ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Le diverse stagioni del travagliato percorso e il conflitto tra l’esigenza di conservazione del divieto e la tutela del nato da maternità surrogata - 2. La conservazione del divieto: una costante - 3. La ricerca di uno strumento di tutela per il nato: trascrizione automatica o adozione? - 4. Il problema è parzialmente risolto dalla Corte costituzionale con la decisione n. 79 del 2022 - 5. Riflessioni conclusive.
1. Le diverse stagioni del travagliato percorso e il conflitto tra l’esigenza di conservazione del divieto e la tutela del nato da maternità surrogata
L'ordinanza della I sezione civile della Corte di Cassazione n. 1842 del 2022 riapre i termini del dibattito sul nato da maternità surrogata praticata all'estero e costringe l'interprete a considerazioni che toccano inevitabilmente l'equilibrio del sistema e la coerenza complessiva delle decisioni delle Corti in quello che, senza alcun indugio, può essere definito come il travaglio della genitorialità derivante da maternità surrogata. Di travaglio si tratta in quanto il rilevante problema di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse ha visto duettare la Corte di Cassazione, la Corte costituzionale, che ha sollecitato più volte l'intervento del legislatore, e le corti sovranazionali, alla ricerca di una soluzione ragionevole che possa coniugare interessi palesemente contrapposti e imputabili a soggetti diversi: l'interesse del minore alla identità filiale, l'interesse della donna alla propria dignità, l'interesse della donna a non rinunciare allo stato di madre, l'interesse dello Stato a non incentivare il ricorso a pratiche vietate e lesive della dignità della donna e dell'istituto dell'adozione. Sullo sfondo rimane l'interesse del genitore intenzionale a vedersi riconosciuta una genitorialità progettata con il partner, il genitore biologico. Tale interesse rimane tuttavia solo sullo sfondo con una sorta di ipocrisia intellettuale che addossa solo al minore e al suo interesse il governo di una problematica molto complessa che vede come attori principalmente gli adulti e il loro desiderio di genitorialità. Il minore sconta questa scelta degli adulti ed è doveroso che l'ordinamento risolva o tenti di risolvere il problema di chi devono essere considerati i suoi genitori.
Può essere interessante descrivere sia pure sinteticamente le tappe di questo percorso travagliato e complesso che ci ha portato sino all'ordinanza che qui si commenta che rinvia nuovamente alle Sezioni unite il problema. Tale percorso, nelle sue varie stagioni, è stato caratterizzato dal conflitto tra due interessi: l'esigenza di tener fermo il divieto della maternità surrogata e l'esigenza di riconoscere la genitorialità ai figli nati da tale pratica.
In una stagione ormai del tutto superata, il dibattito sulla genitorialità derivante dalla maternità surrogata vedeva contrapporsi tesi che ritenevano prevalente la madre uterina e tesi che, al contrario, ritenevano che dovesse prevalere la madre committente. Si trattava di un dibattito che atteneva in particolare alla maternità. Nelle stagioni successive, compresa quella che stiamo vivendo, il problema di chi debba essere la madre è stato del tutto accantonato ed è stato sostituito da quello relativo al riconoscimento del genitore intenzionale, che è il partner del genitore che ha dato il proprio patrimonio genetico, genitore che, come emerge dalla qualifica, lo è per l'intenzione ma non per il sangue. La madre uterina, che è colei della cui dignità si tratta, è stata del tutto dimenticata e tale dimenticanza, a mio parere, accentua i profili della mercificazione di questa pratica. Inoltre il dibattito sulla genitorialità del nato da maternità surrogata è fuoriuscito dal perimetro dell'ordinamento interno e si è proiettato sul problema del riconoscimento in Italia di genitorialità acquisite all'estero in Paesi in cui la maternità surrogata è pratica ritenuta lecita. Questo cambiamento di paradigma ha inevitabilmente spostato l'ambito del dibattito al conflitto tra ordine pubblico interno e internazionale e all'esigenza di raggiungere un equilibrio con altri principi, tra i quali primeggia il best interest of the child, punte di diamante dei confliggenti interessi.
2. La conservazione del divieto: una costante
Per quanto concerne la rilevata esigenza di mantenere fermo il divieto della maternità surrogata, può dirsi che questa è stata una costante di questo travagliato percorso, pur con alcune recenti varianti. La nostra Corte costituzionale, anche quando è intervenuta per rimuovere il divieto della fecondazione eterologa, ha mantenuto il divieto, considerato in più di una decisione, pratica lesiva della dignità della donna e dell'istituto dell'adozione. Anche la Corte di Cassazione ha più volte ribadito il profilo di lesività di questa pratica. Dicevo che questa costante è stata interrotta da qualche variante, che tuttavia non ha la forza di abbattere o relativizzare la portata del divieto, che rimane fermo, anche nel contesto di altre legislazioni europee, come la Francia e la Spagna, che pure di recente hanno introdotto nuove leggi in materia. Una di queste varianti è contenuta nell'ordinanza che qui si commenta, là dove si afferma l'esclusione del profilo della lesività della dignità della donna “solo se sia il frutto di una sua scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e se tale scelta sia revocabile sino alla nascita del bambino”. L'esaltazione del profilo dell'autodeterminazione, concepita qui come scriminante della lesività, viene argomentata anche attraverso il paragone con il parto anonimo. Si legge infatti in questa ordinanza che “è da considerare che il nostro ordinamento consente alla donna al momento del parto di dichiarare la propria volontà di rimanere anonima e di non assumere alcuna responsabilità genitoriale escludendo così l'instaurazione del rapporto di filiazione”. È facile e troppo banale replicare che l'autodeterminazione non è tale da eliminare il profilo di lesività della dignità. Tutto il dibattito sul valore primario della dignità umana, considerata quale diritto dei diritti, importa infatti un procedimento complesso che prenda le distanze dalla negoziabilità di questo valore attraverso l'esaltazione del principio di autodeterminazione, come è evidente nel noto caso del lancio dei nani. Inoltre, e con specifico riferimento alla natura non onerosa che renderebbe lecita tale pratica, deve ritenersi che la lesione della dignità non dipende dal carattere oneroso o gratuito del contratto, ma dalla rinuncia allo status di madre. Quanto poi al richiamo al parto anonimo, ritenuto istituto che confermerebbe il valore dell'autodeterminazione, deve rilevarsi che si tratta di due istituti non comparabili, perché la scelta della madre nel parto anonimo trova ragione nella esigenza di evitare l'interruzione della gravidanza, mentre la scelta libera e consapevole della donna nella maternità surrogata implica una rinuncia al suo stato di madre, ed è questo il profilo della lesività. Considerazioni analoghe devono farsi per la lesione della dignità dell'istituto dell'adozione. Confesso che non ho mai condiviso questo profilo di lesività, ritenendo che se mai la lesione della dignità attiene più propriamente al soggetto nato da maternità surrogata, considerato come merce di scambio. Tuttavia questo riferimento è costante in giurisprudenza e anche in questo caso appaiono irrilevanti i tentativi di limitarne la portata. Il contrasto della maternità surrogata con l'istituto dell'adozione, se di contrasto vuole parlarsi, è infatti ontologico, in quanto è insito in una pratica che si pone in alternativa all'adozione del minore già nato ma abbandonato. In questo senso non sembra che possano accogliersi le riflessioni che si leggono nell'ordinanza che si commenta che limitano il profilo di lesività alle ipotesi estreme di frode alle leggi sull'adozione. Del pari non è condivisibile ciò che è stato affermato nell'ordinanza che si commenta, ovvero che “è da ritenere non riconoscibile una sentenza o un atto di nascita che accerti la filiazione in relazione a una surrogazione di maternità consentita dalla legge del paese in cui è avvenuta anche se i genitori intenzionali non hanno apportato alcun contributo genetico alla procreazione”. Il profilo di lesività della pratica di maternità surrogata rispetto all'istituto dell'adozione non è infatti condizionata dall'apporto o meno del contributo genetico alla procreazione. Piuttosto, esattamente come avviene nel caso dell'adozione, la mancanza del sangue dovrebbe essere sostituita da un progetto genitoriale e affettivo che sostituisca alla regola di sangue, quella familiare-progettuale.
3. La ricerca di uno strumento di tutela per il nato: trascrizione automatica o adozione?
Il travagliato percorso che stiamo cercando di descrivere, oltre ad essere caratterizzato dal mantenimento costante del divieto di maternità surrogata, si è caratterizzato per la forte esigenza di dare una tutela ai bambini nati da maternità surrogate fatte all'estero. Ciò ha posto un problema di circolazione di status nei vari paesi, in quanto è apparsa inevitabile la riflessione sulla necessità di assicurare il mantenimento di uno stato filiale acquisito all'estero. Nel contempo, la riflessione contigua sulla necessità di non incentivare il ricorso a pratiche vietate e lesive di valori primari ha complicato i termini del dibattito. Nelle varie stagioni che si sono succedute, il dibattito è stato caratterizzato dall'alternativa tra due soluzioni. La prima soluzione è quella della trascrizione della genitorialità acquisita all'estero o, ove vi sia stata una sentenza, la delibazione della sentenza straniera. La seconda soluzione è la ricerca di strumenti del diritto interno che possano assicurare la genitorialità al genitore di intenzione e completare così il progetto di genitorialità iniziato con il genitore biologico. La prima soluzione, ovvero quella della trascrizione di provvedimenti stranieri o di delibazione di sentenze straniere, importa, in conformità della disciplina di diritto internazionale privato, un problema di conformità di tali atti stranieri al principio dell'ordine pubblico. La seconda soluzione, pur sottraendosi a questo giudizio, impone la ricerca di strumenti che, secondo l'indicazione dell'europa, siano adeguati e improntati al principio di celerità e di effettività. Il travagliato percorso che stiamo descrivendo vede al riguardo l'alternarsi di queste soluzioni, secondo un percorso incostante e segnato da grande complessità. Nel 2019 le sezioni unite della Corte di Cassazione (n. 12139), conformandosi all'orientamento delle Corti europee che non ritengono obbligatoria la scelta della trascrizione automatica, ha affermato che tale soluzione è contraria all'ordine pubblico, stante il divieto della maternità surrogata. La Corte ha indicato l'adozione in casi particolari quale soluzione alternativa del diritto interno per risolvere il problema del riconoscimento della genitorialità di intenzione. Nel 2021 (n. 33), la Corte costituzionale ha riaffrontato il problema della genitorialità di intenzione con delle indicazioni preziose per l'interprete che non possono essere dimenticate. Innanzitutto la Corte ha ribadito che la pratica della maternità surrogata è lesiva della dignità della donna. Quanto al problema della tutela del nato da maternità surrogata, il riconoscimento della genitorialità di intenzione viene condizionato a presupposti ben precisi che sono: 1) l'attualità e la concretezza del progetto genitoriale; 2) il rilievo concreto e costante della cura del minore che denoti l'esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, anche se in via di fatto. Significativo in questo senso è un passaggio della decisione della Corte: “Laddove il minore viva e cresca nell'ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone che non solo abbiano condiviso e attuato il progetto del concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata”. Queste parole della Corte servono a circoscrivere i limiti dell'ammissibilità del riconoscimento della genitorialità di intenzione alla sola ipotesi di progetto genitoriale attuale e al riscontro di un rapporto di cura e di affetto che deve necessariamente essere valutato in concreto e mai in astratto. Ed è proprio questa valutazione che riempie di contenuto l'interesse del minore al riconoscimento di tale genitorialità che, diversamente, si tradurrebbe in una scatola vuota. Se si accoglie questa prospettiva della Corte, deve ritenersi che la soluzione della trascrizione automatica del provvedimento straniero non realizza mai questi requisiti, in quanto conduce inevitabilmente ad una valutazione astratta e generalizzata. La presenza di questi requisiti, come emergerà più chiaramente nel prosieguo di queste riflessioni, consente inoltre di paralizzare le critiche allo strumento dell'adozione in casi particolari, in particolare all'obiezione derivante dal necessario assenso del genitore biologico ex art. 46 l. adozione. Ma a questo problema arriveremo tra un po'. Occorre adesso continuare a raccontare le tappe di questo travagliato percorso. La Corte costituzionale, sempre nella citata decisione n. 33 del 2021, rileva tuttavia l'inadeguatezza dello strumento dell'adozione in casi particolari e sollecita il legislatore ad intervenire. In particolare la Corte sottolinea la mancanza di parentela dell'istituto dell'adozione in casi particolari e il problema del necessario assenso del genitore biologico ai sensi dell'art. 46 della legge sull'adozione che “potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce così per essere privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall'inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita”. E siamo arrivati ai giorni nostri con l'ordinanza che qui si commenta che solleva nuovamente il giudizio delle sezioni unite, avendo riscontrato, a seguito della decisione della corte costituzionale, un vuoto legislativo e la necessità di superare il diritto vivente così come delineato nella decisione delle Sezioni unite del 2019.
4. Il problema è parzialmente risolto dalla Corte costituzionale con la decisione n. 79 del 2022
Un passaggio ulteriore di questo percorso è tuttavia segnato dalla decisione della Corte costituzionale n. 79 del 2022, che interviene dopo l'ordinanza di rinvio alle sezioni unite. Con questa decisione la Corte costituzionale rimuove parzialmente l'inadeguatezza dell'adozione in casi particolari, almeno per la parte relativa alla mancanza della parentela. Questa decisione, nell'affermare un allineamento dei due modelli di adozione, azzera in parte i termini del dibattito. Quanto all'altro profilo di inadeguatezza dell'adozione in casi particolari (necessità dell'assenso del genitore biologico ai sensi dell'art. 46 l. adoz.), deve rilevarsi che il problema rimane ma può essere facilmente superato in via interpretativa. Occorre al riguardo preliminarmente operare una distinzione tra l'assenso del genitore biologico nel caso che qui si discute e l'assenso del genitore biologico nelle altre ipotesi di adozione in casi particolari. Nell'ipotesi del nato da maternità surrogata, il genitore biologico è il genitore di sangue che ha condiviso con il genitore di intenzione il progetto genitoriale. Un ipotetico dissenso all'adozione dovrebbe necessariamente passare o per la negazione in radice del progetto genitoriale o per la negazione del rapporto costante e di cura del minore che rappresenta il requisito per richiedere l'adozione in casi particolari, anche nell'ipotesi in cui vi sia sta separazione. In parole povere il genitore biologico che nega l'assenso all'adozione del partner potrebbe farlo solo nell'ipotesi in cui quest'ultimo non abbia intrattenuto nessun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione ma abbia poi abbandonato il partner e il minore. La valutazione di questi requisiti passa necessariamente attraverso una valutazione del giudice, perché è una valutazione che interessa il migliore interesse del minore. Nelle altre ipotesi di adozione in casi particolari, invece, come per l'ipotesi prevista dalla lett. b), il dissenso del genitore biologico o di sangue è un dissenso a che altri (il coniuge della madre del proprio figlio) possa esercitare la responsabilità genitoriale. Le due situazioni non sono comparabili, perché mentre nel primo caso si tratta semplicemente di valutare in concreto un rapporto di cura e di affettività che riguarda solo e soltanto il minore, nel secondo caso si tratta di giudicare della concorrenza di due genitorialità. Fatte queste necessarie premesse, deve dirsi che in generale il procedimento di adozione in casi particolari, anche nelle altre fattispecie diverse da quella del nato da maternità surrogata, e la ratio dell'art. 46 della legge sulle adozioni non è quella di subordinare l'adozione in casi particolari all'arbitrario assenso del genitore biologico, ma di subordinarla alla realizzazione del migliore interesse del minore. Il secondo comma dell'art. 46, in combinato disposto con l'art. 57, che impone al giudice la verifica della realizzazione del preminente interesse del minore, conduce a questa interpretazione funzionale, che è condivisa anche da parte della giurisprudenza.
5. Riflessioni conclusive
Descritto questo travagliato percorso, è possibile tentare di fare delle riflessioni conclusive. Il riconoscimento della genitorialità di intenzione e il superiore interesse del minore ad ottenerlo non possono essere affidati ad uno strumento di carattere automatico come la trascrizione. Ciò per due ordini di ragioni. In primo luogo perché, come ci ricorda la Corte costituzionale, occorre accertare in concreto la sussistenza di un rapporto costante di cura del minore e di un attuale progetto genitoriale. Solo verificate in concreto queste condizioni si può chiedere al diritto di legittimare sul piano giuridico situazioni che operano sul piano del fatto. In secondo luogo la scelta della trascrizione automatica, oltre ad azzerare la rilevanza di questi requisiti, porterebbe ad annullare del tutto la ricerca del migliore interesse del minore che, invece, è proprio legato alla verifica di quei requisiti. Progetto genitoriale e cura costante del minore devono essere entrambi presenti. Così non basterebbe un progetto genitoriale se non accompagnato da una cura ed un rapporto affettivo costante. Allo stesso modo, deve dirsi che la presenza di una relazione di cura e di affetto non basta da sola a fondare il titolo di una genitorialità giuridica. Una diversa soluzione porterebbe a fondare l'acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, in mancanza di un legame di sangue e a prescindere da una valutazione in concreto dell'interesse del minore. Il preminente interesse del minore è invece qui quello di continuare un rapporto di cura e di affettività e di dare una veste giuridica ad un rapporto che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale.
Quanto allo strumento dell'adozione in casi particolari e nell'attesa che il legislatore possa suggerire altri strumenti, resta la soluzione preferibile. Il recente intervento della Corte costituzionale (n. 79 del 2022) ha eliminato l'inadeguatezza relativa alla mancanza di parentela e quindi ha eliminato tanto del dibattito. Quanto al necessario assenso del genitore biologico previsto dall'art. 46 l. adoz., una lettura funzionale della disciplina dell'adozione in casi particolari, impone di considerare l'assenso del genitore biologico ancorato alla realizzazione del migliore interesse del minore. Ciò stempera il dubbio sulla inadeguatezza. La soluzione dell'adozione in casi particolari, a differenza della trascrizione automatica, consente inoltre di impostare il problema della genitorialità d'intenzione sul solo piano percorribile: quello della valutazione in concreto. D'altra parte è proprio dell'istituto dell'adozione una valutazione in concreto dei requisiti. Sotto questo specifico aspetto, deve ritenersi che non si vede perchè nel solo caso del nato da maternità surrogata, che condivide con le altre ipotesi di adozione l'instaurazione di una genitorialità fondata non sul sangue, dovrebbe operare una scelta diversa e meno garantista del reale interesse del minore. Come per il minore abbandonato, per il nato da maternità surrogata la realizzazione del suo migliore interesse non è mai presunta, ma deve essere giudicata nella concretezza della situazione.
Un'ultima riflessione attiene al rapporto tra divieto della maternità surrogata e tutela del soggetto nato, termini di un insanabile conflitto. Credo che la soluzione dell'adozione in casi particolari consenta di affrontare questa delicata problematica con un approccio metodologico meno conflittuale rispetto alla scelta della trascrizione automatica. L'adozione in casi particolari passa infatti attraverso la sola valutazione dell'interesse del minore a mantenere e a conservare un rapporto genitoriale che è nato nei fatti e che abbisogna di una veste giuridica. Il problema del divieto della maternità surrogata rimane sullo sfondo ma non tocca questa problematica e soprattutto non incide sulla valutazione del migliore interesse del minore. Nel caso invece che si accolga la soluzione della trascrizione automatica questi due interessi entrano nuovamente in conflitto in quanto la valutazione della conformità all'ordine pubblico chiama necessariamente in causa la valutazione dell'ordinamento in ordine al mantenimento o meno del divieto. D'altra parte, come si è detto, la valutazione del migliore interesse del minore risulta obliterata o comunque presunta, al di là di ogni indagine in concreto. Si attua così una commistione tra due profili diversi che complicano il lavoro dell'interprete. In definitiva, a me sembra che la soluzione della trascrizione automatica ponga due alternative. O si ritiene che tale trascrizione sia conforme all'ordinamento e allora deve eliminarsi il divieto della maternità surrogata. O si ritiene che la trascrizione non lo sia, perchè, come il diritto effettivo dimostra, la pratica della maternità surrogata è un procedimento lesivo della dignità della donna e quindi contrario ai valori dell'ordinamento. Tertium non datur.
La riforma Cartabia del diritto e del processo penale - Editoriale
Per la terza volta in cinque anni, magistrati, avvocati e cittadini devono affrontare una “riforma della giustizia penale”, con conseguente riscrittura di numerose norme sostanziali e processuali.
Anche in questo caso, l’intervento del legislatore è motivato dal tentativo di risollevare un innegabile stato di crisi della giustizia, evidente sia nei numeri – che attestano una perdurante incapacità di fornire in tempi ragionevoli una risposta alla domanda di giustizia – che nella conseguente crisi fiducia nei confronti dei magistrati e nel sistema, forse mai così evidente come negli ultimi anni.
La “riforma Cartabia”, rispetto a quelle che hanno preso il nome dei due precedenti Ministri della Giustizia, appare connotata da una inedita pervasività, poiché investe il diritto civile e processuale civile, quello penale e processuale penale nonché le norme ordinamentali.
Per quanto riguarda il settore penale, essa modifica - in più punti ed a volte in maniera profonda – ogni aspetto del processo, dal momento di apertura del procedimento penale alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza, oltre ad incidere su alcuni rilevanti aspetti di diritto sostanziale.
Tocca inoltre il rapporto tra sanzioni ed esecuzione delle medesime, alcuni dei contrappesi esistenti tra le parti del processo, il senso stesso della sanzione penale affiancandole per la prima volta i percorsi (vedremo quanto accidentati) della giustizia riparativa; sancisce l’inizio dell’era del processo penale telematico.
In altri termini, si propone di modificare radicalmente il panorama in cui gli operatori del diritto si trovano ad operare, per di più facendolo “in corsa” e senza previsione di adeguate norme transitorie né una parallela riforma strutturale e di organico della magistratura, che prevedibilmente soffrirà nell’affrontare le modifiche in una situazione di drammatica scopertura di organico.
I temi di discussione e gli spunti di approfondimento sono numerosi e richiedono sia una ricognizione “a prima lettura” che una riflessione più meditata, oltre a un momento di sintesi che si giovi, appena possibile, del monitoraggio dell’impatto delle nuove regole nella realtà quotidiana dei nostri Tribunali.
La nostra Rivista ha già iniziato da tempo un’analisi dell’impianto della riforma, con lo scritto di Giorgio Spangher pubblicato il 6 settembre del 2022 e intitolato “La riforma Cartabia: alcuni fils rouge”.
A questo primo approfondimento, Giustizia Insieme ha pensato di far seguire una serie di contributi, rispondenti ai diversi “livelli di lettura” appena evidenziati:
1. Una serie di schede tematiche in cui saranno esposte in modo sintetico le modifiche principali apportate al Codice penale e di procedura penale ed indicate le possibili criticità applicative;
2. Cinque articoli che usciranno a cadenza settimanale in cui saranno trattati in modo approfondito gli aspetti più rilevanti della riforma, distinti per fase processuale
3. Un ulteriore serie di articoli - ancora in numero di cinque - dedicati alla giustizia riparativa, che prenderanno in esame la storia, le esperienze più salienti in Italia e all’estero, le novità della riforma su questo specifico tema e le criticità nell’applicazione della stessa.
A questi contributi affiancheremo delle “riflessioni spot” su argomenti che emergeranno e si imporranno con il carattere dell’urgenza.
Proprio ad uno di questi argomenti “urgenti”, che sin dal primo momento di emanazione della riforma sta provocando discussioni tra magistrati nelle chat e nelle liste tecniche, è dedicato il primo contributo che oggi pubblichiamo, la riflessione di Andrea Apollonio sul mutamento del giudice in corso di dibattimento e l’applicazione della regola del tempus regit actum.
Il regime intertemporale della rinnovazione degli atti in caso di mutamento del giudice nella c.d. “riforma Cartabia”
di Andrea Apollonio
La nuova regola del co. 4-ter dell'art. 495 c.p.p. soggiace sì al principio tempus regit actum, ma non può applicarsi ai procedimenti in corso perché risulta congelata la (nuova) norma che la integra e completa (l'art. 510, co. 2-bis). Per la stessa ragione, anche una volta sbloccato il diritto alla rinnovazione degli atti a seguito dell'entrata in vigore dell'obbligo di videoregistrazione dell'esame testimoniale, questo potrà esercitarsi dalla parte che vi ha interesse solo rispetto alle prove dichiarative che saranno formate dopo il 1 novembre 2023. Soccorrono, a sostegno di questa tesi, molteplici argomentazioni di carattere sistematico e teleologico, oltreché una lettura costituzionalmente orientata delle norme ispirata al principio del giusto processo e della sua ragionevole durata.
Sommario: 1. Il d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 (c.d. "riforma Cartabia") e la nuova natura dell'atto dichiarativo - 2. Le modifiche al reticolato normativo di cui agli artt. 495 e 510 c.p.p. - 3. La questione sottesa, tra Corte Costituzionale e Sezioni Unite - 4. Una "ragionevole" lettura del regime transitorio della rinnovazione degli atti - 5 L'emersione di un diritto processuale "modulabile".
1. Il d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 (c.d. "riforma Cartabia") e la nuova natura dell'atto dichiarativo
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 è stata introdotta nell'ordinamento penale la c.d. "riforma Cartabia", che attua la legge delega n. 134/2021. Un progetto riformatore di ampio respiro che va ad incidere su molteplici aspetti della disciplina codicistica. Un primo gruppo di interventi mira a realizzare la transizione digitale e telematica del processo penale, «valorizzati anche e proprio per ridurre i tempi dei processi»[1]; un'altra area di intervento, tra le tante, attiene invece alla salvaguardia dei diritti delle parti e delle garanzie del giusto processo. Si tratta di due direttive generali dell'azione riformatrice che, ai fini della presente ricognizione, debbono essere lette assieme per essere meglio coordinate, anche sul piano interpretativo.
L'art. 1, co. 8 della legge n. 134/2021 autorizzava il Governo ad interpolare il sistema di documentazione degli atti processuali sulla scorta delle strumentazioni tecnologiche oggi disponibili, affermando un livello minimo di valore euristico esigibile per la valutazione di determinate prove dichiarative; e alla luce di questo principio, con la legge attuatrice, viene adeguato l'art. 134 c.p.p., che contempla la previsione generale sulla documentazione degli atti, statuendo quali forme ulteriori di documentazione la registrazione audio e video, ad integrazione della tralatizia verbalizzazione, completa o sommaria, del dichiarato dell'attore della procedura o del processo, quando questa appaia insufficiente rispetto al tipo di atto processuale compiuto. Discende a cascata una serie di modifiche agli atti (dichiarativi) di indagine - ai quali, a seconda del tipo, va applicata la forma aggiuntiva della videoregistrazione o della sola audioregistrazione - nonché, sopratutto, agli atti (dichiarativi) processuali[2].
Sebbene già il processo penale riconosca da tempo l'esistenza di supporti digitali dal valore probatorio e comunque attestatorio[3], quella elaborata dal d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 è, con riferimento all'atto dichiarativo, una vera rivoluzione copernicana, densa di implicazioni pratiche nell'operato quotidiano del pubblico ministero e del giudice, ma anche dall'immediato risvolto teorico, giacché tale atto (che assume, come noto, una importanza centrale nel processo penale, diversamente da quello civile o dalle altre giurisdizioni) viene chiamato ad affrontare fin da subito la transizione digitale e telematica, assumendo per questa via una nuova natura: non più solo momento della procedura connotato dall'oralità e materialmente consacrato in un atto, ma cattura dell'immagine del e nel processo, con ripresa integrale della deposizione e contestuale ingresso nei fascicoli di pubblici ministeri e giudici di una nuova dimensione audio-video, in cui gli attori si propongono anche visivamente ampliando a dismisura il prisma delle valutazioni in ordine all'attendibilità del teste e alla credibilità del suo narrato; una nuova e più penetrante dimensione che fin qui era rimasta ai margini dell'iter procedurale, anche perché sguarnita di una organica regolamentazione[4].
Oltre all'intentio legis di far confluire un siffatto materiale, per così dire "nativo digitale", in un nuovo "fascicolo informatico" che dovrà - prima o poi - conservare tutti gli atti della procedura, appare evidente lo scarto negli obiettivi perseguiti dal legislatore che afferma la necessità di documentare integralmente gli atti d'indagine e quelli processuali: per i primi, la riforma intende essenzialmente superare l'assenza di contraddittorio tra le parti (es. per le sommarie informazioni testimoniali), la particolare soggezione della persona detenuta (es. per gli interrogatori), ovvero la vulnerabilità di alcuni testi (è il caso dell'esame della persona minore o dell'inferma di mente); per gli atti processuali dichiarativi, invece, la videoregistrazione è funzionale a ridurre il vulnus al principio di immediatezza e di oralità laddove - ipotesi affatto peregrina - la prova, pur ritualmente raccolta nel contraddittorio tra le parti, venga ad essere valutata da un giudice diverso da quello che ha presieduto all'assunzione. Due i casi principali a cui il legislatore ha guardato: le prove raccolte in incidente probatorio e quelle formatesi in dibattimento, nel caso però di successivo mutamento del giudice.
2. Le modifiche al reticolato normativo di cui agli artt. 495 e 510 c.p.p.
Sulla scorta di questi presupposti è stato quindi modificato l'art. 510 (a cui anche la disciplina dell'incidente probatorio rimanda, per mezzo dell'art. 401) con l'aggiunta del co. 2-bis che recita: «L'esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle parti private e delle persone indicate nell'articolo 210, nonché gli atti di ricognizione e confronto, sono documentati anche con mezzi di riproduzione audiovisiva»; si specifica poi, al nuovo co. 3-bis, che «La trascrizione della riproduzione audiovisiva di cui al comma 2-bis è disposta solo se richiesta dalle parti».
Sul punto è opportuno chiarire che già allo stato attuale la pressoché totalità degli uffici giudiziari è munita di sistemi di fonoregistrazione delle prove dichiarative formatesi nell'udienza dibattimentale, sebbene un tale obbligo non discenda dalla principale regola codicistica - quella appunto di cui all'art. 510, che parla soltanto di verbale dell'udienza (co. 1) e dell' ausiliario che assiste il giudice e che documenta nel verbale lo svoglimento dell'esame; verbale che, come implicitamente si deduce dal co. 3, può anche essere redatto in forma riassuntiva[5] - né, espressamente, dal Titolo III del libro II del codice di rito, relativo alla documentazione degli atti, né dalle norme di attuazione. Da questa rapida ricognizione dello stato dell'arte può quindi evincersi che è solo con il decreto legislativo in commento che viene introdotto a chiare lettere l'obbligo della documentazione anche (e quindi in aggiunta) al normale verbale riassuntivo, con mezzi di riproduzione audiovisiva, e che la trascrizione che può essere richiesta dalle parti ai sensi del co. 3-bis riguarda globalmente l'audio-video, con trascrizione fonetica e descrizione delle immagini (es. mimica facciale, gesticolazione, ecc.).
È evidente la portata innovativa di queste norme; ed anche in ragione di ciò si prevede che esse non siano immediatamente precettive, avendo l'art. 94 del d. lgs. cit. affermato che la disposizione avrà applicazione a decorrere da un anno dall'entrata in vigore del decreto (1 novembre 2022)[6], individuando così un regime intertemporale ad hoc[7]. D'altronde, la stessa Relazione Illustrativa, che è da considerarsi una rilevante fonte interpretativa nel caso che ci occupa[8], rimarca come la disposizione transitoria di cui all'art. 94 sia dettata dall' «impatto della nuova disposizione, per concedere all'amministrazione i tempi necessari ad organizzare i servizi di registrazione audiovisiva e la conservazione dei supporti informatici»[9].
A questa disposizione, mediante un esplicito riferimento letterale, strettamente si aggancia la nuova formulazione dell’articolo 495, cui è aggiunto il co. 4-ter: «Se il giudice muta nel corso del dibattimento, la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, salvo che il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In ogni caso, la rinnovazione dell’esame può essere disposta quando il giudice la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze». Ci si rifà quindi, e senza dubbio alcuno, a quei "mezzi di riproduzione audiovisiva" regolamentati, come si è visto, dal combinato disposto di cui all'art. 510 co. 2-bis e all'art. 94 del d.lgs. cit.
3. La questione sottesa, tra Corte Costituzionale e Sezioni Unite
Per comprendere meglio la questione che ci occupa occorre fare un passo indietro. Si ricorderà che le Sezioni Unite del 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736, imp. Bajrami[10], avevano affrontato l’ampio tema delle regole che il giudice subentrante al precedente nel dibattimento deve osservare per una corretta rinnovazione dello stesso, imposte a contrario dall’art. 525 co. 2 c.p.p., secondo cui alla deliberazione della sentenza concorrono i medesimi giudici che hanno partecipato al dibattimento, a pena di nullità assoluta. La dottrina e la giurisprudenza non hanno mancato di sottolineare come il fondamento della norma risieda nella necessità di preservare il rapporto diretto tra giudice e formazione della prova e di cogliere – mediante la diretta percezione, da parte del primo, delle dichiarazioni dei testi escussi – tutti i connotati espressivi, anche non verbali, del dichiarante al fine di valutarne la credibilità e l’attendibilità[11].
Fino al 2019 questa norma veniva applicata dal diritto vivente[12] in maniera alquanto rigorosa, non offrendo d'altronde la littera legis una qualsiasi opzione alternativa, al punto da consentire nella law in action - sopratutto nei processi più complessi e di più lunga durata, ovvero, ed a fortiori, nei piccoli uffici giudiziari in cui frequente è il turn over dei magistrati - una continua rinnovazione degli atti, ampliandosi così a dismisura la durata dei dibattimenti, con tutti i rischi che ne conseguono: primo tra tutti, l'abnorme lungaggine del processo e la prescrizione dei fatti di reato sub iudice.
È su questo delicatissimo punto di snodo che le Sezioni Unite "Bajrami" intervenivano, autorevolmente spalleggiate dalla Corte Costituzionale che, poco prima, con la sentenza n. 132 del 2019[13], pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità prospettate, si prodigava nel rendere un obiter dictum definito dalla dottrina "gigantesco"[14]; perché nella sentenza si andava a descrivere la realtà effettiva delle aule giudiziarie, dove il principio di immediatezza «rischia di divenire un mero simulacro», e questo perche proprio l’ampio lasso di tempo entro cui si svolgono i dibattimenti provoca il rischio che «il giudice che ha iniziato il processo si trovi nell’impossibilità di condurlo a termine, o comunque che il collegio giudicante muti la propria composizione, per le ragioni più varie». Secondo il Giudice delle Leggi, la rinnovazione delle prove dichiarative che ne consegue, ove non vi sia il consenso delle parti alla lettura degli atti ex art. 511, spesso si risolve in una sterile conferma delle dichiarazioni rese a suo tempo dal dichiarante, senza dunque che il tribunale diversamente composto possa trarre alcun beneficio, in punto di immediatezza, dalla riescussione; e ciò «produce costi significativi, in termini tanto di ragionevole durata del processo, quanto di efficiente amministrazione della giustizia penale», anche per la possibilità che il reato sia prescritto prima della sentenza definitiva[15].
Le Sezioni Unite, anche alla luce delle affermazioni della Corte, percorrevano la strada di una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, in grado di non far confliggere la regola iuris dell'oralità e dell'immediatezza con il consacrato principio della ragionevole durata e dell'effettività ex art. 111 Cost., così come interpretato nella sentenza n. 132/2019[16].
In estrema sintesi, il Supremo Consesso statuiva che se la parte legittimata fa richiesta di reiterazione dell’esame testimoniale a seguito del mutamento del giudicante, il nuovo giudice potrà azionare l’ordinario vaglio sulla sussistenza di divieti di legge, sulla superfluità e sulla rilevanza della prova. Cosicché, la reiterazione dell’esame potrà essere reputata superflua, ad esempio, quando la parte non avrà indicato nuove circostanze sulle quali esaminare il teste, e quindi sia stata chiesta la pedissequa reiterazione dell’esame, sulle medesime circostanze sulle quali il teste è già stato esaminato; ovvero quando la parte non avrà indicato motivi di inattendibilità del teste cui si accompagni la necessità di sentirlo nuovamente. Se l’esame del teste non viene reiterato, perché non richiesto o perché divenuto impossibile o perché non ammesso dal giudice per superfluità della ripetizione, le dichiarazioni già in precedenza rese, qualora non vietate dalla legge o ritenute superflue o irrilevanti, verranno rese utilizzabili mediante lettura ex art. 511[17].
Va aggiunto che la Corte Costituzionale, sempre nella sentenza n. 132/2019, in questo caso rivolgendosi direttamente al legislatore, suggeriva rimedi "strutturali" tali da assicurare una ragionevole durata del processo e, nel contempo, la tutela del diritto di difesa dell’imputato, senza elidere del tutto il diritto della parte alla nuova audizione dei testimoni di fronte al nuovo giudice (diritto che la Corte definisce «non assoluto, ma modulabile (entro limiti di ragionevolezza)»): un obiettivo raggiungibile attraverso «la previsione legislativa di ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide»; «come, ad esempio» - rimarcava ancora la Corte - «la videoregistrazione delle prove dichiarative».
Regola di principio e contestuale previsione derogatoria che, in ultimo, venivano introdotte ex novo nel nostro sistema processuale dal d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022.
4. Una "ragionevole" lettura del regime transitorio della rinnovazione degli atti
L'art. 94 del d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022, che come visto contempla il regime dilatorio dell'obbligo disposto nell'art. 510, co. 2-bis, non riguarda, expressis verbis, altre norme: neppure l'art. 495 ed il principio di rinnovazione degli atti in caso di mutamento del giudice, con contestuale previsione derogatoria. Cosicché, si potrebbe arguire che quest'ultima disposizione sia pianamente soggetta al principio temporale regolatore delle norme processuali penali del tempus regit actum, e quindi, sempre in assenza di specifica disposizione transitoria o attuativa, applicarsi ai processi in corso. Questo vuol dire che tale diritto attribuito alla "parte che vi ha interesse" potrebbe già essere esercitato a partire dal 1 novembre 2022, giorno dell'entrata in vigore della c.d. "riforma Cartabia", con ricadute, come si immagina, di enorme rilievo pratico sull'andamento dei processi negli uffici giudiziari, sopratutto in quelli medio-piccoli ove il turn over dei magistrati è una realtà consolidata. Se così, poi, occorrerebbe dirimere un ulteriore punto controverso, ovverosia se far valere un tale diritto rispetto alle prove già formate (bastando quindi in questo caso, nel processo in corso, il mero dato formale dell'essere il tribunale innanzi al quale pende il dibattimento diverso da quello che ha presieduto alla formazione della prova dichiarativa, già formatasi) ovvero a quelle che devono ancora essere formate e che poi, successivamente, potrebbero essere (eventualmente) interessate dal mutamento del giudice. La norma, come detto, si limita a sancire la regola, e nulla dispone al riguardo[18].
Ma la norma sancisce, contestualmente, la previsione derogatoria, peraltro icto oculi destinata ad operare nella quasi totalità dei casi laddove la previsione della videoregistrazione di cui all'art. 510, co. 2-bis sia concretamente attuata nelle aule dibattimentali, in specie a seguito dell’entrata in vigore del relativo obbligo.
Può forse essere utile a meglio comprendere la topografia della normativa processuale in parola notare come il d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 vada ad operare prima la modifica dell'art. 495, con l'aggiunta del comma 4-ter (all'art. 30, co. 1, lett. f) e dopo la modifica dell'art. 510 (all'art. 30, co. 1, lett. i). Una specificazione affatto ultronea, dal momento che ci fa subito comprendere che il diritto alla rinnovazione degli atti può tenersi soltanto con la vigenza dell' obbligo di documentazione della prova con mezzi di riproduzione audiovisiva - e quindi con l'effettiva possibilità che risulti inverata la condizione della "ragionevole deroga", per riprendere le parole del Giudice delle Leggi.
Diversamente opinando, si andrebbe ad esercitare un diritto processuale pieno e incontrastato diverso da quello concepito dalla norma, che l'ha forgiato dimidiato, amputato, limitato, soggetto cioè alla neutralizzazione per mezzo, appunto, di “ragionevoli deroghe” dalla riproduzione audiovisiva di quelle prove dichiarative formatesi innanzi ad un diverso giudice; e un tale esercizio del diritto andrebbe a violare indirettamente il principio di stretta tipicità delle nullità processuali: perché a salvaguardia di quel diritto sta pur sempre la nullità (assoluta) di cui all' art. 525 co. 2, che potrebbe essere percorsa senza che ne ricorrano - integralmente - i presupposti di legge.
In altre parole, la dicotomia diritto/obbligo (recte: regola/eccezione) è stata costruita dal legislatore nelle forme di un dato letterale complesso, che deve leggersi nella sua interezza: il diritto di una parte (di quella che vi ha interesse) può azionarsi a fronte di un obbligo (non già semplicemente prospettato o genericamente previsto, bensì) vigente, con relativi oneri in capo all’ufficio giudiziario.
Ma, oltre a questa forte e ineludibile argomentazione sistematica, ci sono altre argomentazioni spendibili in favore della presente tesi esegetica.
È interessante notare come non si preveda alcuna sanzione processuale alla mancata documentazione anche con mezzi di riproduzione audiovisiva ex art. 510. Infatti questa regola ha, più che altro, una valenza organizzativa dell'udienza dibattimentale; come per la fonoregistrazione delle udienze, che, come si è visto, non trova una puntuale e organica disciplina codicistica. Collocandosi quindi la regola della riproduzione audiovisiva in questa - fin qui blanda - cornice normativa, essa non viene agganciata da alcuna sanzione processuale, quale in ipotesi potrebbe essere l'inutilizzabilità ai fini della decisione[19].
Eppure il legislatore, come si è visto, si premura di istituire un regime intertemporale, con sospensione di un anno dell'obbligo (organizzativo) di munirsi di apparecchi di video-registrazione e di predisporre la relativa attività ausiliaria. E' del tutto evidente, quindi, che il legislatore, nel coordinare queste norme, aveva in mente i notevolissimi effetti che l'immediata precettività della norma avrebbe creato. E questi non possono essere altro che quelli contemplati all'art. 495 co. 4-ter che, osservato in vitro, senza cioé la sua previsione derogatoria, è sì interessato da un lato, da una sanzione (la nullità assoluta ex art. 525 co. 2), e dall'altro, da una conseguenza, latamente sanzionatoria (la retrocessione del processo al momento in cui veniva assunta la prova innanzi al diverso giudice). Pare evidente che il regime temporale transitorio di cui all'art. 94 si rivolga a questa sanzione e a questa conseguenza; e per converso, all'art. 495 co. 4-ter.
A maggior riprova si consideri quanto esplicitato nella Relazione Illustrativa: «Qualora, però, la prova dichiarativa sia stata verbalizzata tramite videoregistrazione, il giudice non disporrà la riassunzione della prova, salvo che lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Quest’ultima disposizione [quella di cui all'art. 495] deve essere letta in sintonia con le disposizioni di attuazione del criterio di legge delega enunciato dall’art. 2-quater comma 1, lett. a)[20], destinato a introdurre la registrazione audiovisiva delle prove dichiarative come forma ulteriore e tendenzialmente elettiva di documentazione dell’atto»[21].
5. L'emersione di un diritto "modulabile"
Da tutto quanto detto si può agevolmente dedurre che se l'obbligo di videoregistrazione per gli atti dichiarativi dibattimentali (si ribadisce: di natura organizzativa, ricadente sugli uffici giudiziari e sprovvisto di sanzione in caso di inadempimento) entrerà in vigore un anno dopo l'entrata in vigore del d.lgs. cit. (il 1 novembre 2023), è chiaro che sarà quello il momento in cui pienamente matura il relativo diritto processuale di chiedere ed ottenere la riassunzione degli atti in caso di mutamento del giudice; limitato appunto dalla videoregistrazione, avendo il legislatore appurato come questo presidio regolamentare possa essere efficacemente volto «a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio del diritto in questione», come affermava la Corte Costituzionale. Sarà quello, per essere più chiari, il momento in cui la sentenza "Bajrami" e tutti gli individuati criteri-filtro che il giudice poteva (e può ancora) azionare a fronte della esplicita richiesta di riassunzione della prova verranno travolti dal novum del 2022, e quindi dall'incondizionata facoltà, per la parte che vi ha interesse, di chiedere espressamente la riassunzione della prova: a fronte di tale richiesta, e solo a partire per le deposizioni rese a partire da quella data, al giudice spetterà esclusivamente verificare se sussiste o meno quella condizione che occlude il relativo diritto (l'avvenuta riproduzione audiovisiva), fermo restando il potere ex officio del giudice di disporre la rinnovazione sulla base di "specifiche esigenze"[22].
Va specificato che se è vero che la "Bajrami" verrà travolta, ciò non implica la mera reviviscenza del "diritto vivente" che precede la "Bajrami". Questo diritto, che prima veniva appunto estratto dal substrato giurisprudenziale ed interpolato, prima dalle Sezioni Unite del 1999 e poi da quelle del 2019, oggi è da ritenersi inedito perché forgiato – in un dato letterale complesso - precisamente e puntualmente[23], ad immagine e somiglianza dei dicta della Corte Costituzionale del 2019; un diritto, come ha ricordato il Giudice delle Leggi, «modulabile», oggi consacrato nel corpo dell'art. 495 che comprende tanto la sua parte dispositiva quanto la sua inscindibile eccezione: destinata però, nel giro di poco, a diventare regola.
In conclusione, la nuova regola del co. 4-ter dell'art. 495 c.p.p. soggiace sì al principio tempus regit actum, ma non può applicarsi ai procedimenti in corso perché risulta congelata la (nuova) norma che la integra e completa (l'art. 510, co. 2-bis). Per la stessa ragione, anche una volta sbloccato il diritto alla rinnovazione degli atti a seguito dell'entrata in vigore dell'obbligo di videoregistrazione dell'esame testimoniale, questo potrà esercitarsi dalla parte che vi ha interesse solo rispetto alle prove dichiarative che saranno formate dopo il 1 novembre 2023; appunto perché quelle formate prima quella data non erano soggette al regime obbligatorio della videoregistrazione.
È poi, sul piano teleologico dell'interpretazione, appena il caso di ricordare che il comune denominatore della "riforma Cartabia" è quello di accelerare la concatenazione degli atti e di ridurre i tempi dei processi: «Il filo conduttore degli interventi di riforma è rappresentato dall’efficienza del processo e della giustizia penale, in vista della piena attuazione dei principi costituzionali, convenzionali e dell’U.E. nonché del raggiungimento degli obiettivi del P.N.R.R., che prevedono entro il 2026 la riduzione del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi di giudizio»[24]. Sarebbe quindi perlomeno paradossale aver dato la stura, con effetti incalcolabili, ad un meccanismo obiettivamente dilatorio, con evidenti ricadute sul principio di ragionevolezza e del giusto processo, così come sancito dalla Corte proprio con riferimento al tema della rinnovazione degli atti nel caso di mutamento del giudice; e sarebbe un ricominciare daccapo, in un gioco dell'oca senza fine, in cui gli unici a scontarne le pregiudizievoli conseguenze sarebbero i cittadini che, dentro e fuori il processo, attendono risposte in tempi certi.
[1] Relazione Illustrativa del Decreto Legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134 recante delega al governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, rinvenibile dal 10 agosto 2022 sul sito istituzionale del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it), e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 245 del 19.10.2022 (supplemento straordinario n. 5), p.8.
[2] Si guardino, sul punto, le modifiche intervenute sugli artt. 294, 351, 357 e 362 c.p.p. sul piano delle indagini, mentre per il processo ci si confronti con gli artt. 401, 441 e 510 c.p.p.
[3] Il codice già riconosce l’esistenza di supporti diversi per la documentazione dell’attività processuale: si pensi ai nastri delle registrazioni delle udienze e delle intercettazioni, il cui supporto è oggi quello digitale, in quanto la traccia audio e/o video è impressa su files. Sul punto vds. P. Tonini, Documento informatico e giusto processo, in Dir. Pen. e Proc., 2009, 4, p. 401 ss.
[4] Più che altro si consentiva la documentazione degli atti anche mediante supporti fonografici e audiovisivi, ma con disciplina alquanto frammentaria: cfr. l' art. 49 att. c.p.p., che regola il limitato aspetto della conservazione dei nastri e dei supporti fonografici e audiovisivi.
[5] Sul punto si guardi al chiaro commento dell'art. 510 c.p.p. svolto da E. Aprile, Commentario Essenziale - Procedura Penale, Piacenza, 2021, p. 547: «Valgono le regole previste per la documentazione dell'attività del giudice: va evidenziato che nella pratica in quasi tutti gli uffici viene utilizzato il sistema stenotipico che garantisce la riproduzione, in forma diretta, delle domande poste dalle parti o dal presidente nonché delle risposte delle persone esaminate e delle eventuali contestazioni; per attività semplici o di limitata rilevanza, e negli uffici giudiziari più piccoli, viene utilizzata la verbalizzazione in forma riassuntiva».
[6] Il d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 (c.d. "riforma Cartabia") è infatti stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 243 del 17 ottobre 2022 - Serie Generale, ed entra quindi in vigore il 1 novembre 2022 (ovverosia il quindicesimo giorno successivo alla data di pubblicazione).
[7] Art. 94 (Disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni) - «Le disposizioni di cui all'articolo 30, comma 1, lettera i) [ovverosia le modifiche del 510 già richiamate], si applicano decorso un anno dall’entrata in vigore del presente decreto».
[8] Si rammenta che l'art. 12 delle Preleggi statuisce che «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore»; indubbiamente la Relazione Illustrativa citata, pubblicata contestualmente allo schema del decreto legislativo sul sito istituzionale del Ministero della Giustizia, e financo pubblicata da ultimo nella Gazzetta Ufficiale (subito dopo la pubblicazione della legge), esprime validamente l'intentio legis.
[9] Relazione illustrativa, cit., p. 54.
[10] Al riguardo si rinvia al commento di L. Miani, L'immutabilità del giudice del dibattimento dopo la sentenza delle SS.UU. "Bajrami": istruzioni per la sopravvivenza, in Giustizia Insieme, 29 novembre 2019.
[11] Sul punto, cfr. G. Ruta, Note in materia di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per mutamento del giudice, in Giur. it., 2000, p. 1699.
[12] Almeno a partire dall'arresto delle Sezioni Unite del 15 gennaio 1999, n. 2, in Cass. Pen., 1999, p. 1429, con nota di P. Paulesu, Mutamento del giudice dibattimentale e diritto alla prova testimoniale, p. 2494, che dirimendo un contrasto giurisprudenziale affermava la legittimità della richiesta di riassunzione della prova testimoniale a fronte dell'intervenuto mutamento del giudice, tale da sostanziare un vero ed incontrastato diritto delle parti.
[13] Va rilevato che l'ordinanza di rimessione proveniva da un piccolo ufficio giudiziario siciliano (quello di Siracusa), in cui si celebrava un processo che, a causa del frequente mutamento del collegio, vedeva registrarsi numerosissime riassunzioni delle prove testimoniali (stante il mancato consenso dei difensori degli imputati alla lettura, ai sensi dell’art. 511, dei verbali delle deposizioni testimoniali già assunte in dibattimento), con l'inevitabile allungamento del processo e la definitiva estinzione dei reati per intervenuta prescrizione. Un altro aspetto degno di nota relativo a questa pronuncia costituzionale è che componeva il collegio la prof. Marta Cartabia, già giudice costituzionale, divenuta in seguito Ministro della Giustizia nonché principale promotrice della riforma che ha preso il suo nome, qui in trattazione.
[14] P. Ferrua, Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, in Arch. pen., 2, 2019, p. 1; Id., La lenta agonia del processo accusatorio a trent’anni dall’entrata in vigore: trionfante nella Carta costituzionale, moribondo nel reale, in Proc. pen. giust., 2020, p. 10.
[15] Secondo E. Aprile, Osservazioni (a Corte Cost., 29 maggio 2019, n. 132), in Cass. pen., 2019, p. 3623, la Corte Costituzionale ha formulato un «"monito" connesso alla prospettazione di una possibile irragionevolezza» della normativa «per i modi in cui essa è interpretata dal "diritto vivente"».
[16] Va fin da subito rilevato che questa norma, così interpretata dal Supremo Consesso nomofilattico, sollevava vibranti proteste da parte dell'avvocatura penale, ed in particolare dall'Unione Camere Penali Italiane: cfr. Documento n. 29 del 17 ottobre 2019 della Giunta dell’U.C.P.I., consultabile su www.camerepenali.it, nel quale la giunta esprimeva «sconcerto e preoccupazione per l’ennesima violazione delle garanzie difensive».
[17] Aggiunge la Corte che se l’esame del teste è reiterato, è in ogni caso consentita la lettura ex art. 511, delle precedenti dichiarazioni in quanto esse permangono nel fascicolo del dibattimento, di cui fanno legittimamente parte, e sono pertanto pienamente utilizzabili. Questo il principio di diritto statuito: «L’avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, in quest’ultimo caso indicando specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa».
[18] D'altronde il d.lgs. cit., benché importi un vero e proprio stravolgimento delle indagini e del processo, è in molti punti sprovvista di appositi regimi intertemporali. Vd. la nota del 19.10.2022 della Giunta Esecutiva Centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati, Nuovo rito penale: l'urgenza di una adeguata disciplina transitoria, reperibile su www.associazionemagistrati.it, in cui si esprime «Il forte auspicio che si intervenga, con un provvedimento di urgenza, per colmare le lacune di regolazione transitoria della riforma appena varata».
[19] Inutilizzabilità che invece oggi aggancia l'art. 357 (Documentazione dell'attività di polizia giudiziaria) nel caso - disciplinato al co. 3-ter - delle dichiarazioni della persona minorenne, inferma di mente e in condizioni di particolare vulnerabilità non documentate integralmente con mezzi di riproduzione audiovisiva o fonografica.
[20] In realtà, l'art. 2-quater comma 1, lett. a) non è presente né nella legge delega (l. n. 134/2021) né nel d.lgs cit. Trattandosi di un evidente refuso, tale rinvio è inutile; molto utile, invece, il riferimento al necessario coordinamento con le disposizioni che introducono la registrazione audiovisiva delle prove dichiarative come forma ulteriore e tendenzialmente elettiva di documentazione dell’atto.
[21] Relazione Illustrativa, cit., p. 143.
[22] Questo ragionamento non muta laddove, anche prima del 1 novembre 2023, si provvedesse alla videoregistrazione della prova dichiarativa (che sarebbe comunque una documentazione ulteriore e maggiormente utile per il diverso giudice); ciò che rileva è infatti l'obbligo formale, senza la cui entrata in vigore non può invocarsi la nullità assoluta ex art. 525 co. 2.
[23] «Non mancano, naturalmente, anche norme maggiormente puntuali. Una di queste riguarda, forse la più significativa, stante le forti riserve che hanno contrassegnato l’intervento delle Sezioni unite Bajrami, il principio di immediatezza, cioè, il mutamento del colllegio giudicante. Si prevede il rinnovo della prova assunta in contraddittorio dal vecchio collegio, salva l’ipotesi in cui la dichiarazione sia stata videoregistrata, residuando al giudice il potere di disporre la rinnovazione in presenza di specifiche esigenze (non meglio definite)». G. Spangher, La riforma Cartabia: alcuni fils rouge, in Giustizia Insieme, 6 settembre 2022.
[24] Relazione Illustrativa, cit., p. 7.
Asra Panahi, un difetto al cuore che si chiama coraggio di Maria Teresa Covatta
Di fronte alle dilaganti e perduranti manifestazioni delle iraniane e degli iraniani scatenata dal brutale assassinio di Mahsa Amini ci si interroga sulla natura di questa protesta e la si compara alle altre che già l’Iran ha conosciuto e vissuto in un passato anche recente.
È una rivolta o è davvero, stavolta, l’inizio di una rivoluzione? E qual è l’elemento di novità rispetto alle altre manifestazioni di malcontento? Sono davvero, stavolta, i diritti umani e la protesta contro la loro costante e proterva violazione ad aver prevalso in modo potente sulle cause delle manifestazioni di protesta del passato, collegate, di volta in volta, alla lotta contro la corruzione, alla crisi alimentare e alla povertà?
Tutte questioni non indifferenti per poter disegnare un quadro realistico di quanto sta accadendo in Iran e alla comprensione di questa immensa crisi, una di più, che sconvolge il nostro Mondo che abbiamo colpevolmente voluto immaginare almeno in parte pacificato e proteso verso gli ambiziosi obiettivi dell’Agenda 2030 che purtroppo ogni giorno di più sembrano essere una chimera.
E sono davvero le donne la vera cifra di questa protesta? Sembrerebbe di si e sarebbe un segnale immenso perché potrebbe significare che il Goal della parità di genere sta diventando pervasivo in tutte le realtà, persino in quei sistemi che lo hanno considerato contrario alla morale, alla famiglia e alla religione: in una parola semplicemente impensabile.
In realtà le donne hanno sempre partecipato. In Iran hanno dato un grande contributo alla Costituzione del 1979 così come in Italia sono state protagoniste per riportare la democrazia nel nostro Paese.
Hanno partecipato ma non sono mai state veramente riconosciute come attrici protagoniste nella costruzione della democrazia. Al più semplici comparse.
E in questo senso quella iraniana potrebbe essere una vera rivoluzione.
L’altra faccia della medaglia, però, sta nel prezzo che le iraniane in particolare stanno pagando. Non si può non interrogarsi di fronte all’orrore che provocano episodi come quello di Asra, la studentessa iraniana picchiata a morte mentre era a scuola perché non ha cantato l’inno per l’Ayatollah.
La Banalità del Male.
Un gruppo di uomini adulti, investiti di un ruolo istituzionalmente riconosciuto di arbitri della moralità, e pertanto autorizzati a tutto, fanno irruzione in un liceo femminile e picchiano a morte una bambina di 16 anni perché non ha cantato la canzone giusta.
Protetti e “giustificati”, ci fanno raccontare che la bambina in questione era gravemente malata di cuore. Come se l’ipotetica - ma inesistente - malattia pregressa potesse mai giustificare la ferocia e il delitto.
Ma soprattutto ignorando che quando la malattia del cuore è il coraggio delle proprie idee la morte è solo la fine del corpo.
“Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi”*
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. Premessa ricostruttiva. - 2. L’esigenza di un sistema per “riparare” l’errore giurisdizionale per violazione del diritto UE. - 3. La (vana) ricerca di “indicazioni” sui limiti all’obbligo di rinvio pregiudiziale. - 4. Gli ultimi arresti ripropongono la strada della revocazione. - 5. Conclusioni.
1. Premessa.
Desidero innanzitutto complimentarmi con l’amico e collega Marco Magri e con i colleghi dell’Università di Ferrara per l’organizzazione di questo incontro e ringraziarli per avermi invitato ad aprire la sessione dei rapporti tra rinvio pregiudiziale alla CGUE e diritto amministrativo, dandomi l’occasione per tornare a riflettere su un tema sempre interessante, che, come dimostra anche la più recente giurisprudenza, è oggi più che mai attuale.
Come cerco di rappresentare ai nostri studenti sin dalla prima lezione del corso di Diritto amministrativo progredito, l’impatto del diritto dell’Unione europea sulla nostra materia è particolarmente forte. Anche una rapida e superficiale rassegna degli atti (fonti normative, raccomandazioni, interventi della Commissione, decisioni giurisprudenziali) delle istituzioni dell’Unione consente agevolmente di percepire come essi interessino in larghissima parte l’esercizio dei poteri pubblici, a tutela delle garanzie dei valori affermati dai Trattati. Lo vediamo, evidentemente, in modo più frequente e immediato nella gestione dei servizi pubblici e nelle materie di rilevanza economica, per i profili inerenti alla tutela della concorrenza, ma lo vediamo anche per le materie trasversali, come la tutela dell’ambiente o dell’effettività della giustizia.
È noto, per fare solo un esempio, il dibattito tra l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e la Corte di Giustizia sulle condizioni per l’azione giurisdizionale.
Mai come in questi ultimi mesi anche i non giuristi hanno peraltro percepito l’importanza delle regole dell’esercizio dei poteri pubblici e l’incidenza del diritto euro-unitario nel nostro ordinamento, consentendo anche a chi abbia solo rudimentali cognizioni giuridiche di comprendere il senso del cd “primato” di tale diritto sulle fonti interne. Gli esempi di più immediata percezione sono stati quelli legati alle misure di prevenzione anti-covid e di risposta alla crisi determinata dall’emergenza pandemica, e alla proroga delle cd concessioni balneari.
Ricorderete che i principali quotidiani hanno dato immediata e ampia notizia delle sentenze nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, con le quali l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha dichiarato la non applicabilità, per diretto contrasto con il diritto eurounitario, delle leggi che nel 2018 e nel 2020 avevano disposto la proroga generalizzata delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per uso turistico-ricreativo, qualificando tamquam non essent le proroghe disposte in base ai loro articoli (mi si consenta il richiamo, per tutti, al fascicolo monotematico n. 3/2021 di Diritto e società, consultabile in open access sul sito della rivista). Sono state sentenze molto commentate e spesso criticate, per le modalità, più che per i contenuti, ma sono certa che, più di mille lezioni e discorsi, hanno dato a tutti il senso dell’impatto del diritto UE nel nostro ordinamento. Così come evidentemente lo dà il susseguirsi di norme per garantire il rispetto degli impegni assunti con il PNRR.
A questo proposito, dal momento che siamo in un’assemblea di studiosi del diritto, ricordo che non possiamo non guardare con preoccupazione alle ultime norme iper-acceleratorie dei processi amministrativi, coniate l’estate scorsa per i giudizi relativi a provvedimenti finanziati in tutto o in parte dal Piano (il riferimento è evidentemente all’art 3 d.l. n. 85/2022, poi inserito come art. 12-bis nel precedente d.l. n. 68, per assicurarne la conversione agostana), che impongono un nuovo improvvido sacrificio all’effettività della tutela e alla giustizia nell’amministrazione (cfr. la nota della redazione e il commento critico di F. Volpe su Giustiziainsieme)
Per i giuristi, e in particolare per gli studiosi di diritto processuale, l’ultimo lustro è stato poi, come noto, molto stimolante anche per il dibattito esploso tra le Supreme Corti sui rimedi processuali avverso le decisioni dei giudici amministrativi di ultima istanza (Consiglio di Stato e Corte dei conti), che, in spregio al suddetto primato del diritto UE e disattendendo l’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia imposto dall’art 267 TFUE, avessero di fatto negato tutela a posizioni riconosciute dal diritto dell’Unione. Con riferimento alle controversie che involgono rapporti con le pubbliche amministrazioni (e i soggetti a esse equiparati), la questione dei rapporti con il diritto UE si è andata infatti intrecciando con quella dei limiti al sindacato della Corte di cassazione ex art 111, co 8, Cost, sostanziandosi, più nello specifico, nella possibilità di individuare nella violazione del diritto UE un “motivo inerente alla giurisdizione”.
Per comprendere un’importante angolazione della questione, è utile preliminarmente ricordare che, all’esito delle modifiche introdotte nel 2015, la l. n. 117/1988, sulla responsabilità civile dei magistrati, nel disporre che chiunque può agire in giudizio contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni ingiusti patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali derivanti da un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, riconduce, tra l’altro, espressamente alla “colpa grave” foriera di effetti risarcitori “la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea”, e, oltre all’obbligo dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato ai sensi dell’art. 7, configura, all’art. 9, un obbligo di azione disciplinare per i fatti che hanno dato luogo all’azione risarcitoria, specificando che a tali fini non è neppure richiesta la colpa grave.
La riforma è, come noto, a sua volta significativamente frutto di interventi delle istituzioni UE. In particolare, il percorso trae origine dalla sentenza 13 giugno 2006, emessa nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo), in cui la Corte di giustizia ha affermato che “Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale”.
La sentenza ha quindi osservato che “Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler”, secondo la quale, al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento danni deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria, nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, 3° comma, CE, nonché della manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia nella materia.
La medesima Corte di giustizia è stata poi investita di una procedura di infrazione (in C-379/10) promossa dalla Commissione europea al fine di ottenere una modifica della legge n. 117/1988 nel senso indicato dalla pronuncia del 2006 e, con sentenza del 24 novembre 2011 ha rilevato che la disciplina italiana sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, laddove esclude(va) qualsiasi responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e laddove limita tale responsabilità ai casi di dolo o di colpa grave, è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell'Unione.
La novella del 2015 ha dato linfa alla questione della ricorribilità in Corte di cassazione ex art. 111, co. 8, Cost. contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti in contrasto con il diritto UE.
Come noto, a differenza di quanto disposto per le sentenze dei giudici ordinari (di cui l’art 111, co 7, Cost impone sempre l’impugnabilità in Cassazione per violazione di legge), contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti l’art 111, co 8, Cost. ammette infatti il ricorso per cassazione soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione.
Ne consegue che, negli altri casi, l’unico rimedio (a parte l’opposizione di terzo) è quello, estremamente circoscritto, della revocazione.
Non è questa la sede per addentrarci nel dibattito generale sui limiti del sindacato della Corte di cassazione ex art 111, co 8, e sul percorso seguito dalle Sezioni Unite fino al famoso rinvio alla CGUE da parte dell’ordinanza Randstad Italia del 2020, sul quale mi permetto di rinviare al mio scritto “Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020”, pubblicato su Giustizia insieme.it e agli altri scritti nel volume a cura di A. Carratta, Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo. A proposito di Cass. Sez. un. n. 19598/2020, Roma TrE-Press, 2021.
Ciò che mi preme sottolineare in questa sede è che mano a mano che si è andato sviluppando -e, mi sia consentito rimarcare, inasprendo- un certo contrasto di posizioni tra il Consiglio di Stato e la Corte di giustizia nelle controversie in tema di affidamento dei contratti pubblici -settore di grande rilevanza economica e tradizionale terreno di influenza del diritto UE-si è posto anche il problema della possibilità/necessità di utilizzare tali rimedi straordinari anche per evitare una responsabilità risarcitoria dello Stato per effetto di eventuali errori di diritto dei giudici amministrativi.
È così accaduto che, sviluppando un percorso avviato negli anni 2006-2008 con riferimento alla cd pregiudiziale di annullamento delle azioni di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, le SS. UU. della Corte di cassazione, con due importanti sentenze (2242 del 2015 e 31226 del 2017), hanno cassato le pronunce con le quali il Consiglio di Stato, disattendendo i principi di apertura alla tutela affermati in varie occasioni dalla Corte di Lussemburgo, aveva negato la legittimazione dei concorrenti non definitivamente esclusi da una gara per l’affidamento di contratti pubblici a contestare il possesso dei requisiti del ricorrente principale (la prima) e dell’aggiudicatario (la seconda), rilevando come tale restrizione, traducendosi in un’interpretazione delle norme europee in contrasto con quelle fornite dalla CGUE, così da precludere l’accesso alla tutela giurisdizionale, si sostanziasse in un “abnorme” diniego di giustizia, sindacabile ex art. 111, co. 8, Cost. La stessa Corte di cassazione rimarcava però l’eccezionalità di tale potere cassatorio sindacato (sintomaticamente esercitato solo due volte con richiamo al diritto UE e solo due volte con richiamo al diritto interno: una nei confronti del Consiglio di Stato, nel 2008, e una nei confronti della Corte dei conti, nel 2012) e precisando di non avere comunque il potere di sindacare la scelta ermeneutica del giudice amministrativo né la scelta di rinviare o meno la questione alla CGUE, come previsto dall’art. 267, co 3, del TFUE.
Le stesse SS.UU., peraltro, nell’aprile 2016, invocando una interpretazione evolutiva del limite esterno della giurisdizione, avevano analogamente riscontrato un vizio inerente alla giurisdizione con riferimento alla mancata considerazione da parte del Consiglio di Stato di una sentenza della Corte EDU e avevano ritenuto di potere di conseguenza direttamente rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità delle norme rilevanti ai fini della soluzione della controversia per contrasto con la Convenzione europea.
Alcune affermazioni di carattere più generale contenute nell’ordinanza nella parte in cui invocava la riferita interpretazione evolutiva avevano fatto però temere che essa tradisse un tentativo della Corte regolatrice di estendere il proprio sindacato per violazione di legge al di là dell’ambito, utilizzato come detto con estrema prudenza e ormai acquisito, del cd. “diniego di giustizia” (riconducibile a un eccesso in negativo del potere giurisdizionale), sì da far rientrare nell’ambito dell’art. 111, co. 8 -attraverso il passaggio dalla violazione del diritto UE- il sindacato sulla violazione di legge in materia di diritti di rilevanza eurounitaria, anche nelle materie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Questa preoccupazione ha indotto il Giudice delle leggi a un’estrema prudenza. Con la nota sentenza n. 6 del 2018, significativamente assunta all’esito di una camera di consiglio immediatamente successiva alla richiamata sentenza 31226 del 2017 della Corte di cassazione, infatti, la Consulta ha affermato che “la tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, previsto dall’ottavo comma dell’art. 111 Cost. avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando ... non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale” (§11), aggiungendo che “L’intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU» giacché anche in tal caso si ricondurrebbe «al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente qualificata), motivo sulla cui estraneità all’istituto in esame non è il caso di tornare” (§14.1).
Dopo la suddetta pronuncia, la giurisprudenza delle Sezioni Unite si è andata consolidando nel senso che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali nazionali o dei principi del diritto europeo da parte del giudice amministrativo, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione, così da giustificare il ricorso previsto dall'art. 111, co. 8, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione (così SS.UU., nn. 32773/2018; nello stesso senso, tra le tante, le pronunce nn. 8311/2019, 27770/2020, 29653/2020, 36899/2021, 183/2022).
Tale orientamento espressamente include anche gli errores in procedendo nell’area dell’insindacabilità delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti ex art. 111, co. 8, Cost. (tra le tante, SS.UU., nn. 7926/2019, SS.UU. 29082/2019, SS.UU. 34470/2019, SS.UU. 27546/2021, non massimata).
Nell’ambito di detto indirizzo, si è anche affermato che il contrasto delle decisioni giurisdizionali del Consiglio di Stato con il diritto europeo non integra, di per sé, l’eccesso di potere giurisdizionale denunziabile ai sensi dell'art. 111, co. 8, Cost., atteso che anche la violazione delle norme dell’Unione europea o della CEDU dà luogo ad un motivo di illegittimità, sia pure particolarmente qualificata, che si sottrae al controllo di giurisdizione della Corte di cassazione, né può essere attribuita rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio (SS.UU., n. 29085/2019; nello stesso senso, SS.UU., n. 6460/2020). Con l’ulteriore precisazione che la non sindacabilità, da parte della Corte di cassazione ex art. 111, co. 8, Cost., delle violazioni del diritto UE ascrivibili alle sentenze pronunciate dagli organi di vertice delle magistrature speciali (nella specie, il Consiglio di Stato) è compatibile con il diritto dell'Unione, come interpretato della giurisprudenza costituzionale ed europea, in quanto correttamente ispirato a esigenze di limitazione delle impugnazioni, oltre che conforme ai principi del giusto processo ed idoneo a garantire l'effettività della tutela giurisdizionale, tenuto conto che è rimessa ai singoli Stati l’individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall’Unione (SS.UU., n. 32622/2018).
Nella sentenza n. 1454/2022 le SS.UU. ribadiscono così ancora significativamente che il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione è ammissibile nei casi di difetto assoluto e relativo di giurisdizione e, quindi, non può estendersi al sindacato di sentenze abnormi od anomale o che abbiano stravolto le norme di riferimento, neppure se direttamente applicative del diritto UE, né può essere accolta la richiesta di rimettere alla CGUE questioni volte a fare emergere errori in cui sia incorso il Consiglio di Stato nell’interpretazione ed applicazione di disposizioni di diritto interno applicative del diritto UE, non attenendo queste a motivi di giurisdizione.
Con buona pace delle garanzie di effettività della tutela e delle conseguenze economiche derivanti dalla responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE.
Il problema era evidentemente avvertito dalla stessa Consulta, che, nella richiamata sentenza n. 6/18 aveva giustamente rimarcato che “rimane il fatto che, specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'art. 395 cod. proc. civ., come auspicato dalla stessa Corte con riferimento alle sentenze della Corte EDU nella sentenza n. 123 del 2017”.
In quest’ultima sentenza, come si ricorderà, la Corte costituzionale aveva dichiarato parzialmente inammissibili e parzialmente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni (art. 106 cpa e 395 e 396 cpc), nella parte in cui non prevedono un ulteriore diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Consulta lasciava però emergere l’esigenza di una sollecita soluzione del problema da parte del legislatore nazionale, laddove rileva che “nel nostro ordinamento, la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell'art.24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore”. Esigenza ribadita, appunto, dalla sentenza n. 6/2018.
Nella legge delega per la riforma del processo civile (l. 26 novembre 2021, n. 206), il Parlamento ha espressamente delegato il Governo ad ampliare il ventaglio di motivi revocatori tassativamente indicati all’art. 395 c.p.c., prefigurando l’introduzione di una nuova ipotesi di revocazione straordinaria del giudicato che, a seguito di una successiva pronuncia resa dalla Corte EDU, risulti in violazione della CEDU o di quanto previsto nei Protocolli addizionali. Ipotesi introdotta nello schema di D.lgs. all’art 391-quater.
La novella, ancora non approvata, non tocca comunque il rapporto con il diritto UE.
2. L’esigenza di un sistema per “riparare” l’errore giurisdizionale per violazione del diritto UE.
In attesa di un intervento del legislatore, il problema di fondo -come rimediare processualmente all’errore del g. a. di ultima istanza ed evitare la condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno- restava quindi irrisolto.
Entrambe le magistrature supreme, pur ovviamente da posizioni opposte, sono tornate sul tema.
La Corte di cassazione, con la richiamata ordinanza Randstad Italia, ha così addirittura chiesto alla Corte di giustizia se fosse compatibile con il diritto unionale (e, segnatamente, con l’art. 1, par. 1 e 3 della direttiva 89/665 letto alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) l’art. 111, co. 8, Cost., per come interpretato dalla Corte costituzionale nella sentenza 6 del 2018, nella parte in cui non consente di ricorrere ad un organo giurisdizionale supremo dello Stato membro per annullare una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa di tale Stato che abbia negato la tutela di diritti in violazione del diritto dell’Unione, e/o abbia disatteso l’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE. L’ordinanza ha suscitato un accesissimo dibattito sul quale si sono tenuti numerosi webinar e incontri in presenza e sono stati scritti fiumi d’inchiostro, ai quali evidentemente si rinvia per ogni utile approfondimento[i]. Merita qui particolarmente rimarcare che le SS. UU. avevano avuto buon gioco nel ricordare, che la stessa Corte costituzionale, nella menzionata sentenza n. 6 del 2018, “riconosce che «specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste», ma aveva osservato che esso «deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione [quindi, di quella amministrativa per le sentenze dei giudici amministrativi], eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'articolo 395 cod. proc. civ.»”; e nel rappresentare (criticamente) al Giudice sovranazionale che “Tale rimedio, tuttavia, non è previsto dal legislatore nazionale come strumento ordinario per porre rimedio alle violazioni del diritto dell'Unione che siano addebitate agli organi giurisdizionali” e che “La stessa Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni normative pertinenti nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese, in quel caso, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. 27 aprile 2018, n. 93); in altra decisione, ha dichiarato inammissibile una analoga questione sollevata dai giudici amministrativi (Corte cost. 2 febbraio 2018, n. 19)”. Aggiungeva peraltro, e correttamente, la Corte di cassazione che “Tale rimedio, comunque, non sarebbe agevolmente praticabile per i limiti strutturali dell'istituto della revocazione (sub paragrafo 15, in relazione all'art. 395 cod. proc. civ.) e, specialmente, quando le sentenze delle Corte sovranazionali siano precedenti alla sentenza impugnata. È comunque dubbio che esso sia idoneo a paralizzare l'ammissibilità del ricorso per cassazione, non potendosi escludere che anche la sentenza emessa ipoteticamente in sede di revocazione possa incorrere in violazione dei limiti della giurisdizione”.
La VI Sezione del Consiglio di Stato, dal canto proprio, prestando doverosa attenzione al tema della responsabilità, nella controversia Hoffman – La Roche, con ordinanza n. 2327 del 18 marzo 2021 aveva rimesso alla Corte di Lussemburgo di pronunciarsi sulla compatibilità degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395 cod. proc. civ. nella misura in cui non consentono di usare il rimedio revocatorio per impugnare sentenze del giudice amministrativo di appello confliggenti con una sentenza della stessa Corte di giustizia e in particolare con i principi che questa abbia affermato a seguito di precedente rinvio pregiudiziale.
In estrema sintesi, in entrambi i casi la Corte di giustizia era dunque chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità del sistema processuale interno con il diritto eurounitario in punto di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti conferiti da disposizioni che attuano tale diritto.
La prima sentenza è stata resa dalla Grande Sezione il 21 dicembre 2021 e la seconda dalla IX Sezione il 7 luglio scorso.
Come evidenziato dalla V sezione del Consiglio di Stato in una recentissima ordinanza su cui torneremo infra, per dar risposta alle questioni pregiudiziali sollevate nelle due sentenze, la Corte svolge sostanzialmente il medesimo ragionamento che può essere così esposto in sintesi:
- fatta salva l’esistenza di norme dell’Unione europea in materia, per il principio dell’autonomia procedurale spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto unionale il rispetto del loro diritto ad una giurisdizione effettiva;
- se l’ordinamento interno assicura un rimedio giurisdizionale che sia equivalente a quello con il quale è garantita la tutela di situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e che non renda in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione (principio di effettività) va escluso ogni contrasto delle disposizioni del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea;
- resta fermo che i singoli che siano stati eventualmente lesi dalla violazione del loro diritto a un ricorso effettivo a causa di una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado che si ponga in contrasto con il diritto dell’Unione europea possono far valere la responsabilità dello Stato membro se la violazione ha carattere sufficientemente qualificato e in caso di esistenza di nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito dal soggetto leso.
In base a tale ragionamento i Giudici di Lussemburgo hanno quindi ritenuto l’insussistenza dei profili di contrasto del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea paventati nel primo quesito della ordinanza Randstad Italia e nel terzo quesito dell’ordinanza Hofman-La Roche.
La Corte non ha invece affrontato il quesito (secondo dell’ordinanza Randstad Italia): “Se l’art. 4, par. 3, art. 19, par. 1 TUE e art. 267 TFUE, letti anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ostino alla interpretazione applicazione dell’art. 111 Cost., comma 8, art. 360 c.p.c, comma 1, n. 1 e art 362 c.p.c., comma 1, e art 110 del codice processo amministrativo, quale si evince dalla prassi giurisprudenziale nazionale, secondo la quale il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per “motivi inerenti alla giurisdizione”, sotto il profilo del cosiddetto “difetto di potere giurisdizionale”, non sia proponibile come mezzo di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo controversie su questioni concernenti l’applicazione del diritto dell’Unione, omettano immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in assenza delle condizioni, di stretta interpretazione, da essa tassativamente indicate (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, Cilfit, C-238/81) che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo, in contrasto con il principio secondo cui sono incompatibili con il diritto dell’Unione le normative o prassi processuali nazionali, seppure di fonte legislativa o costituzionale, che prevedano una privazione, anche temporanea, della libertà del giudice nazionale (di ultimo grado e non) di effettuare il rinvio pregiudiziale, con l’effetto di usurpare la competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario, di rendere irrimediabile (e favorire il consolidamento del)l’eventuale contrasto interpretativo tra il diritto applicato dal giudice nazionale e il diritto dell’Unione e di pregiudicare la uniforme applicazione e la effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto dell’Unione: profilo su cui la Cassazione, nel chiudere in rito la controversia, non ha evidentemente mancato di esprimere perplessità.
Nella prima pronuncia successiva alla pubblicazione dell’ordinanza Randstad I. (ordinanza n. 1454 del 2022), riprendendo sostanzialmente il ragionamento della Corte di giustizia, la Corte di cassazione ha, come visto, ribadito il principio di diritto che “Il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione è ammissibile nei casi di difetto assoluto e relativo di giurisdizione e, quindi, non può estendersi al sindacato di sentenze abnormi od anomale o che abbiano stravolto le norme di riferimento, neppure se direttamente applicative del diritto UE, né può essere accolta la richiesta di rimettere alla Corte di giustizia UE questioni volte a fare emergere errori in cui sia incorso il Consiglio di Stato nell’interpretazione ed applicazione di disposizioni di diritto interno applicative del diritto UE, non attenendo queste a motivi di giurisdizione”.
Nella motivazione, le Sezioni unite estendono però il principio anche all’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza, sul quale, come detto, la CGUE non si è invece mai pronunciata.
Avevo affrontato la questione in senso fortemente dubitativo nella richiamata Guida alla letturadell’ordinanza Randstad I., osservando, in sintesi, che, se da un lato è innegabile che la decisione sulla necessità o meno del rinvio impatta sulla “riserva” di interpretazione della Corte di giustizia, tanto che il mancato rinvio è causa di responsabilità per gli Stati e di conseguenza per gli stessi giudici, sembra tuttavia difficile disconoscere che, nell’esercizio del potere di interpretazione, che è proprio di ogni giurisdizione, ci sia anche quello di ritenere che il quadro normativo e giurisprudenziale non dà adito a dubbi. Se così è, l’eventuale errore commesso in tale valutazione non sembra riconducibile ai “motivi di giurisdizione” neppure invocando lo sconfinamento nella potestas della Corte di giustizia, che, non solo non è propriamente qualificabile come giurisdizione, ma, soprattutto, è chiamata solo a “risolvere” i dubbi, laddove il giudice del caso concreto ne abbia rilevati (come dimostra il rigore con cui i Giudici di Lussemburgo valutano la ricevibilità dei quesiti che vengono loro rivolti). Concludevo dunque nel senso che “Il fatto che il Giudice interno abbia l’obbligo di rimettere i dubbi interpretativi sulla portata delle norme UE al Giudice sovranazionale non sembra invero sufficiente ad affermare che esso non abbia il potere di valutare in autonomia si ricorra o meno un’ipotesi di dubbio, non diversamente da quanto si ritiene per la rimessione alla Consulta delle questioni di legittimità costituzionale. Sicché, peraltro, ancora una volta, l’effetto dell’allargamento del compasso prospettato dalle Sezioni Unite sarebbe più ampio, aprendo il varco al sindacato della Corte di cassazione anche con riferimento alle mancate rimessioni alla Corte costituzionale. Non sembra infatti che l’esigenza di evitare la responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, pur indubbiamente importante e potenzialmente utile, sia argomento sufficiente per trasferire l’ultima parola interpretativa sulla configurabilità di dubbi di compatibilità eurounitaria al Giudice delle questioni di giurisdizione, né, qualora gli si riconoscesse tale potere, può fondare il discrimine tra questa interpretazione e quella che sta alla base del mancato rinvio alla Corte costituzionale”.
La soluzione più coerente continuava -e continua- quindi, a mio avviso, a essere, quando ne ricorrano i presupposti, quella dell’eccesso di potere giurisdizionale per aprioristico e astratto diniego di giustizia.
3. La (vana) ricerca di “indicazioni” sui limiti all’obbligo di rinvio pregiudiziale.
Al di là di tale profilo (che resta quindi aperto), come è stato da più parti immediatamente rimarcato, dalle suddette sentenze -e in particolare dalla risposta della sentenza CGUE in causa Randstad I. al terzo quesito, che stigmatizza la lettura restrittiva espressa ancora una volta dal Consiglio di Stato in punto di legittimazione ad agire- dal quadro sopra delineato emerge che ogni vicenda giudiziaria che si sia definitivamente conclusa, stante l’esaurimento dei rimedi interni, con un assetto di interessi contrastante con il diritto dell’Unione europea è suscettibile di innescare un correlato e complementare giudizio nel quale discutere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea al fine di accertare se sussistano le condizioni per la condanna al risarcimento del danno a beneficio del cittadino che in ragione di tale violazione abbia subito pregiudizio ai propri diritti.
E i conseguenti rischi di responsabilità degli stessi giudici in via di “rivalsa” e in via disciplinare.
La soluzione non soddisfa né l’interesse pubblico, né l’interesse privato.
Quanto al primo, perché la tutela risarcitoria non è mai satisfattiva della “giustizia nell’amministrazione” che costituisce irrinunciabile corollario e presupposto del rispetto dei principi e delle regole dell’azione e dell’organizzazione amministrativa[ii]. Quanto al secondo perché, come evidenziato dall’Avvocato generale Hogan nelle conclusioni rassegnate nella causa Randstad (pt 82), vi è il forte rischio che l’azione per risarcimento dei danni, e dunque “un rimedio del tipo Francovich [possa rimanere] un’illusione piuttosto che una realtà”.
Per non parlare della preoccupazione dei magistrati, frequentemente esposti alla pressione della “minaccia” di azioni di responsabilità in caso di mancato rinvio pregiudiziale. Come ebbi già a evidenziare in uno scritto sulla riforma della legge sulla responsabilità civile dei giudici (Riflessioni sulla responsabilità civile degli organi giurisdizionali, in Federalismi, 2012) si tratta di un rischio che è evidentemente opportuno evitare.
Ne è testimonianza la serie di ordinanze di rinvio emesse dalla IV Sezione del Consiglio di Stato nella causa Consorzio Italian Management e Catania Multi Servizi c. RFI in tema di revisione prezzi. Dopo la dichiarazione di irricevibilità delle questioni formulate con una prima ordinanza[iii], nel 2019 la Sezione, con una seconda ordinanza[iv], ha chiesto, in via preliminare, alla CGUE “[S]e, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, il giudice nazionale, le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale, è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea, anche nei casi in cui tale questione gli venga proposta da una delle parti del processo dopo il suo primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo, ovvero dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione, ovvero anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
Con la nota sentenza del 6 ottobre 2021 (battezzata come “Cilfit II”), la Grande Sezione della Corte, dopo un ampio excursus sulle condizioni di ammissibilità del rinvio, ha risposto alla prima questione dichiarando che “l’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione. Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività”.
Nel merito, la Corte ha però reiterato la pronuncia di irricevibilità, rammentando che, secondo una sua costante giurisprudenza, “nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, la necessità di pervenire a un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo rispetti scrupolosamente i requisiti relativi al contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale e indicati in maniera esplicita all’articolo 94 del regolamento di procedura, i quali si presumono noti al giudice del rinvio (sentenza del 19 aprile 2018, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, C‑152/17, EU:C:2018:264, punto 21, e giurisprudenza ivi citata). Tali requisiti sono inoltre richiamati nelle raccomandazioni della Corte all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (GU 2019, C 380, pag. 1).
Pertanto, è indispensabile, come enunciato all’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, che la decisione di rinvio contenga l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia di cui al procedimento principale” (con espresso richiamo alla propria precedente sentenza del 19 aprile 2018 e alla giurisprudenza ivi citata).
I Giudici di Lussemburgo hanno quindi osservato che, nel caso di specie, il giudice del rinvio non aveva rimediato alla lacuna rilevata al pt 23 della suddetta precedente sentenza, “nella misura in cui esso continua, in violazione dell’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, a non esporre con la precisione e la chiarezza richieste i motivi per cui ritiene che l’interpretazione dell’articolo 3 TUFE nonché dell’articolo 26 e l’articolo 101, paragrafo 1, lettera e), TFUE, gli sembri necessaria o utile ai fini per dirimere la controversia di cui al procedimento principale, e neppure il collegamento tra il diritto dell’Unione e la legislazione nazionale applicabile a tale controversia. Tale giudice non precisa neppure i motivi che l’hanno portato a interrogarsi sull’interpretazione delle altre disposizioni e degli atti menzionati nella seconda e nella terza questione sollevate, tra i quali figura, in particolare, la Carta sociale europea, che la Corte non è peraltro competente a interpretare (v., in tal senso, sentenza del 5 febbraio 2015, Nisttahuz Poclava, C‑117/14, EU:C:2015:60, punto 43), ma si limita, in sostanza, a esporre gli interrogativi a tal riguardo dei ricorrenti nel procedimento principale, come emerge dal punto 20 della presente sentenza, senza fornire la propria valutazione”.
Il problema della preoccupazione dei giudici amministrativi di ultima istanza di non incorrere in azioni di responsabilità per mancato rispetto dell’obbligo di rinvio pregiudiziale emerge con la massima nettezza anche in un’altra controversia.
Con sentenza non definitiva n. 6290 del 14 settembre 2021, la IV Sezione del Consiglio di Stato, a fronte di pressanti eccezioni di incompatibilità eurounitarie delle norme interne regolanti la fattispecie controversa, ha formulato alla Corte di giustizia i seguenti particolarissimi quesiti preliminari,
“A) se la corretta interpretazione dell’art. 267 TFUE imponga al giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, di operare il rinvio pregiudiziale su una questione di interpretazione del diritto unionale rilevante nell’ambito della controversia principale, anche qualora possa escludersi un dubbio interpretativo sul significato da attribuire alla pertinente disposizione europea - tenuto conto della terminologia e del significato propri del diritto unionale attribuibili alle parole componenti la relativa disposizione, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione, considerando lo stadio di evoluzione del diritto europeo al momento in cui va data applicazione alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale – ma non sia possibile provare in maniera circostanziata, sotto un profilo soggettivo, avuto riguardo alla condotta di altri organi giurisdizionali, che l’interpretazione fornita dal giudice procedente sia la stessa di quella suscettibile di essere data dai giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di Giustizia ove investiti di identica questione”;
“B) se – per salvaguardare i valori costituzionali ed europei della indipendenza del giudice e della ragionevole durata dei processi – sia possibile interpretare l’art. 267 TFUE, nel senso di escludere che il giudice supremo nazionale, che abbia preso in esame e ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale di interpretazione del diritto della Unione europea, sia sottoposto automaticamente, ovvero a discrezione della sola parte che propone l’azione, ad un procedimento per responsabilità civile e disciplinare”.
All’esito della richiamata sentenza “Cilfit II”, la cancelleria della Corte di giustizia, con nota del 13 dicembre 2021 ha però chiesto al giudice remittente se permanesse l’interesse a una decisione sulla questione rilevata con il rinvio pregiudiziale, tenuto conto dei principi ritraibili dalla suddetta sentenza del 6 ottobre 2021, sopravvenuta rispetto alla decisione di rinvio pregiudiziale. Senonché, il 19 febbraio 2022, la ricorrente produceva in giudizio la denuncia inviata il 24 gennaio 2022, alla Commissione europea, nella quale assumeva inter alia che con la suddetta sentenza non definitiva il Consiglio di Stato avrebbe in realtà esaminato e respinto tutti i motivi del ricorso di primo grado e che il rinvio pregiudiziale sarebbe stato effettuato al solo scopo di tutelare la posizione dei magistrati del Collegio decidente.
Con ordinanza n. 2545 del 6 aprile scorso, la IV Sezione ha però insistito nei quesiti, evidenziando che i principi elaborati dalla sentenza “Cilfit II” non appaiono rispondere ai quesiti sollevati con la sentenza non definitiva n. 6290 del 2021; in particolare, ha rilevato che le condizioni poste dalla Corte di giustizia per escludere l’obbligo di rinvio pregiudiziale gravante sul giudice di ultima istanza ex art. 267 TFUE, risultano comunque:
i) di difficile accertamento, nella parte in cui fanno riferimento alla necessità che il giudice procedente, certo dell’interpretazione e dell’applicazione da dare al diritto dell’U.E., rilevante per la soluzione della controversia nazionale, provi in maniera circostanziata che la medesima evidenza si imponga anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte (in questo senso si condivide l’orientamento espresso dal medesimo Consiglio di Stato, successivamente alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, cfr. sez. VI, n. 2066 del 2022, §§ da 28 a 32);
ii) lesive del principio costituzionale (art. 111, comma secondo, Cost.) ed europeo (art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali U.E.) della ragionevole durata del processo, in quanto il giudice supremo nazionale italiano è costretto a disporre un rinvio pregiudiziale, allungando di molto i tempi di risoluzione della controversia, per prevenire, in assenza di qualsivoglia filtro preventivo, la proposizione dell’azione di risarcimento del danno ai sensi della norma sancita dall’art. 2, comma 3-bis, legge n. 117/1988, nonché la ragionevole certezza del coinvolgimento in un accertamento disciplinare, ai sensi della norma sancita dall’art. 9, comma 1, legge n. 117/1988 (pure dopo le precisazioni operate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 169 del 2021);
iii) lesive del principio del valore della indipendenza della magistratura, elemento costitutivo della declamata rule of law (art. 101, comma 2, Cost.; art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 6, comma 1, C.e.d.u.) in quanto, pure in presenza di una attività esegetica motivatamente svolta dal giudice nazionale (come nel caso di specie), quest’ultimo può essere attinto dalla minaccia della sanzione risarcitoria e disciplinare per gli esiti (non graditi) della interpretazione.
Non sembra poi irrilevante ricordare che -dopo che con ordinanza dell’11 maggio 2022 il TAR di Lecce ha investito la Corte di giustizia di una serie di quesiti sulla compatibilità eurounitaria della soluzione accolta dalle richiamate sentenze dell’Adunanza plenaria sulle proroghe delle concessioni balneari[v]- con la recente ordinanza n. 8010 del 15 settembre 2022, la VII sezione del Consiglio di Stato, in un collegio sintomaticamente presieduto dal Presidente Giovagnoli, relatore di una delle suddette sentenze, ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire “se gli articoli 49 e 56 TFUE e i principi desumibili dalla sentenza Laezza del 2014, dove ritenuti applicabili, ostino all’interpretazione di una disposizione nazionale quale l'articolo 49 del codice della navigazione, nel senso di imporre al titolare di una concessione rinnovata senza soluzione di continuità di cedere alla sua scadenza a titolo non oneroso e senza indennizzo le opere edilizie realizzate sull'area demaniale balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell'obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo”[vi].
4. Gli ultimi arresti ripropongono la strada della revocazione.
La strada più consona per la soluzione del problema sembra dunque, come evidenziato dalla stessa Corte costituzionale, quella della revocazione.
Sul punto, in ordine al quale, come detto, correttamente, la Corte di giustizia ha escluso la propria competenza e il legislatore non sembra ancora pronto a intervenire (dal momento che, come visto, la legge delega per la riforma della giustizia civile ha previsto l’estensione dell’azione revocatoria ai soli casi di contrasto con le sentenze della Corte EDU), il Consiglio di Stato -maggiore parte in causa- sta opportunamente, ma faticosamente, cercando una sua soluzione.
Con la sentenza 26 aprile 2018, n. 2530, la IV Sezione l’aveva invero rinvenuta nell’equiparazione all’omessa pronuncia su domande o eccezioni di parte della “omessa pronuncia su questioni pregiudiziali di rilevanza europea, suscettibili di divenire oggetto (come nel caso all’esame) di una formale istanza di rimessione ad un plesso giurisdizionale (la Corte di Giustizia) diverso da quello adito, e competente in via esclusiva, per effetto delle limitazioni di sovranità cui hanno consentito gli Stati membri, ad interpretare esattamente e con uniformità di applicazione il diritto europeo”. Osservava in particolare la Sezione che “La conclusione, del resto, trova conforto in via interpretativa nell’identica ratio iuris sottesa alla nozione di domanda, altro non essendo - l’istanza di rimessione - che una domanda rivolta al giudice interno di rimettere la valutazione di una questione all’unico organo giurisdizionale deputato secondo il Trattato istitutivo a fornire l’esatta e uniforme interpretazione del diritto europeo. La rimessione, peraltro, per le Corti di ultima istanza (tale era il Consiglio di Stato nel caso de quo) rappresenta anche un preciso obbligo giuridico”. Nell’accogliere il motivo di revocazione la IV Sezione, peraltro, richiamando l’Adunanza plenaria n. 3 del 1997, aveva precisato che “siffatto errore è pur sempre di carattere senso-percettivo derivando da una lettura sbagliata (da intendersi: per errore sensoriale) del contenuto materiale dell’atto, per la quale si sostituisce una questione (quella effettivamente posta con l’istanza di rimessione) con un’altra (del tutto diversa) e ha aggiunto che l’errore deve essere caduto su un punto non controverso tra le parti, essere decisivo e di immediata rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche”.
L’orientamento è stato però disatteso dalla V Sezione, che, , nella più recente sentenza n. 834 del 2021, ha statuito che il rimedio revocatorio non è in alcun modo esperibile nei casi in cui il giudice – anche quello di ultima istanza, che ne è obbligato – “abbia omesso di formulare, anche a negativo od omesso riscontro alla istanza di parte, questione interpretativa e di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte europea, ai sensi dell’art. 234 del Trattato”. Posizione condivisa dalla VI Sezione nella sentenza n. 1088 del 2022.
All’esito dell’ultima pronuncia della Corte di Giustizia nel caso Hoffman-La Roche, la medesima V Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 8436 del 3 ottobre scorso, è peraltro tornata sul tema, osservando che “Sorge, però, un dubbio di ragionevolezza, poiché da una parte è preclusa la possibilità di emendare il vizio consistente nella violazione del diritto dell’Unione europea attraverso un rimedio di sicura efficacia e rapidità quale il rimedio revocatorio (da esperirsi in unico grado dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza) e, dall’altra, è ammessa l’introduzione di un giudizio risarcitorio, che per l’articolazione nei gradi ordinari è destinato in ogni caso a svilupparsi in un arco temporale più lungo con l’esito incerto dovuto all’accertamento delle condizioni per accedere al risarcimento”. Si legge quindi, ancora, nell’ordinanza che “L’intima coerenza dell’ordinamento – ciò che lo rende razionale – è in tensione ove lo stesso errore non è considerato a tal punto ingiusto da portare alla revoca, ma le sue conseguenze ingiuste meritevoli di essere rimediate in via risarcitoria”.
La Sezione ha pertanto investito del problema l’Adunanza plenaria, chiedendole di vagliare, anche alla luce di tali considerazioni, i seguenti quesiti:
a) se e a quali condizioni la condotta del giudice che ometta di pronunciarsi sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea formulata da una delle parti in causa ex art. 267 T.F.U.E. sia qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto con conseguente ammissibilità della revocazione della sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395, comma 1, n. 4) cod. proc. civ.;
b) in particolare, se configuri l’omissione di pronuncia di cui sopra il caso in cui il giudice non si sia pronunciato sull’istanza di rinvio in conseguenza di un fraintendimento in cui è incorso in merito alla questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne da applicare per risolvere la controversia con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello.
5. Conclusioni.
In conclusione di questa rapida ricostruzione, non si può non esprimere ancora una volta delusione e sconcerto per le “distanze” prese dal legislatore, che costringe i Giudici interni a chiedere “aiuto” a quelli sovranazionali e la Plenaria a intervenire su una questione “di casa propria”, trovandosi chiamata a cercare un bilanciamento tra l’esigenza di evitare che un eccessivo ricorso al rimedio revocatorio frustri gli sforzi verso una tutela più celere e alteri i delicati rapporti all’interno di un istituto con pochi componenti e quella di “riparare” un errore di diritto potenzialmente foriero di responsabilità per lo Stato e per gli stessi componenti dell’organo di cui è vertice e di evitare i condizionamenti che, indirettamente, tali responsabilità determinano nei decisori (stretti a loro volta tra la sollecitazione a chiudere i processi in tempi irragionevolmente brevi e quella di prevenire un rischio risarcitorio o disciplinare).
Una soluzione più opportuna sembrerebbe allora quella della rimessione del tema alla Corte costituzionale, nell’auspicio che, di fronte all’inerzia del legislatore, trovi un componimento dei diversi interessi costituzionalmente rilevanti a un livello superiore a quello dei diretti interessati.
*L’articolo riproduce il testo della relazione al Convegno del Dottorato di ricerca in Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali, tenuto presso l’Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Giurisprudenza – Sede di Rovigo, 13-14 ottobre 2022).
[i] Senza pretesa di esaustività, cfr., oltre al volume di AA.VV., Limiti esterni di giurisdizione e Diritto europeo. A proposito di Cass. Sez. Un. N. 19598/2020, a cura di A. Carratta, Roma, 2021 (e ivi anche la richiamata Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020), la “trilogia” di F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro, in Giustiziainsieme, 2020; Id, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi, 2020 e Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, ivi, 2022; M. Magri, Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”, in Giustiziainsieme, 2022; M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, ivi, 2022; B. Nascimbene e P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustiziainsieme, 2020; B. Sassani, L’idea di giurisdizione nella guerra delle giurisdizioni. Considerazioni politicamente scorrette*, in Judicium –Il processo civile in Italia e in Europa, 2020; B. Sassani e B. De Santis, Diniego di tutela giurisdizionale e poteri delle Sezioni Unite alla luce del diritto unitario europeo. Riflessioni a caldo su una decisione annunciata., ivi, 2022; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustiziainsieme, 2020; E. D’Alessandro, Brevi riflessioni sul rinvio pregiudiziale interpretativo operato dalle Sezioni Unite in riferimento all’art. 111, 8 comma, Cost., in Il giusto processo civile, I, 2021, 153; E. Zampetti, Diritto dell’Unione europea e articolo 111 co. 8 Cost. Considerazioni a margine del caso Randstad sui profili problematici della nomofilachia differenziata, in Giustiziainsieme 2022; nonché le “interviste” su La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguenti” a Corte Giust., G.S., 21 dicembre 2021 – causa C-497/20, Randstad Italia? di R. Conti a F. Francario, G. Montedoro, P. Biavati e R. Rordorf, in Giustiziainsieme, 2022.
[ii] M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il processo, n. 3/2018, pp. 45 ss.
[iii] 22 marzo 2017, n. 1297.
[iv] Cons. Stato, Sez. IV, 15 luglio 2019, n. 4949.
[v] Sull’ordinanza cfr. il commento di R. Dipace, Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia, in Giustiziainsieme, 2022.
[vi] Appare interessante a tale riguardo osservare che, nel definire uno dei giudizi su cui era intervenuta la Plenaria, con sentenza del 23 maggio 2022, ma resa all’esito di una c c del 19 aprile, la Sezione, in collegio diverso, ma con il medesimo Presidente, dichiarando l’inammissibilità degli interventi successivi all’investimento dell’Adunanza plenaria (che, essendo stato disposto direttamente dal Presidente del Consiglio di Stato prima della scadenza dei termini per eventuali difese o interventi, non ne aveva consentito la presentazione) aveva ignorato l’identica eccezione prospettata dagli intervenienti!
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