto difficile comprendere perché ciò possa essere invece essere consentito ad un avvocato che di fatto si è magari specializzato in diritto di famiglia o altra materia che poco o nulla abbia a che fare con la materia delle opere pubbliche. Questa e non altra sembrerebbe la conclusione raggiunta dal TAR “a seguito di approfondita riflessione (assumendo che) non risulta, prima facie, espressione di un corretto e ragionevole esercizio della discrezionalità riconosciuta … in relazione all’individuazione dei requisiti professionali del Presidente dell’anzidetto Collegio”, ritenendo irragionevole la mancata equiparazione della categoria degli avvocati del libero foro a quella dei “dirigenti di stazioni appaltanti con personalità giuridica di diritto privato soggette all’applicazione del codice dei contratti pubblici” senza rendersi conto che per quest’ultima è assolutamente ragionevole presumere la richiesta esperienza nel settore degli appalti e delle concessioni regolate dal codice dei contratti pubblici. Insomma, non si può presiedere un CCT se non si ha specifica e comprovata esperienza professionale in materia di appalti pubblici, ma la pronuncia sembra essere di diverso avviso.
La normativa speciale per il P.N.R.R. ha dunque posto le premesse per introdurre nel nostro ordinamento un meccanismo di mediazione e conciliazione destinato ad operare in ambito pubblicistico, che avrebbe lo scopo di tutelare l’interesse specifico alla realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei tempi programmati, componendo sul nascere i conflitti tra operatore economico e stazione appaltante. Anche la legge delega per il nuovo codice dei contratti pubblici continua a muoversi su questa linea, dal momento che ha esplicitamente inserito tra i principi e criteri direttivi “l’estensione e il rafforzamento dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in fase di esecuzione del contratto”. L’estensione e il rafforzamento delle adrin materia di contratti pubblici passa dunque per l’esperienza del CCT, ma è evidente che se si vuole che l’istituto svolga efficacemente la sua missione bisogna crederci e valorizzarlo, e non disincentivarlo e banalizzarlo. Altrimenti è meglio lasciar perdere, perché si aumenterebbe soltanto la confusione già esistente e si aggraverebbero inutilmente le procedure.
Riferimenti bibliografici
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[i] Non si tratta di una novità assoluta. Dando attuazione alla legge delega del codice dei contratti pubblici (l. 28 gennaio 2016, n. 11), che all’art. 1, comma 1, lett. aaa) aveva previsto tra i principi e i criteri direttivi specifici la “razionalizzazione dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in materia di esecuzione del contratto,…” l’istituto era stato già introdotto dall’art. 207 del codice dei contratti pubblici come istituto precontenzioso di carattere facoltativo “con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle dispute di ogni natura…”.
Nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 21 marzo 2016, n. 855 sullo schema di decreto legislativo poi divenuto il d.lgs. n. 50/2016, il Consiglio di Stato aveva però sollevato più di un dubbio sulla figura, soprattutto in ragione della mancata definizione dei rapporti con gli altri rimedi precontenziosi già esistenti, e ne aveva proposto la soppressione.
Le osservazioni del Consiglio di Stato non erano state recepite dal Governo, ma l’istituto veniva soppresso dal successivo decreto correttivo (l’art. 207 del d.lgs. n. 50/2016 viene infatti abrogato dall’art. 121, comma 1, del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56).
L’istituto rinasce due anni dopo ad opera del decreto c.d. sblocca cantieri. L’art. 1, commi da 11 a 14, della l. 14 giugno 2019, n. 55, di conversione, con modificazioni, del d.l. 18 aprile 2019, n. 32, ne prevede la costituzione facoltativa su accordo delle parti, con le medesime funzioni di cui al codice dei contratti pubblici, ma in via temporanea, ossia fino alla data di entrata in vigore del regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice dei contratti pubblici, di cui all’art. 216, comma 27-octies, del codice.
Differentemente da quanto originariamente stabilito dall’art. 207, comma 6 del d lga 50/2016, il quale disponeva che “se le parti accettano la soluzione offerta dal collegio consultivo…l’accordo sottoscritto vale come transazione”, il decreto sblocca cantieri prevedeva che “L'eventuale accordo delle parti che accolga la proposta di soluzione indicata dal collegio consultivo non ha natura transattiva, salva diversa volontà delle parti stesse” (art. 1, comma 13, terzo periodo, del d.l. n. 32/2019).
Il decreto c.d. “semplificazioni” (d.l. 16 luglio 2020 n. 76, conv. in l. 11 settembre 2020, n. 120) ne ri-disciplina presupposti e funzioni, in via apparentemente soltanto temporanea e sperimentale (l’originario termine del 31 dicembre 2021 è stato prorogato fino al 30 giugno 2023)., negli articoli 5 e 6.
[ii] Sotto questo profilo, il riferimento è al recente intervento operato con il d.l. 7 luglio 2022, n. 85 (Disposizioni urgenti in materia di concessioni e infrastrutture autostradali e per l'accelerazione dei giudizi amministrativi relativi a opere o interventi finanziati con il Piano nazionale di ripresa e resilienza), il quale all’art. 3, rubricato “Accelerazione dei giudizi amministrativi in materia di PNRR”, detta le seguenti disposizioni:
“1. Al fine di consentire il rispetto dei termini previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), qualora risulti anche sulla base di quanto rappresentato dalle amministrazioni o dalle altre parti del giudizio che il ricorso ha ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR, in caso di accoglimento della istanza cautelare, il tribunale amministrativo regionale, con la medesima ordinanza, fissa la data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza, disponendo altresi' il deposito dei documenti necessari e l'acquisizione delle eventuali altre prove occorrenti. In caso di rigetto dell'istanza cautelare da parte del tribunale amministrativo regionale, ove il Consiglio di Stato riformi l'ordinanza di primo grado, la pronuncia di appello e' trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione dell'udienza di merito. In tale ipotesi, si applica il primo periodo del presente comma e il termine di trenta giorni decorre dalla data di ricevimento dell'ordinanza da parte della segreteria del tribunale amministrativo regionale, che ne da' avviso alle parti. Nel caso in cui l'udienza di merito non si svolga entro i termini previsti dal presente comma, la misura cautelare perde efficacia, anche qualora sia diretta a determinare un nuovo esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione.
2. Nella decisione cautelare e nel provvedimento di fissazione dell'udienza di merito, il giudice motiva espressamente sulla compatibilita' della misura e della data dell'udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR.
3. Le pubbliche amministrazioni sono tenute a rappresentare che il ricorso ha ad oggetto una procedura amministrativa che riguarda interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR.
4. Sono parti necessarie dei giudizi disciplinati dal presente articolo le amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera l), del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 109, per le quali si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato. Si applica l'articolo 49 del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
5. Ai procedimenti disciplinati dal presente articolo si applicano, in ogni caso, gli articoli 119, secondo comma, e 120, nono comma, del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
6. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche nei giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo.
7. All'articolo 48, comma 4, del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 109:
a) dopo le parole «di cui al comma 1» sono aggiunte le seguenti: «e nei giudizi che riguardano le procedure di progettazione, autorizzazione, approvazione e realizzazione delle opere finanziate in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR e relative attivita' di espropriazione, occupazione e di asservimento, nonche' in qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR»;
b) dopo le parole «al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.» sono aggiunte le seguenti: «In sede di pronuncia del provvedimento cautelare si tiene conto della coerenza della misura adottata con la realizzazione degli obiettivi e il rispetto dei tempi di attuazione del PNRR.».
8. Nelle ipotesi in cui, prima della data di entrata in vigore del presente decreto, la misura cautelare sia gia' stata concessa, qualora il ricorso abbia ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi opere o interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR, l'udienza per la discussione del merito e' anticipata d'ufficio entro il termine del comma 1. In tale ipotesi si applicano le ulteriori disposizioni contenute nel presente articolo”.
[iii] Cfr. Corte cost. 13 giugno 2018 n. 123: “Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le ipotesi di arbitrato previste dalla legge sono illegittime solo se hanno carattere obbligatorio, e cioè impongono alle parti il ricorso all’arbitrato, senza riconoscere il diritto di ciascuna parte di adire l’autorità giudiziaria ordinaria (sentenze n. 221 del 2005, n. 325 del 1998, n. 381 del 1997, n. 152 e n. 54 del 1996, n. 232, n. 206 e n. 49 del 1994, n. 488 del 1991, n. 127 del 1977). In particolare, con la sentenza n. 127 del 1977, che ha dato avvio al predetto orientamento, questa Corte ha affermato il principio secondo cui la “fonte” dell’arbitrato non può essere individuata in una legge ordinaria o in una volontà autoritativa, «perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, primo comma, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, primo comma”.
[iv] Ex multis v. Cass., Sez. III, 08 aprile 2020 n. 7759: “non basta richiamarsi alla natura privatistica degli strumenti negoziali adoperati per superare ogni possibile ostacolo all'utilizzabilità dell'arbitrato irrituale nei contratti della pubblica amministrazione. Certamente non v'è alcuna incompatibilità di principio tra la natura pubblica del contraente e la possibilità di un componimento negoziale delle controversie nascenti dal contratto stipulato dalla pubblica amministrazione. Ma resta il fatto che tale componimento, se derivante da un arbitrato irrituale, verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali, appunto) individuati all'interno della medesima logica negoziale, in difetto qualsiasi procedimento legalmente predeterminato e perciò senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta. Quei medesimi soggetti sarebbero destinati poi ad operare secondo modalità parimenti non predefinite e non corredate delle suindicate garanzie di pubblicità e trasparenza”.
[v] V. ante, sub note 3 e 4.
[vi] In realtà una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. V, 7 giugno 2022 n. 4650) avrebbe escluso la possibilità di rendere anche soltanto il parere in caso di risoluzione per grave inadempimento. L’affermazione, non necessaria ai fini della decisione e contenuta in un obiter, appare però fondarsi unicamente sull’assunto apodittico che << la interpretazione preferibile … induce ad escludere la fattispecie della risoluzione per grave inadempimento dell’appaltatore … malgrado l’inciso “per qualsiasi motivo”>>. Non è dato sapere quale ragione o percorso argomentativo porti a ritenere “preferibile” una interpretazione che priva di rilevanza la chiara volontà del legislatore di richiedere il parere “nel caso in cui la prosecuzione dei lavori, per qualsiasi motivo, … non possa procedere con il soggetto designato … (e)… la stazione appaltante, previo parere del collegio consultivo tecnico, …. dichiara senza indugio , in deroga alla procedura di cui all’art 108, commi 3 e 4 del d lgs 18 4 2016 n. 50, la risoluzione del contratto …” (art. 5, c. 4, d.l. 76/2020). Più che a fronte di un’interpretazione contra legem, sembrerebbe di essere in presenza di una pura e semplice opzione volitiva, che in realtà non attribuisce alcun significato, nè si sforza minimamente d’interpretare l’inciso “per qualsiasi motivo”; senza nemmeno accorgersi che la procedura di cui all’art. 5 c. 4 è dettata in deroga proprio a quella altrimenti vigente per procedere alla risoluzione del contratto per inadempimento.
Dialogo fra arte e giustizia. Cosa nostra e l’arte. L’arte e cosa nostra*
di Lia Sava
Sommario: 1. Premessa - 2. Cosa nostra e l’arte - 3. La zona di confine - 4. Il rapporto fra arte e cosa nostra.
1. Premessa
Fare dialogare arte e giustizia è impresa complessa. Il rischio di svilire concetti sacri, secondo i canoni filosofici ed estetici della tradizione classica della cultura occidentale, è elevatissimo. Il mio approccio, dunque, nell’affrontare, in chiave minimale, questa possibile interazione, sarà svolto con atteggiamento assolutamente deferente, perché di fronte ad arte e diritto occorre inchinarsi. Nessuna pretesa di completezza, dunque, ma una prospettiva conseguente al lavoro che svolgo. Il mestiere del pubblico ministero, invero, in terra di Sicilia, mi ha regalato, nel momento in cui ho cercato di rendere il servizio giustizia, differenti prospettive esistenziali. Una delle peculiari “modulazioni” del mio modo di guardare alle cose, conseguente al lavoro di magistrato che si occupa di processi di mafia, ha riguardato la mia visione dell’arte, intesa in chiave estetica. Vi chiederete ( e mi sono chiesta anche io, molte volte) cosa c’entra l’arte con i fatti di sangue, con le gravi condotte di reato che schiaffeggiano la Trinacria, con terribili proiezioni nel continente, da oltre un secolo? Non ho la pretesa di affermare con certezza che saprò darvi una puntuale risposta utile a saziare una qualche vostra curiosità ma, se avrete la pazienza di seguirmi in questo percorso semplice, che non ha nulla di colto, che non cerca la protezione di sovrastrutture concettuali complesse (ma è solo frutto dell’esperienza professionale), la mia visuale, spero, vi sarà chiara.
Se prendiamo fra le mani, con la cura che richiede, un dizionario della lingua italiana e cerchiamo il significato della parola arte troviamo differenti significati e ci rendiamo conto che la stessa etimologia del termine tende a sfuggire e, quindi, occorre scegliere. Mi piace individuare, per proseguire il mio discorso, l’espressione che meglio ne descrive l’essenza, che traggo da Treccani: “Con arte si intende l’esperienza estetica che si realizza allorché qualcosa cattura la nostra attenzione producendo in noi, in modo del tutto inspiegabile e imprevedibile, emozioni e stati d’animo molteplici”. Ne consegue che una poesia, un romanzo, un quadro, una scultura, un brano musicale costituiscono “espressioni artistiche” allorché ci trasmettono bellezza, emozioni in un istante che è fuori dal tempo o, forse, è possibile definire come “presente dilatato”, perché ci accompagnerà, da quel momento, come sottofondo esistenziale. Ebbene, intendo provare a ricostruire, attraverso l’esperienza tratta da alcuni processi di criminalità organizzata, come si atteggia, a mio parere, il rapporto fra cosa nostra, intesa come organizzazione a struttura verticistica, basata su precise regole e l’arte, secondo la descrizione di cui sopra.
Ma l’omogenizzato di una tematica che meriterebbe ben altri e più colti contributi rispetto a quello che vi proporrò, proverà ad esplorare, nella seconda parte, un percorso differente e cioè il rapporto fra arte e cosa nostra ed è proprio attraverso questo percorso inverso, frutto della posposizione dei due termini, che è possibile, secondo me, trarre qualcosa di utile a contrastare il ricatto mafioso.
In questi trent’anni la magistratura ha svolto processi che hanno inferto colpi micidiali a cosa nostra e continuerà a farlo, senza soluzione di continuità ma occorre qualcosa di più, cioè uno scatto di reni poderoso che ci conduca in una sfera etica collettiva più elevata. Per compiere questo slancio l’arte può (e deve) svolgere un ruolo centrale.
2. Cosa nostra e l’arte
La Strage dei Georgofili, la Strage di via Palestro, le bombe a San Giovanni in Laterano e nella Chiesa di San Giorgio in Velabro, l’ordigno nel giardino di Boboli a Firenze hanno costituito un ulteriore tremendo tassello dell’efferato attacco al cuore dello Stato realizzato da cosa nostra trent’anni fa. Nelle requisitorie dei processi Capaci bis e Borsellino quater, abbiamo utilizzato l’espressione “tristi grani di Rosario di morte” per descrivere una sequenza tragicamente complessa. Dopo aver trucidato uomini insostituibili, si colpiva il patrimonio artistico, il cuore vivo e più autentico della nostra storia, la vera identità del nostro paese, stratificatasi attraverso l’arte ben prima del 17 marzo 1861. Si integrò, dunque, fra le altre condotte di reato scellerate anche la “Devastazione al Patrimonio artistico”. Cosa nostra e coloro che possono aver concorso, dall’esterno, alla realizzazione dell’attacco frontale alle Istituzioni, erano, evidentemente, ben consapevoli del “male” profondo, comunque irrimediabile, che avrebbero creato quei boati, dove persero la vita uomini e donne innocenti, allorché si tentava di “frantumare” la nostra “ricchezza culturale”, la nostra immagine anche fuori dall’Italia e, forse, il nostro stesso senso di Patria. Cosa nostra non è riuscita a realizzare i suoi scellerati propositi perché la reazione del Paese è stata ferma e la magistratura, sorretta da forze dell’ordine altamente professionali, ha il merito di aver dato risposte, consacrate in sentenze passate in giudicato, a quello scempio.
C’è un’altra data, risalente nel tempo, che è funzionale allorché si intende affrontare, nella chiave minimale che vi ho prospettato, il rapporto fra cosa nostra e arte. La notte fra il 17 ed il 18 ottobre 1969 venne rubata a Palermo la “Natività” del Caravaggio: un’opera di grande valore, realizzata nel 1609, che si dissolve nel buio di una notte piovosa (così riferiscono le cronache dell’epoca). Di quel dipinto non si è saputo più nulla se non attraverso racconti (frammentari e contraddittori, per quel che mi risulta) di collaboratori di giustizia. Un dato è, comunque, certo: un furto di quel genere non può essersi realizzato a Palermo senza il benestare di cosa nostra. L’Oratorio di San Lorenzo è nel centro storico di Palermo, un luogo che emoziona per la semplicità (e, quindi, autenticità) del contesto, ed era proprio lì il Caravaggio che è andato distrutto oppure si trova chissà dove, magari lontano dall’Italia. Un dato è incontrovertibile: “una bellezza che avvicina a Dio” non è più fruibile dalla collettività da oltre cinquant’anni. Il dipinto è, comunque, “ricercato”, quasi al pari di un latitante ed ha suscitato anche l’interesse di Leonardo Sciascia che, nel 1989, poco prima di morire, ci regalò “Una storia semplice”, che sulla Natività del Caravaggio si incentra. Già, una storia semplice che, in realtà, di semplice ha ben poco. Diversi collaboratori, fra gli altri Francesco Marino Mannoia, Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza hanno riferito qualche particolare sulle possibili trame criminali connesse a quel furto. Siamo, dunque, in presenza di un cold case che ancora sollecita, come è giusto che sia, l’interesse di molti operatori del diritto ed esperti di arti figurative. Invero, lo scorso anno, nel corso di una conversazione a margine di un incontro sul tema delle “tecniche di indagine in materia di contrasto al crimine organizzato”, un investigatore, da poco trasferito a Palermo, manifestò, fra i suoi auspici professionali nello svolgimento del nuovo incarico, non solo quello di fornire un contributo di spessore alla cattura di latitanti ma anche quello, magari in concomitanza, di recuperare il “Caravaggio perduto”. Ma se fosse vero, come sostengono alcuni collaboratori di giustizia, che il dipinto è andato distrutto, “ mangiato dai porci” perché custodito in una porcilaia, la speranza di molti si frantumerebbe ed, al contrario, ci verrebbe restituita un’ennesima immagine, cruda e desolante, dell’antitesi profonda fra concetto di arte che suscita emozioni e cosa nostra che distrugge, ancora una volta miscelando, invece che colori e genio creativo, tritolo, sangue innocente e sterco di maiali. Non trovo immagine più lontana dal concetto di arte di questo pensiero. Ma la distanza siderale fra arte, intesa come “culto del bello” e cosa nostra, si desume, in via immediata e diretta anche dalle carte di alcuni processi dove è stato ricostruito l’interesse malsano per reperti archeologici, intesi come oggetti da sfruttare per trarne profitto (ad esempio, attraverso vendite all’estero, a mercanti d’arte senza scrupoli, spesso legati a sofisticate strutture criminali internazionali organizzate per la realizzazione di variegati traffici illeciti). Ancora una volta, cosa nostra appare assolutamente incapace di percepire le “vibrazioni emotive” che un vaso del 600 a.C. è in grado di trasmettere, dietro il vetro di un museo, al visitatore in cerca di bellezza, divenendo balsamo per la mente e per il cuore.
3. La zona di confine
Mi corre l’obbligo evidenziare, per cercare di rendere il senso di una esperienza professionale piuttosto estesa nella gestione di collaboratori di giustizia da cui è conseguita una qualche “percezione”, più o meno nitida, delle loro storie personali, che è possibile individuare anche una sorta di zona di confine nel rapporto fra cosa nostra ed arte. Si tratta di una piccolissima crepa, una sorta di microscopico spiraglio, che tende ad illuminare un contesto di morte e degrado. Torno, con la memoria, ad una mattina di diversi anni fa quando, con un collega, ci siamo recati a svolgere una ricognizione di beni (al fine di cercare di trarre elementi utili a distinguere la provenienza lecita da quella illecita, a riscontro di quanto era stato riferito nel verbale illustrativo della collaborazione), in una casa isolata dove aveva trascorso la latitanza un esponente di spicco di cosa nostra, divenuto collaboratore di giustizia. In quegli ambienti contraddistinti, per quello che rammento, da colori accesi alle pareti ed arredati con un gusto di fattura moderna, su un lato di un ampio salone, campeggiava un bellissimo pianoforte a coda, nero, lucidissimo, maestoso. O almeno a me parve così: un oggetto (non uno strumento) che strideva in quel contesto ma che, come fosse un sovrano, prendeva tutta la scena. Nella mia mente sorse immediato un interrogativo che condivisi con il collega: un uomo che ha commesso (e confessato) tanti omicidi, alcuni dei quali particolarmente efferati, quale rapporto può mai aver avuto con uno strumento (questa volta non uso il termine oggetto) che può evocare il divino attraverso le note? Tempo dopo, chiedemmo a quel collaboratore se qualcuno dei suoi familiari avesse studiato pianoforte. Nella mia memoria (che, dato il tempo trascorso, può essere fallace) la risposta fu senza incertezze: “No, ho acquistato un pianoforte perché mi piace il suono che emette”. Questa risposta, o questa possibile risposta che mi restituiscono gli anni trascorsi da allora, consente, almeno in nuce, la possibilità di disinfettare (in modo artigianale, per carità), il putrido rapporto che cosa nostra intesse con l’arte, per cercare, almeno in astratto, di farlo diventare qualcosa di “più vicino” ad una interazione autentica fra sensibilità e bellezza, una bellezza non esistente in natura ma evocata dalla forza creativa di un artista. E, proprio in questa direzione, ho avuto una ennesima e peculiare prova tangibile della bontà di alcuni autentici percorsi collaborativi quando, nelle pause di udienza, nel corridoio laterale di un Tribunale, adiacente una saletta attrezzata per il video collegamento, ho intravisto un collaboratore di giustizia che aveva “saltato il fosso” già da diversi anni, che, a mio ricordo, si esprimeva unicamente in dialetto. Era seduto su una piccola sedia, leggeva. Di fronte a lui gli agenti della Polizia Penitenziaria. Il mio passaggio fu rapidissimo, ma mi consentì di dare una occhiata al titolo del libro, sul quale quell’uomo era chino: “I fratelli Karamazov”. Provando una sconfinata ammirazione per Dostoevskij (la cui lettura ho sempre ritenuto operazione ermeneutica estremamente complessa, nella quale mi sono cimentata in diversi momenti della mia vita senza mai riuscire a coglierne, in maniera completa, l’essenza) sono rimasta particolarmente colpita. In una frazione di secondo, transitando casualmente attraverso il corridoio di un Tribunale, ho afferrato un’altra prospettiva della collaborazione con la giustizia che, evidentemente, oltre ad essere essenziale per sconfiggere cosa nostra, può realizzare, in qualche modo, il recupero della sfera emotiva più profonda, quella che consente di apprezzare il bello dell’arte.
4. Il rapporto fra arte e cosa nostra
Il rapporto fra arte e cosa nostra è estremamente articolato e complesso.
Mi preme sottolineare che, dopo la stagione stragista, vi è stata una copiosissima produzione saggistica di intellettuali di valore, spesso giornalisti e magistrati, che, anche insieme, hanno dato il loro contributo alla ricostruzione di quei tragici eventi, della loro genesi e delle possibili chiavi di lettura di numerosi eventi antecedenti e successivi. Ma, ovviamente, il resoconto giornalistico, l’analisi storica e sociologica, pur essendo di assoluto pregio e di notevole importanza, non rientra nel concetto di arte. Il cinema, invece (attraverso espressioni realizzate da mani non solo tecnicamente esperte ma contraddistinte, ad un tempo, da sensibilità profonda, tanto da riuscire a governare la tentazione della fredda cronaca per giungere alla rappresentazione di ciò che hanno significato le Stragi per il nostro Paese) ha prodotto lavori eccellenti. Impossibile (e non ne avrei la competenza) riportare, anche solo per sintesi, ciò che alcune pellicole ci hanno regalato in termini emozionali sulla stagione stragista. Mi limiterò, dunque, a pochissime pennellate. Ho trovato molto bella, nella rappresentazione straordinaria della storia italiana fra la fine degli anni 60 ed i primi del 2000 che Marco Tullio Giordana realizza con “La meglio gioventù”, la figura della sorella maggiore di Matteo e Nicola che, da magistrato del nord di Italia, impegnato nelle prime indagini in materia di danno ambientale, dopo le Stragi, sceglie di andare a lavorare alla Procura della Repubblica di Palermo. Si tratta di una descrizione, scevra da ogni forma di retorica, dello stato emotivo e delle conseguenti scelte esistenziali che una generazione di magistrati ha vissuto dopo il 1993, lasciando luoghi familiari per recarsi in Sicilia, cercando di dare un contributo a quella stagione giudiziaria. Avendo fatto anche io quella scelta, non posso non emozionarmi quando rivedo una scena del film dove Giovanna (interpretata da una magnifica Lidia Vitale) scende le scale del Palazzo di Giustizia di Palermo, le stesse scale che segnarono fisicamente il percorso quotidiano, (percorso ineguagliabile per professionalità e coerenza) di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo. Emotivamente coinvolgente è, a mio parere, anche la rappresentazione cinematografica sull’eroismo degli uomini delle scorte e sul percorso incidentato dei collaboratori di giustizia. A tale proposito, ritengo che Marco Bellocchio, con il “Il Traditore” ci abbia regalato la più efficace ricostruzione storica di Buscetta (attraverso un Favino straordinario, anche nell’inflessione dialettale panormita, ben miscelata con lo slang americano), l’uomo che ha sferrato un colpo vincente alla lastra di marmo scuro che copriva cosa nostra, disvelandone non solo il nome ma, soprattutto, le sue regole, fornendoci il suo codice ermeneutico, quella cassetta degli attrezzi che, ancora oggi, ci consente un contrasto efficace ai portatori di morte. Merita, altresì, menzione Pif, che, con “La mafia uccide solo d’estate”, meglio di ogni altro, secondo me, descrive una Palermo perbene ma sonnolenta che, dopo le Stragi, reagisce con un orgoglio ed una dignità degna di elogio, fornendo un contributo fondamentale, a titolo meramente esemplificativo, alla diffusione della cultura della legalità nelle scuole di ogni ordine e grado.
Anche il teatro ci ha regalato palcoscenici di enorme intensità, dove le voci di Falcone e Borsellino hanno emozionato gli spettatori ed evocato il senso etico profondo del loro sacrificio. In questa direzione ho trovato straordinariamente coinvolgente il “Canto per Francesca”, dedicato a Francesca Morvillo, scritto da Cetta Brancato, contraddistinto da elevatissime punte liriche che commuovono restituendoci intatta la figura di Francesca Morvillo, grande donna e immenso magistrato.
Altro testo straordinario è stato scritto (ed è rappresentato, da anni, in tutta Italia), dalla collega Alessandra Camassa. “Noi e loro, tributo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” è uno struggente dialogo immaginario fra i due titani, realizzato da un magistrato che li ha conosciuti e che ha saputo, secondo me, rendere in modo netto, chirurgico e senza alcuna sbavatura, il senso di un impegno totalizzante, di due uomini che vivranno per sempre nel luogo che l’autrice definisce come “La casa degli uomini eletti” che poi è il Paradiso. Al fine di rendere una vaga idea dell’enorme impatto emotivo del testo della dott.ssa Camassa (che merita di essere letto ed ascoltato integralmente, per non perdere neppure una sfumatura di quelle profondità strutturali e contenutistiche che raggiuge) vi propongo di seguito pochissimi passaggi: Giovanni (a Paolo): “Stavolta è semplice: mi manchi. Ho bisogno di un amico, che sa tutto di me. Voglio parlare: troppe cose sono accadute da quando siamo andati via. Le nostre idee, quelle che camminano sulle gambe degli altri, inciampano, Paolo, quanti ostacoli”. Ed ancora, qualche rigo dopo: Paolo (a Giovanni): “A me mancano il mare, i miei nipoti e l’odore dei fascicoli”. Giovanni (a Paolo) : “L’odore delle carte, sembra assurdo, lo sento ancora ovunque, anche qui”. Paolo (a Giovanni): “Vedo crescere i miei nipoti e mi dispiace di essere per loro soltanto un mito”. Non servono parole a commento, perché il senso di una vita, di un impegno, del sacrificio estremo non potrebbe essere detto e respirato in modo artisticamente più elevato.
Da ultimo, la musica, il momento conclusivo di questi miei smozzicati frammenti, miscuglio imperfetto di carte processuali e sfera emozionale. E questa mia conclusione è frutto di una casualità recentissima.
Invero, fino al 17 giugno scorso io (e numerosi colleghi ed amici, palermitani per nascita o per adozione) non sapevamo che anche la musica, nell’immediatezza delle Stragi, ha reagito al tritolo con un tratto distintivo originale e di pregio. Premetto che non conosco il linguaggio musicale e che ho solo strimpellato (malissimo) la chitarra, in una adolescenza lontana. Credo di possedere, però, una qualche corda (elementare, per carità) che mi consente, quando ascolto un brano, di percepire (in senso lato, ovviamente) la bellezza di ciò che danza intorno a me producendo armonia. E la sera del 17 giugno di quest’anno, al termine di un convegno dal titolo “Musica e Giustizia”, organizzato dal Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, in collaborazione con la Fondazione Vittorio Occorsio e con il Patrocinio dell’Ordine dei Giornalisti di Bari, ho ascoltato il “Requiem per le Vittime della Mafia”, per solisti, coro ed orchestra. Testo italiano di Vincenzo Consolo. Musiche di Lorenzo Ferrero, Carlo alante, Paolo Arcà, Matteo D’Amico, Giovanni Sollima, Marco Betta, Marco Tutino. In quel contesto, apprendo che l’opera era stata composta, “a più mani”, su un’idea di un giovane compositore, Marco Tutino, che fra Capaci e via D’Amelio, avvertì la necessità di far sentire, attraverso un lavoro corale ed un testo del grandissimo scrittore siciliano Vincenzo Consolo, la reazione della musica allo scempio di Capaci e via D’Amelio. Ed apprendo, sempre quel 17 giugno 2022 che quella esecuzione barese era la seconda in trent’anni. La prima ( ed unica fino ad allora), infatti, si era svolta il 27 marzo del 1993, nella Cattedrale di Palermo. Poi nulla più. La circostanza mi ha prima colpito e, poi, incuriosito e si sa che i pubblici ministeri hanno curiosità che devono, almeno tendenzialmente, soddisfare per (cercare di) far bene il loto mestiere. Una conversazione con il Maestro Marco Tutino e la lettura di alcune pagine di un suo libro “Il mestiere dell’aria che vibra” mi hanno consentito di ricostruire il tessuto connettivo di quella storia e mi permettono, oggi, di raccontare ciò che accadde, nell’immediatezza delle Stragi, nelle coscienze di chi non era né magistrato, né appartenente alle Forze dell’Ordine ma faceva parte di quella che definiamo società civile e che, inoltre, componeva musica. Riporto, perché non saprei certo dire meglio, alcuni passaggi del libro di Tutino : “Ricordo con chiarezza assoluta, dopo Capaci, il sentimento di perdita straziante, quasi fossero persone a me care, e la sensazione di pericolo, di improvvisa minaccia per un popolo intero, che quei fatti produssero nella mia percezione civile. E decisi che era mio dovere, senza esitazioni, opporre a quella sfida barbara e devastante il suo contrario, cioè la forza affermativa ed ideativa che solo l’arte e la cultura possono rappresentare. Nasce così l’idea di coinvolgere alcuni compositori italiani nel Requiem per le vittime di mafia, una grande composizione, corale in tutti i sensi, scritta a più mani ed ispirata, seppur evitando ortodossie liturgiche e religiose, alla struttura del Requiem ottocentesco, impiegata da Verdi e dunque precedente alla riforma moderna. Chiedendo ad un grande scrittore di scrivere un testo che, prendendo le mosse da quello latino, avesse la capacità di restituirne intatta ed aggiornata quella drammaticità”. Anche in questo caso, non servono molte parole, che per costume cerco di utilizzare scegliendole con cura: una composizione musicale a più mani è quanto di più lontano dalla mia idea creativa che, in questo specifico settore, mi restituisce, al contrario, l’immagine di un uomo solo davanti al suo pianoforte con lo spartito da riempire ( o da colmare di bellezza, se vi piace di più). Ma di fronte alle Stragi occorreva sovvertire le regole, attivare, una reazione collettiva quale contraltare all’orrore.
Il 27 marzo del 1993, lo leggo nel libro, la Cattedrale di Palermo si riempì di gente comune che ascoltò in religioso silenzio un’opera che per trent’anni è finita in una sorta di buco nero. Non comprendo le ragioni dell’oblio (le lascia intuire Marco Tutino nel suo libro, legate a dinamiche interne al settore musicale di quel peculiare, e ormai lontano, momento storico). Di una cosa sono oltremodo convinta, che non poter ascoltare per trent’anni quella musica, su quelle parole, è stato un peccato che non riesco a definire veniale. Invero, è questa l’arte che vogliamo, un arte che indichi, con coraggio ed originalità, una via di riscatto collettivo, perché la bellezza (e quindi l’arte) salverà il mondo. Sono altrettanto convinta che nella diuturna cosmica contesa fra Luce e buio, vincerà la Luce ed il vortice malefico di cosa nostra non ci inghiottirà mai più. Sovvengono gli ultimi tratti di verso di Vincenzo Consolo, a chiusura dell’opera: “ Vita eterna, Dio, non la morte per me, l’ora, il giorno tremendo quando cielo e terra si squarciano: Tu appari nel tribunale del mondo a leggere sentenze di fuoco. Verga a verga io tremo, io temo l’ira gelida sotto il processo, quando cielo e terra sconquassano. Ira, sciagura e rovina quel giorno, quel giorno immenso, d’immensa pena. Pace, pace, o Signore, riposo, terso cielo per loro, luminoso” .
Per questo, dopo trent’anni, l’Anm di Palermo, a chiusura del trentennale dalle Stragi, farà memoria collettiva dei nostri morti con la rappresentazione del Requiem per le Vittime di mafia al Teatro Massimo di Palermo. E si farà ammenda dell’oblio perché non si dimentichi. Non si dimentichi mai.
*Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata ad Agrigento lo scorso 8 luglio dalla Giunta Esecutiva dell'ANM di Palermo e dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte d'Appello di Palermo in collaborazione con il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Agrigento.
Il Procuratore della Repubblica, non capo, ma dirigente di uomini
Intervista di Giuseppe Amara ad Antonio Patrono
Più dialogo che gerarchia, condivisione delle informazioni e delle decisioni, cultura delle garanzie, comunanza nell’attività di udienza. La ricetta di Antonio Patrono, Procuratore alla Spezia, per una buona dirigenza requirente, nell’intervista di Giuseppe Amara.
1. Come interpreta, nel suo ruolo di Procuratore della Repubblica, il significato degli artt. 1 e 2 d.lgs. 106/06 che espressamente le attribuiscono la titolarità dell’azione penale, nel rapporto con i magistrati del suo ufficio chiamati all’esercizio delle funzioni giurisdizionali secondo l’autonomia costituzionalmente riconosciuta agli artt. 104-107 Cost.?
Ritengo che, nella difficoltà obiettiva di trovare in astratto una soluzione soddisfacente, le soluzioni adottate dal C.S.M. nella circolare sull’organizzazione delle procure, nelle varie versioni successivamente modificate, siano corrette ed opportune nella parte in cui, a tutela dell’autonomia del sostituto, stabiliscono per il procuratore l’obbligo di interlocuzione e, in caso di dissenso permanente, l’obbligo di motivazione in caso di eventuale revoca dell’assegnazione. Nella mia esperienza di dirigente non mi sono mai trovato in una situazione simile, poiché l’interlocuzione con i sostituti ha sempre portato a decisioni condivise. Qualora il dissenso dovesse permanere, penso che revocherei l’assegnazione soltanto se ravvisassi un palese errore di diritto o, in fatto, una evidente situazione di ingiustizia, mentre in caso di semplice opinabile divergenza di opinioni credo sia giusto che prevalga quella del sostituto che ha la responsabilità della conduzione delle indagini e del sostegno dell’accusa dinanzi al giudice.
2. Nei progetti organizzativi assumono sempre maggiore incidenza disposizioni che ampliano il controllo del Procuratore sull’operato dei magistrati (ad es. visti ulteriori a quelli ex lege, richieste di informazioni sull’adozione di specifiche attività di indagine e sulle scelte definitorie). Quale significato attribuisce a tali previsioni? È una prerogativa a tutela dell’autonomia del singolo magistrato o un limite alle sue prerogative?
Non parlerei di limite alle prerogative del sostituto in relazione a previsioni che richiedono soltanto una interlocuzione con il procuratore, che anzi, a mio avviso, è opportuno che ci sia perché può consentire, mediante il reciproco scambio di idee, di comprendere meglio la situazione e adottare le migliori strategie. Credo che sia frutto di un pregiudizio negativo e sbagliato ritenere che ogni intervento del dirigente, addirittura in termini di mera informazione e consultazione, sia finalizzato e propedeutico ad ingiuste prevaricazioni. Ovviamente tutto poi dipende dalle persone, secondo me il buon dirigente è quello che riesce a conquistare la fiducia dei sostituti facendo loro comprendere che la sua presenza e il suo interessamento è soltanto rivolto ad aiutarli a lavorare meglio, prevenendo errori e favorendo le scelte migliori, e non certo a prevaricarli e a comprimere la loro sfera di autonomia. La soddisfazione maggiore, per un procuratore, si ha quando i sostituti si rivolgono a lui spontaneamente per uno scambio di idee sul loro lavoro, perché ciò dimostra la fiducia e la stima che è riuscito a guadagnarsi.
3. Iscrizione delle notizie di reato e criteri di assegnazione. Come interpreta la previsione dell’art. 1, co. 6, d.lgs. 106/06 con riferimento alle assegnazioni in specifiche materie (ad es. reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine) ovvero alle ipotesi di auto-assegnazione al Procuratore dei procedimenti? Ancora, qual è la sua posizione rispetto alla prima iscrizione delle notizie di reato: precede le assegnazioni o è demandata ai sostituti assegnatari?
La norma prevede gruppi di lavoro per specifiche materie per le quali è preferibile avere una particolare preparazione tecnica o esperienza professionale. In realtà i gruppi di materie di questo genere sono non più di quattro o cinque, sostanzialmente uguali per tutte le procure a meno di situazioni particolari, e infatti si ripetono più o meno in tutti i progetti organizzativi. Non mi sembra sia questo il caso, ad esempio, dei reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine, che invece possono costituire casi di particolare delicatezza se involgano situazioni aventi ad oggetto rapporti tra istituzioni che normalmente collaborano tra loro. Questo potrebbe essere un motivo, invece, di autoassegnazione o, meglio ancora, di coassegnazione del procedimento al procuratore, insieme con altre situazioni che abbiano sempre come comune denominatore la possibilità che l’ufficio sia esposto a pressioni ed attenzioni di vario genere, da quelle giornalistiche ad altre comunque particolarmente insidiose, che è preferibile siano fronteggiate direttamente dal responsabile dell’ufficio. L’autoassegnazione, in sostanza, a mio giudizio è particolarmente opportuna in tutti i casi in cui, per usare un’espressione gergale, l’ufficio deve “metterci la faccia”. Per quanto riguarda invece l’iscrizione delle notizie di reato, ritengo che il compito di farla, individuando in tutti i suoi dettagli (aggravanti ecc..) la corretta qualificazione giuridica, sia meglio affidarlo al sostituto che svolgerà le indagini, dopo un primo vaglio da parte di chi assegna il procedimento (il procuratore, l’aggiunto o un delegato) finalizzato, oltre che a prendere conoscenza di ciò che arriva in ufficio, anche a stabilire se la notizia di reato rientri in una delle materia specialistiche o meno e a determinare quindi chi sia il magistrato di turno a cui assegnarla.
4. Le esperienze dei vari distretti rilasciano situazioni di scopertura fra i magistrati e nell’organico del personale amministrativo, con evidenti riflessi sull’esercizio dell’attività giurisdizionale. Nel suo ruolo di dirigente, quali criteri applica nell’allocazione delle risorse disponibili, ed in particolare si tende ad un potenziamento dell’assistenza diretta al lavoro dei magistrati, ovvero si privilegiano i servizi all’utenza?
D’accordo con il dirigente amministrativo è necessario trovare l’equilibrio migliore fra le diverse esigenze. I servizi all’utenza di una procura, diversi da ciò che riguarda l’attività giudiziaria, sono per la verità abbastanza pochi, principalmente il rilascio dei certificati dal casellario giudiziale e la legalizzazione delle firme quando previsto, e devono essere ovviamente svolti con tempestività. Il resto dei servizi di segreteria riguarda più o meno direttamente l’attività giudiziaria e la loro tempistica è normalmente disciplinata dalla legge. Ogni ufficio, in base alle dimensioni e al personale disponibile, organizza le attività di segreteria nel modo più opportuno, a seconda dei casi con segreterie centralizzate o individuali. In linea di massima per l’assistenza ai magistrati sono preferibili le segreterie individuali, che sono maggiormente responsabilizzate e consentono l’immediata riferibilità delle incombenze a una ben precisa persona, mentre le segreterie centralizzate sono preferibili per attività che consentano lo svolgimento in termine di maggiore ripetitività. Quel che è certo è che la carenza di personale amministrativo è il primo e più grave problema che affligge le procure, come credo anche gli altri uffici giudiziari.
5. Venendo a temi di stretta attualità, la Consulta ha ammesso il quesito referendario sulla separazione delle carriere che, sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti, impone la scelta iniziale, limitando la possibilità di cambio di funzione. Cosa ne pensa e quali secondo lei possono esserne i riflessi sul ruolo giurisdizionale del magistrato del pubblico ministero all'interno del nostro sistema costituzionale?
Certamente gravi. Non è una frase fatta quella della “cultura della giurisdizione”, che è fondamentale che sia comune a giudici e pubblici ministeri, che sono gli unici protagonisti del processo accomunati dalla stessa finalità, ovverosia la ricerca e l’affermazione della verità. Verità nel mondo della giustizia penale vuol dire due cose, ovverosia affermare la responsabilità dei colpevoli ed evitare che sia affermata quella degli innocenti. Per questa ragione io accomuno al concetto di “cultura della giurisdizione” quello di “cultura delle garanzie”, due facce della stessa medaglia che coesistono nel ruolo e nella mentalità dei giudici e dei pubblici ministeri. Io diffiderei moltissimo di un pubblico ministero che non ragioni come un giudice, nel senso che non faccia sempre e solo richieste che, se fosse giudice, non sarebbe convinto di dovere accogliere. Tutto ciò che allontana il pubblico ministero dal giudice, anche sul piano ordinamentale, lo allontana dalla cultura della giurisdizione e dalla cultura delle garanzie, inscindibili tra loro nell’ottica della ricerca della verità e quindi della giustizia, ed è assolutamente negativo.
6. Rapporti con l'informazione. Cosa ne pensa del nuovo quadro normativo (art. 5 d.lgs. 106/06 come modificato da d.lgs. 188/21 e d.l. A.C. 2681 sull’ampliamento delle ipotesi di illeciti disciplinari) e come ritiene che debba essere esercitata la discrezionalità del Procuratore nel comunicare all'esterno, con particolare riferimento alla nozione di rilevanza pubblica?
Le previsioni introdotte con la modifica dell’art. 5 del d.lgs. n. 106/06 erano in realtà già applicate nei loro contenuti sostanziali nei contatti con la stampa perché rispondono ai normali criteri di buon senso e di ragionevolezza. E’ infatti ovvio che le notizie che vanno sulla stampa sono solo quelle di pubblico interesse e che gli indagati e gli imputati sono cosa ben diversa dai condannati, e penso che nessun magistrato si sia mai sognato di dichiarare qualcosa di diverso. Purtroppo, come spesso accade, la distorsione verificatasi in pochi casi, per colpa di chissà chi, ha indotto il legislatore a dettare regole stringenti che, dovendo però valere sempre e per tutti, hanno l’effetto di appesantire il lavoro e di imporre incombenze che sarebbero normalmente inutili. Per quanto riguarda la possibile introduzione di un nuovo illecito disciplinare determinato dalla violazione delle prescrizioni del nuovo testo dell’art. 5 sui rapporti con la stampa, anche in questo caso non se ne sente la necessità poiché già esistono illeciti disciplinari in cui tali comportamenti potrebbero rientrare, in particolare l’art. 2 lett. d) e g) del d. lgs. n. 109/06. In ogni caso non penso che una violazione disciplinare, la cui descrizione deve essere chiara e rispondente ai criteri di formulazione che la rendano compatibile con il principio di tassatività della fattispecie, possa limitarsi ad un richiamo a concetti così generici come quelli contenuti nell’art. 5, quali la necessità per la prosecuzione delle indagini o le specifiche ragioni di interesse pubblico, che è difficile definire in via generale e al di fuori di una valutazione caso per caso se non esprimendo concetti generici e, quindi, poco significativi.
7. Lei, oltre ad essere oggi Procuratore, è stato anche componente del Consiglio Superiore della Magistratura nella consiliatura 2006-2010. Tralasciando i profili squisitamente ordinamentali e connotati da maggiore complessità tecnica, sulla scorta di detta esperienza, quali sono, secondo Lei, le caratteristiche che un Procuratore della Repubblica deve avere per poter svolgere adeguatamente un così gravoso compito?
Ne deve avere parecchie. Certamente deve avere le capacità organizzative necessarie per distribuire correttamente il lavoro fra tutti e individuare le modalità migliori per svolgerlo, con riguardo specialmente a tutte le incombenze ordinarie e ripetitive. Oggi si punta molto sulle capacità organizzative dei dirigenti, come è giusto che sia, anche se bisogna osservare che l’attività giudiziaria, compresa quella dei pubblici ministeri, è disciplinata comunque in larghissima misura dalle norme di procedura e dalle circolari del C.S.M., queste ultime sempre più dettagliate circa i moduli organizzativi da adottare e che lasciano quindi sempre meno spazio alla “fantasia” del dirigente. Anche per l’uso dell’informatica, ormai fondamentale, gli uffici si attengono agli applicativi e alle procedure ministeriali, e al dirigente spetta soprattutto il compito di verificarne il buon uso da parte degli appositi addetti. A mio giudizio, in ogni caso, la dote più auspicabile in un procuratore è quella di essere un buon “dirigente di uomini”, e per far questo occorre innanzitutto dimostrare ai colleghi, oltre ovviamente al rispetto per ognuno di loro, la più ampia disponibilità ad assisterli e aiutarli, che è il modo migliore per ottenere da tutti il massimo impegno. La stima di cui deve godere all’interno dell’ufficio è fondamentale per un procuratore, al fine di farsi apprezzare principalmente come collega. Io, ad esempio, arrivato nell’ufficio che ero chiamato a dirigere ho fatto in modo di curare personalmente indagini e andare in udienza, specie in coassegnazione con qualche collega, per dimostrare ai sostituti, che non mi conoscevano, che sapevo fare il loro stesso lavoro e potevo quindi essere un valido interlocutore per consigli e scambio di idee. Altra cosa estremamente importante è mantenere una assoluta equidistanza fra tutti, non dare mai l’impressione di avere “figli e figliastri” nell’ufficio. I colleghi sono abitualmente generosi e non si tirano mai indietro, ma ciò che non tollerano è che qualcuno sia favorito rispetto agli altri. Lo stesso atteggiamento è necessario mantenere nei confronti del personale amministrativo, e ciò è forse anche più difficile per la minore conoscenza personale che si ha in questo caso sia delle persone che della loro attività. Fondamentale, per questo, è creare sintonia con il dirigente amministrativo, il cui ruolo deve essere “intelligentemente” valorizzato al fine di ottenerne la migliore collaborazione. Se si è capaci di fare tutto ciò si è, a mio giudizio, un buon procuratore, e la cartina di tornasole è quella di verificare il livello di armonia che contraddistingue l’ufficio. Se, nonostante le difficoltà e le carenze di ogni genere in cui operiamo, in ufficio si vive un’atmosfera serena e collaborativa, allora vuol dire che chi l’ha diretto ha svolto un buon lavoro.
A trent’anni dalle stragi: ricordi e riflessioni dell’avvocatura agrigentina*
di Vincenza Gaziano
A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, si celebra la giornata delle legalità ad Agrigento ove il contrasto tra le meraviglie paesaggistiche, naturali, artistiche e le ferite inferte dai delitti mafiosi si mostra in modo dirompente. Agrigento e la Valle dei Templi, Palma di Montechiaro la città del Gattopardo, Favara e la maestosità della Chiesa Madre, Racalmuto che diede i natali a Leonardo Sciascia, le città del litorale, Porto Empedocle con le sue lunghe spiagge dorate, Realmonte e la Scala dei Turchi, Montallegro e la riserva naturale di Torre Salsa fino a giungere a Capo Bianco ad Eraclea Minoa, territorio di straordinaria bellezza di grande interesse artistico e culturale, culla di maestri della letteratura, dilaniato per oltre un ventennio da una cruenta guerra di mafia.
Oggi, in un dialogo tra Letteratura Arte e Giustizia si ripercorrono alcune tappe degli anni delle stragi nell’agrigentino, che hanno segnato passaggi importanti anche della giurisdizione, il primo Maxi processo alla cupola agrigentina c.d. “Santa Barbara” era il 1986, il processo relativo alla prima strage di Porto Empedocle 1988-89.
In vigenza del codice Rocco, la istruttoria sommaria di entrambi i processi venne curata tra gli altri da Rosario Livatino, che sarà trucidato di lì a poco nel settembre del 1990, oggi proclamato beato, il suo esempio, la sua testimonianza rivelano il senso più autentico del principio di legalità.
Non urlato, non proclamato, non sbandierato ma perseguito ogni giorno ordinariamente e concretamente nella propria attività, incarnazione dello straordinario nell’ordinario.
1992 anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, la provincia agrigentina nel segno dell’antagonismo tra “cosa nostra” e “stidda” sarà imperversata da una feroce guerra e da un susseguirsi di omicidi.
Il 1992 sarà ricordato tra l’altro perché si celebra dinanzi la Corte di Assise il processo 01/92, nel quale per la prima volta in aula alla presenza di tutti gli imputati si procederà all’audizione di un collaboratore di giustizia appartenente alla stidda.
Sebbene in astratto e per ovvie ragioni, il clima in aula poteva divenire incandescente, la serietà, l’indipendenza, l’onestà intellettuale e professionale di avvocati e magistrati consentirono a fronte di una poderosa istruttoria di giungere in tempi ragionevoli alla sentenza.
La collaborazione tra l’avvocatura e la magistratura, originata dalla comune cultura della giurisdizione, che aveva caratterizzato quell’Assise si rivelò determinate anche nel processo c.d “Akragras”, la cui sentenza è tra le pietre miliari della giurisprudenza in tema di associazione mafiosa e di fatti omicidiari ad essa legati nella provincia agrigentina, quest’ultimo processo nasce peraltro dalle rivelazione del primo collaboratore di Cosa Nostra.
In quegli anni così difficili e aspri, l’avvocatura agrigentina ha dato prova di avere consapevolezza del ruolo dell’avvocato, e del contributo, in ossequio del principio di legalità, nell’accertamento della verità processuale.
La figura dell’avvocato vive a torto, nell’immaginario collettivo, una sostanziale ambiguità, derivante dal fatto che il difensore è posto al centro di valori e interessi che possono, talvolta anche apertamente, confliggere e che lo costringono continuamente a fare delle scelte.
Da un lato, infatti, l’avvocato coopera alla realizzazione della giustizia, concorrendo con la propria attività difensiva a determinare la decisione del giudice, il quale pur tendendo a ricostruire la verità processuale, aspira sempre ad avvicinarsi il più possibile alla verità sostanziale; dall’altro, svolge la propria funzione per la tutela e nell’interesse del cliente, il quale non vuole una sentenza giusta ma una sentenza favorevole.
Nell’ordinamento forense attuale, si parla in proposito di “doppia fedeltà”, verso la parte assistita e verso l’ordinamento.
Nel 1970, la Corte Costituzionale nella pronuncia nella quale ammetteva finalmente l’avvocato ad assistere all’interrogatorio dell’imputato diede atto che tale esclusione era dovuta alla “piena sfiducia nell’opera del difensore”, al timore cioè che l’avvocato potesse influenzare le dichiarazioni dell’imputato, intralciando la ricerca della verità.
Tale timore, però, si poneva “in netto contrasto con il precetto costituzionale, che presuppone chiaramente che il diritto di difesa, lungi dal contrastare, si armonizza perfettamente con i fini di giustizia ai quali il processo è rivolto”.
L’affermazione dei valori costituzionali ha reso più evidente il “dramma” del difensore che deve contemperare i contrastanti interessi in gioco nel processo, agendo nell’interesse del cliente, da un lato, e contribuendo alla realizzazione della giustizia, dall’altro.
Si tratta di due modelli inconciliabili?
Si sintetizzano nel dovere di indipendenza, tanto rispetto al giudice, quanto rispetto al cliente, si armonizzano nel dovere di indipendenza da ogni potere.
A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio la cultura della giurisdizione che accomuna avvocatura e magistratura eleva il principio di legalità a faro dell’attività di ciascuno e non a prerogativa di alcuni, affinché la straordinaria bellezza di Agrigento, squarciata per lungo tempo, possa essere il volano del cambiamento.
*Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata ad Agrigento lo scorso 8 luglio dalla Giunta Esecutiva dell'ANM di Palermo e dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte d'Appello di Palermo in collaborazione con il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Agrigento.
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