ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Marco Magri
Sommario: 1. I fatti all’origine del giudizio. – 2. L’ipotesi del “vuoto normativo” in tema di prova confidenziale – 3. La dubbia morfologia della “prova confidenziale” nel processo amministrativo. – 4. Focalizzazione del problema nel provvedimento monocratico in esame. – 5. Qualche precisazione conclusiva. – 6. Dove il “vuoto legislativo” esiste davvero.
1. I fatti all’origine del giudizio
La lettura di questo provvedimento istruttorio merita di essere accompagnata da una breve ricostruzione della controversia in cui è stato incidentalmente pronunciato.
Alla fine dello scorso mese di luglio l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha concluso un procedimento sanzionatorio avviato nei confronti di due società del gruppo svedese Roxtec. Il procedimento era stato avviato su segnalazione della concorrente WallMax, che accusava la Roxtec di condotte illecite tenute allo scopo di conservare la posizione di leader nel proprio settore produttivo.
L’Autorità, ravvisati nel comportamento della Roxtec gli estremi dell’abuso di posizione dominante, ha ordinato la cessazione immediata del comportamento distorsivo della concorrenza ed imposto alle due società, in solido, il pagamento di una sanzione amministrativa di oltre 15 milioni di euro[1].
Nel successivo ricorso al TAR Lazio, depositato il 30 settembre 2023 e tuttora pendente[2], le società del gruppo Roxtec si sono viste respingere il 13 ottobre 2023 la domanda di sospensiva[3] ed hanno perciò proposto appello cautelare, depositando l’impugnazione al Consiglio di Stato il 27 ottobre 2023[4]. In attesa della camera di consiglio fissata al 16 novembre 2023, hanno chiesto ed ottenuto dal Presidente della sesta sezione di essere dispensate, in applicazione dell’art. 136 comma 2 c.p.a., dall’impiego delle modalità di deposito telematico di un documento: si trattava, come emerge dal decreto che ha accolto l’istanza (8 novembre 2023, n. 1348), di una sopravvenuta evoluzione stragiudiziale delle comunicazioni tra ricorrente e resistente, per via di una “risposta” che l’Autorità ha dato a Roxtec il 2 novembre 2023, dopo la costituzione nell’appello cautelare, “in relazione alla portata di un’ottemperanza ed alla richiesta di chiarimenti”. Di questo evidentemente era all’oscuro WallMax, non solo controinteressata ma anche avversaria di Roxtec in una parallela vicenda giudiziaria[5]. Donde le “particolari ragioni di riservatezza legate alle posizioni delle parti o alla natura della controversia” che secondo l’art. 136 comma 2 consentono l’esonero dal deposito digitale.
Le ricorrenti non hanno invece ottenuto che il deposito, oltre che in modalità non telematica, avvenisse anche “in forma confidenziale”, fosse cioè reso inaccessibile alle altre parti. Su questo il Presidente, con lo stesso decreto nel quale ha concesso l’esonero dal deposito telematico (n. 1348/2023), ha ricordato che i princìpi di “pubblicità” e di “contraddittorio” non permettono di ipotizzare “una documentazione conoscibile dal giudice che non sia accessibile alle parti”: chi agisce in giudizio può non depositare un documento che ritiene riservato o può depositarlo con omissis, ma non può pretendere che il giudice amministrativo ne tragga motivo di convincimento e al tempo stesso lo sottragga al confronto processuale.
Avendo la Roxtec insistito per l’accoglimento dell’istanza, due giorni dopo (10 novembre 2023) il punto di vista del Presidente è stato ribadito nel decreto che qui si annota (n. 1354), il quale conferma il rigetto servendosi di argomenti nuovi. Su questi ultimi si vorrebbe focalizzare l’attenzione.
2. L’ipotesi del “vuoto normativo” in tema di prova confidenziale.
Possiamo sorvolare sui passaggi in cui il decreto evoca la disciplina della prova confidenziale nel diritto processuale tedesco e nel regolamento di procedura dinanzi al Tribunale dell’Unione europea (art. 105). Valgano gli articoli di dottrina dai quali il provvedimento trae ispirazione[6]. Del resto, si tratta di uno sguardo oltreconfine che il Presidente lancia solo per rafforzare il suo convincimento – vero motivo della decisione – di trovarsi dinanzi ad una situazione non regolata dal diritto nazionale.
Il decreto n. 1354/2023 non è, infatti, una mera conferma del n. 1348/2023. Non è neanche un revirement, che apparirebbe piuttosto strano in un incidente istruttorio. Siamo dinanzi ad un convincimento che sostanzialmente resta il medesimo, ma che il giudice monocratico chiarisce, in sede di riesame, spostandosi da una posizione più netta (la richiesta di deposito riservato non è compatibile con i princìpi generali) ad un’altra meno categorica (la cd. prova confidenziale non è regolata dalla legge).
Astrattamente ciò che chiede Roxtec ha una sua identità concettuale – questo sembra il senso della nuova motivazione – se non ci si dovesse arrendere all’evidenza che “sul tema dell’ammissibilità della c.d. prova confidenziale (…) c’è un vuoto normativo non colmabile dal giudice”.
La prospettiva acquista quindi un orizzonte più incerto: in prima battuta l’espressione “prova confidenziale” non compariva neppure nel decreto n. 1348 e la pretesa di sottrare il documento alla WallMax era stata negata tout court al lume dei princìpi di pubblicità e contraddittorio. Ora la prova confidenziale viene presentata come una sorta di “istituto” non astrattamente incompatibile con quei princìpi, solo orfano di una legge; in sostanza come un problema di puro e semplice diritto positivo.
In questo senso si spiegano le citazioni alla dottrina tedesca e alla disciplina del processo dinanzi al Tribunale dell’Unione europea, ma anche i richiami alle norme nazionali (ad esempio l’art. 203 c.p.p. sulla segretezza delle fonti di informazione nella testimonianza in materia penale) e alla giurisprudenza amministrativa sulla rilevanza processuale del segreto. Il tema del segreto è stato, d’altronde, recentemente risollevato dalla dottrina, appunto con riferimento alla disciplina del processo amministrativo, in un volume al quale lo stesso decreto n. 1354 sembra per molti aspetti volersi richiamare[7].
3. La dubbia morfologia della “prova confidenziale” nel processo amministrativo.
Verrebbe spontaneo a questo punto raccogliere e sviluppare con i dovuti approfondimenti le tante sollecitazioni che vengono dalla lettura del decreto n. 1354/2023.
Volendo tuttavia restare nei limiti di un breve commento, due rapidissime considerazioni si possono proporre. La prima è che la soluzione accolta è pienamente condivisibile: manca una norma che autorizzi pretese come quelle avanzate delle ricorrenti e non la si può estrapolare con il ricorso all’analogia, tanto meno con l’applicazione diretta di (inesistenti) princìpi generali sulla segretezza.
La seconda considerazione proviene dall’esame della motivazione, dalla cui lettura invece qualche interrogativo sorge naturale. Soprattutto uno, perché è una, la cosa che balza all’attenzione: cos’è la “prova confidenziale”? E davvero si può parlare, in proposito, di un “vuoto normativo”?
Ammettiamo che la locuzione “prova confidenziale” esprima un concetto sufficientemente definito, in linea di primo approccio riportabile alla nozione di “segreto privato”[8]. Ammettiamo pure (con qualche imprecisione in più) che nel processo amministrativo la necessità dell’accertamento sulla validità dell’atto determini un arretramento della rilevanza del rapporto sostanziale tra ricorrente e controinteressato; tal che le garanzie di quest’ultimo, più che radicarsi nel diritto costituzionale di difesa, derivano dalla semplice opportunità che il giudice non si pronunci a contraddittorio non integro[9]. Immaginiamo allora, tagliando molti passaggi, di poter ragionare accogliendo questa ipotesi: che le prove allegate dal ricorrente nel giudizio amministrativo avente a oggetto una sanzione antitrust vadano valutate considerando che l’accertamento giudiziale a cui tendono fa stato anzitutto contro l’amministrazione, non verso il controinteressato.
Ma anche se il problema della prova confidenziale si potesse (e non è detto) così impostare, ciò che si continua a non comprendere è perché la tutela del “segreto privato” di cui è portatore il ricorrente dovrebbe reputarsi tanto elevata da connotare il processo di un fine sopraindividuale, di puro e semplice accertamento della verità. Non si baserà, questa idea, sul vecchio adagio (converrà oramai chiamarlo così) che il processo amministrativo persegua un “interesse pubblico”? Ora non mi voglio dilungare neppure su questo secondo profilo, che implicherebbe addentrarsi nell’enorme problema del rapporto tra giudice e parti nel giudizio di annullamento[10]. Mi limito a notare che ammettere anche solo per ipotesi la “prova confidenziale” come istituto processuale dai contorni definiti presuppone almeno in parte l’accoglimento della vecchia concezione oggettiva della giurisdizione amministrativa: impedire il contradditorio sulla prova nell’interesse della giustizia è un’operazione che può essere compresa solo in questa sfera[11].
Stringendo invece il ragionamento nell’ottica della giurisdizione soggettiva, è chiaro che, comunque si ricostruisca il rapporto giuridico processuale, immaginare un potere del giudice di impedire il contraddittorio sulla prova resta un’ipotesi incompatibile con la disciplina del processo amministrativo, semplicemente perché la “prova confidenziale” si pone in contrasto con il principio d’imparzialità della giurisdizione. Né cambierebbe la sostanza di questa conclusione il ragionare sul diritto del controinteressato di accedere al fascicolo processuale prendendo a riferimento le norme sul diritto di accesso cd. “difensivo” (art. 24 comma 7 legge n. 241/1990), che riguardano tutt’altra fattispecie: là si tratta del diritto di difesa di chi chiede l’ostensione del documento, non di quello di chi, al contrario, invoca la segretezza del documento.
4. Focalizzazione del problema nel provvedimento monocratico in esame
Ma potrà mai esistere, una cosiffatta “prova confidenziale”, nel sistema italiano di giustizia amministrativa? Io credo di no, ed è il decreto che si annota, a leggerlo bene, a spiegarci perché.
La parte più significativa del decreto è quella in cui il giudice ritiene inapplicabile l’art. 3 d.lgs. n. 3/2017[12], che al pari di altre disposizioni (art. 211, 840-quinquies c.p.c.) fa perno sulla logica del bilanciamento tra diritto alla difesa e riservatezza. La norma del 2017 si riferisce all’esibizione ordinata dal giudice alla parte o ad un terzo, prevedendo che il giudice possa disporre, sentito il soggetto nei cui confronti l’ordine è rivolto, specifiche misure di tutela, tra le quali l’obbligo del segreto, la possibilità di non rendere visibili le parti riservate di un documento, la conduzione di audizioni a porte chiuse, la limitazione del numero di persone autorizzate a prendere visione delle prove, il conferimento ad esperti dell’incarico di redigere sintesi delle informazioni in forma aggregata o in altra forma non riservata.
Se non che, conclude il Presidente, disposizioni di questo tipo non si riferiscono “al caso di produzione volontaria di documentazione”; consentono di imporre il segreto “alle parti che vengono a conoscenza del materiale riservato del processo”, ma non implicano la “possibilità di produzione di prove totalmente segrete o confidenziali contro un contraddittore processuale”, né “comportano sottrazione delle prove al contraddittorio o esclusione totale dello stesso come nel caso della c.d. prova confidenziale ( conosciuta dal giudice e non dall’altra parte del rapporto triadico processuale)”.
Se, quindi, nel processo amministrativo (come in qualsiasi altro processo di parti) la prova “confidenziale” non può trovare ingresso, non è perché si debba mettere in discussione la riservatezza di ciò che documenta, ma perché si tratta di una prova allegata volontariamente. Ove il giudice potesse ammetterla, riconoscendosi perciò vincolato alla sua valutazione, ma al tempo stesso sottrarla al contraddittorio, la sua imparzialità ne risulterebbe inevitabilmente compromessa. E nemmeno, a me pare, ci si troverebbe di fronte ad uno di quei casi in cui la Corte costituzionale ha considerato legittime, con riferimento al contraddittorio processuale, le limitazioni a diritti o libertà, anche fondamentali, in ossequio al “bene” o al “valore fondamentale della giustizia (…) anche esso garantito, in via primaria, dalla Costituzione”[13].
Il principio al quale si deve fare riferimento è un altro. “Salvi i casi previsti dalla legge” – recita l’art. 64 c.p.a. – “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite”. Tanto basta a negare che il giudice possa porre a fondamento della decisione un documento massimamente contestabile ed inutilizzabile per antonomasia: quello che una delle parti, durante il corso del giudizio, non ha potuto conoscere.
Insomma “Non si deve sussurrare al giudice”, come ricorda il decreto n. 1354/2023 nelle sue battute conclusive: l’affermazione è tra parentesi, ma rappresenta il nucleo della decisione. Si permetta anzi una piccola correzione. Non è solo il giudice penale (per via dell’art. 203 c.p.p.) che “si ferma sulla soglia delle c.d. informazioni confidenziali al fine di non dare ingresso a materiali spuri nel processo”. Ogni processo rifugge da “materiali spuri” e se questa è la “prova confidenziale”, tanto vale affrettarsi a concludere che essa, prima ancora che incompatibile con il giudizio amministrativo, è contraria alla logica tipica di qualunque processo (quand’anche fosse prevista dalla legge: se quel “vuoto”, cioè, fosse colmato).
5. Qualche precisazione conclusiva
Semmai, al di là del caso di specie – molto brevemente quindi – ci si potrebbe attardare su una diversa considerazione. Se il ricorrente ritiene che la circolazione in ambito processuale di un documento possa nuocere alla sua riservatezza, ma al tempo stesso stima che il mancato deposito possa impedirgli di dimostrare fatti posti a fondamento della propria pretesa, può chiedere al giudice amministrativo di cooperare al mantenimento di un certo riserbo sulle informazioni confidenziali. Riguardo a questa eventualità, una volta ribadito che mantenere il riserbo su un documento non significa sottrarlo al contradittorio con il controinteressato, non pare che dal complesso delle disposizioni formulate nell’art. 63 c.p.a. emergano ostacoli all’applicazione di quelle norme del codice di procedura civile, che il decreto n. 1354 ha (giustamente) considerato inapplicabili (avendo il ricorrente chiesto la segregazione del documento).
Malgrado l’inesistenza di norme specifiche (ma proprio per questo d’altronde), non sembra vi siano ostacoli a che il giudice prescriva su istanza di parte, come quelle presentate nel caso che ci occupa, le cautele che egli dovrebbe indicare nel caso in cui disponesse, anche d’ufficio, l’acquisizione del documento (art. 63 comma 2 e 64 comma 3 c.p.a.)[14]. Da quest’angolazione, l’impressione è che norme come l’art. 3 comma 4 d.lgs. n. 3/2017, l’art. 211 c.p.c. o l’art. 840-quinquies c.p.c. possano essere ritenute espressive di princìpi generali, applicabili, in forza dell’art. 39 c.p.a., anche al processo amministrativo. L’art. 136 comma 2 c.p.a. consente il deposito in forma non telematica; già oggi quindi l’esigenza di protezione in parola non è del tutto estranea alla disciplina del processo. Nulla perciò, a mia opinione, si opporrebbe ad ammettere, ad esempio, l’obbligo di segreto o la limitazione del numero di persone autorizzate alla visione.
Questo d’altronde corrisponde a ciò che lo stesso Consiglio di Stato ha già affermato, quando si è pronunciato sulla possibilità di acquisire dall’AGCM, “perché siano sottoposte alla cognizione del Collegio ed al contraddittorio delle parti – le dichiarazioni integrali del collaborante (leniency applicant), non potendosi ammettere una sottrazione, neppure parziale, del predetto materiale istruttorio al giudice ed alle parti del giudizio (…) resta fermo che le parti potranno utilizzare le informazioni desunte dalle dichiarazioni legate al programma di trattamento favorevole solo in quanto necessario per l’esercizio dei diritti di difesa nel presente procedimento e con l’obbligo di non divulgarle a terzi estranei” (corsivo aggiunto) [15].
Stiamo però ragionando, si ripete, su un’ipotesi che non è quella di specie. Ogni spiraglio si chiude infatti, inevitabilmente, quando la parte avanza la specifica richiesta che il documento sia utilizzato senza essere sottoposto al contraddittorio e dimostra quindi di intendere la “prova confidenziale” come figura o istituto rappresentativo di un canale privilegiato del rapporto con il giudice.
6. Dove il “vuoto legislativo” esiste davvero
Tutt’altro contesto è quello a cui fa riferimento il decreto n. 1354 nella parte in cui si sofferma sul problema dell’utilizzabilità del documento coperto da segreto di Stato, che il giudice monocratico menziona proseguendo l’argomento avviato in margine alla disciplina del segreto nell’interesse della sicurezza dell’Unione (art. 105 del Regolamento di procedura del Tribunale dell’Unione europea).
Qui, sì, un vuoto normativo inizia a prendere consistenza; ma se si conviene con le cose dette fino a questo momento, non appare argomento calzante al caso di specie, dove non si tratta di segreto condizionante il processo per ragioni di tutela della sicurezza della Repubblica, ma di un “segreto privato” (si ripete, con tutta l’ambiguità del termine) trasformato in pretesa istruttoria di segretezza “interna” e giustamente considerata immeritevole di protezione perché in contrasto con il principio di imparzialità del giudice.
Ciò chiarito, è innegabile che la menzione del problema, benché solo evocativa, non lascia del tutto insensibili. La prospettiva d’indagine che si dischiude a proposito del segreto di Stato nel processo amministrativo è stata perlopiù trascurata dalla dottrina fino a tempi recentissimi[16], in cui si è fatta luce su una questione di notevole delicatezza e di non poco momento. Il ricorrente nel processo amministrativo non ha alcun diritto di accampare la tutela extraprocessuale del segreto quale limite alla pienezza ed integrità del contraddittorio. L’amministrazione resistente invece sì: per quest’ultima le cose non stanno affatto allo stesso modo in cui l’ordinamento le disciplina nella sfera delle altre parti. L’autorità convenuta può ottenere ragione in base a documenti “confidenziali”, sottratti al contraddittorio e finanche alla cognizione del giudice. Questo almeno è ciò che si constata con una certa regolarità in giurisprudenza, nei casi di impugnazione di provvedimenti (ad esempio il diniego di cittadinanza) fondati su informazioni derivanti da attività di intelligence[17]. Sul punto tuttavia il discorso non può essere utilmente proseguito, salvo notare (a prima impressione) che tale indirizzo sia negli ultimi tempi caratterizzato da un andamento forse meno lineare[18].
[1] Il provvedimento è consultabile per esteso in AGCM, Bollettino settimanale, Anno XXXIII - n. 31, 5 ss.
[2] TAR Lazio, sez. I, RG 12837/2023.
[3] TAR Lazio, sez. I, ord. 13 ottobre 2023, n. 6894 (camera di consiglio dell’11 ottobre 2023).
[4] Sezione VI, RG n. 8523/2023.
[5] È significativo che la stampa abbia descritto tale vicenda come la “guerra delle multinazionali dei cavi” (notizia pubblicata sul quotidiano Il Giorno, Milano, 26 agosto 2023).
[6] Sulla dottrina di stampo tedesco, R. Bonatti, Appunti sulla riservatezza degli atti e dei documenti nel processo, in Diritto.it, 29 marzo 2019; in margine all’art. 105 del Reg. Proc. Tribunale U.E., criticamente, M.G. Rancan, Prove “confidenziali” quando è in gioco la sicurezza dell’Unione, in Questione giustizia online, 28 gennaio 2015.
[7] Si tratta della monografia di S. Tranquilli, Il segreto in giudizio. Contributo allo studio del rapporto tra diritto di difesa e tutela della segretezza nel processo amministrativo, Napoli, 2023.
[8] Già su questa nozione peraltro il nostro ordinamento offre spunti tutt’altro che univoci (S. Tranquilli, op. cit., 27).
[9] G. Verde, Riflessioni di un anticoncettualista sulle parti del processo dinanzi al giudice amministrativo, in Riv. dir. proc. amm., 2023, 201 ss.; gli spunti a cui si accenna sono alle pp. 205, 214.
[10] Sia permesso rinviare, sull’argomento, al recente numero 2/2023 della Rivista di diritto processuale amministrativo e qui ad es. L. Bertonazzi, Appunti sparsi sul processo amministrativo di legittimità ed i terzi, ivi, 181 ss.
[11] Alcuni spunti in G. Tropea, L’intervento volontario nel processo amministrativo di primo grado, in Riv. dir. proc. amm., 2023, in Riv. dir. proc. amm., 2023, 20, sul collegamento tra disponibilità del rapporto processuale da parte del giudice e ragione obbiettiva pro-concorrenziale (con riguardo al contenzioso sui contratti pubblici).
[12] Attuazione della direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell'Unione europea.
[13] Corte cost., sentenze n. 114/1968 e n. 18/1966.
[14] Sullo stretto rapporto tra la libera produzione delle prove documentali e il regime dell’esibizione nel processo civile, (e sulla posizione giuridica della parte) S. La China, Esibizione, in Enc. dir., vol. XV, 1966, 698 ss., 699, 701.
[15] Cons. Stato, VI, ord. 27 settembre 2021, n. 6503. Sul punto, S. Tranquilli, op. cit., 160 (e nota 38).
[16] Come già detto, il tema è ora riconsiderato da S. Tranquilli, op. cit.
[17] TAR Lazio, sez. V bis, 4 ottobre 2023, n. 14676, 8 giugno 2023, n. 9773, 2 maggio 2023, n. 7392, n. 15922; Cons. Stato, 5 giugno 2023, n. 5489 (sulla sufficienza della formula motivazionale del diniego di cittadinanza per «contiguità del richiedente a movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica»; TAR Lazio, sez. I ter, 6 novembre 2023, 16449 e 9 ottobre 2023, n. 14875); Cons. Stato, sez. III, 11 maggio 2023, n. 4765.
[18] TAR Lazio, sez. V bis, ord. 17 novembre 2023, 17173, che ordina l’esibizione in un ricorso avverso il diniego di cittadinanza, considerato «che il Consiglio di Stato, su fattispecie analoghe a quella in esame, ha affermato che (…) nel rispetto del principio del contraddittorio e, quindi, di parità delle parti di fronte al giudice (c.d. parità delle armi), la conoscenza del documento deve essere comunque consentita in corso di giudizio al difensore dello straniero. In sostanza, in presenza di informative con classifica di "riservato", il richiamo ob relationem al contenuto delle stesse può soddisfare le condizioni di adeguatezza della motivazione, mentre l'esercizio dei diritti di difesa e la garanzia di un processo equo restano soddisfatti dall'ostensione in giudizio delle informative stesse con le cautele e garanzie previste per la tutela dei documenti classificati da riservatezza” (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 3281/2019 e 7904/2019). Il TAR ritiene pertanto «necessario, ai fini del decidere, acquisire dall’Amministrazione resistente la documentazione istruttoria sulla base della quale è stato emesso il provvedimento impugnato, con l’adozione delle cautele necessarie (stralci ed omissis) a tutela delle fonti di informazione, nonché al fine di non pregiudicare l’attività di intelligence, ogni altra misura ritenuta al tal fine opportuna, ovvero una relazione, da cui si evincano le specifiche ragioni che possano indurre a ritenere ragionevole la determinazione di non trasmettere i medesimi atti»; conforme TAR Lazio, sez. V bis, ord. 27 ottobre 2023, n. 15963; Cons. Stato, sez. III, 12 giugno 2023, n. 5759, secondo cui (con riferimento alla sottrazione del documento all’accesso di cui alla legge n. 241/1990 “L'accesso disposto dall'autorità giurisdizionale (…) nell’ottica del legislatore, rappresenta il punto di equilibrio e proporzione tra due contrapposti interessi, il diritto di difesa del soggetto interessato e il bene della sicurezza nazionale»; ragion per cui «è quella giurisdizionale – nell’ambito del giudizio di impugnazione del provvedimento di rigetto della concessione della cittadinanza italiana – l’unica sede idonea all'esame degli atti riservati, in quanto preposta dalla legge a garantire il corretto equilibrio tra i contrapposti interessi difensivi, nell'ambito del suo potere di ponderazione e prescrizione delle modalità per garantire l'accesso nel rispetto dei vincoli di legge") nell'ottica del legislatore, rappresenta il punto di equilibrio e proporzione. Per le possibili conseguenze sul merito del ricorso, TAR Lazio, sez. V bis, 14 novembre 2023, n. 16964 (sulla illegittimità dell’atto il cui iter logico non risulti comprensibile).
di Tania Linardi
Sommario: 1. Lo svolgimento del processo e le quaestiones sottoposte alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - 2. La giurisdizione della Corte dei conti e la responsabilità amministrativo-contabile: cenni - 2.1. Segue: il danno “da disservizio” - 3. La decisione delle Sezioni Unite - 4. Considerazioni conclusive.
1. Lo svolgimento del processo e le quaestiones sottoposte alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
Le Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2370[1] pubblicata il 25 gennaio 2023, affrontano la delicata tematica dei limiti del sindacato della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativo-contabile del magistrato, configurando, per la prima volta, una possibile ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale[2] per sconfinamento nella sfera del legislatore, fattispecie che, come rilevato da autorevole dottrina, la giurisprudenza ha solo enunciato in astratto, ma, almeno prima d’ora, mai riscontrato in concreto[3].
Nello specifico, infatti, le Sezioni Unite hanno evidenziato che il giudice contabile “ritenendo configurabile la responsabilità amministrativa del magistrato convenuto, e quindi ammissibile la tutela risarcitoria, al di là dei confini della stessa derivanti dal sistema elaborato dal diritto vivente (…), ha finito con il creare una nuova fattispecie di responsabilità erariale (…), così superando i limiti esterni della giurisdizione spettante alla Corte dei conti in materia di contabilità pubblica”.[4]
La vicenda in esame origina dalla domanda, presentata dalla Procura regionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana, di condanna di un magistrato (all’epoca in servizio presso il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana) al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno da disservizio derivante dai reiterati ritardi nel deposito di provvedimenti giudiziari.
La Sezione giurisdizionale di I grado, con sentenza n. 420 del 2020, accoglieva la domanda, rigettando l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal magistrato convenuto, con l’argomento che le contestazioni della Procura non erano riferibili a un’ipotesi di responsabilità disciplinare o sanzionatoria, piuttosto al danno erariale cagionato dal mancato puntuale adempimento del dovere di tempestivo deposito dei provvedimenti giudiziari, che aveva arrecato “un vulnus concreto ed attuale all’efficienza ed al buon andamento del servizio giustizia (…), rendendo ingiustificata, almeno in parte, la retribuzione corrisposta al medesimo magistrato (…)”.
Con sentenza depositata il 31 dicembre 2021, la Sezione giurisdizionale d’appello accoglieva parzialmente il gravame proposto dal magistrato, rideterminando l’importo dovuto a titolo di risarcimento del danno, e confermando il rigetto dell’eccezione di difetto di giurisdizione. A tale riguardo, la sentenza ha evidenziato che la domanda di condanna formulata dalla Procura contabile afferiva al risarcimento del danno da disservizio, inteso come “danno arrecato al corretto ed efficiente esercizio della funzione giurisdizionale”, e che, in via generale, la legge 13 aprile 1998, n. 117 non escluderebbe né la configurabilità di ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile del magistrato per i danni cagionati all’amministrazione di appartenenza, né la conseguente esperibilità dell’azione risarcitoria dinanzi alla Corte dei conti.
Avverso tale pronuncia, il magistrato ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre ordini di motivi.
Con il primo motivo, ha denunziato, in relazione agli artt. 362, comma 1, e 360, comma 1, n. 1), c.p.c., la violazione degli artt. 3, 103 e 108 Cost., dell’art. 1 c.p.c., della legge 13 aprile 1988, n. 117 (artt. 2, 3, 13), delle norme sul procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati speciali (art. 2, lett. q) del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, nonché l’art. 32 della legge 27 aprile 1982, n. 186), per avere la sentenza ritenuto sussistente la giurisdizione della Corte dei conti “in materia di risarcimento dei danni da disservizio, consistente nel sistematico ritardo nel deposito delle sentenze (…)”. Si invoca, quindi, l’applicazione della legge n. 117 del 1988, come modificata dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18, contenente la disciplina relativa alla materia della responsabilità dei magistrati anche per i casi di “denegata giustizia”, nel cui novero rientrerebbe la fattispecie del tardivo deposito dei provvedimenti. Inoltre, il ricorrente ha dedotto che spetterebbe al Presidente del Consiglio dei ministri l’esercizio, dinanzi al giudice civile, dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato per i danni subìti dallo Stato nell’ipotesi in cui abbia dovuto risarcire il cittadino, rinvenendo tale circostanza fondamento costituzionale nell’art. 108 Cost., in particolare nell’esigenza di garantire l’indipendenza dei giudici delle magistrature speciali.
Con il secondo motivo di ricorso, in via subordinata, il magistrato ha chiesto la rimessione alla Corte costituzionale della eccezione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 103 e 108 Cost., dell’art. 1 del codice di giustizia contabile, ove interpretato nel senso di non escludere la giurisdizione contabile nella materia per cui è causa, essendo stata attribuita al giudice ordinario nel procedimento disciplinato dalla legge n. 117 del 1988.
Con il terzo motivo, in via di ulteriore subordine, il ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 2, comma 3-bis, e art. 13, comma 2-bis, della legge n. 117 del 1988, applicata retroattivamente dal giudice a quo pur trattandosi di disposizione avente carattere innovativo.
Così brevemente riassunti i motivi di ricorso, nel prosieguo della trattazione ci si soffermerà, prima di esaminare la decisione cui giungono le Sezioni Unite, sull’analisi delle questioni giuridiche connesse al primo motivo: la tematica della responsabilità amministrativo-contabile, la figura del “danno da disservizio” e la perimetrazione della giurisdizione del giudice contabile.
2. La giurisdizione della Corte dei conti e la responsabilità amministrativo-contabile: cenni
L’istituzione della Corte dei conti[5], come noto, risale al momento dell’adozione della legge 14 agosto 1862, n. 800[6], finalisticamente orientata a risolvere il delicato problema della approvazione del bilancio nazionale, nonché dell’unificazione della materia del controllo mediante la soppressione delle magistrature preunitarie.[7]
Successivamente, in subiecta materia si susseguirono una serie di interventi legislativi[8], tra i quali è possibile menzionare il d.lgs. 18 novembre 1923, n, 2441 e la l. 3 aprile 1933, n. 255[9], disposizioni che, in seguito, erano destinate a confluire nel Testo Unico (Regio Decreto 12 luglio 1934, n. 1214) recante le linee fondamentali della disciplina di tale organo con riferimento sia alle funzioni di controllo sia a quelle giurisdizionali.[10]
Con l’avvento della Costituzione veniva delineato, ai sensi dell’art. 28[11], il principio secondo cui i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, sul piano civile, penale e amministrativo debbono ritenersi soggetti a responsabilità diretta per i danni arrecati ai terzi “per gli atti compiuti in violazione dei diritti”.[12] Inoltre, gli artt. 100 e 103 della Carta costituzionale cristallizzavano, rispettivamente, l’attribuzione alla Corte dei conti delle funzioni di controllo e di quelle aventi natura giurisdizionale.[13]
In relazione alla funzione giurisdizionale l’art. 1, comma 1, Codice della giustizia contabile[14] delinea il perimetro della giurisdizione in relazione ai giudizi di conto, alle ipotesi di responsabilità amministrativa per danno all’erario, nonché agli altri giudizi in materia di contabilità pubblica.[15]
Più nel particolare, con l’espressione “responsabilità amministrativa per danno all’erario”, si suole designare la responsabilità in cui incorrono gli agenti pubblici che cagionano alle pubbliche amministrazioni un danno, suscettibile di quantificazione economica, derivante dall’adozione di provvedimenti o da comportamenti, contrari agli obblighi di servizio, dolosi o gravemente colposi[16], ferme restando le sopravvenienze normative che hanno interessato quest’ultimo elemento, come di qui a breve si dirà.
La disciplina in tema di responsabilità amministrativa[17] è contenuta principalmente nelle leggi 14 gennaio 1994, n. 19 e 20[18] (e relative integrazioni di cui alla legge 20 dicembre 1996, n. 639) [19], specie nella parte in cui si afferma, all’art. 1 (l. n. 20 cit.), che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave[20], ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.
L'estensione soggettiva dell’ambito di applicazione di suddetta responsabilità (e, dunque, della portata applicativa dell’art. 28 Cost.) promana necessariamente dall’ampiezza della nozione di “agenti pubblici” sottoposti alla giurisdizione contabile.[21] In una prima fase, la giurisprudenza ha ricondotto all’interno di tale categoria i soggetti legati alla pubblica amministrazione da un rapporto di “impiego” ovvero da quello onorario (gli amministratori).[22] Successivamente, l’interpretazione pretoria della Corte dei conti, superando il riferimento al concetto di mero “rapporto di impiego” e utilizzando, in senso estensivo, il dato normativo di cui all’art. 52, comma 1, t.u. C. conti,[23] ha progressivamente ampliato il contenuto della nozione di “agenti pubblici” sino a ricomprendervi anche i soggetti funzionalmente legati all’ente da un “rapporto di servizio”.[24] Quest’ultimo, infatti, presuppone la compartecipazione dell’agente pubblico (persona fisica o giuridica) all’organizzazione e all’attività di una pubblica amministrazione[25] ma, ai fini della sua configurabilità, non rilevano taluni fattori che, tradizionalmente, hanno invece caratterizzato la relazione tra organo amministrativo e pubblica amministrazione: la natura giuridica del soggetto agente (pubblica o privata), il titolo giuridico con cui si instaura la relazione tra l’agente e la p.a. (contrattuale o provvedimentale) e la natura giuridica delle attività esercitate dal soggetto agente.[26]
Ciò posto, occorre precisare che, durante il periodo pandemico, il legislatore ha introdotto una disciplina transitoria[27]consistente nella limitazione della responsabilità erariale degli agenti pubblici, di fatto riducendo il perimetro del sindacato spettante alla Corte dei conti in subiecta materia. Secondo questa disciplina, attualmente in vigore[28], l’elemento soggettivo della “colpa grave” poc’anzi accennato non è più idoneo a far sorgere la responsabilità erariale, dovendosi, piuttosto, accertare la sussistenza di un comportamento dell’agente connotato da dolo, ad eccezione dei danni cagionati da omissione o inerzia, espressamente esclusi da tale previsione normativa.
In via generale, la ratio della responsabilità amministrativo-contabile è rinvenibile primariamente nell’esigenza di salvaguardare la corretta gestione delle risorse pubbliche esercitata dallo Stato e dagli enti pubblici, in coerenza con il principio del buon andamento di cui all’art. 97 Cost.[29]
Sulla natura giuridica della responsabilità in argomento, senza pretesa di esaustività, si sono distinte talune tesi sulla natura privatistica, talaltre sulla natura pubblicistica repressivo-sanzionatoria, nonché una terza tesi mediana c.d. “eclettica”.[30]
La prima si fonda sul riconoscimento della matrice civilistica (e sulla funzione “recuperatoria”) di tale responsabilità, in ragione, tra gli altri, dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti delle azioni finalizzate a garantire il credito erariale (art. 73, cod. giust. cont., già art. 1, comma 174, l. 23 dicembre 2005, n. 266), nonché di ulteriori enunciati giurisprudenziali (sentenza c.d. Rigolio, 23 maggio 2014, su ricorso n. 20148/09) ai sensi dei quali è stata prospettata una lettura civilistica della natura della responsabilità amministrativa azionata innanzi alla Corte dei conti, escludendosi la sua assimilabilità ai giudizi penali o quelli aventi natura “sanzionatorio-punitiva”.[31] All’interno di tale orientamento si distingue la tesi che invoca la natura extracontrattuale di tale forma di responsabilità, con conseguente riconoscimento della atipicità dell’illecito de quo[32], da quella tesi che, in senso opposto, si incentra sulla natura eminentemente contrattuale,[33] sottolineando come l’illecito amministrativo-contabile rappresenti una violazione del sottostante rapporto negoziale tra l’amministrazione datrice di lavoro ed il responsabile.
La seconda opzione ermeneutica, invece, evidenzia la matrice eminentemente pubblicistica di siffatta forma di responsabilità, alla luce della prevalente funzione repressivo-sanzionatoria che la caratterizza.[34] Tra gli argomenti a sostegno di tale ricostruzione, si suole richiamare, ad esempio, la circostanza del doveroso accertamento dell’elemento psicologico della condotta dell’autore del danno erariale ai fini della graduazione della condanna, similmente a quanto accade nella materia del diritto penale.
Infine, la terza impostazione c.d. “eclettica” valorizza sia i profili compensativi-risarcitori (reintegra pecuniaria del soggetto pubblico danneggiato) sia le finalità sanzionatorie-preventive, alla luce della graduazione della condanna in proporzione della gravità della condotta e dell’intensità dell’elemento psicologico.[35]
Ad ogni modo, rispetto all’ordinaria responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c., quella amministrativo-contabile si caratterizza per la presenza di taluni caratteri di peculiarità: il danno erariale[36], il diverso grado di intensità dell’elemento soggettivo, nonché, come evidenziato dalla giurisprudenza, “la particolare qualificazione del soggetto autore del danno (pubblico dipendente o soggetto legato alla P.A. da rapporto di servizio), (per) la natura del soggetto danneggiato (ente pubblico e assimilati) e (per) la causazione del danno nell’esercizio di pubbliche funzioni o in circostanze legate da occasionalità necessaria con lo svolgimento di pubbliche funzioni”. [37] Ciò in quanto l’illecito erariale che viene in rilievo risulta caratterizzato dalla “combinazione di elementi restitutori e di deterrenza” [38].
2.1. Segue: il danno “da disservizio”
La figura del danno da disservizio costituisce una fattispecie rientrante nell’alveo della responsabilità amministrativa. Essa ha origine giurisprudenziale[39] ed è riconducibile, in via generale, all’esercizio di un’attività della p.a. in modo inefficiente e con una qualità del servizio[40] inferiore rispetto ai normali standard di erogazione, non consentendo la soddisfazione degli interessi e delle aspettative degli utenti del servizio pubblico.[41]
Storicamente, si è assistito ad un progressivo ampliamento del perimetro di operatività della responsabilità amministrativo-contabile, sino a ricomprendere, su impulso dell’interpretazione pretoria, un’ampia varietà di figure di danno pubblico caratterizzate dalla compromissione di interessi pubblici di carattere generale connessi all’equilibrio economico e finanziario.[42]
Invero, la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, nell’ambito della pronuncia che qui si annota, ha evidenziato come il danno da disservizio sia ravvisabile in quegli illeciti caratterizzati dalla “diminuzione di rendimento dell’azione amministrativa eziologicamente connessa alla lesione dell’agire amministrativo nei suoi valori fondamentali, tra cui il buon andamento e l’imparzialità: dall’inosservanza dei doveri del pubblico dipendente deriva la diminuzione di efficienza dell’apparato pubblico per la mancata o ridotta prestazione del servizio o per la cattiva qualità dello stesso. Il danno da disservizio presuppone una distorsione dell’azione pubblica rispetto al fine cui l’azione stessa deve essere indirizzata. Il danno si verifica quando il pubblico servizio è “desostanziato”, per l’utenza, delle sue intrinseche qualità. Si è di fronte a un pregiudizio sofferto dalla collettività in ragione dell’esercizio sviato della funzione amministrativa”.[43]
D’altro canto, sotto il profilo teorico è emersa la difficoltà di individuare con precisione i presupposti del danno da disservizio, in ragione del carattere ontologicamente atipico[44] ed essendo esso idoneo a ricomprendere un’ampia gamma di ipotesi di pregiudizio riferibili ai diversi settori della p.a.[45] La stessa giurisprudenza contabile ha, invero, affermato che, nell’ambito della fattispecie in esame, risulta talvolta difficile quantificare, mediante una precisa misurazione economica, la diminuzione di rendimento[46] dell’attività amministrativa derivante dalla lesione di valori quali il buon andamento di cui all’art. 97 Cost.[47]
Nello specifico, secondo un orientamento il danno da disservizio si concretizzerebbe nella ingiustificata retribuzione percepita dal danneggiante (e nel conseguente danno arrecato all’amministrazione di appartenenza per l’inutilità della spesa sostenuta) nei casi di accertata grave inadempienza della prestazione, riscontrandosi in siffatte ipotesi sia un parziale inadempimento dell’obbligazione lavorativa sia la violazione dei canoni di lealtà, buona fede e diligenza.[48]
Altra parte della giurisprudenza ha evidenziato come tale voce di danno debba rinvenirsi nelle spese sostenute dalla p.a. per individuare e arginare gli effetti del disservizio, potendosi concretizzare, a titolo esemplificativo, negli oneri sostenuti per la riorganizzazione dell’ufficio oppure nei costi derivanti dalla costituzione di una commissione di inchiesta per indagare sui fatti legati al disservizio.[49]
Ancora, valorizzandosi il carattere patrimoniale[50] del danno da disservizio e la necessità che si sostanzi in un’effettiva perdita patrimoniale per la p.a., si è giunti a ritenere che esso debba essere provato nel suo ammontare e non possa ritenersi sussistente per la mera violazione degli obblighi di servizio da parte del trasgressore.[51]
Nell’ambito delle numerose fattispecie riscontrate in subiecta materia dalla giurisprudenza contabile, si segnalano, a titolo meramente esemplificativo, la vicenda legata all’anticipazione, da parte di un commissario, dei temi concorsuali in favore di taluni candidati[52]; nonché quella connessa all’indebita discriminazione dell’ordine di lavorazione delle pratiche perpetrata dal pubblico funzionario, con un comportamento delittuoso, assicurando un canale preferenziale ad alcuni imprenditori e professionisti.[53]
Dopo aver esaminato la nozione di danno, seppure limitatamente alla particolare ipotesi del “disservizio”, occorre richiamare un istituto che tradizionalmente connota la giurisdizione contabile nella materia della responsabilità amministrativa per danno all’erario, ovverosia il “potere riduttivo dell’addebito”.[54] Con tale espressione[55], si suole designare il potere del giudice contabile, nell’ambito di una sentenza di condanna, di porre a carico degli agenti pubblici “tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”.[56] Per tal ragione, non vi è sempre una necessaria coincidenza tra il danno subìto dalla p.a.[57] (accertato secondo il principio delle conseguenze dirette ed immediate del fatto dannoso ex art. 1223 c.c.) e il danno definitivamente posto a carico dell’agente pubblico, che deve essere quantificato dal giudice con “valutazione discrezionale ed equitativa” fondata sulla intensità dell’elemento soggettivo dell’agente e sulle circostanze che vengono in rilievo nel caso concreto.[58] Alla luce di tali caratteri che contraddistinguono il potere riduttivo del giudice contabile, si evidenzia, infatti, che “la sentenza della Corte dei conti è (…) determinativa e costitutiva del debito risarcitorio”.[59]
3. La decisione delle Sezioni Unite
Come accennato in premessa, le Sezioni Unite, nell’ordinanza che qui si annota, affrontano la questione relativa alla perimetrazione della responsabilità amministrativo-contabile del magistrato, soffermandosi, in particolare, sulle relative conseguenze in punto di giurisdizione.
Preliminarmente, il Collegio richiama talune importanti statuizioni effettuate dalla Corte costituzionale, chiarendo che sussiste “la conciliabilità in linea di principio dell’indipendenza della funzione giudiziaria con la responsabilità nel suo esercizio, non solo con quella civile, oltre che penale, ma anche amministrativa, nelle sue diverse forme”.[60]
Ripercorrendo la giurisprudenza di legittimità sul punto, l’ordinanza evidenzia come debba ritenersi configurabile la responsabilità amministrativa del magistrato non solo nelle ipotesi di danno patrimoniale cagionato allo Stato a causa della commissione di un reato[61], ma anche, in senso più ampio[62], nelle ipotesi derivanti dalla violazione di doveri strumentali rispetto alle funzioni concretamente svolte, tra cui figura, ad esempio, il dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento di incarichi extralavorativi[63].
Nel particolare, il Collegio[64] sottolinea come dall’art. 7, legge n. 117 del 1998 non possa sic et simpliciter escludersi la possibilità che si instaurino, nei confronti di un magistrato, altri giudizi dinanzi alla Corte dei conti, secondo la disciplina della responsabilità amministrativa, giacché tale legge “non esaurisce in sé ogni forma di responsabilità perché, nella sua regolazione, attiene all’ambito di quella civile”.[65]
La pronuncia prosegue evidenziando che la giurisdizione della Corte dei conti si radica nelle ipotesi di danni cagionati all’erario dal magistrato nell’esercizio di funzioni amministrative[66] sia per quelli derivanti dall’esercizio di funzioni giudiziarie (ferma restando l’insindacabilità nel merito dei provvedimenti giudiziari e il limite della indipendenza funzionale), nonché nei casi di danno all’immagine[67] arrecato alla p.a. per delitti commessi in danno ad essa, ai sensi dell’art. 51 cod. giustizia contabile.
La Suprema Corte ha, poi, effettuato una ricognizione delle diverse conseguenze che potrebbero derivare, sul piano normativo, dal ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali da parte del giudice (ferma restando la responsabilità del magistrato per fatti costituenti reato[68], ai sensi dell’art. 13, legge n. 117 del 1988, nelle ipotesi in cui il ritardo configuri la fattispecie di rifiuto di atti d’ufficio).
L’ordinanza ha quindi osservato che tale condotta potrebbe, in primo luogo, assumere rilievo dinanzi al giudice contabile nell’ambito del giudizio di rivalsa verso il magistrato per i danni risarciti dallo Stato in caso di irragionevole durata del processo, ai sensi della legge n. 89 del 2001.
In secondo luogo, il ritardo potrebbe integrare una fattispecie di illecito disciplinare, in presenza dei requisiti di cui all’art. 2, comma 1, lett. q), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, con la conseguente irrogazione della sanzione disciplinare. In tal caso, infatti, il ritardo rileverebbe nella misura in cui sia espressione della mancanza di laboriosità, alla luce di una valutazione complessiva del carico di lavoro dell’ufficio.[69] Si precisa che, ai sensi del rinvio operato dall’art. 32, legge 27 aprile 1982, n. 186, in relazione alla responsabilità disciplinare dei giudici amministrativi continua ad applicarsi la disciplina contenuta nel regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, ove si definisce l’illecito disciplinare (art. 18).[70]
Ulteriormente, il ritardo potrebbe configurare un’ipotesi di diniego di giustizia, ai sensi dell’art. 3, legge 117 del 1988, con conseguente responsabilità civile del magistrato.
Ciò chiarito in via generale, le Sezioni Unite hanno affermato che, nel caso di specie, il ritardo del magistrato deve essere correttamente qualificato in termini di illecito disciplinare, fattispecie che, come noto, è rimessa alla valutazione dell’organo di governo autonomo della magistratura; e hanno, poi, specificato che la responsabilità disciplinare del magistrato non integra una mera responsabilità verso l’ordine di appartenenza, dispiegando effetti anche nei confronti della generalità dell’ordinamento costituzionale, stante la rilevanza che assume il rispetto delle regole disciplinari da parte dei magistrati.
Invece, la Sezione giurisdizionale d’appello aveva condannato il giudice amministrativo a risarcire un danno erariale da disservizio per essere incorso in gravi e sistematiche inadempienze, impedendo il raggiungimento dei migliori standard di efficienza nell’ambito del “servizio giustizia”. In altri termini, aveva ritenuto sussistenti tutti gli elementi costitutivi del danno erariale da disservizio, idoneo a far sorgere la responsabilità amministrativo-contabile del magistrato autore della condotta antigiuridica.[71] Si riscontrava, quindi, un’ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile per un danno direttamente derivante dalla negligente attività lavorativa del magistrato che depositava con ritardo i provvedimenti di sua competenza.
Contro tali approdi ermeneutici, le Sezioni Unite hanno rilevato che l’ipotesi de qua non integra alcuna delle fattispecie normative cui la legge ricollega il sorgere della responsabilità erariale: non è stata esercitata un’azione di risarcimento del danno erariale per la condotta del magistrato derivante da reato; non è stata esercitata un’azione di rivalsa per danni risarciti dallo Stato a terzi a causa dell’irragionevole durata del processo, ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della legge n. 89 del 2001; non vi è stata alcuna condanna dello Stato al risarcimento dei danni per diniego di giustizia.
Conseguentemente, hanno affermato che “la Sezione giurisdizionale d’appello ha esteso il perimetro della responsabilità amministrativo-contabile per danno da disservizio fino a ricomprendervi un’ipotesi di ordinaria violazione del dovere di diligenza del magistrato integrante una figura di illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, come tale rimessa alla valutazione dell’organo di governo autonomo della magistratura amministrativa; e ha finito, così, con il giudicare di una domanda che fuoriesce dall’ambito della cognizione della Corte dei conti”;[72] precisando, poi, che “la responsabilità amministrativa per danno erariale da disservizio non può essere in via interpretativa estesa fino a ricomprendere le ipotesi legate al mero ritardo nel deposito dei provvedimenti da parte del magistrato”.[73]
La Suprema Corte sancisce, quindi, che ai fini del riconoscimento, accanto alla responsabilità disciplinare, di una responsabilità amministrativa per danno erariale da disservizio, è necessaria la presenza di un quid pluris rispetto al mero ritardo. Invero, ciò potrebbe configurarsi in presenza di un danno aggiuntivo, di carattere patrimoniale, derivante dalla condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo a titolo di equa riparazione per irragionevole durata del processo o del risarcimento per diniego di giustizia; ancora, ove il ritardo si traduca in un rifiuto o in una omissione di atti d’ufficio, penalmente rilevante, o sia espressione di un mancato svolgimento della prestazione lavorativa (ipotesi del magistrato “assenteista dalla funzione”).[74]
Alla luce delle considerazioni svolte, le Sezioni Unite affermano che il mero ritardo nel deposito dei provvedimenti non costituisce un elemento idoneo, di per sé solo considerato, a far sorgere una responsabilità amministrativa per danno da disservizio, rilevando, tale condotta, soltanto in termini di illecito disciplinare secondo la valutazione dell’organo disciplinare di governo autonomo. Di talché, la Corte precisa che “ritenendo configurabile la responsabilità amministrativa del magistrato convenuto, e quindi ammissibile la tutela risarcitoria, al di là dei confini della stessa derivanti dal sistema elaborato dal diritto vivente, la Sezione giurisdizionale d’appello della Corte dei conti per la Regione Siciliana ha finito con il creare una nuova fattispecie di responsabilità erariale destinata a investire il medesimo interesse tutelato con l’azione disciplinare officiosa, così superando i limiti esterni della giurisdizione spettante alla Corte dei conti in materia di contabilità pubblica”. Per tali ragioni, nell’accogliere il primo motivo di ricorso e nel ritenere assorbiti i restanti, si dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei conti.
4. Considerazioni conclusive
Come anticipato nei precedenti paragrafi, con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione ha svolto importanti considerazioni, sia sul versante del diritto sostanziale, in tema di illecito erariale e danno da disservizio, sia su quello del diritto processuale, in relazione alla questione dell’eccesso di potere giurisdizionale[75], con particolare riferimento alla dibattuta ipotesi dello sconfinamento dell’attività interpretativa del giudice nella sfera riservata al legislatore[76].
Quanto al primo profilo, il Collegio si sofferma ampiamente sull’analisi delle conseguenze derivanti, in punto di qualificazione dogmatica, dal ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali da parte di un magistrato, nonché sui requisiti necessari ai fini della eventuale configurabilità di un danno “da disservizio”. A tal proposito, la Suprema Corte non esclude, in astratto, che il giudice contabile possa contestare il danno de quo, ma si limita a rilevare che, in concreto, non appare rinvenibile nel caso di specie alcuna fattispecie definibile come tale, giacché “(…) il mero ritardo, da parte di un magistrato amministrativo, nel deposito dei provvedimenti non integra, di per sé, responsabilità amministrativa per danno da disservizio, essendo rimessa la valutazione di tale condotta all’organo disciplinare di governo autonomo, con conseguente difetto di giurisdizione della Corte dei conti”.[77]
Si evidenzia, inoltre, che il danno da disservizio necessita di essere provato, non potendo promanare sic et simpliciter dal mero ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali da parte del magistrato, come sembrerebbe desumersi dalla sentenza sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite.[78]
Quanto al secondo profilo, sul versante processuale le Sezioni Unite hanno, per la prima volta, sia pure in riferimento alla fonte di delimitazione dei confini della giurisdizione e non in riferimento a una norma di diritto sostanziale, riscontrato il superamento, in danno del legislatore, dei limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per avere il giudice contabile, nello specifico, “finito con il creare una nuova fattispecie di responsabilità erariale destinata a investire il medesimo interesse tutelato con l’azione disciplinare officiosa”.
Come noto, la questione dell’individuazione, in concreto, delle fattispecie rientranti nell’alveo dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione”, di cui all’art. 111, comma 8, Cost., è stata (ed è) ampiamente dibattuta, specie per ciò che concerne l’ipotesi dello “sconfinamento” dell’attività giurisdizionale nella sfera riservata al legislatore[79]. La difficoltà di trovare una precisa linea di demarcazione tra ciò che configura una mera violazione di legge e ciò che, invece, è atto a configurare una questione di giurisdizione è testimoniata, in particolare, dalla nota pronuncia n. 6 del 2018 della Corte costituzionale[80], che ha mostrato di non aderire alla tesi secondo cui il ricorso in Cassazione per motivi di giurisdizione di cui all’ottavo comma, art. 111, Cost., ricomprenderebbe anche il sindacato sugli errores in procedendo o in iudicandonei casi di interpretazione “abnorme” delle disposizioni di legge (c.d. interpretazione dinamico-evolutiva). Si evidenziava l’incompatibilità di siffatta tesi rispetto alla “lettera” e allo “spirito della norma costituzionale” (art. 111, comma 8, Cost.). Invero, la Corte escludeva che anche la violazione dei principi in materia di giusto processo ed affettività della tutela, contemplati nell’art. 111, comma 1, Cost., potessero integrare una questione di giurisdizione rilevante ai sensi dell’ottavo comma.
Tale approdo interpretativo non subiva rivisitazioni nemmeno in occasione del rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione europea disposto dalle Sezioni Unite (ord. n. 19598 del 2020)[81] in relazione alla portata applicativa della nozione di eccesso di potere giurisdizionale con particolare riferimento all’ipotesi del rifiuto di giurisdizione[82], atteso che il giudice sovranazionale, al riguardo, precisava che “il diritto dell’Unione non osta a che l’organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro non possa annullare una sentenza pronunciata in violazione di tale diritto dal supremo organo della giustizia amministrativa di detto Stato membro”.[83]
Alla luce di tali importanti arresti giurisprudenziali di cui, seppure brevemente, si è fatto cenno, occorre chiedersi se nell’ordinanza in commento le Sezioni Unite abbiano sostanzialmente aderito a una interpretazione dinamico-evolutiva dell’eccesso di potere giurisdizionale, secondo la quale anche un’interpretazione abnorme delle norme in materia di illecito erariale e danno da disservizio possa ritenersi idonea a configurare il vizio censurabile ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost.; oppure se, diversamente, la pronuncia debba inserirsi nel solco di una più tradizionale ipotesi di superamento dei limiti esterni della giurisdizione.
Sul punto, taluni autori hanno evidenziato come la tecnica argomentativa utilizzata dalla Corte regolatrice si fondi principalmente sulla delimitazione della giurisdizione della Corte dei conti secondo i principi generali cristallizzati nell’art. 103 Cost. per ciò che attiene alle materie di contabilità pubblica[84]. Pertanto, tale approccio ermeneutico sembrerebbe discostarsi dalla metodica fondata sul vaglio della sussistenza di un’ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale, di cui all’art. 111, comma 8, mediante il ricorso al concetto di “interpretazione abnorme” delle norme di riferimento.
Del resto, la tematica dell’eccesso di potere giurisdizionale, specie nella particolare ipotesi che qui viene in rilievo, si profila intimamente connessa con il problema della individuazione degli effetti dell’errore interpretativo[85] del giudice alla luce del delicato rapporto esistente tra legislazione e giurisdizione, tenuto conto della complessità e della difficoltà di distinguere il confine tra la fisiologica attività del giudice di interpretazione del diritto e quella, invece, consistente in una vera e propria “creazione” delle norme. Di talché, la portata innovativa della pronuncia in commento si rinviene principalmente nella circostanza che le Sezioni Unite siano giunte a riscontrare, in concreto, una fattispecie di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera del legislatore, superandosi quella ritrosia che, storicamente, le attribuiva un rilievo meramente “teorico”.[86]
[1] Per approfondimenti, cfr. lezione inaugurale del corso di giustizia amministrativa della Prof.ssa M.A. Sandulli, tenutasi il 6 marzo 2023 presso l’Università degli Studi di Roma Tre, “Eccesso di potere giurisdizionale a margine dell’ordinanza SS.UU. n. 2370/2023”, la cui registrazione è consultabile su youtube e in questa Rivista; nonché, da ultimo, le considerazioni espresse da G. Greco nell’ambito del convegno “Giornate di studio sulla giustizia amministrativa”, Castello di Modanella (16/17 giugno 2023), sul tema “Sindacato sulla discrezionalità amministrativa e ambito del giudizio di cognizione”, il quale ha osservato come, nella specie, vi siano indizi sia per un possibile inquadramento del vizio in termini di sconfinamento della giurisdizione per invasione della sfera del legislatore sia nei termini di sconfinamento per invasione della sfera dell’amministrazione; M.A. Sandulli, Conclusioni delle “Giornate di studio sulla giustizia amministrativa” svoltesi al Castello di Modanella il 16/17 giugno 2023 sul tema “Sindacato sulla discrezionalità amministrativa e ambito del giudizio di cognizione”, in questa Rivista, 6 settembre 2023.
[2] La letteratura sul tema della giurisdizione è naturalmente vastissima. Si segnalano, ex multis, V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. Orlando, vol. III, Milano, 1901, 633 ss.; G. Azzariti, I limiti della giurisdizione nel nuovo codice di procedura, in Foro.it., 1941, 66, 33 ss.; Id., Il ricorso per Cassazione secondo la nuova Costituzione, in Scritti in onore di Francesco Carnelutti, Milano, 1950, 105 ss.; E. Cannada Bartoli, Giurisdizione (conflitti di), in Enc. dir. XIX, Milano, 1970, 295 ss.; F. Modugno, Eccesso di potere giurisdizionale, in Enc. Giur. Treccani, 1981, 1 e 8; V. Caianiello, Il limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Scritti in onore di Giovanni Miele, Il processo amministrativo, Milano, 1979, 63 ss.; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, in particolare 1511-1513; I.M. Marino, Corte di Cassazione e giudici “speciali”. Sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Costituzione, in Studi in onore di Vittorio Ottaviano, vol. II, Milano, 1993, 1383 ss.;V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 287 ss., nonché 298-301; A. Berlati, “Limiti esterni” della giurisdizione amministrativa e ricorso in cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato, in Arch. Civ., 1997, 241 ss.; C. Marzuoli, A. Orsi Battaglini, Unità e pluralità della giurisdizione: un altro secolo di giudice speciale per l’amministrazione? in Dir. pubbl., 1997, 895 ss.; M. Nigro, Giustizia amministrativa, V ed. a cura di E. Cardi e A. Nigro, Bologna, 2000, 161 ss., nonché 170-174; A. Proto Pisani, Verso il superamento della giurisdizione amministrativa, in Foro. It., 2001, 21 ss.; M. D’Orsogna, Il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, in AA. VV., Codice della giustizia amministrativa (a cura di Morbidelli), Milano, 2005, 920 ss.; M.V. Ferroni, Il ricorso in cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, Padova, 2005; F. Gaverini, Il controllo della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato ex art. 111cost. ed il principio di effettività della tutela, tra limite interno ed esterno della giurisdizione, in Foro amm. C.d.S., 1, 2007, 82 ss.; M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del giudice amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008; Id., L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677 ss.; A. Corpaci, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. pubbl., 2013, 341 ss.; G. Verde, La corte di cassazione e i conflitti di giurisdizione (appunti per un dibattito), in Dir. proc. amm., 2013, 367;L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni: annotazioni brevi, in Diritto processuale amministrativo, 2014, 561 ss.; R. De Nictolis, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in www.sipotra.it, 2017; F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa, Napoli, 2017, passim; A. Travi, Abuso del processo e questione di giurisdizione: una soluzione conclusiva?, in Foro it., 2017, 983; A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 643 ss.; A. Lamorgese, Eccesso di potere giurisdizionale e sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, in Federalismi.it, n. 1, 2018; L. Ferrara, Le ragioni teoriche del mantenimento della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo e quelle del suo superamento, in Dir. Pubbl., 2019, 7223 ss.; Id., La giustizia amministrativa paritaria e l’attualità del pensiero di Feliciano Benvenuti, inRiv. giur. mezz., 2, 2019, 517 ss.; AA.VV., Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo, a proposito di cass. sez. un. n. 19598/2020, (a cura di) A. Carratta, Roma, 2021; L. Ferrara, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2022; E.N. Fragale, Il controllo della Corte di Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato: aggiornare o superare la teoria dello sconfinamento in danno di altri poteri?, in Dir. proc. amm., fasc. 2, 326, 2023.
[3] M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia insieme, 30 novembre 2020, in particolare nella parte in cui si precisa che: “(…) Le stesse Sezioni Unite, del resto, hanno in varie occasioni rilevato la marginalità dell’ipotesi generale dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, osservando che tale ipotesi, presupponendo che il giudice applichi una norma da lui creata in luogo della norma esistente e che quindi eserciti un'attività di produzione normativa in luogo di un attività meramente euristica, non può che avere rilevanza meramente teorica (cfr., sostanzialmente in termini, inter alia, le sentenze 26 marzo 2012 n. 4769 e 28 febbraio 2019 n. 6059). È significativo che anche la sentenza 30 luglio 2018 n. 20169, che menziona una serie di precedenti a sostegno dell’ammissibilità di tali ricorsi (sì che, a prima lettura, sembrerebbe dar conto di varie decisioni cassatorie), indica in realtà sentenze che, nelle specifiche fattispecie, li avevano dichiarati inammissibili, qualificando il vizio denunciato come mero errore interpretativo. La tradizionale e consolidata “ritrosia” della Corte di cassazione a sindacare l’eccesso di potere giurisdizionale “puro” nei confronti del legislatore emerge con evidenza anche dalla sentenza 30 ottobre 2019 n. 27842, che, a fronte di un’ipotesi inconfutabile di “creazione” di un “principio di diritto” ignoto all’ordinamento (la normativa transitoria introdotta dall’Adunanza Plenaria n. 13 del 2017, a vantaggio dell’amministrazione, in materia di autorizzazioni paesaggistiche), ha brillantemente “evitato” di entrare nel merito della questione e di esprimere in qualche modo un’opinione sul punto, sia pure con un mero obiter dictum, trincerandosi dietro l’argomento che il potere conferitole dall’art. 111, comma 8, Cost. opera solo rispetto alle pronunce che, “definendo il giudizio di appello mediante accoglimento o rigetto dell’impugnazione e dettando la regola del caso concreto, siano per questo in concreto suscettibili di arrecare un vulnus all’integrità delle attribuzioni di altri” (e, dunque, non si estenderebbe alle – mere – regulae iuris create, in astratto, dall’Adunanza Plenaria!).”
[4] Cfr. par. 27 dell’ordinanza n. 2370.2023, Cass., Sez. un.
[5] Per approfondimenti, si v. A.M. Sandulli, Manuale, cit., in particolare 13 e 14 , ove si riconduce la Corte dei conti (limitatamente all’esercizio della funzione di controllo) nell’alveo dei poteri dello Stato, intendendosi, come tali, “ oltre agli organi costituzionali (coi rispettivi apparati, - che, per definizione, si trovano in posizione di superiorem non recognoscentes-, tutti i singoli organi e i vari complessi unitari dell’organizzazione statale, che godono (e nei limiti in cui godono), nel sistema, di una particolare posizione di autonomia qualificata. Tale posizione è caratterizzata dal fatto che i vari elementi dell’organo (ove ne esistono più) o del complesso non possono esser considerati sottoposti, nel loro operato, al sindacato giuridico (nel quale non rientra il controllo delle Camere, che è un controllo politico) di altri organi (sia pure costituzionali) estranei all’organo o al complesso, salvo il sindacato garantistico della Corte costituzionale (…)”.
[6] Per i profili storici, cfr. V.E. Orlando, Principii di diritto amministrativo, Firenze, 1891, 82 ss., ove l’Autore osserva, in relazione alla Corte dei conti, che “Uno dei lati più caratteristici di questo istituto consiste nella varietà grandissima della natura di esso, per cui ne dipendono funzioni ben disparate: diversità di funzioni la quale ha le sue conseguenze di ordine sistematico e fa sì che di quell’istituto si occupino discipline diverse. Con una espressione larghissima, si può tuttavia ricondurre a un concetto unico tutte queste funzioni diverse, e dire che la Corte dei conti esercita una sorveglianza suprema sull’amministrazione finanziaria dello Stato”; C. Ghisalberti, Corte dei conti (premessa storica), in E.d.D., XX, Milano, 1962, 853 ss.; AA.VV., Studi in onore di Ferdinando Carbone, Milano, 1970; G. Correale, Corte dei conti, in Dig. (disc. pubbl.), IV, Torino, 1989, 215 ss.; A. Bennati, Manuale di contabilità di Stato, XII, Napoli, 1990, 643 ss.; G. Carbone, La Corte dei conti, in L. Violante (a cura di), Storia d’Italia, Annali, XIV, Torino, 1998, 847 ss.; F. Tigano, Corte dei conti e attività amministrativa, Torino, 2008, 29 ss.;
[7] Cfr. G. Correale, Corte dei conti, cit., 215 ss.; A. Bennati, Manuale, cit., 646; G. Carbone, La Corte dei conti, cit., 847 ss.
[8] In particolare, si v. la l. n. 3853 del 15 agosto 1867; l. n. 290 del 25 giugno 1908.
[9] Cfr. G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, II, Milano, 1958, 347; O. Ranelletti, La Corte dei conti nella legge 3 aprile 1933 n. 25, in Riv. di dir. pubbl., I, 625 ss.
[10] Per approfondimenti sul tema, cfr. le considerazioni svolte nella pronuncia della Corte cost., 17 giugno 1970, n. 110.
[11] La disciplina costituzionale è stata recepita dall’art. 22, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (T.U. impiegati civili), a mente del quale “l’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell’art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo.”
Per approfondimenti sulla formulazione e la portata applicativa dell’art. 28 Cost., anche in chiave critica, cfr. E. Casetta, L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953, 9.
[12] Sul tema, cfr. R. Alessi, La responsabilità della pubblica amministrazione, nell’evoluzione legislativa più recente, in Rass. dir. pubbl., 1949, I, 234 ss.; C. Esposito, La responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici secondo la Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 324 ss.; G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, 1958, 343; C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1967, 515; F. Merusi, Dalla responsabilità verso i cittadini alla responsabilità dei dipendenti pubblici nei confronti della p.a., in Le responsabilità pubbliche. Civile, amministrativa, disciplinare, penale, dirigenziale, a cura di D. Sorace, Padova, 1988, 257; A.M. Sandulli, Manuale, cit., 1517-1527; A. Corpaci,L’esperienza dell’Italia, in La responsabilità pubblica nell’esperienza giuridica europea, a cura di D. Sorace, Bologna, 1994, 474 ss. Sul dibattito circa l’art. 97, co. 2, e sulla distinzione posta dalla dottrina riguardo all’art. 28, si veda C. Pinelli, Art. 97, 2 comma, in AA.VV., La pubblica amministrazione, Commentario della Costituzione, artt. 97-98, Bologna 1994, 294 ss.
[13] In dottrina, sui problemi teorici sorti in relazione al riconoscimento dell’esatto ruolo della Corte dei conti a livello istituzionale, cfr. P. Gasparri, Sui limiti del sindacato di legittimità della Corte dei conti, in Scritti giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, Padova, 1957, 632; F.G. Scoca, Fondamento storico ed ordinamento generale della giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa, in Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile (ad un decennio dalle riforme), Atti del LI Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione, Milano, 2006, 43 ss.
[14] Cfr. L. Carbone, V. Tenore, Il nuovo codice della contabilità pubblica, Roma, 2023.
[16] Cfr. M.S. Giannini, Svolgimento della dottrina delle responsabilità contabili, in Studi in onore di Emilio Betti, V, Milano, 1962, 185 ss.; F. Garri, La responsabilità per danno erariale, Milano, 1965; L. Schiavello, Rischio e responsabilità patrimoniale per deviazione delle attribuzioni di ufficio, Napoli, 1967; R. Alessi, Responsabilità amministrativa, in Nss. D.I., XV, 1968, 618 ss.; Id., Responsabilità amministrativa, ivi, 622 ss.; S. Buscema, La giurisdizione contabile, Milano, 1969; F. Garri, Danno: V) Danno erariale, in Enc. giur., X, 1988; G. Correale, Corte dei Conti, cit., 215 ss.; M. Dentamaro, Il danno ingiusto nel diritto pubblico. Contributo allo studio dell’illecito nella decisione amministrativa, Milano, 1996; A. Gigli e G. Lemmo, La nascita della responsabilità amministrativa, in La responsabilità amministrativa e il suo processo a cura di F.G. Scoca, Padova, 1997, 17 ss.; ivi anche A. Police, La disciplina attuale della responsabilità amministrativa, 61 ss. e, dello stesso Autore, La natura della responsabilità amministrativa, 145 ss.; F. Staderini, Responsabilità amministrativa e contabile, in D. Disc. pubbl., XIII, 1997, 200 ss.; A. Romano Tassone, La valenza sanzionatoria e quella risarcitoria della responsabilità amministrativa, in Le responsabilità pubbliche a cura di D. Sorace, Padova, 1998, 281 ss.; ivi anche F. Staderini, La responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici tra risarcimento e sanzione, 299 ss.; C. De Bellis, Danno pubblico e potere discrezionale, Bari, 1999; E.F. Schlitzer, Profili sostanziali della responsabilità amministrativo-contabile, in L’evoluzione della responsabilità amministrativa a cura di E.F. Schlitzer, Milano, 2002, 41 ss.; S. Cimini, La responsabilità amministrativa e contabile. Introduzione al tema ad un decennio dalla riforma, Milano, 2003; A. Brancasi, L’ordinamento contabile, Torino, 2005; M. Atelli, P. Briguori, P. Grasso e A. Laino, Le responsabilità per danno erariale, Milano, 2006; M. Atelli, Responsabilità amministrativa e contabile, in Dizionario di diritto amministrativo a cura di M. Clarich e G. Fonderico, Milano, 2007, 611 ss.; P. Della Venturae L. Venturini, Le responsabilità finanziarie, in I giudizi innanzi alla Corte dei Conti a cura di F. Garri, G. Dammicco, A. Lupi, P. Della Venturae L. Venturini, Milano, 2007, 153 ss.; F. Fracchia, Corte dei Conti e tutela della finanza pubblica: problemi e prospettive, in Dir. proc. amm., 2008, n. 3, 699 ss.; E.F. Schlitzer, La responsabilità amministrativo-contabile del responsabile del procedimento, in Codice dell’azione amministrativa a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2011, 459 ss.; A. Altieri, La responsabilità amministrativa per danno erariale, Milano, 2012; C.E. Gallo, La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione, in Contabilità di Stato e degli enti pubblici (Autori vari), Torino, 2013, 171 ss.; Cattiva amministrazione e responsabilità amministrativa a cura di M. Andreis e R. Morzenti Pellegrini, Torino, 2016; G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. dir., Annali X, 2017, 756-794.
[17] Per una più ampia ricostruzione storica della disciplina sostanziale e dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento sul tema della responsabilità amministrativa per danno all’erario, si v. G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. Dir., Annali X, 2017, 757 ss.
[18] “Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti”.
[19] Per approfondimenti, cfr. L. Giampaolino, Prime osservazioni sull’ultima riforma della giurisdizione della Corte dei conti: innovazioni in tema di responsabilità amministrativa, in Foro amm., 1997, 3328 ss.; S. Cimini, La responsabilità, cit., 13 ss.
[20] Cfr. nota 20.
[21] Cfr. P. Maddalena, La responsabilità amministrativa degli amministratori degli enti pubblici economici e delle s.p.a. a prevalente partecipazione pubblica, in Riv. amm., 1996, I, 445 ss.
[22] Cfr. G. Greco, L’ambito della giurisdizione contabile, in Riv. trim. dir. pubbl., 1967, 914 ss.
[23] In senso critico, cfr. F.G. Scoca, op. cit., 50-52, ove si afferma: “Nella ricerca di nuovi spazi per la sua giurisdizione la Corte ha intrapreso (…) anche strade diverse, forzando le disposizioni di legge che stabiliscono i presupposti necessari per la configurazione della responsabilità amministrativa. In particolare, fornendo una interpretazione estensiva dell’art. 52 t.u. C. conti (…). In altri termini, la relazione tra autore dell’illecito e amministrazione pubblica danneggiata si è andata allargando da rigoroso, e quindi esattamente individuabile, rapporto di impiego ad un più sfumato, e tuttora non definito, rapporto di servizio (…). Dalla sua indeterminatezza, il c.d. rapporto di servizio può dimostrarsi un punto di appoggio idoneo sul quale la giurisprudenza può far leva per estendere senza limiti precisi l’area della responsabilità amministrativa (…), in teoria fino ad assoggettarvi tutti coloro che, in un modo o nell’altro, giuridicamente o di fatto, vengono in contatto con una Amministrazione pubblica e stabiliscono con essa una relazione (anche soltanto funzionale)”.
[24] In argomento, ex plurimis, S. Pilato, La responsabilità amministrativa, Padova, 1999, 47 ss.; V. Tenore, op. cit., 103 ss.; C. Vitale, La Cassazione, il rapporto di servizio e la responsabilità amministrativa di soggetti privati, in Giorn. dir. amm., 2010, n. 2, 135 ss.; G. Bottino, Rischio e responsabilità amministrativa, Napoli, 2017, in particolare pt. II, cap. I, § 6; R. Garofoli, G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, XIII ed., 2019, Molfetta (BA), 1620-1623.
[25] A titolo meramente esemplificativo, la figura dell’agente pubblico rilevante ai fini della instaurazione di un rapporto di servizio può riguardare i medici di base; laboratori privati di analisi convenzionate con il sistema sanitario nazionale; associazioni di volontariato convenzionate con la pubblica amministrazione; cooperative affidatarie di progetti socialmente utili; istituti bancari concessionari dell’attività istruttoria finalizzata alla erogazione di contributi pubblici ai privati.
[26] In tal senso, cfr. Cass., Sez. un., 3 luglio 2009, n. 15599, ove si afferma che “(…) L’esistenza di un rapporto di servizio (…) è configurabile anche quando il soggetto, benché estraneo alla pubblica Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della pubblica Amministrazione, con inserimento nell’organizzazione della medesima, e con particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell’attività stessa alle esigenze generali cui è preordinata”.
In dottrina, per approfondimenti, cfr. G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. diritto, Annali X, 2017, in particolare 765 ss.
[27] D.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni nella l. 11 settembre 2020, n. 120, in particolare l’art. 21. Si veda anche la proroga (sino al 30 giugno 2023) del regime di limitazione della responsabilità erariale, ai sensi dell’art. 51, comma 1, lett. h), d.l. 77/2021, convertito nella l. 108/2021; nonché l’ulteriore proroga di un anno (sino al 30 giugno 2024) di suddetto regime transitorio, ai sensi della l. 21 giugno 2023, n. 74, di conversione con modifiche del d.l. 22 aprile 2023, n. 44, recante “disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche”.
[28] Si veda la precedente nota.
[29] P. Calandra, Il buon andamento dell’amministrazione pubblica, in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, Milano, 1987; A. Police, Principi generali dell’azione amministrativa, in M.R. Spasiano, D. Corletto, M. Gola, D.U. Galetta, A. Police, C. Cacciavillani (a cura di), La pubblica amministrazione e il suo diritto, Milano, 2012, 73 ss.; C. Chiarello, Il buon andamento dell’amministrazione. D’Assemblea Costituente all’amministrazione digitale, Napoli, 2022; M.R. Spasiano, Il principio di buon andamento, in Principi e regole dell’azione amministrativa, M.A. Sandulli (a cura di), Quarta ed., Milano, 2023, 121 ss.
[30] Per approfondimenti sulle tesi relative alla natura della responsabilità amministrativo-contabile, cfr. P.L. Rebecchi, Recenti fattispecie tipizzate di responsabilità amministrativa: incremento delle tutele o trappola della tipicità?, in www.amcorteconti.it; F. Garri, voce Responsabilità amministrativa, in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991; F. Staderini, La responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici tra risarcimento e sanzione, in Riv. C. conti, 1996, f. 2, 293 ss.; A. Police, La natura della responsabilità, cit., 145 ss.; F. Pasqualucci, Introduzione, in AA.VV. (a cura di E.F. Schlitzer), L’evoluzione della responsabilità amministrativa, Milano, 2002, 3 ss.; S.M. Pisana, La responsabilità amministrativa, Torino, 2007, 23 ss.; A. Vetro, Il dolo contrattuale o civilistico: applicazione nei giudizi di responsabilità secondo la più recente giurisprudenza della Corte dei conti, in www.lexitalia.it, 2011, f. 12.
[31]Sui profili civilistico-risarcitori dell’azione di responsabilità amministrativa, cfr. C. conti, Sez. Trentino-Alto Adige, 16 novembre 2016, n. 43; id., Sez. III app., 22 giugno 2016, n. 243; id., Sez. III app., n. 68/2015; id. Sez. Veneto, n. 53/2016, n. 65/2016 e n. 117/2016; id., Sez. Campania, ordinanza 7 marzo 2016, n. 63.
[32] Cfr., sulla natura extracontrattuale dell’illecito amministrativo in esame, v. C. cost., 29 luglio 1992, n. 383; Cass. sez. un., 5 agosto 2008, n. 21130; id., 25 luglio 2007, n. 16416; id., 3 aprile 2007, n. 8359, tutte in Ced. Cassazione; id., 25 ottobre, 1999, n. 744, in Giur. it. 2000, 1053 e in Urban. e app., 2000, 159.
In dottrina, in senso critico sulla teoria contrattuale, cfr. F. Garri, G. Dammicco, A. Lupi, P. Della Ventura, L. Venturini (a cura di), I giudizi, cit., 831.
[33] Sulla tesi della natura contrattuale, in giurisprudenza, tra molte, cfr. C. cost., 15 dicembre 1949, n. 32, in www.cortecostituzionale.it; C. conti, sez. I, 7 gennaio 1960, n. 1 e n. 52; id., sez. riun., 28 maggio 1956, n. 51.
In dottrina, v. E. Vicario, La Corte dei conti in Italia, Milano, 1938, 510 ss.; V. Vitta, Contrattualità della responsabilità del funzionario verso l’amministrazione pubblica, in Riv. C. conti, 1950, I, 13 ss.; Greco, In tema di responsabilità patrimoniale degli impiegati dello Stato, in Riv. C. conti, 1958, I, 4; F. Bassi, voce Responsabilità contabile, in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, 1412A. Bennati, Manuale di contabilità di Stato, Napoli, 1990, 765; F. Bassi, Lezioni di diritto amministrativo, Padova, 1998, 297 ss.
[34] In tal senso, v. P. Maddalena, Per una nuova configurazione della responsabilità amministrativa, in Cons. St., 1976, II, 831; Id., Responsabilità civile e amministrativa: diversità e punti di convergenza dopo le l. 19 e 20 del 1994, in Cons. St., 1994, II, 1428 ss.; F. Staderini,Responsabilità amministrativa, cit., 206; F. Merusi, Pubblico e privato nell’istituto della responsabilità amministrativa, ovvero la riforma incompiuta, in F. Merusi, Sentieri interrotti della legalità, Bologna, 2007.
[35] Cfr. C. cost., 20 novembre 1998, n. 371, in Riv. amm. R. It., 1998, 945, con nota di P. Maddalena, in Foro amm., 1997, n. 11-12 e in Cons. Stato, 1998, II, 1609; Id., 30 dicembre 1998, n. 453, in Giust. civ., 1999, I, 647 e in Corr. giur., 1999, 367.
La specialità di tale forma di responsabilità, caratterizzata da una funzione compensativa-risarcitoria e da una concorrente finalità preventiva a tutela del buon andamento della p.a., è evidenziata da A. Police, La natura della responsabilità, in F.G. Scoca, La responsabilità amministrativa, cit., 154 ss. e da M. Sciascia, Manuale di diritto processuale contabile, Milano, 2018.
[36] Per approfondimenti quanto alla disamina delle tesi dottrinali sul problema definitorio circa la nozione di “danno” e di “danno erariale”, si v. S.M. Pisana, La responsabilità, cit., 90 ss.; A. Police, La disciplina attuale, in F.G. Scoca, La responsabilità, cit., 90 ss.
[37] Così Cass., Sez. un., ord. n. 2370 del 2023.
In dottrina, per approfondimenti, cfr. A. Canale, D. Centrone, F. Freni, M. Smiroldo (a cura di), La Corte dei conti. Responsabilità, contabilità, controllo, Milano, 2022, in particolare 42 e 84 ss.
[38] Corte costituzionale, sentenza n. 371 del 1998.
In dottrina, cfr. G. Bottino, Rischio e responsabilità, cit.
[39] Tra le prime decisioni adottate in subiecta materia, cfr., tra molte, Corte conti, Sez. giur. Umbria, 5 ottobre 1995, n. 152; Corte conti, Sez. giur. Umbria, 4 dicembre 1997, n. 1; Corte conti, Sez. giur. Umbria, 23 gennaio n. 1998, in Riv. Corte conti, 2/1998, 99; Corte conti, Sez. giur. Piemonte, 19 febbraio 1998, n. 83, in Riv. Corte conti, 3/1998, 155.
[40] Cfr. le considerazioni effettuate dalla Corte dei conti, Sez. terza giur. d’appello, 26 settembre 2017, n. 479, ove si afferma che il danno da disservizio è una figura di sintesi di condotte colpevolmente disfunzionali che incidono sulla qualità del servizio, oltre che sulla sua materiale esecuzione.
[41] Cfr. M. Nunziata, Il danno da disservizio, in La Corte dei conti, cit., 251.
Per approfondimenti sul tema si veda, in particolare, C. Montanari, Il danno da disservizio, in comuni d’Italia, 2000, 1703, nonché in Finanza loc., 2000, 1633; S. Pilato, Il danno erariale ed il danno da disservizio, in Nuove autonomie, 2003, 483 ss.; E. Tomassini, Il danno da disservizio, in Riv. Corte conti, 3/2005, 334 ss.; S. Monzani, Servizi pubblici e tutela risarcitoria. Il multiforme rapporto tra utente e gestore, in La responsabilità dell’Amministrazione: quale giurisdizione?, M. Andreis (a cura di), Milano, 2009, 243 ss.; D. Buzzanca, Danno da dissesto, da disservizio, da mancata utilizzazione dei beni, in Trattato dei nuovi danni, P. Cendon (a cura di), Padova, 2011, vol. 6, 181 ss.; M. Interlandi, Danno da disservizio e tutela della persona, Napoli, 2013; S. Foa’, Nuove tipologie e classificazioni del danno erariale alla luce della giurisprudenza contabile, e G. Crepaldi, Qualità delle prestazioni, disservizio e tutela del cittadino-utente, in Cattiva amministrazione e responsabilità amministrativa, M. Andreis e R. Morzenti Pellegrini (a cura di), Torino, 2016, 25 ss. e 111 ss.; M. Nunziata, Azione amministrativa e danno da disservizio, Torino, 2018.
[42] Cfr. ord. n. 2370.2023, Cass., Sez. un.
[43] Si veda la nota precedente.
[44] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Basilicata, 22 marzo 2006, n. 83, nonché Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 14 giugno 2011, n. 374.
In dottrina, al riguardo si consulti G. Crepaldi, Qualità delle prestazioni, cit., 111-112.
[45] Cfr. M. Nunziata, Il danno, cit., 253.
[46] Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 2 febbraio 2015, n. 80.
[47] Corte conti, Sez. giur. prov. Trento, n. 130/2006.
[48] Corte conti, Sez. I app., 13 marzo 2014, n. 406. Cfr. anche Corte conti, Sez. giur. d’appello per la Regione Siciliana, dep. 31.12.2021, n. 228/A/2021.
[49] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Trentino-Alto Adige, 19 maggio 2009, n. 317; nonché Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 31 luglio 2015, n. 139.
[50] Quanto alla (prevalente) giurisprudenza che annovera il disservizio tra le forme di danno patrimoniale, si veda, tra molte, Corte conti, Sez. giur. Puglia, 6 luglio 2010, n. 444; Id. Sez. giur. Lombardia, 14 giugno 2011, n. 374; Id., Sez. giur. Veneto, 14 maggio 2014, n. 107; Id., Sez. giur. Campania, 10 giugno 2016, n. 331.
In dottrina, sulla natura patrimoniale del danno erariale si veda S. Cimini, Cattiva amministrazione da attività provvedimentale illegittima, in Cattiva amministrazione e responsabilità amministrativa, M. Andreis e R. Morzenti Pellegrini (a cura di), Torino, 2016, 73-74.
[51] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 14 giugno 2011, n. 374; Id., Sez. giur. Campania, 10 giugno 2016, n. 331.
[52] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Umbria, 22 marzo 2022, n. 12.
[53] Cfr. Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 31 luglio 2015, n. 139.
[54] Per approfondimenti, cfr. G. Bottino, Responsabilità, cit., 790 ss.
[55] Cfr. l’art.1, comma 1-bis, l. n. 20 del 1994.
[56] Art. 83, comma 1, l. cont. St., art. 52, comma 1, t.u. C. conti, art. 19, comma 2, t.u. imp. Civ. St.
[57] Presupposto per l’esercizio, da parte del pubblico ministero, dell’azione di responsabilità.
[58] Cfr. Corte cost., 12 giugno 2007, n. 183.
[59] Sulla questione, prima di Corte cost. n. 183 del 2007, cfr. P. Maddalena, La nuova conformazione della responsabilità amministrativa alla luce della recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, in TAR, 1999, n. 7-8, 261 ss.; D. Gasparrini Pianesi, La responsabilità amministrativa per danno all’Erario. Profili strutturali e funzionali della responsabilità, Milano, 2004, 52 ss.;
[60] Corte costituzionale n. 385 del 1996.
[61] Cfr. Cass., Sez. un., 24 marzo 2006, n. 6582.
[62] Cass., Sez. un., 27 maggio 2007, n. 12248.
[63] Cfr. Cass., Sez. un., 2 novembre 2011, n. 22688.
[64] A sostegno delle considerazioni dianzi esposte, sul piano normativo si invocano le seguenti disposizioni: l’art. 172, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui prevede che sia i magistrati sia i funzionari amministrativi sono tenuti al risarcimento del danno subìto dei danni subìti dall’erario nelle ipotesi normativamente previste, secondo quanto previsto dalla disciplina in tema di responsabilità amministrativa; l’art. 5, co. 4, legge 24 marzo 2001, n. 89, che, in tema di equa riparazione per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, prevede che il decreto di accoglimento della domanda venga(di equa riparazione) debba essere comunicato, in particolare tra gli altri, al procuratore contabile per l’eventuale avvio del procedimento di responsabilità; nonché l’art. 13, legge n. 117 del 1998, che, nei casi di responsabilità civile per fatti costituenti reato nell’ambito dell’azione di regresso, prevede l’applicazione delle norme sulla responsabilità dei pubblici dipendenti.
[65] Cfr. ordinanza in commento, ove si richiama, quale ulteriore argomento a sostegno della tesi sostenuta dal Collegio, la clausola di salvezza del giudizio di responsabilità contabile contenuta nell’art. 2, co. 3-bis, legge n. 117 del 1988.
[66] A titolo esemplificativo, nei casi di uso non istituzionale dei beni dell’ufficio.
[67] Sul tema del danno all’immagine della p.a., si veda, tra molte, la sentenza della Corte dei conti per la Campania, 12 gennaio 2023, n. 6, la quale ha stabilito che suddetta voce di danno, pur non comportando una diminuzione patrimoniale diretta, è comunque suscettibile di valutazione patrimoniale sotto il profilo delle spese necessarie per il ripristino del danno del bene giuridico leso.
[68] Relativamente alla vicenda in esame, cfr. anche Cass. pen., Sez. VI, 16 marzo 2022, n. 8870, la quale ha affermato che il ritardo del magistrato nel deposito delle sentenze non integra, di per sé solo, il reato di rifiuto di atti d’ufficio ex art. 328 c.p., se non sussista una indifferibilità dell’atto omesso.
[69] Cfr., tra molte, Cass., Sez. un., 7 ottobre 2019, n. 25020.
[70] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 7 dicembre 2015, n. 5572.
[71] Nella specie, si determinava in via equitativa il risarcimento del danno nell’importo pari al 20% delle risorse finanziarie stanziate dall’Amministrazione per retribuire il magistrato nell’arco temporale considerato.
[72] Cfr. Cass., Sez. un., ord. n. 2370. 2023, par. 19.
[73] Ibidem, par. 22.
[74] Cfr. Corte dei conti, Sez. giur. Lombardia, 10 giugno 2016, n. 95; nonché Cass., Sez. un., 11 aprile 2018, n. 22083.
[75] Sul tema dell’eccesso di potere giurisdizionale, si v. la recentissima Cass., sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559, sulla questione delle proroghe delle concessioni c.d. balneari. A tal proposito, cfr. la nota n. 82.
In dottrina, oltre ai riferimenti presenti nella nota n. 2, cfr. G. Cocozza, Il percorso conformativo dell’eccesso di potere giurisdizionale, Napoli, 2017; M.A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questioni Giustizia, 1/2021; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2023, 356 ss. Inoltre, cfr. lezione inaugurale del 6 marzo 2023 della Prof.ssa M.A. Sandulli, cit.; nonché, da ultimo, le considerazioni espresse da G. Greco nell’ambito del convegno di Modanella, cit.; M.A. Sandulli, Conclusioni delle Giornate di studio, cit.
[76] Sulla difficoltà di riscontrare, in concreto, siffatta forma di eccesso di potere giurisdizionale, più volte qualificato dalla giurisprudenza in termini di vera e propria “produzione normativa”, cfr., tra molte, Cass., Sez. un., 15 luglio 2013, n. 11091, secondo cui “la figura dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è di rilievo meramente teorico, in quanto postulando che il giudice applichi non la norma esistente, ma una norma da lui creata, può ipotizzarsi solo a condizione di potere distinguere un’attività di formale produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa, ché, come si riconosce dalle più recenti ed accreditate teorie post illuministiche, non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in opera creativa della volontà di legge nel caso concreto”. In argomento, si v. anche Cass., Sez. un., 30 ottobre 2019, n. 27842, ove, a fronte dell’imputazione alla Adunanza plenaria dello sconfinamento nelle attribuzioni riservate al legislatore per avere esercitato una potestas iudicandi consistente nella modulazione degli effetti della sentenza creando ex novo una norma transitoria con efficacia erga omnes, la Corte dichiara il ricorso inammissibile, stante l’assenza di qualsivoglia carattere decisorio della statuizione che si limitava ad enunciare principi di diritto e restituiva, per il resto, la decisione alla Sezione remittente.
In dottrina, per approfondimenti cfr. M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., nonché M.A. Sandulli, Guida alla lettura, cit., e i rilievi espressi in occasione del convegno tenutosi presso l’Università degli Studi di Roma Tre, 11 febbraio 2022, Il caso Randstad Italia s.p.a.: questione di giurisdizione o di giustizia?, in questa Rivista, 17 febbraio 2022.
[77] Cfr. par. 26 dell’ordinanza in commento.
[78] Per approfondimenti, cfr. la lezione inaugurale del 6 marzo 2023 della Prof.ssa M.A. Sandulli, cit.
[79] Si v. le note nn. 1, 2 e 76.
[80] Cfr. Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 6, in Foro it., I, 2018, 373. In giurisprudenza, sull’interpretazione della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale in seguito a tale pronuncia, cfr., tra molte, Cass. Sez. un., n. 18259/2021 e n. 7839/2020.
In dottrina, cfr. A. Travi, Eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione, in Giustamm.it, n. 11/2017; Id., Il giudice amministrativo come risorsa?, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[81] Si v. M.A. Sandulli, Guida alla lettura, cit.
[82] Per approfondimenti, si v. la recentissima Cass., Sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559, specie al par. 16, ove si afferma che: “Si è trattato di un diniego o rifiuto della tutela giurisdizionale sulla base di valutazioni che, negando in astratto la legittimazione degli enti ricorrenti a intervenire nel processo, conducono a negare anche la giustiziabilità degli interessi collettivi (legittimi) da essi rappresentati, relegandoli in sostanza al rango di interessi di fatto. La sentenza impugnata, di conseguenza, è affetta dal vizio di eccesso di potere denunciato sotto il profilo dell’arretramento della giurisdizione rispetto ad una materia devoluta alla cognizione giurisdizionale del giudice amministrativo”.
In dottrina, cfr. in particolare F. Francario, Il sindacato della Cassazione, cit.
[83] Per approfondimenti, cfr. F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad Italia Spa, in Federalismi.it, n. 5, 9 febbraio 2022.
[84] Cfr. le considerazioni espresse da C. Contessa nell’ambito della lezione inaugurale del 6 marzo 2023, cit.
Inoltre, si v. quanto affermato da G. Greco nel convegno di Modanella, cit., in merito alla difficoltà di qualificare siffatta ipotesi in termini di invasione della sfera del legislatore ovvero della sfera dell’amministrazione. Sul tema, cfr. M.A. Sandulli, Conclusioni delle Giornate di studio, cit.
[85] Sul tema, si v. in particolare M. Luciani, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in QG, 3/2019.
[86] In argomento, cfr. le considerazioni espresse da R. Vaccarella nella lezione inaugurale, cit., il quale sottolinea l’importanza della pronuncia de qua per avere la Corte di Cassazione utilizzato, per la prima volta, una locuzione “dirompente” specificando che “la Corte dei conti per la Regione Siciliana ha finito con il creare una nuova fattispecie di responsabilità erariale”.
di Saul Monzani
Sommario: 1. Doverosità e margini applicativi del soccorso istruttorio. - 2. L’ampliamento dell’operatività del soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza pubblica: dal d.lgs. 50/2016 al d.lgs. 36/2023. - 3. Il caso deciso dal Consiglio di Stato: i rischi di un’eccessiva dilatazione dell’istituto.
1. Doverosità e margini applicativi del soccorso istruttorio.
La sentenza in commento offre taluni spunti interessanti in tema di soccorso istruttorio. Tale istituto giuridico, come meglio si dirà infra, appare in costante evoluzione, in ragione sia degli interventi legislativi susseguitisi nel tempo, sia dei molteplici spunti offerti dalla giurisprudenza: occorre infatti considerare che, nella prassi, il ricorso (o meno) al soccorso istruttorio rappresenta uno degli aspetti più frequentemente forieri di contenzioso, soprattutto nell’ambito delle procedure competitive.
D’altronde – ed anche su questo si tornerà – il legislatore è spesso intervenuto proprio sulla “spinta” della giurisprudenza più evoluta, nel tentativo di meglio definire l’alveo di operatività dell’istituto.
Ciò nondimeno, tale evoluzione non sembra essere giunta ad un definitivo assestamento: permangono infatti alcune fattispecie connotate da estrema incertezza, come peraltro dimostra, in maniera paradigmatica, proprio la vicenda oggetto del presente approfondimento.
In linea generale, com’è noto, per “soccorso istruttorio” si intende il momento in cui, nel corso del procedimento amministrativo, l’Amministrazione interviene al fine di consentire al privato di colmare talune carenze di tipo informativo o documentale, imputabili al privato stesso. In buona sostanza, l’Amministrazione presta “soccorso” al privato, nella misura in cui – invece di concludere il procedimento sic et simpliciter con l’adozione di un provvedimento negativo – consente di ovviare a difetti, mancanze ed omissioni nell’istanza, in tal modo mantenendo inalterata la chance di ottenere un provvedimento positivo.
Sebbene l’istituto abbia radici risalenti, la disposizione di riferimento nel quadro normativo attuale è rappresentata dall’art. 6, lettera b) della l. 241/90 s.m.i., ai sensi della quale: “Il responsabile del procedimento […] può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete”[1].
Si noti che la formulazione letterale della disposizione (“può chiedere”) parrebbe rendere facoltativo (e non obbligatorio) l’esercizio del soccorso istruttorio da parte del responsabile del procedimento, e ciò senza peraltro fornire particolari coordinate che consentano di meglio delineare i confini di tale apparente discrezionalità.
In verità, la dottrina è stata sin da principio sostanzialmente unanime nel proporre una diversa interpretazione della norma, ossia qualificando il soccorso istruttorio come doveroso. In particolare, sebbene siano state individuate possibili frizioni tra il soccorso istruttorio e i principi di buon andamento, non aggravamento ed imparzialità nell’attività amministrativa, nonché con il principio di autoresponsabilità (in base al quale il privato è il solo che può essere chiamato a rispondere dei suoi stessi errori o mancanze nella compilazione dell’istanza ovvero nella formazione del relativo “fascicolo” documentale)[2], più diffusamente si è evidenziata la fallacia di un’impostazione che riconnette il soccorso istruttorio al solo interesse del privato. Secondo quest’ultima impostazione, la “sanatoria” di errori ed omissioni che connota il soccorso istruttorio non si pone affatto in contrasto con il principio del buon andamento, ma anzi, al contrario, consente di meglio orientare l’azione amministrativa proprio rispetto a quel principio, in un quadro di un giusto procedimento “partecipato” condotto secondo i canoni del contraddittorio e della “equità procedurale”[3]. L’assenza di antinomie tra interesse pubblico e privato risulterebbe particolarmente evidente, ad esempio, nelle procedure di evidenza pubblica (e nelle procedure concorsuali), laddove la massima partecipazione alle gare rientra nell’interesse della stessa stazione appaltante, consentendo alla stessa di massimizzare le possibilità di ottenere un’offerta competitiva (o di selezionare il migliore profilo).
Invero, taluna giurisprudenza aveva ricondotto, aderendo in maniera fedele al dato normativo testuale, l’istituto generale ora in considerazione ad una mera facoltà da parte dell’Amministrazione[4], mentre, più di recente, la posizione prevalente propende per la considerazione dell’iniziativa di attivazione del soccorso istruttorio in termini di doverosità, nonostante il tenore testuale della norma di riferimento, sul presupposto che si tratta di un istituto volto a superare inutili formalismi in nome dei principi di lealtà e semplificazione[5]. In altre parole, si tratta di un meccanismo funzionale a favorire la massima collaborazione possibile tra privato e la pubblica amministrazione, nel rispetto del generale principio di proporzionalità, oltre che della tutela della buona fede e dell'affidamento dei soggetti coinvolti dall' esercizio del potere[6]. Siffatta impostazione risulta confermata e consacrata anche a livello normativo, con l’inserimento al comma 2-bis dell’art. 1 della l. n. 241/1990, operato dall’art. 12, comma 1, della l. n. 120/2020, della norma per cui “i rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione sono improntati i principi della collaborazione e della buona fede”[7].
Invero, nella giurisprudenza più recente la questione continua ad essere attuale, sebbene vista da una diversa prospettiva: una volta acclarato che il soccorso istruttorio effettivamente risponde ad un’esigenza della stessa Amministrazione (al di là della riferita ambiguità del dato normativo), il problema è comprendere quando lo stesso possa (e debba) essere attivato.
L’attenzione si sposta quindi sulla non semplice ricerca di un punto di equilibrio e, in contemporanea, sull’individuazione di un criterio di discrimine quanto più possibile oggettivo tra difetti sanabili (attraverso il soccorso istruttorio) e difetti insanabili.
Il tema è problematico e si presta, com’è intuibile, ad un approccio marcatamente casistico che non aiuta a cristallizzare dei principi generali sufficientemente stabili.
In giurisprudenza non paiono quindi ravvisarsi orientamenti univoci, potendosi invece rilevare approcci ermeneutici abbastanza variegati, specialmente per ciò che concerne il ruolo del principio della par condicio tra i concorrenti quale contrappeso al soccorso istruttorio nell’ottica della massima partecipazione alla procedura.
Pertanto, accanto a pronunce che espressamente sottolineano il ruolo centrale del soccorso istruttorio proprio al fine di perseguire l’interesse pubblico al miglior risultato amministrativo, in una logica di buon andamento[8], altri arresti rimarcano il rischio che un’eccessiva estensione dell’ambito applicativo del soccorso possa determinare un vulnus alla necessaria equidistanza tra l’Amministrazione ed i singoli candidati o concorrenti, sulla base del principio di “auto-responsabilità” nonchè nel prisma della par condicio, ovvero anche una compromissione delle esigenze di celerità e certezza che connotano, ad esempio, le procedure con un elevato numero di partecipanti[9].
Nel contesto appena succintamente descritto, un primo approccio interpretativo ha proposto il criterio che distingue tra “integrazione” documentale, sempre preclusa, e la mera “regolarizzazione”, che invece sarebbe ammessa[10]. Altra parte della giurisprudenza ha invece ritenuto che debba essere comunque consentita la sanatoria della domanda che presenti un “nucleo” minimo di certezza e determinatezza, ossia “qualora dalla documentazione presentata dal candidato residuino margini di incertezza facilmente superabili”[11]. Si tratta peraltro di soluzioni sottoposte a critica dalla dottrina, non solo in ragione delle incertezze applicative (legate all’indeterminatezza dei singoli parametri di riferimento), ma anche, e soprattutto, in forza di un’ineludibile riflessione sul portato delle macro-categorie dei vizi “formali” e “sostanziali” dell’istanza, nel prisma del procedimento amministrativo considerato quale strumento per il perseguimento di obiettivi “reali” e non autoreferenziali[12].
Va da sé che il dibattito cui si è testé accennato si sviluppa con minor vigore in riferimento ai procedimenti amministrativi non competitivi, per i quali il problema della par condicio si pone con meno evidenza, e talvolta non si pone affatto (ad esempio nei procedimenti ove non vi siano controinteressati). Tanto è vero che, proprio per tali procedimenti, l’applicazione del soccorso istruttorio è assai meno controversa e, usualmente, non è foriera di contenzioso, anche perché, nella maggior parte dei casi, l’istanza rigettata può essere riproposta[13].
2. L’ampliamento dell’operatività del soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza pubblica: dal d.lgs. 50/2016 al d.lgs. 36/2023.
Il soccorso istruttorio nell’ambito delle c.d. procedure ad evidenza pubblica merita un discorso a sé: ciò innanzitutto perché, in tale ambito, l’istituto è disciplinato da disposizioni specifiche, diverse cioè dall’art. 6 della l. 241/90.
L’art. 83, comma 9, del d.lgs. 50/2016 (ossia il previgente Codice dei contratti pubblici) sanciva, per sommi capi, tre principi fondamentali: la sanabilità di qualsiasi elemento formale della domanda di partecipazione alla gara; la sanabilità, più nello specifico, di ogni mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo[14], con espressa esclusione di quelle afferenti all'offerta economica e all'offerta tecnica; la non sanabilità delle irregolarità e carenze della documentazione tali da non consentire l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa[15].
Si noti che il limite fondamentale all’operatività del soccorso istruttorio – al di là dei casi “estremi” di impossibilità nell’individuazione del soggetto partecipante ovvero dell’oggetto dell’offerta – era costituito dall’impossibilità di ricorrervi per ovviare a difetti dell’offerta tecnica ed economica, sulla scorta del fatto che una simile integrazione avrebbe determinato un vulnus alla par condicio tra i partecipanti.
Quindi, in base a tale disposizione, il soccorso istruttorio risultava riferibile soltanto a una parte della documentazione costituente l’offerta, ossia alla c.d. “busta amministrativa”.
In disparte la formulazione testuale della disposizione, la giurisprudenza ha presto manifestato vistose aperture determinate dalla valorizzazione della ratio della norma, agevolmente riconducibile alla necessità di evitare che il partecipante alla gara possa modificare la propria offerta dopo la scadenza del termine di presentazione. In base a tale orientamento, allora, non risulterebbe giustificato negare il soccorso nei casi di mancanze o incompletezze dell’offerta tecnica ed economica alle quali si possa ovviare mediante meri chiarimenti, ovvero correggendo palesi errori materiali, attraverso un’attività che mantenga inalterato il contenuto dell’offerta.
La suddetta evoluzione giurisprudenziale ha così condotto all’estensione dell’alveo applicativo del soccorso, sino ad allora limitato alle classiche (e codificate) forme del soccorso c.d. “integrativo” (con il quale è consentito integrare la sola documentazione amministrativa, mediante l’acquisizione ex post di documenti originariamente non allegati alla c.d. busta amministrativa) e del soccorso “sanante” (che si esplica invece nella correzione di errori ed inesattezze della documentazione amministrativa, emendando vizi dichiarativi all’interno di documenti che pure sono stati correttamente allegati).
La giurisprudenza ha definito il soccorso vertente sull’offerta tecnica ed economica come soccorso “procedimentale”, proprio al fine di marcarne la distanza dal soccorso “istruttorio”; si tratta di un “escamotage” non solo linguistico, dal momento che, come già detto, la possibilità di colmare carenze nella parte tecnica ed economica dell’offerta non aveva una chiara copertura normativa ed anzi sembrava esclusa dall’unica disposizione codicistica sul tema.
La stazione appaltante, secondo tale lettura, è tenuta a richiedere i necessari chiarimenti al concorrente laddove ravvisi ambiguità in elementi essenziali dell’offerta tecnica o economica; tali chiarimenti però non potranno condurre a un’integrazione postuma dell’offerta, ossia all’aggiunta di elementi ulteriori rispetto a quelli contenuti (seppur in maniera, per l’appunto, contraddittoria o ambigua) nell’offerta originaria[16].
In altre parole, il soccorso procedimentale serve a ricercare l’effettiva volontà del concorrente, ma non potrà mai consentire al medesimo di esprimere una volontà negoziale diversa e ulteriore rispetto a quella cristallizzata nell’offerta già in atti[17].
Il progressivo consolidamento del soccorso procedimentale nell’esperienza pretoria ha condotto il legislatore, da ultimo, a fornirne una puntuale disciplina accanto alle altre e più consolidate forme di soccorso istruttorio. Così, il terzo comma dell’art. 101 del “nuovo” Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36) dispone che “La stazione appaltante può sempre richiedere chiarimenti sui contenuti dell'offerta tecnica e dell'offerta economica e su ogni loro allegato. L'operatore economico è tenuto a fornire risposta nel termine fissato dalla stazione appaltante, che non può essere inferiore a cinque giorni e superiore a dieci giorni. I chiarimenti resi dall'operatore economico non possono modificare il contenuto dell'offerta tecnica e dell'offerta economica”[18]. Per conseguenza, come osservato dalla sentenza qui in commento, la disciplina attuale vede la coesistenza di ben quattro forme di soccorso istruttorio: il soccorso “integrativo”, il soccorso “sanante”, il soccorso procedimentale (che la suddetta sentenza denomina “soccorso istruttorio in senso stretto”), nonché la nuova fattispecie del soccorso “correttivo”, vale a dire quello in base al quale l’offerente può sua sponte rettificare gli errori materiali dell’offerta tecnica ed economica nel periodo intercorrente tra il termine di presentazione delle offerte e l’apertura delle stesse.
Tale rinnovato assetto delle varie forme di soccorso istruttorio appare peraltro funzionale alla realizzazione dei principi generali introdotti dal nuovo Codice dei contratti pubblici, quali quello del risultato e della fiducia, venendo a consolidare la sua funzione di meccanismo attraverso il quale la pubblica amministrazione persegue la massima partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica e, con essa, il buon andamento, così che interessi privati e pubblici trovino convergenza, fatte salve le pur meritevoli esigenze di parità di trattamento in relazione alle quali occorre comunque individuare un ambito, magari circoscritto, di inoperatività dell’istituto ora in commento.
3. Il caso deciso dal Consiglio di Stato: i rischi di un’eccessiva dilatazione dell’istituto.
Così sinteticamente ricostruito il quadro normativo, connotato dal recente avvicendamento tra il “vecchio” ed il “nuovo” Codice dei contratti pubblici, occorre volgere l’attenzione alla pronuncia in commento.
Il caso concerne l’esclusione di un’impresa da una procedura di gara bandita dal Ministero della Giustizia per l’attività di digitalizzazione dei fascicoli giudiziari in vari tribunali italiani. Si noti che l’appalto risultava suddiviso in 15 lotti, di cui 14 aventi natura territoriale (perché concernenti attività di svolgersi in un preciso ambito geografico). L’impresa ricorrente veniva esclusa da due diversi lotti per lo stesso motivo, ossia l’aver indicato, per la figura di responsabile del servizio, un soggetto che risultava in possesso di una laurea conseguita in Romania, mentre la lex specialis di gara richiedeva, a pena di esclusione, una laurea italiana.
L’esclusione era stata sancita dopo l’attivazione del soccorso istruttorio, mediante il quale la stazione appaltante aveva richiesto all’impresa di produrre la certificazione di equipollenza della laurea straniera ai sensi della l. n. 148/2002. L’impresa aveva replicato di non essere in possesso di tale attestazione (ma di averla già richiesta), dichiarando al contempo di poter indicare un’altra risorsa munita di laurea italiana. La stazione appaltante riteneva che tanto la produzione dell’attestato ottenuto ex post, quanto la sostituzione dell’originario responsabile con un altro, avrebbero determinato un travalicamento dei limiti posti al soccorso istruttorio, e quindi provvedeva ad escludere definitivamente l’impresa per carenza insanabile di un requisito tecnico.
A quel punto, l’impresa impugnava entrambi i provvedimenti di esclusione davanti a due T.A.R. diversi – Roma e Palermo – in virtù della già citata autonomia e territorialità di ciascun lotto d’appalto.
Entrambi i Tribunali respingevano il ricorso, ma l’impresa insisteva interponendo appello avverso le due sentenze, rispettivamente davanti al Consiglio di Stato e al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia (CGARS).
Sennonché, mentre il Consiglio di Stato rigettava l’appello, il CGARS perveniva all’esito diametralmente opposto, accogliendo il gravame e quindi sancendo la possibilità di colmare la lacuna dell’offerta sia mediante la produzione della (postuma) attestazione di equipollenza, sia soprattutto “sostituendo” il responsabile originariamente indicato (ossia quello con laurea rumena priva di equipollenza) con un altro responsabile munito di laurea italiana, già facente parte dell’organico dell’impresa[19].
L’aspetto davvero singolare della suddetta vicenda contenziosa consiste quindi nel fronteggiarsi di due pronunce opposte sulla medesima questione.
Il CGARS, nel ravvisare la fondatezza del ricorso, ha fatto perno su un’interpretazione radicalmente anti-formalistica del soccorso istruttorio. Secondo il Consiglio di Giustizia, in particolare, le carenze nella documentazione dell’impresa ricorrente non sarebbero indicative della mancanza dei relativi requisiti di partecipazione. In altre parole, sempre seguendo il ragionamento del tribunale siciliano, affermare che l’impresa non abbia compiutamente e correttamente comprovato il possesso del requisito tecnico di partecipazione non equivale a dire che tale requisito manchi; anzi, afferma il CGARS, l’impresa ha comprovato l’esatto opposto, ossia di poter soddisfare quel requisito, seppur con un dipendente diverso da quello originariamente (ed erroneamente) indicato nella documentazione a corredo dell’offerta.
Considerato dunque che il soccorso istruttorio è posto a tutela dell’interesse sostanziale della pubblica amministrazione a garantire la più ampia partecipazione e, per conseguenza, la più efficace competizione, allora non risulterebbe legittimo precludere al concorrente di comprovare, seppure ex post, il possesso di un requisito speciale.
Il CGARS osserva anche, correttamente, che il possesso del requisito in questione andava comprovato all’interno della busta amministrativa, non afferendo quindi né all’offerta tecnica né all’offerta economica. Pertanto, la comprova “tardiva” di quel requisito non si sarebbe tradotta in alcuna (non consentita) modificazione dell’offerta.
A conclusioni diametralmente opposte è giunto, invece, il Consiglio di Stato.
Si noti che la pronuncia del Consiglio di Stato è successiva a quella del CGARS; la sentenza ne dà atto, spiegando le ragioni per cui ritiene non corretta la soluzione adottata dal tribunale siciliano.
Innanzitutto, il Consiglio di Stato, pur riconoscendo (come è ormai pacifico) che il soccorso istruttorio risponde “ad una fondamentale direttiva antiformalistica”, rilevante in special modo proprio nelle procedure di evidenza pubblica, esprime talune perplessità in ordine alle prospettive di eccessiva dilatazione dell’istituto, recepite anche nel Codice del 2023 (peraltro non applicabile, per ragioni cronologiche, al caso in oggetto). In tal senso, la sentenza sembra riagganciarsi alla dottrina più prudente, in precedenza segnalata, laddove sottolinea il rischio che “il programmatico ampliamento dell’ambito del soccorso [possa determinare] un possibile conflitto con il canone di autoresponsabilità (che in generale sollecita gli operatori economici, in virtù della postulata qualificazione professionale e del correlativo dovere di diligenza, al pieno e puntuale rispetto delle formalità procedimentali, evitando gli aggravi imposti dalla rimessione in termini: per i quali ben potrebbe prospettarsi, anche alla luce del criterio di buona fede, un forma di immeritevole abuso)”.
Nel prosieguo della motivazione, i giudici di Palazzo Spada ribadiscono il principio per cui “deve tenersi per ferma la non soccorribilità (sia in funzione integrativa, sia in funzione sanante) degli elementi integranti, anche documentalmente, il contenuto dell’offerta (tecnica od economica) […] Restano, per contro, ampiamente sanabili le carenze (per omissione e/o per irregolarità) della documentazione c.d. amministrativa”.
Subito dopo, si legge che “In altri termini, si possono emendare le carenze o le irregolarità che attengano alla (allegazione) dei requisiti di ordine generale (in quanto soggettivamente all’operatore economico in quanto tale), non quelle inerenti ai requisiti di ordine speciale (in quanto atte a strutturare i termini dell’offerta, con riguardo alla capacità economica, tecnica e professionale richiesta per l’esecuzione delle prestazioni messe a gara)”.
Quello appena riportato appare il passaggio fondamentale della sentenza, seppure espresso in maniera sintetica e non pienamente sviluppato nelle sue implicazioni sistematiche.
In sostanza, il Consiglio di Stato sembra affermare che: (1) è soccorribile/sanabile la documentazione amministrativa; (2) non è soccorribile/sanabile la documentazione che integra l’offerta tecnica ed economica; (3) sono emendabili le carenze nell’allegazione dei requisiti di ordine generale, ma non quelle nell’allegazione dei requisiti di ordine speciale, “in quanto atte a strutturare i termini dell’offerta”.
Orbene, tra i primi due punti testé elencati ed il terzo, pare esservi un “salto” logico che, forse, avrebbe meritato una più compiuta spiegazione.
Non si comprende, infatti, in che modo i requisiti di ordine speciale, ossia quelli attinenti alla capacità economica e tecnica del concorrente, possano essere considerati “parte” dell’offerta tecnica ed economica e, come tali, fuoriuscire dall’alveo applicativo del soccorso istruttorio (che, come più volte evidenziato, non è applicabile all’offerta tecnica ed economica se non nella ristretta forma del soccorso c.d. procedimentale, dal quale comunque rimane esclusa, almeno tendenzialmente, la possibilità di produrre ulteriore e diversa documentazione).
In altre parole, affermare la non soccorribilità della documentazione a comprova dei requisiti di partecipazione tecnici ed economici quale corollario della non soccorribilità dell’offerta tecnica ed economica rappresenta un passaggio che, di per sé, suscita talune perplessità. Infatti, i requisiti di partecipazione (tanto generali, quanto speciali) sono cosa ben diversa dall’offerta. Gli stessi vanno dichiarati all’interno della c.d. busta amministrativa, quindi con una distinzione finanche “fisica” dal nucleo tecnico/economico dell’offerta. D’altro canto, è ben ipotizzabile il caso di un operatore che venga dapprima ammesso alla procedura – poiché in possesso di tutti i requisiti generali e speciali, debitamente dichiarati nella busta amministrativa – e poi escluso all’esito dell’apertura delle altre due buste che, per assurdo, potrebbero anche essere vuote.
Il nodo non sembra risolto neppure nell’ulteriore passaggio della sentenza in cui si si legge: “il capitolato tecnico era chiaro nel richiedere, in capo al personale designato per l’esecuzione del contratto, il prescritto titolo di studio (integrante, all’evidenza, un requisito di ordine tecnico-professionale). Ammettendo, perciò, come pretenderebbe l’appellante (non tanto la formale sostituzione del curriculum, quanto) la indicazione di un diverso titolo di studio, riferito a diversa figura professionale, significherebbe legittimare la modifica (sotto il profilo soggettivo, relativamente alla manodopera impegnata) dei termini dell’offerta. Sicché appare, in definitiva, specioso, ma non persuasivo, l’assunto che la mancanza della certificazione di equipollenza del titolo di studio si risolverebbe in un fatto meramente formale (essendo, in tesi, incontestato il possesso del requisito sostanziale): ciò sarebbe quando si fosse (a tutto concedere) chiesto di integrare il curriculum con la (postuma) produzione di una (già conseguita) attestazione di equipollenza; non quando – come nella specie – si vorrebbe supplire alla (acclarata) inidoneità (per insufficienza del titolo, in quanto privo di riconoscimento del valore legale) del personale con l’indicazione di personale alternativo, per quanto (asseritamente) nella disponibilità dell’impresa”.
Si concorda con il Consiglio di Stato laddove rileva che l’indicazione di una diversa figura professionale determini una modifica latu sensu dell’offerta, nella misura in cui le modalità di assolvimento del servizio originariamente offerte vengono effettivamente mutate.
Ciò nondimeno, poiché tale elemento non è comunque parte dell’offerta tecnica, la suddetta modificazione non sembra automaticamente determinare alcuna lesione del principio della par condicio tra i concorrenti.
Peraltro, nel caso di specie, è difficile ravvisare nell’identità personale del responsabile offerto un elemento essenziale dell’offerta, non foss’altro perché i curricula dovevano essere indicati in forma anonima: ciò a conferma del fatto che quel che interessava alla stazione appaltante non era tanto l’identità del dipendente, quanto l’esistenza, nell’organico dell’impresa, di un qualsiasi dipendente con determinate caratteristiche (possesso di laurea italiana o equipollente).
Occorre tuttavia sottolineare che l’orientamento manifestato dal Consiglio di Stato nella sentenza qui in commento non è affatto isolato e, anzi, appare corroborato da vari precedenti, seppur resi su fattispecie non del tutto sovrapponibili alla presente. Si è quindi affermata, ad esempio, l’inammissibilità della produzione postuma di documentazione a comprova del possesso del requisito esperienziale rappresentato dall’aver realizzato un determinato fatturato su prestazioni analoghe a quelle oggetto dell’appalto[20].
Pur non potendo, in questa sede, analizzare puntualmente tutte le suddette sentenze, si può affermare che nessuna di esse fornisca coordinate sufficientemente solide per giustificare la non sanabilità delle carenze nella documentazione a comprova dei requisiti speciali, o comunque a comprendere quali carenze siano sanabili, e come.
Il concreto rischio è quello di ancorarsi a distinzioni di fatto impalpabili, ad esempio tra documentazione “integrativa e specificativa” (ammessa) e documentazione “aggiuntiva ed ulteriore” (esclusa), senza fornire alcun concreto supporto all’Amministrazione nella complessa gestione delle ammissioni e delle esclusioni.
In conclusione, non appare quindi del tutto sorprendente che, come si è illustrato, CGARS e Consiglio di Stato siano giunti a soluzioni opposte in relazione alla medesima questione.
Sebbene la soluzione del CGARS appaia, forse, più lineare e consenta di tracciare una linea di demarcazione più netta sull’applicabilità dell’istituto, è innegabile che la stessa possa condurre ad un “appiattimento” tra le posizioni dei concorrenti alla gara, ponendo sullo stesso piano sostanziale gli operatori che hanno compilato la documentazione di gara in maniera completa e corretta e quelli che, invece, hanno commesso errori anche non banali; appiattimento che, oltre a contraddire il principio di par condicio e auto-responsabilità, risulterebbe oggi particolarmente marcato, in virtù dell’assenza di sanzioni pecuniarie a carico di chi usufruisce del soccorso istruttorio[21].
Appare, dunque, come già accennato, comprensibile l’estensione della portata applicativa del soccorso istruttorio, propugnata prima dalla giurisprudenza e poi recepita dal legislatore, soprattutto se tale estensione viene proiettata nel prisma dei principi generali introdotti nel nuovo Codice dei contratti pubblici, non dovendosi però farne derivare un utilizzo eccessivamente disinvolto di tale istituto, il quale, comunque, presenta inevitabili profili di frizione con principi parimenti meritevoli di tutela, quale quello della parità di trattamento tra soggetti sottoposti all’esercizio di un potere amministrativo.
[1]In tema cfr., tra gli altri, F. Aperio Bella, S. Caldarelli, E.M. Santoro, S. Tranquilli, Verifica dei requisiti e soccorso istruttorio, in M.A. Sandulli, R. De Nictolis (a cura di), Trattato sui contratti pubblici, vol. II, Milano, 2019, 1468 ss.; E. Frediani, Il dovere di soccorso procedimentale, Napoli, 2016.
[2]In tema P. Lazzara, I procedimenti amministrativi ad istanza di parte. Dalla disciplina generale sul procedimento (l. 241/90) alla direttiva “servizi” (2006/123/CE), Napoli, 2008, 97 ss.
[3]Sul punto cfr. A. Bonaiti, S. Vaccari, Sul soccorso istruttorio nel diritto amministrativo generale. Inquadramento teorico, principi e interessi protetti, in Dir. amm., 2023, 193.
[4]Paradigmatica, nel senso indicato, la sentenza del Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9, in Foro Amm., 2014, 387, spec. par. 7.4.1.
[5]Così Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2022, n. 5055, in Guida al diritto, 2022, 44.
[6]Così, di recente, T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 24 dicembre 2022, n. 17536, in Foro amm., 2022, 1642. Nello stesso senso, sempre di recente, cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 8 febbraio 2022, n. 289, ivi, 204.
[7]Sul punto, A. Bonaiti, S. Vaccari, op. cit., 197.
[8]Nel senso indicato si v., ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 2 novembre 2022, n. 14301, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si sottolinea: “specialmente nell'ambito dei concorsi pubblici l'attivazione del c.d. soccorso istruttorio è tanto più necessaria per le finalità proprie di detta procedura che, in quanto diretta alla selezione dei migliori candidati a posti pubblici, non può essere alterata nei suoi esiti da meri errori formali, come accadrebbe se un candidato meritevole non risultasse vincitore per una mancanza facilmente emendabile con la collaborazione dell'Amministrazione. Il danno, prima ancora che all'interesse privato, sarebbe all'interesse pubblico, considerata la cruciale rilevanza della corretta selezione dei dipendenti pubblici per il buon andamento dell'attività della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.)”. Nello stesso senso, tra le tante: T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 6 aprile 2022, n. 778, in Foro amm., 2022, 534; T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, 10 novembre 2020, n. 709, in Foro amm., 2020, 2160; T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 3 marzo 2020, n. 1000, in www.giustizia-amministrativa.it.
[9]Dal punto di vista ora assunto si segnala, in particolare, l’orientamento della Terza Sezione del Consiglio di Stato, in base al quale “L'obbligo di ammissione al soccorso istruttorio deve essere coerente con il principio di equa distribuzione, tra le parti della procedura concorsuale, dell'onere di diligenza normalmente esigibile (nei confronti dell'amministrazione procedente e dell'impresa partecipante alla gara, cui è corretto richiedere non una diligenza comune, ma la diligenza professionale di cui all'art. 1176, secondo comma, cod. civ.)”: così, di recente, Cons. Stato, sez. III, 13 giugno 2023, n. 5783, in www.giustizia-amministrativa.it. Sempre nel senso che “il ricorso al soccorso istruttorio non si giustifica nei casi in cui confligge con il principio generale dell'autoresponsabilità dei concorrenti, in forza del quale ciascuno sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella presentazione della documentazione” si v., tra le altre, Cons. Stato, sez. III, 28 novembre 2018, n. 6752, in L’amministrativista, 29 novembre 2018; Id., 25 maggio 2016, n. 2219, in Rass. dir. farm., 2016, 602; Id., 12 luglio 2018, n. 4266, in www.giustizia-amministrativa.it; la medesima massima è ripresa anche dalla Quarta Sezione nella pronuncia del 19 febbraio 2019, n. 1148, in Foro amm., 2019, 217; ancora nel medesimo senso cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 23 novembre 2022, n.10325, in www.giustizia-amministrativa.it. Sulla falsariga, si rimanda anche a T.A.R. Veneto, sez. III, 3 aprile 2019, n. 414, in Foro amm., 2019, 673 (in tema di procedure comparative di massa); T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 9 marzo 2017, n. 3262, in Rass. dir. farm., 2017, 2, 370; T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 28 marzo 2019, n. 94, in www.giustizia-amministrativa.it (con riferimento alle procedure comparative per l’ottenimento di finanziamenti).
[10] Come evidenziato dall’Adunanza Plenaria nella già citata sentenza n. 9/2014: “per meglio definire il perimetro del "soccorso istruttorio" è necessario distinguere tra i concetti di "regolarizzazione documentale" ed "integrazione documentale": la linea di demarcazione discende naturaliter dalle qualificazioni stabilite ex ante nel bando, nel senso che il principio del "soccorso istruttorio" è inoperante ogni volta che vengano in rilievo omissioni di documenti o inadempimenti procedimentali richiesti a pena di esclusione dalla legge di gara […] conseguentemente, l'integrazione non è consentita, risolvendosi in un effettivo vulnus del principio di parità di trattamento; è consentita, invece, la mera regolarizzazione, che attiene a circostanze o elementi estrinseci al contenuto della documentazione e che si traduce, di regola, nella rettifica di errori materiali e refusi”.
[11]Si veda, ad esempio, Cons. Stato, sez. V, 22 novembre 2019, n. 7975, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12]Sul tema cfr. a A. Bonaiti, S. Vaccari, Soccorso istruttorio e procedure comparative. Un’analisi critica del principio di par condicio tra formalismo e logica di risultato, in Dir. amm., 2023, 373 ss.
[13]Ciò non significa, tuttavia, che non possano proporsi casi problematici anche per la tipologia di procedimenti in questione. Ad esempio, in un caso di mancata attivazione del soccorso istruttorio in tema di SCIA, è stato statuito che “quanto al potere-dovere di soccorso istruttorio, occorre sempre che sia rispettato un ragionevole equilibrio tra l’errore o la lacuna in cui è incorsa la parte privata e l’onere di assistenza e consulenza che per effetto del soccorso istruttorio viene trasferito a carico dell’amministrazione. A un errore sproporzionatamente grave della parte privata non può corrispondere un obbligo sproporzionatamente gravoso per l’amministrazione. Se dunque il progetto non fornisce le coordinate essenziali per descrivere l’edificazione, compresa la proposta di accordo per l’arretramento dell’edificio ricostruito, gli uffici comunali hanno il solo obbligo di motivare l’archiviazione, senza essere tenuti a mantenere aperto un canale di interlocuzione con la parte privata” (così T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, ord. 22 maggio 2023, n. 193).
[14]La possibilità di regolarizzare i vizi essenziali della documentazione amministrativa era contemplata anche dalla normativa antecedente al Codice del 2016, e segnatamente dal comma 2-bis dell’art. 38 del d.lgs. 163/2006 (comma introdotto dall'articolo 39, comma 1, del d.l. 90/2014), e dall’art. 46 della medesima legge. Come correttamente osservato dalla giurisprudenza, la novella del 2014 costituiva “espressione della volontà del legislatore di dequotare i vizi formali inerenti gli elementi e le dichiarazioni di cui all'art. 38 comma 2, Codice degli appalti e, quindi, laddove la dichiarazione risulti insufficiente incompleta o addirittura mancante, la stazione non può procedere all'esclusione del concorrente ma deve esercitare il soccorso istruttorio” (così T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 28 gennaio 2016, n. 1242, in Foro amm., 2016, 154).
[15]Per un commento all’art. 83, comma 9, si rinvia a F. Aperio Bella, S. Caldarelli, E.M. Santoro, S. Tranquilli, op. cit.
[16]Tra le tante, nel senso indicato, cfr.: Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2023, n. 324, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 25 ottobre 2022, n. 1020, in www.giustizia-amministrativa.it; T.R.G.A. Trento, sez. I, 4 aprile 2022, n. 75, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Veneto, sez. III, 6 ottobre 2021, n. 1175, in Foro amm., 2021, 1519; Cons. Stato, sez. V, 4 ottobre 2022, n. 8481, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2019, n. 2219, in Foro amm., 2019, 636; Cons. Stato, sez. III, 13 dicembre 2018, n. 7039, in Foro amm., 2018, 2151; Cons. Stato, sez. V, 27 aprile 2015, n. 2082, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. III, 21 ottobre 2014, n. 5196, in www.giustizia-amministrativa.it. Sulla non sanabilità dell’offerta che indica prodotti con caratteristiche tecniche diverse da quelle richieste dal capitolato speciale, si veda Cons. Stato, sez. III, 3 agosto 2018, n. 4809, in www.giustizia-amministrativa.it. Invece, sulla possibilità di integrare l’offerta tecnica con una dichiarazione totalmente mancante e prevista a pena di esclusione dal bando (ma comunque non incidente sul contenuto sostanziale dell’offerta stessa), si veda T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 4 giugno 2018, n. 1137, in L’Amministrativista, 5 giugno 2018.
[17]Nel senso che “è escluso il soccorso istruttorio volto a sanare carenze strutturali dell'offerta tecnica presentata, in quanto esse riflettono una carenza essenziale dell'offerta” si v., di recente, Cons. Stato, sez. V, 9 gennaio 2023, n. 290, in www.giustizia-amministrativa.it; negli stessi termini, Cons. Stato, sez. VII, 9 gennaio 2023, n. 234, ivi; T.A.R. Lazio Roma, sez. IV, 3 gennaio 2023, n. 121, ivi.
[18]Invero il citato art. 101, pur recependo e disciplinando espressamente il soccorso procedimentale, lascia aperte alcune contraddizioni: in particolare, il terzo comma abilita la stazione appaltante a “richiedere chiarimenti sui contenuti dell'offerta tecnica e dell'offerta economica e su ogni loro allegato”, mentre la lettera B del primo comma consente di “sanare ogni omissione, inesattezza o irregolarità della domanda di partecipazione, del documento di gara unico europeo e di ogni altro documento richiesto dalla stazione appaltante per la partecipazione alla procedura di gara”, ma con espressa “esclusione della documentazione che compone l'offerta tecnica e l'offerta economica”. Senonchè, non appare di immediata percezione la differenza tra la consentita (e, si direbbe, doverosa) “richiesta di chiarimenti” e la vietata “sanatoria di omissioni e inesattezze”, dal momento che la richiesta di chiarimenti sembrerebbe pur sempre presupporre una qualche omissione o inesattezza.
[19]Cfr. C.G.A.R.S., sez. giurisd., 2 gennaio 2023, n. 4, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20]Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 2023, n. 3819, in Foro amm., 2023, 580; Cons. Stato, sez. V, 6 dicembre 2021, n. 8148, ivi, 2021, 1839; Cons. Stato, sez. V, 22 febbraio 2021, n. 1540, in L’Amministrativista, 23 febbraio 2021. Contra, ossia in senso analogo alla sentenza del CGARS, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24 febbraio 2022, n. 1308, in Gior. dir. amm., 2022, 623, con nota di M. Filice, Dalla "caccia all'errore" alla verifica sostanziale: la parabola del soccorso istruttorio.
[21]Sul c.d. soccorso istruttorio oneroso, e sulla sua espunzione dall’ordinamento, si rinvia a F. Aperio Bella, S. Caldarelli, E.M. Santoro, S. Tranquilli, op.cit.
Quando tempus non regit actum. Ancora sulla c.d. “autotutela” in materia di s.c.i.a.: dichiarazioni non veritiere, interesse pubblico in re ipsa e termine ragionevole per l’esercizio del potere inibitorio postumo (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2023, n. 6387)
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. I fatti di causa. – 2. Il potere inibitorio postumo sugli interventi soggetti a s.c.i.a. (c.d. “annullamento della s.c.i.a.”) nella riforma Madia. Cenni. – 3. S.c.i.a. ed esercizio del potere inibitorio postumo in alcuni orientamenti giurisprudenziali. Ovvero quando tempus non regit actum. – 3.1. segue:oscillazioni giurisprudenziali tra “termine ragionevole” e “termine di diciotto mesi”. – 3.2. Incertezze lessicali e temporali: il c.d. “annullamento della s.c.i.a.” e l’irrilevanza delle riforme sulla ragionevolezza del termine in taluni approdi giurisprudenziali. – 3.3. Spostando dies a quo e dies ad quem: quando il solo avvio del procedimento rende “ragionevole” il termine di esercizio del potere. – 4. Falsa rappresentazione dei fatti ed esercizio del potere inibitorio postumo. – 4.1. Non veritiera rappresentazione dei fatti, falsità ed onere della prova. – 5. Linee ricostruttive.
1. I fatti di causa
Nel 2010 la proprietaria di un immobile presentava al Comune di Noci una d.i.a. per la realizzazione di un intervento straordinario di demolizione e ricostruzione di un immobile e di un piccolo locale deposito costruito in aderenza al primo.
Il procedimento era promosso in ossequio alla disciplina pugliese del c.d. “piano casa”[1] che ammetteva la demolizione e ricostruzione con la realizzazione di un aumento di volumetria superiore massimo del 35% rispetto all’esistente.
La d.i.a. era stata integrata nel 2012 e successivamente nel luglio 2013, in relazione a profili che, tuttavia, non riguardavano il locale deposito[2].
Nel settembre 2013 il Comune comunicava l’avvio del procedimento di “annullamento in autotutela” della d.i.a., prospettando – sulla base della segnalazione di alcuni vicini pervenuta pochi giorni prima – la “non pre-esistenza del locale deposito di dimensioni di mt. 7 x 3,40 in aderenza all’immobile oggetto di d.i.a.”.
Erano seguite due memorie partecipative mediante le quali l’interessata intendeva provare l’esistenza del deposito in epoca antecedente alla d.i.a.
Solo sul finire del 2014 il Comune, contestualmente ad un secondo avviso di avvio del procedimento di “autotutela”, ordinava all’interessata la sospensione dei lavori sino alla conclusione del procedimento stesso.
L’ente, tuttavia, restava inerte pur innanzi alla diffida con la quale l’interessata chiedeva la conclusione del procedimento con provvedimento espresso. Avverso il silenzio serbato dal Comune, la denunciante proponeva ricorso ex art. 117 c.p.a. innanzi al T.a.r. Puglia. Solo a quel punto l’Amministrazione, il 3 novembre 2015, adottava il provvedimento di “annullamento” della d.i.a., impugnato dalla ricorrente con motivi aggiunti.
Il giudice di prime cure, dichiarata l’improcedibilità del ricorso principale avverso il silenzio, accoglieva il ricorso per motivi aggiunti ritenendo che il provvedimento impugnato, espressione del “potere di autotutela decisoria”, fosse illegittimo siccome intempestivo in relazione ai limiti temporali previsti dall’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, e dunque, sia rispetto al termine di diciotto mesi – introdotto dall’art. 6 della l. n. 124/2015 – sia rispetto al “termine ragionevole” previsto dall’art. 21 nonies sin dalla sua formulazione ante riforma[3]. Il Tribunale riteneva inoltre che attraverso la d.i.a. la ricorrente non avesse operato una falsa rappresentazione della realtà e che, piuttosto, il provvedimento impugnato fosse (oltre che tardivo) affetto da gravi carenze istruttorie e motivazionali.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, ha affermato la legittimità del provvedimento del Comune riformando la decisione del T.a.r. con una sentenza che induce qualche osservazione poiché, muovendo dal caso particolare, finisce per lambire temi, di ordine generale, come quelli del ruolo stesso del giudice amministrativo nell’ordinamento[4] e della tecnica del richiamo al precedente giurisprudenziale, adoperata talvolta in modo improprio.
2. Il potere inibitorio postumo sugli interventi soggetti a s.c.i.a. (c.d. “annullamento della s.c.i.a.”) nella riforma Madia. Cenni
Una prima considerazione riguarda la scelta del diritto applicabile al caso concreto ratione temporis.
La controversia, infatti, ha ad oggetto la legittimità del provvedimento adottato dalla p.A. in applicazione degli artt. 19, comma 3, e 21 nonies, l. n. 241/1990.
Si tratta, come è noto, di disposizioni oggetto di non trascurabili riforme per effetto della legge c.d. Madia, n. 124/2015, entrata in vigore il 28 agosto del 2015.
Nel testo vigente prima della riforma Madia, ad esempio, l’art. 19, comma 3, prevedeva che, decorso il termine ordinario di sessanta giorni (trenta per la d.i.a. edilizia) per l’esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori previsti in via ordinaria, fosse comunque salvo il potere dell’Amministrazione competente “di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”: i) in caso di pregiudizio per un interesse a protezione rafforzata (comma 4)[5]; ii) “in ogni tempo” in ipotesi di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”. Per altra via, il potere di annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies doveva essere esercitato comunque non oltre un “termine ragionevole”. Gli art. 19 e 21 nonies andavano letti in combinato con l’art. 21, comma 1, a mente del quale, “in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge (…) ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”; inoltre le sanzioni previste in caso di svolgimento dell’attività in carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione o in difformità di esso si sarebbero dovute applicare anche a coloro che avessero dato inizio all’attività ex art. 19 “in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente” (art. 21, comma 2).
Con la riforma Madia le norme su richiamate sono state interessate da non trascurabili modifiche[6].
Anzitutto all’art. 21 nonies, comma 1, si prevede che il “termine ragionevole” per l’esercizio dell’autotutela in riferimento a provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici non possa essere superiore a diciotto mesi (oggi dodici). Ed è sempre la l. n. 124/2015 ad aver introdotto il comma 2 bis dell’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, a mente del quale il termine di diciotto mesi non opera in relazione all’annullamento dei “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”. Per effetto della riforma del 2015, inoltre, nell’art. 19 scompare il riferimento esplicito all’autotutela amministrativa e si ammette la possibilità che l’Amministrazione, “in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies” adotti i provvedimenti inibitori e ripristinatori anche decorso il termine ordinario[7]; viene abrogato, infine, il comma 2 dell’art. 21, lasciando tuttavia in vigore la disposizione di cui al comma 1.
3. S.c.i.a. ed esercizio del potere inibitorio postumo in alcuni orientamenti giurisprudenziali. Ovvero quando tempus non regit actum
Proprio perché si tratta di modifiche non marginali della disciplina, è importante stabilire quali siano le norme di diritto positivo applicabili e quali i principi giurisprudenziali da considerare nel caso di un provvedimento con il quale l’Amministrazione, dopo il decorso del termine ordinario per l’esercizio dei propri poteri inibitori e ripristinatori, privi di effetto una s.c.i.a., ed eserciti, così, poteri inibitori, repressivi o conformativi ex post che solo in via semplificativa (ed impropriamente) possono definirsi di “annullamento d’ufficio della s.c.i.a.”[8].
È noto che il procedimento amministrativo è regolato dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che la legittimità degli atti del procedimento deve essere valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato l’atto che conclude una autonoma fase dello stesso[9].
Come ha precisato anche di recente il Consiglio di Stato[10], nei procedimenti amministrativi la corretta applicazione di tale principio comporta che la pubblica Amministrazione tenga conto delle modifiche normative intervenute durante il procedimento “non potendo considerare l’assetto normativo cristallizzato in via definitiva alla data dell’atto che vi ha dato avvio”.
Ne consegue che la legittimità del provvedimento deve essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui esso è stato adottato e non al tempo in cui è stato avviato il relativo procedimento e questo perché “lo ius superveniens reca sempre una diversa valutazione degli interessi pubblici” operata dal legislatore e dalla quale l’Amministrazione non può autonomamente discostarsi.
Questo principio di carattere generale stenta, tuttavia, a trovare concreta applicazione in materia di autotutela decisoria dal momento che le Amministrazioni, con l’avallo di una parte della giurisprudenza, sovente esercitano il proprio potere di annullamento d’ufficio come se a partire dal 2015 il legislatore non ne avesse modificato in maniera profonda la struttura ed i limiti.
Non è certamente questa la sede per ripercorrere l’evoluzione del diritto positivo e del dibattito giurisprudenziale e dottrinario sull’autotutela decisoria: basterà qui ricordare che in piena coerenza con gli orientamenti giurisprudenziali maturati sin da epoca risalente, l’art. 21 nonies, l. n. 241/1990 – introdotto con la l. n. 15/2005 – non ancorava l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio a casi e modalità stabiliti dalla legge. Esso continuava ad apparire, di contro, “espressione di un privilegio generale dell’amministrazione di tornare unilateralmente sulle decisioni (…) che enfatizza la flessibilità dell’atto amministrativo, nel presupposto che esso debba essere sempre adattato alle mutevoli esigenze dell’interesse pubblico ed aderente al principio di legalità dell’azione amministrativa”[11]. Tuttavia, la disposizione aveva l’innegabile merito di precisare che l’annullamento si sarebbe potuto pronunciare solo in presenza di ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
È con le modifiche introdotte dalla l. n. 124/2015 che l’autotutela decisoria appare ancorata al principio di legalità e non più un’implicita espressione dell’immanenza ed inesauribilità del potere di amministrazione attiva derivanti dalla necessità di garantire la continua corrispondenza dell’attività amministrativa al pubblico interesse[12].
L’introduzione del termine di diciotto mesi (oggi dodici) per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio era stata salutata come “un nuovo paradigma nei rapporti tra cittadini e pubbliche amministrazioni: nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza giuridica, il legislatore del 2015 ha fissato termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati”[13].
Per scongiurare il rischio che a seguito della limitazione del potere di annullamento d’ufficio potessero consolidarsi posizioni di vantaggio ottenute in maniera fraudolenta, fu introdotto il già richiamato comma 2 bis dell’art. 21 nonies, che esclude l’applicabilità del termine decadenziale per l’esercizio del potere rispetto a “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
Anche il potere di intervento tardivo sulla s.c.i.a. appare mutato per effetto della l. n. 124/2015. L’art. 19, comma 4, infatti nel rinviare alle “condizioni” previste dall’art. 21 nonies, supera la contraddittorietà delle preesistenti ricostruzioni dell’istituto quale forma di annullamento amministrativo di un atto privato[14]. Siamo cioè innanzi ad un provvedimento attraverso il quale, ricorrendo i presupposti per l’applicazione dell’art. 21 nonies, l’Amministrazione non interviene ad annullare d’ufficio la segnalazione, ma esercita un potere inibitorio “supplementare” che consente di rimuove gli effetti prodotti dalla s.c.i.a. e dal mancato esercizio del potere inibitorio in via ordinaria.
Dopo la legge Madia, dunque, il limite dei diciotto (poi dodici) mesi finisce per applicarsi anche al provvedimento di rimozione degli effetti della s.c.i.a., entro i limiti delineati con riferimento ai “provvedimenti” conseguiti sulla base di condotte fraudolente “accertate con sentenza passata in giudicato”.
Come si è già ricordato, di contro, ante riforma non solo mancava un termine inderogabile per l’esercizio dell’autotutela – valendo unicamente il limite del “termine ragionevole” –, ma l’Amministrazione poteva intervenire “in ogni tempo” in ipotesi di “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”, e ciò senza che assumesse alcun rilievo l’accertamento di tale presupposto per effetto di un giudicato penale.
L’entrata in vigore della l. n. 124/2015 avrebbe dunque dovuto segnare uno spartiacque tra due regimi giuridici.
In particolare, proprio in virtù del ricordato principio generale del tempus regit actum (ed in assenza di una norma transitoria), ai provvedimenti adottati dopo il 28 agosto 2015 si sarebbe dovuta applicare la nuova disciplina, più attenta ad offrire tutela alle esigenze di certezza giuridica ed all’affidamento dei soggetti beneficiati dal provvedimento di primo grado asseritamente illegittimo[15].
3.1. segue: oscillazioni giurisprudenziali tra “termine ragionevole” e “termine di diciotto mesi”
L’interpretazione della giurisprudenza, specie con riguardo all’operatività del termine di diciotto mesi, tuttavia, non è stata univoca.
Secondo un indirizzo rimasto minoritario, il termine perentorio avrebbe trovato applicazione per i provvedimenti di secondo grado adottati dopo l’entrata in vigore della riforma e decorsi diciotto mesi dal provvedimento ritenuto illegittimo[16].
Altri orientamenti hanno cercato di attenuare – ove non di neutralizzare – l’impatto innovativo della riforma.
Si è così affermato che la nuova disciplina dell’art. 21 nonies sarebbe applicabile solo ai provvedimenti di annullamento di atti (di “primo grado”) emanati dopo l’entrata in vigore della riforma[17]. Secondo un altro indirizzo giurisprudenziale in riferimento ai provvedimenti di annullamento adottati dopo il 28 agosto 2015 – ma con riguardo ad atti di primo grado adottati ante riforma – il termine di diciotto mesi decorrerebbe non dalla data di adozione del provvedimento originario, ma dal 28 agosto 2015[18] (e spirerebbe, dunque, in ogni caso il 28 febbraio 2017)[19]; in tale ipotesi, tuttavia, sarebbe comunque salva l’operatività del termine ragionevole già previsto dall’originaria versione dell’articolo 21 noniesdella legge n. 241/1990 sicché – allorquando i diciotto mesi non possano considerarsi ancora decorsi – “la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione”[20].
D’altro canto, finanche con riferimento alla legittimità di provvedimenti di annullamento d’ufficio adottati prima della riforma del 2015, la giurisprudenza aveva osservato che la disposizione novellata – pur non applicabile ratione temporis – nella parte in cui fissava il termine dei diciotto mesi dovesse comunque valere come indice ermeneutico ai fini della valutazione sulla ragionevolezza del termine[21].
Ciò significa che per i provvedimenti di annullamento d’ufficio adottati dopo il 28 agosto 2015 – dunque assoggettati ad uno ius superveniens che è comunque espressione di una diversa valutazione degli interessi pubblici operata dal legislatore – ed anche prendendo atto degli orientamenti giurisprudenziali su richiamati, il potere di annullamento d’ufficio si consumerebbe solo dopo diciotto (oggi dodici) mesi che decorrono: a) dal 28 agosto 2015 se il provvedimento di primo grado è anteriore a tale data; b) dalla data di adozione del provvedimento di primo grado (se successiva al 28 agosto 2015).
Nell’ipotesi appena richiamata sub a), il provvedimento di annullamento d’ufficio ancorché adottato prima dello spirare dei diciotto (o dodici) mesi potrebbe comunque risultare illegittimo qualora, per le circostanze concrete, il termine complessivamente decorso dal provvedimento annullato appaia non “ragionevole”[22].
3.2. Incertezze lessicali e temporali: il c.d. “annullamento della s.c.i.a.” e la irrilevanza delle riforme sulla ragionevolezza del termine in taluni approdi giurisprudenziali
In materia di s.c.i.a. la giurisprudenza continua a considerare impropriamente l’atto adottato ai sensi dell’art. 19, comma 4, (e dunque “in presenza delle condizioni previste dall’art. 21 nonies”), quale espressione del potere di autotutela e non, come ormai dovrebbe risultare definitivamente chiaro, quale manifestazione di un potere inibitorio, repressivo o conformativo postumo o “supplementare”.
È evidente che il richiamo alla nozione di “autotutela” (ovviamente inammissibile, da un punto di vista logico rispetto ad un atto del privato) risponde probabilmente ad esigenze di celerità nella redazione delle decisioni. Tuttavia, questa semplificazione lessicale finisce per confondere le categorie dommatiche e per creare ulteriore incertezza che non dovrebbe essere ancora alimentata a distanza di otto anni dall’entrata in vigore della l. n. 124/2015 e dopo che già nel 2016 il Consiglio di Stato si era soffermato sulla “inconfigurabilità di un’autotutela in senso tecnico” in materia di s.c.i.a.[23].
Con riguardo al perdurare di orientamenti giurisprudenziali che neutralizzano la riforma Madia è significativo, ad esempio, come i principi enunciati dalla sentenza 17 ottobre 2017, n. 8 dell’Adunanza plenaria[24], pur se dichiaratamente elaborati con riferimento al regime precedente alla l. n. 124/2015, continuino ad essere richiamati anche con riguardo a fattispecie che dovrebbero essere disciplinate dagli artt. 19, 21, 21 nonies, l. n. 241/1990 post riforma.
Balza agli occhi, tuttavia, come il richiamo ai principi enunciati in quella sede dal Consiglio di Stato valga, in una parte della giurisprudenza, quasi a sterilizzare ogni possibile “tentazione” di proporre interpretazioni differenti.
La sentenza n. 6387/2023 che qui si annota è emblematica sia quanto al reiterato riferimento alla nozione di autotutela applicata alla s.c.i.a., sia con riguardo al richiamo ad orientamenti giurisprudenziali tralatizi che – sebbene riferibili a fattispecie differenti da quelle sottoposte alla cognizione del giudice – fondano (recte si ritiene possano fondare) la decisione.
A tale ultimo proposito il Collegio espressamente richiama tre principi enunciati dall’Adunanza plenaria n. 8/2017:
i) il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio decorre solo dalla scoperta da parte dell’Amministrazione di fatti e circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
ii) in caso di interessi pubblici “autoevidenti” l’onere motivazionale risulta attenuato;
iii) la non veritiera prospettazione di circostanze in fatto ed in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo non fa sorgere alcun affidamento in capo al privato sicché l’annullamento potrà dirsi adeguatamente motivato richiamando la non veritiera prospettazione di parte.
Di tali principi il Consiglio di Stato afferma “la perdurante validità”, anche in ossequio a taluni precedenti (sez. IV, n. 2839/2023 e n. 4374/2018).
Tuttavia, la vicenda oggetto della sentenza in commento è relativa ad un provvedimento inibitorio ex art. 19, comma 4, adottato il 3 novembre 2015 la cui legittimità, dunque, si sarebbe dovuta scrutinare alla luce della disciplina post riforma Madia.
Sia l’Adunanza plenaria nella sentenza n. 8/2017, sia la richiamata sentenza n. 2839/2023, di contro, si riferiscono a fattispecie che – in ossequio al principio tempus regit actum – rientravano nella disciplina pre riforma[25]. Quanto poi alla sentenza n. 4374/2018, anch’essa richiamata nella decisione in commento, in quell’occasione il Consiglio di Stato, in ossequio all’orientamento già ricordato innanzi[26] ha ritenuto che la disciplina dell’art. 21 nonies, nella sua versione novellata dalla l. n. 124/2015[27], non fosse applicabile ad un provvedimento di annullamento d’ufficio del 2016, in quanto relativo ad un atto di primo grado adottato prima dell’entrata in vigore della legge Madia.
Nella sentenza che qui si annota, il richiamo da parte del Giudice a precedenti riferiti a fattispecie che, sotto il profilo del diritto applicabile ratione temporis, sono del tutto differenti rispetto a quella oggetto del ricorso, rende la decisione assolutamente non prevedibile in quanto fondata, tra l’altro, su un quadro normativo niente affatto chiaro.
Un contributo di chiarezza deriverebbe anzitutto dall’espressa individuazione del diritto applicabile al caso di specie.
Sul punto il Consiglio di Stato nella sentenza in commento ritiene che al provvedimento (di c.d. “autotutela”) si applicherebbe la disciplina vigente nel momento dell’avvio del relativo procedimento.
Si legge infatti: “in ogni caso, non si ravvisa la violazione del termine ragionevole per l’esercizio dei poteri di autotutela – l’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, nel testo vigente al momento dell’avvio del procedimento di annullamento in autotutela della d.i.a. [10 settembre 2013, n.d.a.], disponeva: «il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge» – in quanto il procedimento di autotutela è stato avviato dopo pochi giorni dall’esposto dei proprietari dei fondi limitrofi [datato 8 agosto 2013, n.d.a.], che hanno denunciato una non veritiera rappresentazione nella denuncia di inizio attività dello stato di fatto effettivamente esistente” [28].
La deviazione dal principio tempus regit actum non potrebbe essere più evidente: il provvedimento impugnato è del 3 novembre 2015, ma il Collegio ritiene applicabile la disciplina vigente al momento dell’avvio del procedimento (2013), nonostante le significative innovazioni introdotte dapprima con d.l. n. 133/2014 e poi con la l. n. 124/2015.
Tale soluzione interpretativa è proposta (recte affermata e seguita) senza il supporto di alcuna argomentazione, quasi alla stregua di un’opzione volitiva del giudicante che liberamente sceglie quale diritto applicare alla fattispecie sottoposta alla sua cognizione.
Una possibile spiegazione di tale scelta, tuttavia, si rinviene proseguendo nella lettura della sentenza: secondo il Consiglio di Stato il provvedimento ex art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 sarebbe comunque tempestivo nonostante sia stato adottato a distanza di oltre due anni dall’esposto dei proprietari dei fondi limitrofi; e ciò perché, alla luce dei “principi enunciati dalla Adunanza plenaria sopra richiamati, il termine ragionevole per l’adozione dell’annullamento d’ufficio decorre soltanto dalla scoperta dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro”.
Discostandosi dal principio temupus regit actum il Collegio può così richiamare direttamente quei principi che l’Adunanza plenaria aveva enunciato facendo esplicito riferimento alla disciplina ante riforma.
Ma anche di tali principi offre una lettura in parte innovativa.
3.3. Spostando dies a quo e dies ad quem: quando il solo avvio del procedimento rende “ragionevole” il termine per l’esercizio del potere
Con la sentenza n. 8/2017, l’Adunanza plenaria aveva chiarito che “la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto”.
Nel caso di specie, quindi, il dies a quo per il computo del termine ragionevole si sarebbe potuto individuare nella data in cui il Comune, a seguito dell’esposto dei vicini, aveva avuto notizie del presunto abuso (3 agosto 2013).
Certamente a partire da tale data diviene “esigibile” una condotta attiva dell’Amministrazione volta all’esercizio del potere (inibitorio postumo) entro un termine ragionevole. L’Adunanza plenaria, tra l’altro, aveva precisato che “in particolare, in caso di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere (e a prescindere dagli eventuali risvolti di ordine penale), laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ragionevole decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità”.
Se nell’interpretazione “creativa” dell’Adunanza plenaria il dies a quo, ai fini del calcolo del termine ragionevole è quello in cui diviene esigibile la condotta attiva dell’Amministrazione, per lo meno quanto al dies ad quem non sembrava potersi dubitare della necessità di guardare alla data di adozione del provvedimento di annullamento.
Nel caso di specie tra la denuncia dei vicini (8 agosto 2013) e il provvedimento espressione del potere inibitorio ex post (3 novembre 2015) era decorso un termine di quasi ventisette mesi ed è rispetto a questo che, a tutto voler concedere, si sarebbe dovuta valutare la ragionevolezza[29].
È indubbio che il Consiglio di Stato avrebbe dovuto scrutinare la legittimità del provvedimento del 3 novembre 2015 applicando la disciplina successiva alla riforma Madia. Dunque, ai sensi dell’art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 (vigente ratione temporis) il Comune avrebbe dovuto provvedere entro diciotto mesi decorrenti dalla presentazione della s.c.i.a. o, secondo altra interpretazione, dalla scadenza del termine per l’esercizio in via ordinaria dei poteri inibitori[30].
Nel caso di specie la prima d.i.a. era stata presentata nel febbraio 2010 ed era stata successivamente integrata nel 2012 e nel luglio 2013, pur se con riferimento a profili diversi da quelli poi contestati.
Pertanto, a stretto rigore, è dal febbraio 2010 (o, al più, dal luglio 2013) che si sarebbe dovuta valutare la decorrenza del termine di diciotto mesi. Ed in effetti il giudice di primo grado aveva ritenuto illegittimo il provvedimento osservando come rispetto alla prima d.i.a. “ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente, il potere di ‘autotutela’ è intervenuto ad oltre cinque anni” e che “l’asserita difformità tra la consistenza planovolumetrica del deposito come dichiarata e come esistente prima della demolizione avrebbe dovuto e potuto essere verificata dal Comune prima dello spirare dei trenta giorni dalla presentazione della d.i.a., essendo in suo possesso la relazione del tecnico di parte (corredata da allegati grafici e planimetria catastale) ed essendo all’epoca ancora esistente il deposito, poi demolito per effetto dell’intervento. Il decorso di un sì considerevole lasso temporale non trova dunque alcuna giustificazione”.
Ma anche accedendo alla già ricordata interpretazione “creativa” che fissa il dies a quo nella data di entrata in vigore della riforma Madia[31], non può trascurarsi come quella stessa giurisprudenza ritenga che la ragionevolezza del termine debba essere scrutinata anche avendo riguardo al decorso dei diciotto mesi.
In ogni caso, quindi, l’esercizio nel novembre 2015 del potere inibitorio postumo sarebbe risultato irragionevole sia rispetto alla data di presentazione della d.i.a. (2010), sia rispetto alla data della denuncia delle presunte irregolarità da parte dei vicini (8 agosto 2013).
Ciò anche in considerazione della condotta serbata dalla segnalante che: aveva partecipato al procedimento con proprie memorie e documenti fornendo un principio di prova sulla insussistenza della irregolarità contestata; prima dell’avvio del procedimento ex art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 aveva demolito il piccolo manufatto oggetto di contestazione ed aveva già ultimato il rustico della nuova costruzione[32]; aveva addirittura sollecitato la conclusione del procedimento con provvedimento espresso.
Il Consiglio di Stato, invece, nella sentenza in commento non solo fa riferimento alla disciplina ante riforma, ma valuta la ragionevolezza del termine con riguardo al tempo intercorso tra ricezione della denuncia e avvio del procedimento di “autotutela”, così palesemente discostandosi dalla lettera (e dallo spirito) della legge.
Non può che destare perplessità, dunque, il passaggio in cui si afferma che “secondo i principi enunciati dalla Adunanza plenaria sopra richiamati, il termine ragionevole per l’adozione dell’annullamento d’ufficio decorre soltanto dalla scoperta dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro. Nel caso di specie, dopo pochi giorni dalla presentazione dell’esposto da parte dei proprietari dei terreni confinanti, la amministrazione comunale ha dato avvio al procedimento di annullamento in autotutela della d.i.a.”.
È evidente a questo punto che se non si compie uno sforzo almeno per individuare in modo puntuale le questioni di fatto volta a volta affrontate (ed il diritto applicabile ratione temporis) e si ammette che il dies ad quem sia quello dell’avvio del procedimento inibitorio postumo, il parametro della ragionevolezza del termine – già di per sé indeterminato ed elastico – finisce per essere privo di qualsiasi capacità ordinante del sistema.
Così facendo, tuttavia, si schiude (ancora una volta) lo spazio ad interpretazioni creative che in nome di una concezione del potere di autotutela che le più recenti riforme intendevano superare, continuano a sacrificare l’interesse del privato alla tutela dell’affidamento e l’interesse generale alla certezza giuridica.
4. Falsa rappresentazione dei fatti ed esercizio del potere inibitorio postumo
Nel caso che ci occupa il Comune aveva esercitato il proprio potere inibitorio postumo (art. 19, comma 4, l. n. 241/1990) rispetto ai lavori oggetto di s.c.i.a., sulla base del rilievo per il quale la dichiarata consistenza plano-volumetrica del piccolo locale deposito non sarebbe stata conforme all’esistente[33].
Come abbiamo ricordato, nella sentenza in commento il Consiglio di Stato ha espressamente richiamato il principio enunciato dall’Adunanza plenaria n. 8/2017 ed in forza del quale “la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”.
Nell’argomentare del Consiglio di Stato, il richiamo al precedente dell’Adunanza plenaria vale a fondare la decisione anche nel caso di specie, come se al provvedimento in questione non si applicasse la (diversa) disciplina introdotta con la riforma Madia.
Come se, in particolare, la legittimità del provvedimento andasse scrutinata alla luce della disciplina vigente prima della l. n. 124/2015 ed in forza della quale in caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci il potere inibitorio postumo sulla s.c.i.a. poteva essere esercitato anche oltre il “termine ragionevole” ed indipendentemente dal giudicato penale[34].
Ma, come si è già avuto modo di osservare, nella sua attuale formulazione l’art. 21 nonies, comma 2 bis, prevede che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”[35].
Tuttavia, per il Consiglio di Stato in presenza di una non veritiera rappresentazione della realtà, il “potere di annullamento in autotutela (…) non può essere paralizzato dalla mancanza di un giudicato penale, rilevante per il solo caso (non ricorrente nella fattispecie in esame) di dichiarazioni sostitutive o atti di notorietà mendaci o falsi”.
Tale affermazione riecheggia gli insegnamenti di quella giurisprudenza che attraverso un’articolata esegesi dell’art. 21 nonies, comma 2 bis, ha affermato che l’inciso “per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato” debba riferirsi esclusivamente al mendacio nelle dichiarazioni sostitutive e non anche alle “false rappresentazioni dei fatti”[36]. Secondo tale impostazione, oggetto di severa critica da parte della dottrina, finanche presunte inesattezze commesse dal privato nella descrizione o nella qualificazione tecnico-giuridica della fattispecie (pur se chiaramente riconducibili a meri errori di valutazione) giustificherebbero l’esercizio del potere ex art. 21 nonies oltre il termine decadenziale.
Ma perfino questa giurisprudenza – attenta più alla legalità del titolo che alla tutela dell’affidamento del cittadino ed alle esigenze di certezza giuridica – aveva individuato alcuni limiti all’annullamento “tardivo” del provvedimento frutto di false rappresentazioni dei fatti. Infatti, il necessario dolo (cui è equiparata la colpa grave) dell’agente e la sussistenza di uno “specifico e pregnante” nesso causale (tra condotta della parte e conseguimento del beneficio) avrebbero dovuto connotare la fattispecie concreta, sicché attraverso il limite della ragionevolezza del termine, si rimetteva all’Amministrazione il compito di “apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco”[37].
Occorre infatti certamente garantire che gli istituti di (presunta) semplificazione o liberalizzazione dei titoli abilitativi non divengano un pericoloso strumento a disposizione di privati che consapevolmenteforniscano una rappresentazione dei fatti oggettivamente falsa dando luogo così ad una situazione nella quale non può invocarsi alcuna tutela dell’affidamento; e ciò perché, semplicemente, non vi è alcun affidamento. Al contempo, tuttavia, si deve prendere atto della scelta del legislatore, chiaramente orientata verso l’intento di accrescere la fiducia degli operatori economici e la certezza giuridica, sicché la nozione di “falsa rappresentazione dei fatti” non può estendersi sino a ricomprendervi l’errore incolpevole o una certa interpretazione delle norme giuridiche e tecniche di riferimento che la p.A. (ovviamente ex post!) ritenesse non condivisibile[38].
Di contro, si assiste sovente ad interpretazioni che tendono ad allargare i confini della “falsa rappresentazione dei fatti” (e, dunque, dell’esercizio del potere caducatorio ex post oltre il termine ragionevole) sino a ricomprendervi – sotto il profilo oggettivo – anche l’ipotesi dell’errata ricostruzione delle norme giuridiche e tecniche di riferimento[39] e, sotto il profilo soggettivo, qualsiasi condotta del dichiarante, indipendentemente dall’elemento psicologico[40].
Particolarmente delicato è l’accertamento dell’elemento psicologico affidato in prima battuta all’Amministrazione e, in un secondo momento, (eventualmente) al giudice[41].
Infatti, se si prescinde dal dolo – che pare dover connotare intrinsecamente la falsa dichiarazione – si legittima l’esercizio dell’autotutela in qualsiasi caso di errore attribuibile al segnalante nella ricostruzione del quadro normativo (e tecnico), anche con riguardo a circostanze che presentano un certo grado di opinabilità.
L’Adunanza plenaria, tuttavia, a proposito della nozione di “dichiarazione non veritiera” rilevante ai fini espulsivi nell’ambito dei contratti pubblici (art. 80, comma 5, lett. f bis, d.lgs. n. 50/2016) ha affermato che la falsità di una dichiarazione è “predicabile rispetto ad un «dato di realtà», ovvero ad una «situazione fattuale per la quale possa alternativamente porsi l’alternativa logica vero/falso», rispetto alla quale valutare la dichiarazione resa dall’operatore economico”, ma non in riferimento a profili suscettibili di interpretazione e, dunque, opinabili[42].
I profili oggettivi e soggettivi relativi alla nozione di falso, a ben vedere, non paiono facilmente scindibili ove si rammenti che, secondo una parte della giurisprudenza “il concetto di «falso», nell’ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso”[43].
4.1. Non veritiera rappresentazione dei fatti, falsità ed onere della prova
Nel caso di specie il Comune aveva esercitato i poteri inibitori ex post osservando che “la consistenza plano volumetrica del locale deposito dichiarato nei relativi grafici come costruita ante 1942 e così nella perizia giurata (…) alla stessa allegata non è quella realmente esistente in quanto la precedente struttura del locale deposito risultava in pietra a secco e il successivo ampliamento (di cui non consta un titolo edilizio, neppure richiamati dalla parte) risulta eseguito con parametri murari recenti”.
La rappresentazione dello stato dei luoghi offerta in sede di d.i.a. dal denunciante viene per ciò solo considerata “non veritiera” e, quindi, idonea a fondare la legittimità del provvedimento impugnato indipendentemente dalla ragionevolezza del termine di adozione dello stesso.
Sul punto, tuttavia, il giudice di prime cure aveva correttamente osservato, da un lato, che “rispetto alla presentazione della prima d.i.a. ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente), il potere di «autotutela» era intervenuto ad oltre 5 anni di distanza” e, per altro verso, come “l’asserita difformità tra la consistenza planovolumetrica del deposito come dichiarata e come esistente prima della demolizione avrebbe dovuto e potuto essere verificata dal Comune prima dello spirare dei trenta giorni dalla presentazione della d.i.a., essendo in suo possesso la relazione del tecnico di parte (corredata da allegati grafici e planimetria catastale) ed essendo all’epoca ancora esistente il deposito, poi demolito per effetto dell’intervento”. In ordine alla presunta non veridicità della consistenza plano-volumetrica denunciata dal proprietario, il T.a.r. aveva criticamente rilevato come nell’atto impugnato mancasse “a monte una puntuale «contestazione» circa la concreta difformità tra l’esistente ed il dichiarato, non comprendendosi se la difformità attenga solo alle dimensioni ovvero alla effettiva consistenza del locale (ad esempio, se fosse chiuso o meno o se sia mutata anche la sua altezza)”. Così, rilevata l’assenza nel provvedimento di “una compiuta descrizione delle caratteristiche essenziali del manufatto pre-esistente” il T.a.r. ne aveva disposto l’annullamento ritenendo che il Comune non potesse “fondatamente addurre la falsità della rappresentazione quale unico presupposto legittimante per l’annullamento, considerate le foto dello stato dei luoghi prodotte da parte ricorrente (ma anche dal Comune) che comprovano (quanto meno alla stregua di “principio di prova”) l’esistenza di un manufatto in epoca antecedente all’intervento”.
In altri termini, secondo il giudice di primo grado, in una situazione nella quale il dichiarante aveva fornito elementi plausibili in ordine all’esistenza ed alla consistenza del manufatto, sarebbe spettato al Comune contestare puntualmente la falsa rappresentazione dei fatti. Ciò tanto più ove si consideri che proprio l’inerzia dell’Amministrazione nell’esercizio degli ordinari poteri repressivi e inibitori – nel termine di trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. (art. 19, comma 6 bis, l. n. 241/1990) – aveva reso possibile la (legittima) demolizione della porzione del piccolo locale deposito contestato.
Sembra, in altri termini, che la condotta del denunciante fosse complessivamente ispirata a buona fede in quanto non solo aveva preso parte al procedimento attraverso due memorie scritte, ma si era addirittura attivato – dapprima in sede procedimentale e, successivamente, proponendo un ricorso al T.a.r. ex art. 117 c.p.a. – affinché l’Amministrazione definisse il procedimento di c.d. “autotutela” avviato anni addietro.
Il Consiglio di Stato, di contro, non ha preso neanche in considerazione questa condotta, ma ha desunto la falsità delle dichiarazioni dalla mancata prova, da parte del denunciante, della datazione del manufatto e della sua originaria consistenza plano-volumetrica.
A sostegno della propria tesi il collegio afferma che “costituisce ius receptum nella giurisprudenza amministrativa il principio secondo il quale la prova delle dimensioni (consistenza) di un manufatto, la prova della esistenza o inesistenza di un rudere, la prova della data di costruzione e così via, grava su colui che attiva il procedimento di rilascio del titolo e poi agisce in giudizio, specie se si tratta di demo ricostruzione (cfr. sez. IV, n. 148 del 2022, sez. IV n. 463 del 2017, sez. VI n. 5106 del 2016)”.
Ma, ancora una volta, il principio giurisprudenziale è impropriamente richiamato. Ed infatti – come si desume dalla lettura proprio di quegli stessi precedenti cui la sentenza fa riferimento – esso è enunciato in relazione a fattispecie in cui il privato invocava l’applicazione di una norma a sé favorevole, senza tuttavia riuscire a fornire la prova della sussistenza dei presupposti di fatto e conseguentemente di diritto posti a fondamento della propria pretesa[44] (art. 2967 c.c.).
Nel caso che ci occupa, di contro, è l’Amministrazione che per esercitare dopo oltre cinque anni i propri poteri inibitori e ripristinatori ex post avrebbe dovuto provare la sussistenza dei relativi presupposti, tra i quali rientra la non veritiera rappresentazione della realtà[45].
Applicando un principio giurisprudenziale enunciato in una fattispecie differente, il Consiglio di Stato finisce per sancire un’illegittima inversione dell’onere della prova, quasi che l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione debba considerarsi ex se legittimo, spettando al cittadino il compito di provare (e non solo di contestare in giudizio) l’insussistenza dei relativi presupposti.
Alle medesime critiche si presta quel passaggio della sentenza nel quale il Collegio rigetta il motivo di ricorso relativo alla carenza di motivazione richiamando il proprio “consolidato” orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, quando un titolo abilitativo sia stato ottenuto dall’interessato in base ad una falsa o “comunque erronea rappresentazione della realtà sia consentito all’amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2019, n. 1795)”.
Non si intende qui richiamare l’articolato dibattito sull’interesse pubblico in re ipsa in materia di autotutela innanzi a dichiarazioni false o mendaci. Piuttosto è interessante notare come nel sostenere la propria tesi il Consiglio di Stato faccia riferimento alla sentenza n. 1795/2019, relativa – questo è il fatto rilevante – ad un provvedimento di annullamento d’ufficio di una concessione edilizia adottato nel lontano 1990, quando era appena entrata in vigore la legge sul procedimento amministrativo. In quel caso i giudici avevano precisato che il provvedimento impugnato era stato adottato “in un’epoca – antecedente alla riforma della legge n. 241 del 1990 ad opera della l. n. 15 del 2005 – in cui non era stato ancora codificato il potere amministrativo di riesaminare i precedenti provvedimenti come annullamento d’ufficio” riconoscendo la sussistenza dell’interesse in re ipsa all’annullamento del titolo ottenuto attraverso una falsa rappresentazione della realtà.
Il riferimento ad una sentenza relativa a fattispecie assoggettata ad una disciplina totalmente differente da quella applicabile nel caso deciso dal giudice “richiamante” costituisce l’ulteriore riprova della necessità di un uso accorto e sorvegliato del “richiamo del precedente” da parte della giurisprudenza.
5. Linee ricostruttive
È noto che il giudice rappresenta sovente l’ultimo baluardo per la tutela effettiva di interessi pubblici la cui cura troppo spesso è colpevolmente trascurata da quelle stesse Amministrazioni cui l’ordinamento affida il potere-dovere di farsene gelose custodi a beneficio della generalità dei consociati.
Tuttavia, l’innegabile rilevanza di questo ruolo di supplenza che è stato assunto dal Giudice – e che è tutt’ora vivo nell’ordinamento– non può consentire di avallare indirizzi interpretativi che, come accade in ambito edilizio, finiscono per derogare alle scelte legislative in nome di un interesse pubblico rielaborato e reinterpretato in via pretoria[46].
In particolare, in materia edilizia, il tentativo di ricondurre a sistema una disciplina resa particolarmente complessa (e confusa) dal susseguirsi delle modifiche normative – e dalle aporie generate talvolta da uno scarso coordinamento con la normativa vigente[47] – risulta ancor più arduo per effetto di orientamenti giurisprudenziali che muovono da una non condivisione della ratio e degli obiettivi delle riforme introdotte e finiscono per sterilizzarne gli effetti.
Inoltre, la confusione tra categorie giuridiche e una certa tendenza a richiamare orientamenti ermeneutici maturati in un quadro normativo a volte profondamente differente sembrano emergere in talune pronunzie del giudice amministrativo. È il caso, ad esempio, delle decisioni sulla operatività ratione temporis della “nuova” autotutela all’indomani dell’entrata in vigore della legge Madia, o di quelle che tendono ad equiparare l’errore di diritto alla falsa dichiarazione di un fatto oggettivamente verificabile[48] e, dunque, indirettamente a scaricare sul cittadino le conseguenze pregiudizievoli derivanti da un ordinamento nel quale la certezza giuridica, da sempre vagheggiata, risulta in realtà smarrita.
In un contesto ordinamentale in cui il diritto, sempre più frammentato in una pluralità di fonti normative, appare mutevole ed in continua evoluzione è auspicabile che la giurisprudenza non abdichi alla propria funzione di tutela del cittadino e, al contempo, dell’interesse generale e contribuisca a fornire certezza giuridica attraverso le proprie decisioni.
A tal fine, tuttavia, è indispensabile un richiamo ad un uso più meditato della tecnica del rinvio al precedente che non può risolversi nel riferimento tralatizio a massime e sentenze risalenti e relative a fattispecie a volte del tutto inconferenti. Occorre, piuttosto, muovere dalla ricostruzione dei fatti di causa e del diritto applicabile ratione temporis e, solo a quel punto, individuare precedenti realmente pertinenti senza trascurare che lo ius superveniens reca sovente una diversa valutazione degli interessi pubblici operata dal legislatore, dalla quale né l’Amministrazione, né il giudice possono legittimamente discostarsi se non entro gli stringenti limiti ammessi dall’ordinamento.
[1] Art. 4 della legge della Regione Puglia 30 luglio 2009, n. 14, “Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale”.
[2] In proposito, nella sentenza di primo grado (T.a.r. Puglia – Bari, sez. III, 28 dicembre 2017, n. 1372), si legge: “nel caso di specie, l’annullamento travolge una d.i.a risalente al febbraio 2010, successivamente integrata (con eliminazione del sottotetto adibito a volume tecnico) nel luglio 2013. Rispetto alla presentazione della prima d.i.a. (ai cui grafici e relazione si fa riferimento per sostenere la falsa rappresentazione della volumetria pre-esistente), il potere di “autotutela” è intervenuto ad oltre 5 anni di distanza, in epoca in cui l’immobile risultava praticamente già ultimato a rustico (circostanza non contestata da parte del Comune e risultante dalle fotografie all. 14 al ricorso per motivi aggiunti) ed all’esito di un confronto partecipativo con la ricorrente instaurato dal Comune (attivatosi su sollecitazione di terzi) ben due anni prima (cfr. prima comunicazione di avvio del procedimento del 10/9/13 prontamente riscontrata dalla ricorrente)”.
[3] Nella sentenza di primo grado si legge: “Parte ricorrente contesta la tempestività dell’auto-annullamento emesso il 3/11/15 alla luce del dettato di cui all’art. 21 nonies cit. Sul punto va precisato che un problema di tempestività rispetto al termine di diciotto mesi non si pone - in radice - ove si aderisca alla tesi secondo cui l’art. 21 nonies come modificato dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1, l. n. 124/2015 (da qualificare come norma in esame di sicuro carattere innovativo e non meramente interpretativo) si applica solo ai provvedimenti di autotutela di provvedimenti di primo grado emanati dopo l’entrata in vigore di tale norma, cioè emanati dopo il 28.8.2015 (T.a.r. Basilicata, sez. I, sent. 16/3/17 n. 199). L’atto impugnato è, altresì, tempestivo (rispetto al predetto termine legale) ove si segua l’impostazione secondo cui - rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 - il termine di diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione (Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 13/7/17 n. 3462). Tanto premesso, si osserva che tutte le opzioni ermeneutiche fanno salva l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21 nonies. Anche ove trovi applicazione la novella legislativa, il termine di diciotto mesi non è “necessariamente un termine legittimante l’inibitoria sempre e comunque, perché è comunque un termine massimo” (T.a.r. Campania, Napoli, sez. IV, sent. 5/4/16 n. 1658). Rispetto alla previgente formulazione dell’art. 21 nonies, infatti, non mutano gli altri presupposti per l’annullamento del provvedimento da parte dell’Amministrazione emanante o all’uopo legalmente autorizzata e quindi: (i) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, (ii) l’esistenza di un termine comunque “ragionevole”, (iii) la necessaria considerazione degli interessi dei destinatari e dei contro interessati, (iv) le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
[4] Una difesa motivata del ruolo del giudice amministrativo nella costruzione delle regole dell’ordinamento amministrativo e quale baluardo della garanzia di diritti ed interessi del cittadino e dell’interesse generale, si ritrova nelle considerazioni svolte da V. Caputi Jambrenghi durante la relazione al Convegno su “L’attuazione dei principi del risultato e della fiducia nel nuovo codice dei contratti pubblici. Il modello del collegio consultivo tecnico”, indetto a Roma il 3 ottobre 2023 nella biblioteca della Camera dei deputati a Palazzo San Macuto.
[5] Si tratta degli interessi relativi alla tutela del patrimonio artistico e culturale, dell’ambiente, della salute, alla sicurezza pubblica o alla difesa nazionale.
[6] Tra i primi commenti, cfr. M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalsimi.it, n. 17/2015, 1 ss. Della stessa A., cfr., inoltre, S.c.i.a., in Libro dell’anno del diritto 2017, Roma, 2017; Id., La segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.) (artt. 19 e 21 l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2023, 363 ss. Cfr. inoltre, senza pretesa di esaustività, W. Giulietti – N. Paolantonio, La segnalazione certificata di inizio attività, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 902 ss.; F. Liguori, I modelli settoriali: s.c.i.a. delizia e procedure semplificate in tema di rifiuti, ivi, 937 ss.; G. Strazza, La s.c.i.a. nei decreti attuativi della “riforma Madia”, in M.A. Sandulli (a cura di), Le nuove regole della semplificazione amministrativa. La legge n. 241/1990 nei decreti attuativi della “riforma Madia”, Milano, 2016, 74 ss.; Id., La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione, Napoli, 2020.
[7] L’art. 19, comma 4, come introdotto dall’ art. 6, comma 1, lett. a), l. n. 124/2015 dispone: “decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6 bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21 nonies”.
[8] Cons. Stato, commissione speciale, parere 30 marzo 2016, n. 839, reso sullo schema di decreto s.c.i.a., § 8.2: “Considerata la natura dichiaratamente non provvedimentale della SCIA, occorre comprendere come possa innestarsi ad essa un meccanismo (quello dell’autotutela) originariamente sorto per disciplinare l’annullamento d’ufficio di un precedente provvedimento. Ad avviso della Commissione Speciale, il nuovo sistema introdotto dalla legge n. 124 prevede un «ruolo espansivo» dei princìpi contenuti nel riformato art. 21 nonies della legge n. 241. Tale norma viene infatti richiamata nel meccanismo della SCIA di cui all’art. 19 con una funzione innovativa, che non può più definirsi di ‘autotutela’ in senso tecnico, poiché l’autotutela costituisce un provvedimento di secondo grado ed esso appare impossibile nel caso di specie, dove il provvedimento iniziale manca del tutto. L’art. 21 nonies detta piuttosto, per la SCIA, la «disciplina di riferimento» per l’esercizio del potere ex post dell’amministrazione: un potere inibitorio, repressivo o conformativo da esercitarsi solo «in presenza delle condizioni previste dall’art. 21 nonies» (…). Ciò sembra trovare riscontro anche nella lettera del comma 4 dell’art. 19, che nella nuova versione non fa più riferimento a «provvedimenti di autotutela», bensì ai «provvedimenti previsti dal comma 3» (ovvero agli interventi inibitori, repressivi o confermativi): il richiamo al 21 nonies è operato per rimandare a «le condizioni previste» in quella sede, a conferma che si tratta di una disciplina generale di riferimento, non della combinazione di due modelli tra loro incompatibili”.
[9] Cons. St., sez. III, 6 dicembre 2019, n. 8348 che richiama Cons. St., sez. IV, 21 agosto 2012 n. 4583. Cfr. anche Cons. St., sez. III, 17 febbraio 2020, n. 1199.
[10] Sez. IV, 24 ottobre 2022, n. 9045, con espresso richiamo a id., sez. IV, 16 novembre 2020, n. 7052; id., sez. III, 29 aprile 2019, n. 2768; id., sez. V, 18 marzo 2019, n. 1733; id., sez. V, 10 aprile 2018, n. 2171; id., sez. IV, 21 agosto 2012, n. 4583. Cfr., inoltre, Cons. St., sez. III, 29 aprile 2019, n. 2768; sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1450; 22 settembre 2014, n. 4727.
[11] F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, n. 8/2017, 15-16. Sul punto, cfr. inoltre, Id., Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, n. 20/2015.
[12] Cfr. F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, cit., 30 per il quale le diverse norme in materia di autotutela decisoria, oggi contenute nella legge n. 241/1990, non sono “meramente dichiarative di un principio generale immanente nell’ordinamento, ma costitutive di un potere eccezionalmente attribuito alla pubblica Amministrazione e che dipende, pertanto, nella sua concreta configurazione, dai modi e termini in cui è plasmato dalla legge”.
[13] Cons. Stato, parere 30 marzo 2016, n. 839 cit. Per la tesi secondo la quale l’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, nella parte in cui prevede il termine di dodici mesi dall’emanazione del provvedimento come limite massimo per l’esercizio dell’autotutela (in riferimento ai soli provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici), avrebbe introdotto non già una norma d’azione con la quale disciplina l’esercizio del potere, ma una norma di relazione, idonea a tracciare quella linea di demarcazione che il potere pubblico non può oltrepassare senza ledere la sfera dei diritti del cittadino, sia consentito il rinvio a P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, n. 14/2020, 235 ss.
[14] M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. giur. ed., 2022, 206.
[15] Sul problema del diritto applicabile a seguito della riforma e sui primi orientamenti giurisprudenziali, cfr. G. Strazza, La s.c.i.a. nei decreti attuativi della “riforma Madia”, 82.
[16] Cfr., ad esempio, T.a.r. Puglia, Bari, sez. III, 17 marzo 2016, n. 351.
[17] T.a.r. Campania, Napoli, sez. II, 8 settembre 2016, n. 4193; id., 30 gennaio 2017, n. 614; T.a.r. Basilicata, sez. I, 16 marzo 2017, n. 199.
[18] Ex multis, Cons. St., sez. V, 19 gennaio 2017, n. 250; sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462; sez. VI, 14 ottobre 2019, n. 6975; id. 20 marzo 2020, n. 1987; sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3787.
[19] “Se per un verso il termine dei diciotto mesi previsto dal nuovo art. 21 nonies non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 124 del 2015 – atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa – per un altro verso, rispetto a un titolo anteriore all’attuale versione dell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione”. In tal senso, tra le tante, Cons. St., sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3787.
[20] Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n.1987.
[21] Ex multis, Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1987, con ulteriori riferimenti giurisprudenziali. Sulla ragionevolezza del termine, da valutare anche alla luce della norma che individua in talune ipotesi il temine fisso di diciotto mesi, cfr. Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625 ove si osserva che “pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti”. Secondo Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2022, n. 10186, “anche in relazione alla ragionevolezza del termine trascorso dal rilascio del titolo, se il termine di diciotto mesi è applicabile solo per i provvedimenti adottati successivamente alla entrata in vigore della l. 124/2015 (avutasi in data 28 agosto 2015) in considerazione della natura innovativa (e non interpretativa) della disposizione, con conseguente inapplicabilità ratione temporis nel caso di specie, resta salva l’operatività del «termine ragionevole», secondo la formulazione del testo previsto dall’originaria versione del citato art. 21-nonies, con la conseguenza che la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI , 08/09/2020, n. 5410); ragionevolezza assente nel caso di specie, laddove l’atto di ritiro risulta adottato dieci anni dopo il titolo annullato”.
[22] Ad esempio, in Cons. St., sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462, il giudice era chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento di annullamento d’ufficio adottato dopo l’entrata in vigore della l. n. 124/2014 ma comunque prima del 28 febbraio 2017 (diciotto mesi dall’entrata in vigore della riforma). Il provvedimento impugnato disponeva l’annullamento di atti di primo grado adottati alcuni anni prima ed il collegio ne ha dichiarato l’illegittimità non già per violazione del termine decadenziale di diciotto mesi (che non risultava ancora decorso), ma perché era stato emanato dopo oltre tre anni, termine ritenuto non ragionevole.
[23] Cons. Stato, parere 30 marzo 2016, n. 839, cit., § 8.2.
[24] La sentenza è stata criticamente commentata, tra gli altri, da N. Posteraro, Annullamento d’ufficio e motivazione in re ipsa: osservazioni a primissima lettura dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017, in Riv. giur. ed., 2017, 1103 ss.; L. Bertonazzi, Annullamento d’ufficio di titoli edilizi: note a margine della sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017, in Dir. proc. amm., 2018, 730 ss.; G. Manfredi, La Plenaria sull’annullamento d’ufficio del permesso di costruire: fine dell’interesse pubblico in re ipsa?, in Urb. e app., 2018, 52 ss.; C. Pagliaroli, La “storia infinita” dell’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi: nessun revirement da parte dell’Adunanza plenaria, Riv. giur. ed., 2018, 92 ss.; E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, in Riv. giur. ed., 2018, 404 ss.; M.A. Sandulli – G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21 -nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019.
[25] Sul punto, cfr. Cons. St., Ad. plen., n. 8/2017 ove si precisa: “Va in primo luogo osservato che la vicenda per cui è causa resta pacificamente governata dalle disposizioni in tema di annullamento d’ufficio di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 nell’originario testo introdotto dall’articolo 14 della l. 15 del 2005. Non rilevano, quindi, ai fini della presente decisione, le modifiche apportate al medesimo art. 21-nonies dall’articolo 6 della l. n. 124 del 2015. Tale disposizione non provvede che per il futuro, sicché dalla stessa non possono essere tratti elementi o spunti interpretativi ai fini della soluzione di questioni ricadenti sotto la disciplina del previgente quadro normativo”. Cons. St., sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2839, è relativa alla legittimità dell’annullamento d’ufficio intervenuto nel 2009, rispetto ad un titolo edilizio del 2006: “con riferimento alla parametrazione temporale in termini di ragionevolezza in relazione alla disposizione dell’art. 21-nonies, comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, è evidente che il termine ragionevole può decorrere soltanto dal momento in cui l’amministrazione abbia effettiva contezza del vizio invalidante, come puntualizzato dalla nota sentenza dell’Adunanza plenaria n. 8 del 17 ottobre 2017”.
[26] V. supra, nota 17.
[27] Cons. St., sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4374/2018, ove si legge “nel caso di specie, deve recisamente negarsi l’applicabilità della disposizione come novellata: in tal senso è ormai consolidato l’orientamento secondo cui, in ossequio al principio generale di ordinaria irretroattività di cui all’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, la novellapuò trovare applicazione soltanto in relazione all’esercizio dei poteri di autotutela relativi a provvedimenti emanati dopo la sua entrata in vigore, ossia al 28 agosto 2015: cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 luglio 2017, n. 3462 e Sez. III, 28 luglio 2017 n. 3780, nonché Ad Plen., 17 ottobre 2017, n. 8, specie §§ 4.9.6. e 10.5)”. Si tratta di un’interpretazione seguita da una parte della giurisprudenza subito dopo l’entrata in vigore della novella, ma successivamente superata dal Consiglio di Stato proprio nelle pronunce richiamate dalla sentenza n. 4374/2018. Ed invero, in quelle sentenze il Consiglio di Stato non ha mai messo in discussione l’applicabilità della novella ai provvedimenti di secondo grado adottati dopo il 28 agosto 2015 (anche se relativi a provvedimenti di primo grado adottati ante riforma) ed ha affermato soltanto che “rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione”(cfr. n. 3462/2017 e n. 3780/2017).
[28] Cfr. il § 7.5 della sentenza in commento.
[29] Sulla ragionevolezza del termine, da valutare anche alla luce della norma che individua in talune ipotesi il temine fisso di diciotto mesi, cfr. Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625 ove si osserva che “pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti”.
[30] Cfr. l’art. 2, comma 4, d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, che, nel chiarire una questione interpretativa affrontata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ha precisato che “nei casi del regime amministrativo della Scia, il termine di diciotto mesi di cui all’articolo 21 nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, decorre dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente”.
[31] Cfr. supra nota 18.
[32] Si veda il §7.3 della sentenza di primo grado.
[33] Secondo il provvedimento impugnato, infatti, “la precedente struttura del locale deposito risultava in pietra a secco e il successivo ampliamento (di cui non consta un titolo edilizio, neppure richiamati dalla parte) risulta eseguito con parametri murari recenti” sicché costituiva “legittimo motivo di annullamento della d.i.a. di che trattasi la non veritiera rappresentazione delle consistenze plano-volumetriche del locale deposito”.
[34] Cfr., in particolare, l’art. 19, comma 3, l. n. 241/1990 nel testo introdotto dall’art. 49, comma 4 bis, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 s.m.i.
[35] Sulle difficoltà di coordinamento della disciplina del 21 nonies comma 2 bis con la disciplina dell’art. 21, comma 1, per non impegnare vanamente il lettore si rinvia a M.A. Sandulli, Edilizia, cit., 2022, 212-213.
[36] Secondo un orientamento consolidato a partire da Cons. St., sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940 il superamento del termine decadenziale è consentito “a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerente ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive), nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale; b) sia nel caso in cui l’acclarata erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente alla mala fede oggettiva) della parte, nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione dell’iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco”. Sulla sentenza si vedano le considerazioni di M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. giur. ed., 2018, 687 ss.
[37] Di recente Cons. St., sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, riferendosi alla nozione di “autotutela doverosa parziale”, ha affermato che l’accertamento irrevocabile operato in sede penale in ordine al falso fa sorgere in capo all’Amministrazione l’obbligo di avviare il procedimento di annullamento d’ufficio, ma non anche l’obbligo di provvedere sempre e comunque all’annullamento.
[38] M.A. Sandulli, Edilizia, cit., 211, osserva: “appare dunque evidentemente più coerente e corretto, in via principale, leggere la falsa rappresentazione della realtà come un’endiadi della dichiarazione falsa o mendace, richiedendo quindi per entrambe la copertura del giudicato penale e, in via subordinata, delimitarne la portata alle rappresentazioni di dati strettamente fattuali (es. dimensioni del manufatto, distanze, ecc.) non legati ad alcun elemento valutativo e comunque diversi da quelli attestati nella dichiarazione, che, per il tipo di responsabilità che implica, deve essere sempre presunta come veritiera fino ad accertamento definitivo del giudice penale”. L’A. ricorda, peraltro, che il Consiglio di Stato, nei propri pareri sui decreti s.c.i.a. 1 (Cons. St., Comm. spec., parere 30 marzo 2016, n. 839, § 8.3) e s.c.i.a. 2 (Cons. St., Comm. spec., parere 4 agosto 2016, n. 1784, § 1.3.1) aveva suggerito una riscrittura della norma che prevedesse “la possibilità di superare i 18 mesi, al di là delle condanne penali passate in giudicato, in tutti i casi in cui il falso è immediatamente evincibile dal contrasto con pubblici registri, come nel caso di percezione di pensione a nome di persona defunta”.
[39] Secondo Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, la lettura costituzionalmente orientata (artt. 3 e 97 Cost.) dell’art. 21 nonies, comma 1, l. 241/1990, conduce a ritenere “il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell'atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell'atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario”. Su questa pronunzia si vedano le annotazioni di V. Sordi, La concessione della Certosa di Trisulti al Dignitatis Humanae Institute. Autotutela e “anestetizzazione” del termine per provvedere, in Giustiziainsieme.it, 21 maggio 2021.
[40] Sul tema si rinvia, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, allo studio di M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. n. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit., 253 ss. In senso critico, cfr. anche E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, cit., 411-412, il quale osserva: “se infatti ci sono casi in cui l’erronea rappresentazione è certamente imputabile a negligenza e malafede del privato, ve ne sono altri in cui essa può dipendere da un’incertezza interpretativa della normativa o da fattori che rendono oggettivamente difficile rappresentare la situazione di fatto. Si pensi all’ipotesi in cui la vetustà dell’immobile e l’assenza di precedenti misurazioni renda oggettivamente incerta l’esatta quotazione delle altezze (…). In questi casi un’ipotetica erronea rappresentazione non può essere ascritta a malafede o negligenza, proprio in quanto strettamente connessa alla situazione d’incertezza che caratterizza il contenuto della dichiarazione. Sul piano generale se ne deduce che una situazione di affidamento può ritenersi sussistente anche in presenza di rappresentazioni non veritiere, poiché ciò che in ipotesi esclude l’affidamento non è la falsa dichiarazione in sé ma il dolo o la colpa che eventualmente l’assista”.
[41] Cfr. M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, cit., secondo la quale spetta al g.a. “l’arduo e delicato compito di accertare la ricorrenza dell’elemento soggettivo, per il quale dovrà però fare corretta applicazione dei principi penalistici in tema di onere della prova, chiarezza e univocità della situazione rappresentata, favor rei, ecc.”.
[42] Cons. St., Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16: “è risalente l’insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest’ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”. Da questa premessa l’Adunanza plenaria fa discendere la non rilevanza ai fini espulsivi (almeno in relazione all’ipotesi delineata ex art. 80, comma 5, lett. f bis) di una dichiarazione in relazione alla quale la presunta non veridicità sarebbe derivata non già da un contrasto dei fatti ivi esposti rispetto alla realtà materiale, ma dall’interpretazione di una norma giuridica. Si trattava, in particolare, di una dichiarazione concernente il possesso (effettivamente sussistente) di un certo volume d’affari da parte di un soggetto che era stato tuttavia estromesso dal Consorzio stabile indicato quale proprio ausiliario dall’operatore economico escluso dalla gara. La sentenza è stata annotata, tra gli altri, da C. Napolitano, La dichiarazione falsa, omessa o reticente secondo l’Adunanza plenaria (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16), in Giustiziainsieme.it, 8 ottobre 2020, nonché da G.A. Giuffrè – G. Strazza, L’Adunanza plenaria e il tentativo di distinguo (oltre che di specificazione dei rapporti) tra falsità, omissioni, reticenze e “mezze verità” nelle dichiarazioni di gara, in Riv. giur. ed., 2020, 1343 ss.
[43] Cons. St., sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976.
[44] In Cons. St., sez. IV, 10 gennaio 2022, n. 148 il ricorrente, nel contestare la quantificazione degli oneri di urbanizzazione relativi ad un permesso di costruire in un intervento di demolizione e ricostruzione, pretendeva che una parte del manufatto preesistente non fosse qualificato alla stregua di un rudere, come era avvenuto, invece, nel provvedimento impugnato. In quel caso il collegio rilevava che “al momento dell’intervento tale parte dell’edificio risultava fatiscente e i muri perimetrali diroccati coperti posticciamente, con la conseguenza che tale manufatto era sostanzialmente qualificabile come un rudere”, ma soprattutto che la parte privata non aveva “fornito alcun contrario elemento concreto che possa smentire l’effettiva consistenza, sotto il profilo quantitativo-dimensionale, delle caratteristiche del preesistente manufatto collocato al piano terreno e delle attività ivi svolte”. In Cons. St., sez. IV, 3 febbraio 2017, n. 463, il giudice aveva rilevato che ai fini del rilascio del provvedimento di condono edilizio ricade sul privato l’onere della prova rigorosa in ordine alla ultimazione delle opere entro il termine previsto dalla legge, sicché in assenza della prescritta prova, l’istanza di condono era stata legittimamente rigettata dall’Amministrazione. Infine, Cons. St., sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106, non affronta specificamente il problema dell’onere della prova, limitandosi ad affermare che “la ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire [sicché] non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione”.
[45] In tal senso cfr., ad esempio, Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2022, n. 10186. In quel caso l’annullamento d’ufficio era stato pronunciato dopo dieci anni dal rilascio di un permesso di costruire in sanatoria. Nonostante il lungo lasso di tempo intercorso, il provvedimento di secondo grado era stato ritenuto legittimo dal T.a.r. in quanto, anche a seguito di accertamenti della Guardia di Finanza, emergeva “un quadro indiziario comunque grave, preciso e concordante” in ordine alla non veridicità delle dichiarazioni rese dal privato. Il Consiglio di Stato ha annullato tale pronunzia osservando che nel caso di specie non potesse ritenersi “applicabile l’eccezione – presente in giurisprudenza - derivante dalla falsa rappresentazione dello stato dei luoghi intesa come base sufficiente dell’interesse pubblico alla rimozione, in quanto la prospettazione in proposito formulata nell’informativa della Guardia di Finanza, non ha trovato corso in alcuno specifico procedimento penale (avviato per ipotesi diverse dalla dichiarazione mendace). Premesso che di per sé un tale elemento formale è insufficiente a sostenere la motivazione di un atto di tale rilevanza quale il ritiro di un titolo già rilasciato dieci anni prima, le stesse prospettazioni ivi contenute non risultano esser state considerate di alcun rilievo per avviare un processo penale, né risultano adeguatamente sviluppate dal Comune al fine di sostenere l’atto adottato. Peraltro, i meri indizi ivi tratti dal Comune, non sono all’evidenza sufficienti al fine di sostenere l’onere della prova che, a differenza del procedimento ordinario di rilascio della sanatoria (dove l’onere probatorio incombe sul privato), fa capo unicamente all’amministrazione procedente in autotutela. Ed a quest’ultimo riguardo l’amministrazione non ha svolto alcun approfondimento istruttorio autonomo né alcuna valutazione delle risultanze, con ciò rendendo evidente la fondatezza delle censure dedotte in termini di difetto di istruttoria e di motivazione” (corsivo aggiunto).
[46] M.A. Sandulli, Edilizia, cit. 2022, 209.
[47] Si pensi, in via esemplificativa, al difficile coordinamento tra la norma di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241/1990 e quella di cui all’art. 75, d.P.R. n. 445/2000, secondo cui “fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. Sul punto, il Consiglio di Stato ha di recente osservato “come l’art. 21-novies e l’art. 75 si sovrappongono solo in parte con riferimento all’oggetto della dichiarazione. Il primo, infatti, distingue chiaramente le «false rappresentazioni», dizione ad ampia valenza contenutistica nella quale sicuramente rientra la descrizione dello stato dei luoghi ove si va ad inserire un intervento edilizio, dalle «dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci», ovvero quella specifica e tipica tipologia di dichiarazioni disciplinate dagli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, in relazione alle quali l’art. 75 irroga la decadenza quale conseguenza del mendacio. A tutto concedere, quindi, alla lettura rigorista che vuole far prevalere sempre e comunque la decadenza sull’annullamento d’ufficio, ciò deve essere limitato ai casi in cui il mendacio sia contenuto in una dichiarazione sostitutiva di certificazione (i cui oggetti sono analiticamente elencati all’art. 46 del d.P.R. n. 445/2000) ovvero di «atto notorio», vale a dire quello stato di fatto la cui conoscenza è di comune dominio («notoria», appunto) che il privato è autorizzato a formalizzare in un documento a sua firma. Nei casi, invece, di «rappresentazioni di fatto» non veritiere non rientranti in tali tipologie, ovvero rese da soggetti cui l’ordinamento attribuisce una specifica qualifica soggettiva, l’art. 75 non rileva, vuoi che lo si ritenga un rimedio (sanzionatorio o meno) aggiuntivo all’autotutela, vuoi che, per quanto sopra detto, lo si assorba nella stessa, piuttosto che identificarla con essa. Anche per tale strada, tuttavia, la sostanziale ritenuta operatività, ancorché limitata a specifici casi, del solo art. 75 finisce per vanificare la decantata svolta garantista che il legislatore ha inteso imprimere con la novella del 2015, sottraendo alla valutazione della singola amministrazione la valenza inficiante della declaratoria falsa e pretendendone l’accertamento definitivo da parte di un giudice penale” (sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415).
[48] Secondo Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, ad esempio, “la Sezione ha già chiarito che (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 31 dicembre 2019 n. 8920) è ferma in giurisprudenza, per i più vari casi d’esercizio di una funzione amministrativa ampliativa delle facoltà giuridiche del privato e connessa ad autodichiarazioni rese da quest’ultimo (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019 n. 3940, 3 febbraio 2016 n. 404 e 24 luglio 2014 n. 3934), la regola secondo cui, in base a detto art. 75, la non veridicità di quanto descritto nella dichiarazione sostitutiva presentata implica la decadenza dai benefici ottenuti con il provvedimento conseguente a tale dichiarazione, senza che, per l’applicazione di detta norma, abbia rilievo la condizione soggettiva del dichiarante (rispetto alla quale è irrilevante l’accertamento della falsità degli atti in forza di una sentenza penale definitiva di condanna), facendo invece leva sul principio di autoresponsabilità”. Nella medesima occasione il Consiglio di Stato ha affermato che, in caso di dichiarazioni non veritiere, il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio decorre dalla scoperta dei fatti da parte della p.A. e non dall’adozione del provvedimento: “laddove la fallace dichiarazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del provvedimento amministrativo, è del pari congruo che il termine ragionevole (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità (cfr., ancora per tutte, seppure in materia edilizia ma con principi sovrapponibili pienamente al caso in esame, Cons. Stato, Ad. pl., 17 ottobre 2017 n. 8)”.
di Maria Sabina Calabretta
Sommario: 1. Introduzione: le agevolazioni fiscali nella normativa vigente - 2. La piattaforma cessione crediti - 3. Il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del D.lgs. 74 del 2000) - 4. La fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p. - 5. La riconducibilità dei fatti all’ipotesi di truffa, anche ai sensi degli artt. 640 comma primo e cpv e 640 bis c.p. - 6. Il sequestro dei crediti e l’opponibilità ai terzi: riflessioni in tema di confisca - 7. Contabilizzazione dei crediti generati da operazioni fraudolente - 8. Conclusioni.
1. Introduzione: le agevolazioni fiscali nella normativa vigente
Il legislatore ha introdotto nell’ordinamento, con numerose disposizioni assolutamente speciali, plurime agevolazioni fiscali finalizzate al rilancio economico, specie post pandemico.
In particolare, con il D.L. 34 del 2020 (meglio noto come “Decreto Rilancio”) e con il D.L. 18 del 2020 sono state introdotte e potenziate talune tipologie di crediti di imposta utilizzabili in compensazione o cedibili a terzi.
Nel complesso sistema normativo vigente si distinguono le seguenti tipologie di credito:
Ulteriori crediti sono poi previsti rispettivamente per l’installazione di impianti fotovoltaici e di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici, ed infine per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche (art. 119 e 119-ter del D.L. 34 del 2020), nonché dall’art. 120 del medesimo Decreto Rilancio per l'adeguamento degli ambienti di lavoro.
Tali crediti si caratterizzano, quindi, per essere tutti previsti in relazione a determinate categorie di spese in astratto gravanti sul contribuente (lavori di efficientamento energetico, recuperi di patrimoni edilizi, antisismica) delle quali lo Stato si fa carico riconoscendo per importi variabili (fino all’importo massimo previsto per il c.d. “super bonus” addirittura superiore al 100 per cento, e pari al 110 per cento) non già una diretta assunzione del relativo costo, piuttosto un credito di imposta.
In sede di primo approccio all’istituto, rileva premettere che il meccanismo “incentivante” adottato dallo Stato non contempla l’erogazione di finanziamenti diretti in favore del contribuente: piuttosto, a fronte di un costo che graverebbe sul soggetto committente, lo Stato spende non già moneta contante, bensì “moneta fiscale” riconoscendo, per l’importo percentuale previsto rispetto alle singole categorie di costi, un corrispondente credito d’ imposta consentendo ai soggetti che ne siano divenuti titolari di scegliere tra: optare per la detrazione del costo dal reddito imponibile, utilizzare il credito in proprio compensando con debiti fiscali, ovvero cedere il credito a terzi disposti a pagarlo cosi convertendo la moneta fiscale in moneta contante. I cessionari saranno disposti ad acquistare i crediti d’imposta intendendo evidentemente lucrare l’importo differenziale tra il relativo valore nominale e il corrispettivo della cessione.
Si parla di “monetizzazione” proprio per indicare l’ipotesi in cui il credito d’imposta venga da questi ceduto a fronte del versamento di una somma di denaro da parte dei cessionari: l’intervento di questi soggetti, terzi rispetto al rapporto strettamente tributario che lega contribuente e erario, trasforma il valore del credito in moneta.
Risulta di agevole comprensione la finalità dell’istituto, volto a rilanciare settori dell’economia (edilizia, commercio, servizi accessori a tali ambiti) senza però tradursi in una mera concessione di provvidenze economiche bensì stimolando e sollecitando la reattività dei vari settori produttivi del paese, rendendo così possibile al contempo la circolazione di ricchezza (a favore delle maestranze, dei progettisti, delle imprese fornitrici delle materie prime, dei commercianti, del settore dei trasporti e di tutti i servizi accessori).
Tale finalità prevalente aveva indotto il legislatore, nella prima fase di applicazione dei bonus a consentire, in alternativa alla detrazione, plurime cessioni consecutive sostanzialmente senza limiti posto che l’originario testo dell’art. 121 comma 1 lett. b) del Decreto Rilancio prevedeva la “trasformazione del corrispondente importo in credito di imposta, con facoltà di successiva cessione ad altri soggetti, ivi inclusi istituti di credito e altri intermediari finanziari” senza limitarne il numero e senza prevedere particolari qualità soggettive dei cessionari.
A fronte delle condotte fraudolente riscontrate e note alle cronache, il legislatore ha poi modificato le disposizioni, introducendo stringenti limitazioni con specifico riferimento alle cessioni successive alla prima, che sono oggi consentite solo in favore di soggetti “qualificati” ex art. 121 comma 1 lett. b) del Decreto Rilancio che, nel testo vigente, prevede, appunto, l’opzione “per la cessione di un credito d'imposta di pari ammontare ad altri soggetti, compresi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari, senza facoltà di successiva cessione, fatta salva la possibilità di tre ulteriori cessioni solo se effettuate a favore di banche e intermediari finanziari iscritti all'albo previsto dall'articolo 106 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, di società appartenenti a un gruppo bancario iscritto all'albo di cui all'articolo 64 del predetto testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia ovvero di imprese di assicurazione autorizzate ad operare in Italia ai sensi del codice di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, ferma restando l'applicazione dell'articolo 122-bis, comma 4, del presente decreto, per ogni cessione intercorrente tra i predetti soggetti, anche successiva alla prima; alle banche, ovvero alle società appartenenti ad un gruppo bancario iscritto all'albo di cui all'articolo 64 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, è sempre consentita la cessione a favore di soggetti diversi dai consumatori o utenti, come definiti dall'articolo 3, comma 1, lettera a), del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, che abbiano stipulato un contratto di conto corrente con la banca stessa, ovvero con la banca capogruppo, senza facoltà di ulteriore cessione.”
Disciplina diversa, quanto all’opzione relativa alla cessione, è dettata dall’art. 122 a far data dall’entrata in vigore del decreto e fino al 31 dicembre 2021con riferimento ai crediti di imposta per botteghe e negozi, per i canoni di locazioni di immobili ad uso non abitativo, per l’adeguamento degli ambienti di lavoro nonché per la sanificazione e per l’acquisto di dispositivi di protezione, crediti riconosciuti da provvedimenti emanati per fronteggiare l’emergenza COVID-19. Per tali crediti il legislatore ha fortemente limitato la facoltà di cessioni successive alla prima consentendone oggi fino al massimo di due solo se in favore di soggetti “qualificati”. Anche per questi crediti l’esercizio dell’opzione “cessione” deve essere svolto per via telematica.
2. La piattaforma cessione crediti
Le concrete modalità di fruizione del credito di imposta sono stabilite dalla legge, come detto: utilizzo diretto della detrazione spettante all’avente diritto, sconto in fattura, cessione a terzi (art. 121 del Decreto Rilancio, “Opzione per la cessione o per lo sconto in luogo delle detrazioni fiscali”).
La legge prevede che tale operatività sia condizionata alla avvenuta comunicazione all’Agenzia delle Entrate sia dell’esistenza del credito che della eventuale cessione: la diposizione si rinviene nell’art. 121 comma 7 del decreto rilancio per il quale “ Con provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono definite le modalità attuative delle disposizioni di cui al presente articolo, comprese quelle relative all'esercizio delle opzioni, da effettuarsi in via telematica, anche avvalendosi dei soggetti previsti dal comma 3 dell'articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322”.
Per agevolare tali comunicazioni, l’Agenzia delle Entrate ha individuato una specifica procedura “web”, denominata “Piattaforma cessione crediti” (dal sito dell’Agenzia delle entrate è facilmente accessibile una guida aggiornata al maggio 2023) che ne illustra le funzionalità e l’obiettivo, ovvero quello di consentire ai titolari di crediti di imposta di comunicare appunto all’Agenzia delle Entrate l’eventuale cessione dei crediti di soggetti terzi ai sensi delle disposizioni pro tempore vigenti.
L’importanza della piattaforma, ed il valore delle comunicazioni in essa inserite, emerge evidente dalla lettura delle disposizioni contenute nell’art. 122-bis del Decreto rilancio, articolo rubricato “Misure di contrasto alle frodi in materia di cessioni dei crediti. Rafforzamento dei controlli preventivi.”, introdotto dal D.L. 157 dell’11 novembre 2021 e modificato dalla legge 234 del 30 dicembre del 2021. Tale norma introduce infatti un rafforzamento dei controlli preventivi nell’ambito delle misure di contrasto alle frodi in materia di cessioni dei crediti che si incentra tutto sul valore delle comunicazioni dell’avvenuta cessione del credito. Si prevede che L’agenzia delle Entrate entro cinque giorni lavorativi dall'invio della comunicazione dell'avvenuta cessione del credito, può sospendere, per un periodo non superiore a trenta giorni, gli effetti delle comunicazioni delle cessioni, anche successive alla prima, e delle opzioni inviate alla stessa Agenzia ai sensi degli articoli 121 e 122 che presentano profili di rischio, ai fini del relativo controllo preventivo. I profili di rischio, dice la legge, sono individuati utilizzando criteri relativi alle diverse tipologie dei crediti ceduti e riferiti:
“a) alla coerenza e alla regolarità dei dati indicati nelle comunicazioni e nelle opzioni di cui al presente comma con i dati presenti nell'Anagrafe tributaria o comunque in possesso dell'Amministrazione finanziaria;
b) ai dati afferenti ai crediti oggetto di cessione e ai soggetti che intervengono nelle operazioni a cui detti crediti sono correlati, sulla base delle informazioni presenti nell'Anagrafe tributaria o comunque in possesso dell'Amministrazione finanziaria;
c) ad analoghe cessioni effettuate in precedenza dai soggetti indicati nelle comunicazioni e nelle opzioni di cui al presente comma.”
Sembra utile richiamare la disposizione di cui al comma 2 del citato art. 122 bis del Decreto Rilancio per il quale: “Se all'esito del controllo risultano confermati i rischi di cui al comma 1, la comunicazione si considera non effettuata e l'esito del controllo è comunicato al soggetto che ha trasmesso la comunicazione. Se, invece, i rischi non risultano confermati, ovvero decorso il periodo di sospensione degli effetti della comunicazione di cui al comma 1, la comunicazione produce gli effetti previsti dalle disposizioni di riferimento.” Per consentire un più agevole utilizzo del predetto credito di imposta in compensazione, l’Agenzia delle Entrate con apposito decreto (Decreto 83/E del 28 dicembre 2020) ha istituito appositi codici tributo da utilizzare nel prescritto modello F24 a decorrere dalla data dell’1 gennaio 2021.
3. Il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del D.lgs. 74 del 2000)
A fronte di questa ragionata dimensione economica del meccanismo dei c.d. “bonus”, occorre interrogarsi sull’eventuale rilievo penale di taluni comportamenti umani che, anche profittando della disciplina eventualmente semplificata introdotta dal legislatore ovvero mediante meccanismi di aggiramento delle norme, siano tesi a procurare profitti indebiti e, ancor peggio, illeciti profitti e producano quale deprecabile risultato finale un danno sia per eventuali soggetti privati direttamente coinvolti nella fase della monetizzazione sia per lo stesso Erario, su cui graverebbe in ultima istanza il costo del riconoscimento di crediti non spettanti ovvero non esistenti.
La premessa generale rende evidente la necessità di individuare gli strumenti a disposizione della Polizia Giudiziaria, degli organi di accertamento tributario, del Pubblico Ministero e del Giudice penale (per quanto qui interessa) per fornire adeguati strumenti di tutela anche preventiva verso condotte di abuso penalmente rilevanti.
Si anticipa la conclusione: la fattispecie di cui all’art. 8 del D.lgs. n. 74 del 2000 risulta quella più calzante ed efficace rispetto allo scopo di fornire tutela penale in ipotesi di comportamenti abusivi e di frode finalizzati ad ottenere il riconoscimento di crediti non corrispondenti ad operazioni commerciali realmente realizzate.
Certamente false sono le fatture che, alla base, vengono emesse per giustificare la creazione del credito di imposta ove i lavori non sia stati eseguiti, in tutto o in parte, ovvero siano riferibili a soggetti diversi, secondo lo schema noto delle fatture oggettivamente o soggettivamente inesistenti in via totale o parziale.
La prova della falsità delle suddette fatture viene per lo più acquisita sulla base di indizi gravi precisi e concordanti:
- la creazione della società esecutrice dei lavori a breve distanza temporale dalla relativa ultimazione;
- l’emissione, in arco temporale breve, di fatture per lavorazioni ingenti sia negli importi che quanto alla tipologia e quantità di lavori eseguiti;
- la circostanza che i lavori risultino tutti conclusi alla medesima data ovvero asseverati dallo stesso tecnico, con atti recanti la medesima datazione;
- la carenza, in capo alla società asseritamente realizzatrice delle opere, di una effettiva struttura operativa per carenza totale di dipendenti, sede e azienda dimostrata anche attraverso accesso alle banche dati;
- la mancanza di fatturazione valevole a comprovare l’acquisto delle materie prime necessarie all’esecuzione dei lavori;
- l’inesistenza dei soggetti committenti ovvero la carenza di legittimazione in capo ai dichiaranti, per essere gli stessi estranei al novero dei soggetti legittimati ovvero deceduti in epoca non compatibile con le risultanze documentali.
Parimenti, la falsità delle fatture può essere provata attraverso sopralluoghi, acquisizione di rilevazioni fotografiche da fonti aperte che dimostrino, specie per talune lavorazioni che non possano che modificare lo stato esterno dei luoghi, che alcun intervento è stato realizzato.
Ed ancora, la prova può essere tratta da attività tecniche di intercettazione (esperibili in relazione agli elevati limiti edittali oggi previsti dal legislatore in relazione alle condotte di cui all’art. 8 del D.lgs. 74 del 2000).
Non ultime, le indagini sui flussi finanziari che possono fornire prova della falsità delle lavorazioni e della fraudolenza delle successive cessioni dei crediti di imposta: così ad esempio, verificando le movimentazioni delle somme ricavate dalle monetizzazioni, possono essere riscontrati flussi di ritorno di tali provviste che dagli ultimi cessionari rientrano nella disponibilità diretta o indiretta (tramite ad esempio prestanome o società schermo) dei soggetti autori della frode presupposta e da questi vengono eventualmente reimpiegate in attività economiche o produttive.
Certamente, nei casi richiamati sussiste la “finalità” che connota, nella previsione del legislatore, il delitto di emissione di fatture o documenti per operazioni inesistenti, ovvero la finalità di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, atteso che il credito di imposta generato è destinato ad essere detratto dal titolare ovvero ceduto a terzi con un’unica destinazione finale, ovvero quella della compensazione con debiti verso l’erario (sicché, infine, i crediti di imposta generati sono elettivamente destinati ad essere strumento di compensazione e, in ipotesi di superamento delle soglie di punibilità, corpo del reato di cui all’art. 10 quater del D.lgs. 74/00).
L’ipotesi che segue presenta invece ulteriori profili di criticità: si pensi al caso in cui il primo cessionario del credito di imposta relativo a lavori mai eseguiti proceda ad una ulteriore cessione del credito a soggetto compiacente, magari quale legale rappresentante di persona giuridica all’uopo costituita dal medesimo primo cessionario, priva di autonoma struttura operativa ovvero di mezzi e, in definitiva di provvista con cui pagare la cessione (che acquista pertanto “allo scoperto”), che inoltre si assegni il credito a un prezzo di particolare favore procedendo a registrare sul portale la relativa cessione lucrando, in ipotesi sul differenziale.
Occorre in questo caso interrogarsi circa la possibilità di ricondurre anche tale condotta (ovvero l’inserimento della cessione al portale da parte di soggetto, diverso dal cedente, consapevole della falsità del credito) ad un’ulteriore ipotesi di violazione dell’art. 8 D.lgs.. 74/00 (e non di mero post factum non punibile) in tutti i casi in cui, ad esempio, non sia possibile provare che lo stesso fosse ab initio concorrente negli illeciti presupposti (sicché non possa contestarsi un’ipotesi di concorso nel delitto di emissione di false fatturazioni). Incidentalmente, risulta opportuno considerare che l’ipotesi descritta risulta tanto più verificabile quante più siano le cessioni consentite del credito.
In ipotesi, la particolarità è costituita dalla circostanza che la falsità attiene all’oggetto della cessione del credito di imposta successiva alla prima, per essere inesistente il credito ceduto: occorre quindi verificare se sia possibile applicare la norma, dettata dal legislatore con riferimento alle falsità delle fatture (sottostanti), anche alla registrazione sul portale della cessione falsa per essere falso il credito di imposta sottostante.
A ben vedere, sia con l’art. 8 del D.lgs. n. 74 del 2000 che con le norme del medesimo testo normativo che contengono il quadro definitorio, il legislatore fornisce all’interprete strumenti per sanzionare anche tali comportamenti quale ipotesi di ulteriore violazione penal-tributaria, sempre riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 8 del D.lgs. n. 74 del 2000.
L’art. 1 comma 1 lett. a) del decreto legislativo n. 74 citato, recita, infatti: “per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi valore analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
La Corte di Cassazione (Cass. Sez. 3, sent. n. 32088 del 22/03/2023 Ud. Rv. 284900), chiamata a pronunciarsi su specifico motivo di ricorso difensivo, si è recentemente soffermata sulle rispettive nozioni di fattura e di documento avente valore analogo alle fatture. Il caso concreto aveva riguardo a documenti, diversi dalle fatture, valutati come strettamente contrattuali in rigone del titolo e del contenuto (nel caso di specie infatti la Corte ha escluso che l'oggetto materiale del reato potesse essere costituito da una scrittura privata relativa a una "consulenza tecnica senza vincoli di subordinazione per ricerca di mercato, rapporti con i clienti e fornitori") . In tale occasione il giudice di legittimità ha in primo luogo argomentato circa taluni requisiti essenziali della fattura, di poi parimenti affrontando la diversa questione della individuazione del “documento avente valore analogo”. Quanto alla fattura, la motivazione espressamente giunge ad elencarne taluni requisiti irrinunciabili, sulla base dello specifico richiamo alla disposizione tributaria di cui all’art. 21 del DPR 633 del 1972, sicché si considera fattura il documento che contenga le seguenti indicazioni:
a) la data di emissione;
b) il numero progressivo che la identifichi in modo univoco;
c) ditta, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio del soggetto cedente o prestatore, del rappresentante fiscale nonché ubicazione della stabile organizzazione per i soggetti non residenti;
d) il numero di partita IVA del soggetto cedente o prestatore;
e) ditta, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio del soggetto cessionario o committente, del rappresentante fiscale nonché ubicazione della stabile organizzazione per i soggetti non residenti;
f) il numero di partita IVA del soggetto cessionario o committente ovvero, in caso di soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro dell'Unione europea, numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato membro di stabilimento; nel caso in cui il cessionario o committente residente o domiciliato nel territorio dello Stato non agisce nell'esercizio d'impresa, arte o professione, codice fiscale;
g) natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell'operazione;
g-bis) la data in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi ovvero data in cui è corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo, sempreché' tale data sia diversa dalla data di emissione della fattura;
h) i corrispettivi ed altri dati necessari per la determinazione della base imponibile, compresi quelli relativi ai beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono di cui all'articolo 15, primo comma, n. 2; i) i corrispettivi relativi agli altri beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono;
I) aliquota, ammontare dell'imposta e dell'imponibile con arrotondamento al centesimo di euro;
m) la data della prima immatricolazione o iscrizione in pubblici registri e numero dei chilometri percorsi, delle ore navigate o delle ore volate, se trattasi di cessione intracomunitaria di mezzi di trasporto nuovi, di cui all'articolo 38, comma 4, del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427;
n) l'annotazione che la stessa è emessa, per conto del cedente o prestatore, dal cessionario o committente ovvero da un terzo.
Tali requisiti formali, tornando al caso che ci occupa, senz’altro risultano soddisfatti con riferimento alle fatture relative alle lavorazioni falsamente dedotte quale base per la creazione del bonus.
Occorre piuttosto verificare se la contestazione del delitto di cui all’art. 8 più volte citato possa essere invece elevata con riferimento all’inserimento, nel portale delle cessioni, del credito così generato e tale verifica va fatta utilizzando, all’evidenza, la diversa categoria del “documento avente valore analogo” alla fattura, nozione per la quale si impone un’attenta verifica al fine di evitare ogni interpretazione che non sia conforme al principio di tassatività.
Il dato normativo, fornisce comunque all’interprete uno criterio di orientamento nella selezione, tra tutti i documenti possibili, di quelli che possa ritenersi abbiano valore analogo alla fatture: il legislatore, infatti, non ha espressamente riferito il giudizio di equivalenza a criteri formali di redazione del documento(quali l’identità fiscale dell’emittente il numero d’ordine di emissione, l’imponibile e l’IVA) ed ha piuttosto avuto riguardo al “valore analogo in base alle norme tributarie”.
La disposizione legislativa risulta quindi, orientata verso un criterio sostanzialistico: condotta penalmente rilevante è quella di emissione o utilizzo non solo della fattura ma anche di un “documento” di “analogo valore secondo la legge tributaria”.
Procediamo con ordine: dobbiamo verificare in prima istanza la nozione di documento, non esplicitata né dal legislatore nel D. lgs. 74/2000 né altrimenti contenuta nei codici penali e civili e nelle discipline processuali corrispondenti. Pare possa condividersi una nozione di documento, quale “cosa rappresentativa di un fatto giuridicamente rilevante”: nozione senz’altro ampia ed idonea a ricomprendere il documento avente natura informatica.
In sede di successiva approssimazione, si osserva che la dimensione informatica del documento costituito nel caso di specie dall’inserimento della cessione nella apposita piattaforma, non costituisce una variabile che muta la natura giuridica dell’atto e la valenza probatoria dell’inserimento: costituisce, in altri termini, un elemento indifferente.
Occorre poi soffermarsi sull’ulteriore requisito normativo, ovvero che il documento debba avere valore analogo alla fattura secondo le leggi tributarie: ragionando in tema di comunicazione attraverso il portale dei crediti della avvenuta cessione, e tenendo in debito conto la previsione di cui all’art. 122 bis del decreto Rilancio sopra citato, risulta ragionevole optare per un autonomo riconoscimento di quel documento informatico quale documento avente valore analogo alla fattura in senso proprio, considerando che ove la comunicazione superi il vaglio imposto dal legislatore e svolto dall’Agenzia delle Entrate, la stessa comporta il riconoscimento di un credito di imposta “monetizzabile”, ove previsto, con successive cessioni o comunque utilizzabile per le compensazioni. In sintesi, l’inserimento al portale documenta una transazione commerciale avente ad oggetto il credito di imposta che, superata la verifica spettante all’Agenzia delle Entrate, consolida i propri effetti. Il citato art. 122 bis del decreto Rilancio costituirebbe proprio la norma tributaria che attribuisce al documento informatico (inserimento) un valore analogo alle fatture, documentando una transazione relativa al credito di imposta.
Nel rispetto del principio di tassatività, il legislatore consente, in conclusione, all’interprete di individuare il limite interno della tutela penale con riferimento ai documenti (diversi evidentemente dalla fattura) di valore analogo ad essa: ed allora non può dubitarsi che anche la condotta di l’inserimento nel portale del credito ceduto (inesistente per inesistenza soggettiva o oggettiva dell’operazione in essa dedotta) costituisca condotta di emissione di un documento “informatico” il cui valore è quello di registrare e rendere opponibile al creditore ceduto il mutamento della titolarità del credito di imposta. Ne discende la possibilità di contestare, nei confronti di chi fraudolentemente proceda all’inserimento consapevole nella piattaforma dell’Agenzia delle Entrate di cessioni relative a crediti inesistenti (totalmente o parzialmente sia oggettivamente che soggettivamente), il delitto di cui all’art. 8 D.lgs. n. 74 del 2000.
La circostanza che la cessione riguardi un credito di imposta varrebbe poi a semplificare la valutazione di equivalenza, poiché l’inserimento della cessione nel portale costituisce al contempo prova del negotium costituito dalla cessione del credito e prova dell’ammontare e della spettanza del credito di imposta. L’unica differenza tra questo documento informatico e la fattura (che può comunque essere a sua volta elettronica) sarebbe quella di non indicare il valore imponibile poiché ciò che si trasferisce è “moneta tributaria”.
L’opzione interpretativa sopra delineata consentirebbe di valutare ogni singola cessione, connotata dai necessari requisiti oggettivi e soggettivi (in termini di consapevolezza della inesistenza del credito ceduto) quali distinte ipotesi di emissione di false fatture a carico dei diversi soggetti persone fisiche coinvolte.
La contestazione, nelle ipotesi che ci occupano, del delitto di cui all’art. 8 del D.lgs. 74 del 2000, comporta poi l’applicabilità della previsione di cui all’art. 12- bis del medesimo D.lgs., in ragione del quale “Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.”.
4. La fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p.
Occorre comunque verificare l’applicabilità, in ipotesi di creazione e successiva cartolarizzazione dei crediti di imposta falsi, della fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p. (Indebita percezione di erogazioni pubbliche).
La fattispecie, collocata nell’ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, è normativamente costruita come reato comune che sanziona, fuori dai casi di truffa ex art, 640 bis c.p., tutti i comportamenti decettivi attraverso i quali il soggetto attivo del reato consegua indebitamente “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee…”.
Si deve pertanto indagare se i comportamenti decettivi costituiti dalla creazione e cessione di crediti di imposta non corrispondenti ad operazioni reali siano riconducibili all’ambito applicativo di questa fattispecie incriminatrice, peraltro valutata come concretamente applicabile in taluni casi quali ad esempio quello oggetto della sentenza del 13 giugno 2023 della Corte di Cassazione, sez. 2, n. 37138, relativo al caso di provvedimento cautelare reale adottato dal giudice per le indagini preliminari previa riqualificazione del fatto, originariamente contestato dal Pubblico Ministero come violazione dell’art. 640 comma secondo n. 1 c.p., in quello di cui all’art. 316 ter c.p. (cfr. Cass. Sez. 2, 13 giugno 2023 dep. 12 settembre n. 37138).
Il primo spunto di riflessione che si ritiene di formulare al riguardo è costituito dalla circostanza che la fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., sebbene corrispondente al fatto quanto alla dimensione finale, in termini di conseguimento di un vantaggio in capo al soggetto che attivi il procedimento funzionale al riconoscimento del credito di imposta, risulti costruita dal legislatore con rifermento ai casi in cui vi sia un trasferimento di ricchezza dall’ente al soggetto in termini positivi: la casistica applicativa della fattispecie riguarda infatti emolumenti non dovuti, pensioni non spettanti (cfr. Cass. Sez. 6 - Sentenza n. 9661 del 03/02/2022 Ud. (dep. 21/03/2022) Rv. 282942), finanziamenti assistiti e talune specifiche ipotesi di bonus (ad esempio il bonus docente, cfr. Cass. Sez 6 - Sentenza n. 30770 del 12/07/2023 Rv. 284968) che comunque prevedono sempre la costituzione di una provvista vincolata quanto ai beni con essa acquistabili. Detto altrimenti, la fattispecie risulta costruita con riferimento ai casi in cui via sia trasferimento di ricchezza (anche mediante rimborso) dal soggetto erogante al beneficiario, che ne ottenga la disponibilità mediante condotte artificiose generative di errore quanto alla spettanza della provvista. Il dato letterale sembra quindi non del tutto corrispondente allo schema dei crediti di imposta, che al beneficiario, come sopra detto, trasferiscono una moneta fiscale e non una ricchezza in senso proprio, sebbene anche tale ipotesi possa essere ricondotta all’alveo della citata disposizione sub specie “altre erogazioni”.
Nella sentenza sopra citata (Cass. Sez. 2, Sent. N. 37138 del 2023) Corte di legittimità ha ritenuto che "Il reato di cui all'art.316-ter c.p. si consuma nel luogo in cui il soggetto pubblico erogante dispone l'accredito dei contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre provvidenze in favore di chi ne abbia indebitamente fatto richiesta, perché con tale atto si verifica la dispersione del denaro pubblico, e non in quello in cui avviene la materiale apprensione degli incentivi (Sez.6, n. 9060 del 30/11/2022, GSE S.p.a. dep.02/03/2023, Rv. 284336), è evidente che con il riconoscimento del credito di imposta, immediatamente monetizzabile, il reato è già consumato in quanto l'ente erogatore non è più nella possibilità di recuperare quanto erogato ed il soggetto beneficiario ha già avuto l'accrescimento del proprio patrimonio;…”.
La Corte ritiene quindi configurabile l’ipotesi di cui all’art. 316 ter c.p. con riferimento allo specifico momento in cui l’amministrazione preposta effettui il “riconoscimento” del credito, cui consegue l’immediata possibilità di trasformarlo in moneta. Tale ipotesi ermeneutica pone poi in via successiva ulteriori questioni in tema di concorso di reati laddove all’emissione delle false fatture, all’inserimento della cessione di crediti di imposta falsi nel portale segua effettivamente il riconoscimento del credito monetizzabile, giungendo a ritenere che al fatto siano astrattamente applicabili le diverse norme penali valutando il “riconoscimento” come elemento che qualifica l’ulteriore disvalore del fatto in termini di reato contro la pubblica amministrazione.
Peraltro, la attuale formulazione dell’art. 122 bis del Decreto Rilancio, non prevede un “atto di riconoscimento” in senso proprio: la norma infatti prevede che l’Agenzia delle Entrate possa entro cinque giorni sospendere l’efficacia della cessione procedendo ad ulteriori approfondimenti e che, ove questi confermino le ragioni di rischio individuate, dichiari inefficace la cessione (che si considera non effettuata) dando notizia all’interessato dell’esito negativo del controllo. Ove invece non ravvisi ragioni di criticità o le stesse non trovino conferma nei successivi approfondimenti, l’Agenzia non deve provvedere ad emettere alcun atto e gli effetti della cessione si producono per effetto della comunicazione già svolta. Questa disciplina sembra quindi spostare gli effetti della cessione al mero inserimento, senza che sia necessario un atto di riconoscimento: piuttosto, solo un atto di rifiuto potrebbe paralizzare gli effetti della cessione inserita.
Gli argomenti che precedono suggerirebbero, quindi, particolare cautela nel ricondurre le ipotesi che interessano alla fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., soprattutto in ragione della circostanza che la norma non copre la “speciale” finalità delle condotte di creazione di falsi crediti di imposta, condotte tutte orientate e connotate dal sottostante dolo di evasione conseguente alla finalità elettiva di tutti i crediti di imposta, ovvero quella, come detto, di essere strumenti di pagamento di debiti tributari mediante compensazione.
5. La riconducibilità dei fatti all’ipotesi di truffa, anche ai sensi degli artt. 640 comma primo e cpv e 640 bis c.p.
Altra norma utilizzata ed astrattamente applicabile nei casi di frode connessi alla creazione di falsi crediti di imposta è quella che tutela la dimensione strettamente patrimoniale del fenomeno attraverso la riconduzione dei fatti di frode all’archetipo di cui all’art. 640 c.p.
Va detto che la fattispecie, sia nella declinazione aggravata ai sensi del capoverso dell’art. 640 c.p., sia avuto riguardo alla più grave ipotesi di cui all’art. 640 bis c.p., risultano astrattamente suscettibili di ricomprendere anche le condotte artificiose di creazione di falsi crediti di imposta e di inserimento dei medesimi nel portale, laddove l’induzione in errore sarebbe quella dell’Agenzia delle Entrate (che peraltro non compie un atto dispositivo in senso stresso), tentata o consumata in relazione alla sospensione o meno dell’efficacia dell’inserimento dei crediti nel portale. Tuttavia, anche in questo caso, posto che la sorte finale dei crediti di imposta è quella della compensazione con debiti tributari risulterebbe prevalente, in tutte le condotte sopra descritte, la finalità di evasione che rende le norme penal-tributarie applicabili per l’esistenza di profili di specialità ex art. 15 c.p. in relazione all’archetipo costituito dalla norma penale incriminatrice in tema di truffa.
Viceversa, la dimensione patrimoniale dell’offesa risulta presente e in concreto riconducibile alla fattispecie incriminatrice della truffa con riferimento alle condotte di monetizzazione commesse in danno di persone fisiche private ovvero persone giuridiche anche di rilievo pubblicistico (nel quale caso potrà operare la più grave previsione sanzionatoria di cui all’art. 640 bis c.p. cui consegue altresì l’applicabilità della disciplina del sequestro e della confisca anche per equivalente ex art. 240 bis c.p.), che rivestano la posizione di cessionari dei predetti crediti, in tale veste autori di un esborso monetario corrispettivo della cessione medesima. Sicché, nei casi di monetizzazione ad opera di terzi cessionari di buona fede, non concorrenti nel delitto di false fatturazioni presupposto della fraudolenta cessione, i cedenti ed i loro concorrenti potranno incorrere anche in responsabilità per truffa, procedibile a querela se commessa ai danni di soggetto privato anche ove aggravata dall’avere i fatti cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità (ex art. 61 n. 7 c.p.).
Tali cessionari, meri danneggiati dal reato di false fatturazioni, sono invece persone offese del reato di truffa in ragione dell’esborso monetario sostenuto e, a rigore, dovrebbero essere loro destinati eventuali recuperi eseguiti attraverso l’esecuzione di provvedimenti di sequestro.
6. Il sequestro dei crediti e l’opponibilità ai terzi: riflessioni in tema di confisca
Si tratta, forse, della questione di maggiore complessità da affrontare con grande cautela dovendosi in questa ipotesi valutare comparativamente le esigenze preventive e sanzionatorie presidiate dalle norme sul sequestro e sulla confisca, da un alto, e dall’altro quelle di tutela del patrimonio dei terzi estranei al reato (in ipotesi i cessionari i cessionari dei crediti di imposta non realmente esistenti).
È infatti ben possibile l’adozione, in relazione a detti crediti di imposta (la cui materialità consta proprio nell’inserimento del credito nel portale delle cessioni) di provvedimento di sequestro preventivo, tanto ex art. 321 comma 1 c.p.p. che ai sensi del successivo comma 2.
Partiamo dalla previsione di cui al comma 1 del citato art. 321 c.p.p., che ammette l’adozione del sequestro preventivo quando vi sia pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati. Va premesso che il legame pertinenziale tra la cosa e il reato deve intendersi quale collegamento che comprende non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il retro è stato commesso, ma anche quelle che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto ed altresì quelle legate anche solo indirettamente alla fattispecie criminosa (con la sola esclusione di relazioni meramente occasionali tra la res e l’illecito penale – cfr. sul punto Cass., Sez. 5 Sent. N. 26444 del 28 maggio 2014 Rv 259850)
In primo luogo, occorre valutare se il credito di imposta generato all’esito di operazioni fraudolente costituisca cosa pertinente al reato per cui si procede. Anche in questo caso la riposta è positiva, sia che si valuti la pertinenzialità con riferimento all’ipotesi di reato di cui all’art. 8 del D.lgs. 74/00 sia che la si consideri con riferimento all’ipotesi ex art. 316 ter c.p. sia infine in relazione all’ipotesi di cui all’art. 640 cpv o 640 bis c.p., posto che con riferimento a tutte le fattispecie suddette i crediti costituiscono il prodotto dei reati ipotizzati
Vale sul punto richiamare l’insegnamento della Corte di Cassazione che così definisce le differenti nozioni di prodotto, profitto e prezzo del reato: “… In sintesi, il prodotto è il risultato dell'azione criminosa, ovvero la cosa materiale creata, trasformata o acquisita mediante l'attività delittuosa, che con quest'ultima abbia un legame diretto e immediato; si tratta del frutto diretto ed immediato dell'attività criminosa, ossia del risultato ottenuto direttamente con l'attività illecita. Il profitto comporta invece un accrescimento del patrimonio dell'autore del reato ottenuto attraverso la acquisizione la creazione o la trasformazione di cose suscettibili di valutazione economica, corrispondente all'intero valore delle cose ottenute attraverso la condotta criminosa (vantaggio economico di diretta derivazione del reato, vedi Sez. U, Sentenza n. 31617 del 26/06/2015, Lucci Rv. 264436 - 01: "Il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito."). Prezzo, infine, è il compenso dato o promesso per indurre istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato, quale fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l'interessato a commettere il reato.” (cfr. Cass., sez. 2, Sent. N. 37138 del 13 giugno 2023 -dep. 12 settembre 2023).
Parimenti, non vi sono dubbi quanto alla possibilità di adottare un provvedimento di sequestro per pertinenzialità dei crediti di imposta generati attraverso schemi fraudolenti anche con riferimento all’ulteriore requisito previsto dalla legge: la libera disponibilità di tali crediti aggrava le conseguenze del reato, poiché consente al titolare dello stesso di optare per l’utilizzo in compensazione ovvero per la successiva monetizzazione, andando così a produrre ulteriori effetti comunque dannosi o per l’Erario (cui infine si imputeranno gli effetti delle compensazioni in ragione delle quali non introiterà i tributi spettanti) o per i terzi cessionari che avranno monetizzato l’importo delle cessioni.
Trattandosi di sequestro fondato sul legame di pertinenzialità tra res e reato, il vincolo suddetto consente il sequestro a prescindere dalla verifica della condizione soggettiva del terzo che sia venuto nella disponibilità della cosa, cui il sequestro risulterebbe quindi opponibile a prescindere dalla condizione di buona o mala fede (cfr. sul punto Cass Sez. 3, Sent. n. 40865 del 21/09/2022 Cc. (dep. 28/10/2022) Rv. 283701 e Sez. 3 Sent. n. 40480 del 2010 Rv. 248741, nonché Cass. Sez. 2 sentenza n. 28306 del 2019 Rv. 276660).
Sotto altro profilo, il sequestro preventivo dei crediti di imposta generati da false fatturazioni è comunque esperibile anche ai sensi del comma 2 dell’art. 321 c.p.p., quale sequestro funzionale alla confisca. Nella definizione codicistica, la confisca (e quindi anche il sequestro preventivo ad essa funzionale) è prevista con riferimento alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituiscono il prodotto o il profitto (art. 240 comma primo c.p.).
Una speciale declinazione della confisca (obbligatoria) è, inoltre, prevista in materia penal-tributaria dal citato art. 12 bis del D.lgs. 74 del 2000, che da un lato impone la confisca del prodotto e del profitto dei reati tributari, dall’altro ne estende l’operatività ai beni (diversi da prodotto e profitto) di identico valore ma conferma, in linea con la previsione penale sostanziale, il limite consistente nella inopponibilità della confisca al terzo estraneo al reato (“salvo che appartengano a persona estranea al reato”). Peraltro, la prospettiva non muta anche ove si consideri l’ipotesi di emissione di documento avente valore analogo alla fattura costituita dall’inserimento nel portale delle cessioni aventi ad oggetto falsi crediti di imposta. Quanto, poi, all’ipotesi che si riconducano i fatti all’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., vale quanto disposto dal successivo art. 322-ter c.p., che prevede l’obbligatoria confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, anche per equivalente, con analogo limite costituito dall’appartenenza del bene a terzi estranei al reato.
Non potrebbe esservi spazio per l’adozione del sequestro preventivo, né ai sensi del comma 1 né ai sensi del comma 2 dell’art. 321 c.p. ove dovesse ritenersi che il terzo, una volta dimostrata la propria buona fede, abbia acquistato “in via definitiva” (cfr. sul punto Cass. Sez. 2, sentenza n. 27895 del 23/06/2022 – rv 283635 relativo però al caso di appropriazione indebita di un veicolo oggetto di successiva alienazione a terzo di buona fede) un bene immune da tutti i vizi originari, non più intrinsecamente pericoloso (quale sarebbe ove si ritenesse prevalente la natura di moneta tributaria contraffatta, la cui detenzione o alienazione è vietata dalla legge penale). e che lo stesso possa poi utilizzarlo in compensazione. Tale conclusione sarebbe possibile ipotizzando, quale premessa, che la cessione del credito di imposta (anche se fraudolentemente creato) dia luogo ad una “novazione totale” del credito in essa dedotto, sicché il terzo di buona fede cessionario del credito acquisti in sostanza a titolo originario un bene (il credito) completamente diverso dall’originaria detrazione di imposta spettante al cedente, trasformando in lecita, in ragione della propria condizione soggettiva, la stessa natura intrinsecamente illecita del credito ceduto.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha compiutamente ricostruito tutti gli indici normativi contenuti nel decreto rilancio che ostano ad una interpretazione per la quale una volta che l’originario titolare del diritto alla detrazione abbia rinunciato a tale diritto, in capo al cessionario sorgerebbe un credito del tutto nuovo e diverso, emendato da ogni originario vizio (sinanche quello della contrarietà a norme imperative del comportamento fonte del fraudolento diritto alla detrazione poi ceduto).
In particolare, la Corte di Cassazione, (cfr. Cass. Sez. 3, sentenza n. 40865 del 21/09/2022 Cc. Rv 283701), ha chiaramente ritenuto che alla teoria dell’acquisto del credito di imposta a titolo originario in capo al cessionario osti, anzitutto, il chiaro tenore dell’art. 121 comma, del più volte citato Decreto Rilancio (D.lgs. n. 34 del 2020).
La norma, infatti, prevede (art. 121 citato, comma 3) che "I crediti d'imposta di cui al presente articolo sono utilizzati in compensazione ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, sulla base delle rate residue di detrazione non fruite. Il credito d'imposta è usufruito con la stessa ripartizione in quote annuali con la quale sarebbe stata utilizzata la detrazione".
Ove si fosse trattato, nelle intenzioni del legislatore, di un nuovo diritto di credito di imposta totalmente slegato dal diritto alla detrazione, non avrebbe avuto fondamento la previsione che lo stesso debba essere esercitato con le medesime modalità di esercizio proprie del diritto alla detrazione (rate residue e ripartizione in quote annuali).
D’altronde, come sopra detto, l’originario testo dell’art. 121 comma 1 lett. b) del Decreto Rilancio nel riferirsi al credito di imposta, lo faceva definendolo come “trasformazione” dell’originario diritto alla detrazione, sostantivo assolutamente deponente nel senso di una derivazione del credito di imposta ceduto dalla detrazione originariamente spettante
Analogamente, neppure possono ritenersi decisive in senso contrario le specifiche disposizioni dei successivi commi 4, 5 e 6 dell’art. 121 citato la cui portata precettiva si rivolge propriamente alla materia tributaria, prevedendo i poteri spettanti ai soggetti preposti al controllo con specifico rinvio al DPR 600 del 29 settembre 1973, l’ambito di responsabilità del cedente (comma 5) e l’eventuale responsabilità del cessionario dettando al contempo specifici presupposti per la responsabilità solidale del fornitore e del cessionario (comma 6) che ha applicato lo sconto e dei cessionari per il pagamento di quanto debba essere recuperato.
Parimenti, deve ritenersi che sia riferibile alla sola materia tributaria la previsione di cui al comma 6bis del medesimo art. 121 del decreto Rilancio, norma che mira a far salva la posizione del cessionari che, per il possesso di idonea documentazione (titolo abilitativo edilizio, notifica preliminare dell’avvio dei lavori, visure catastali, fatture di spesa, asseverazioni, delibere condominiali in caso di interventi su parti comuni documentazione tecnica per interventi di riqualificazione energetica, visto di conformità della documentazione, attestazione di regolarità firmata dal cedente, documentazione relativa ad interventi di riduzione del rischio sismico e contratti di appalto) siano fondatamente in una posizione di assoluta non partecipazione e che pertanto non possono essere ritenuti responsabili in via solidale, sempre nella competente sede tributaria. Ebbene anche questa disposizione si limita ad eccettuare tali soggetti dal concorso nella violazione (tributaria) che determina la responsabilità in solido del fornitore che ha applicato lo sconto e dei cessionari: non si tratterebbe, neppure in questo caso, di norma che può essere utilizzata quale argomento per ritenere che il credito del cessionario sorga in via autonoma e originaria e quindi possa operare quale fondamento di una disciplina che possa comportare l’inapplicabilità delle disposizioni dettate in materia di sequestro dal codice penale e di procedura penale.
Non sembra possa trarsi diversa conclusione neppure alla luce della previsione di cui all’art. 28 ter del D.L.n. 4 del 2022 convertito con modificazioni dalla L. 28 marzo 2022, n. 25 per il quale “1. L'utilizzo dei crediti d'imposta di cui agli articoli 121 e 122 del decreto-legge n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020, nel caso in cui tali crediti siano oggetto di sequestro disposto dall'autorità giudiziaria, può avvenire, una volta cessati gli effetti del provvedimento di sequestro, entro i termini di cui agli articoli 121, comma 3, e 122, comma 3, del medesimo decreto-legge n. 34 del 2020, aumentati di un periodo pari alla durata del sequestro medesimo, fermo restando il rispetto del limite annuale di utilizzo dei predetti crediti d'imposta previsto dalle richiamate disposizioni. Per la medesima durata, restano fermi gli ordinari poteri di controllo esercitabili dall'Amministrazione finanziaria nei confronti dei soggetti che hanno esercitato le opzioni di cui agli articoli 121 e 122 del medesimo decreto-legge n. 34 del 2020. 2. L'Agenzia delle entrate effettua il monitoraggio sull'utilizzo del credito d'imposta nei casi di cui al comma 1 e comunica i relativi dati al Ministero dell'economia e delle finanze ai fini di quanto previsto dall'articolo 17, comma 13, della legge 31 dicembre 2009, n. 196.”
Anche questa volta si tratta di norma che disciplina l’utilizzo dei crediti una volta che gli stessi siano stati dissequestrati, non anche di una previsione circa la non sequestrabilità dei medesimi.
Poste tali premesse, si pensi all’ipotesi in cui, una volta intervenuto il sequestro dei crediti generati da operazioni fraudolente, il cessionario, ottenuto lo svincolo dei crediti in ragione della propria estraneità e buona fede e dei limiti posti alla confisca, proceda ad una successiva cessione e/o all’utilizzo di crediti generati da fatture per operazioni inesistenti: l’interrogativo che occorre porsi è se il successivo utilizzo sia comunque lecito, se invece possa generare responsabilità per violazione dell’art. 10 quater del D.lgs. 74/2000 se utilizzato in compensazione.
Occorre inoltre riflettere sulla sorte dei crediti in sequestro una volta concluso il giudizio e disposta la confisca che, come si è detto, viene disciplinata in termini di confisca obbligatoria dal legislatore sia con riferimento al delitto di emissione di fatture o altri documenti aventi analogo valore che con riferimento al delitto di cui all’art. 316 ter c.p.: in entrambi i casi, come detto, l’operatività della confisca incontra un limite insuperabile ove la cosa da confiscare appartenga ad un soggetto terzo estraneo al reato. Nella declinazione giurisprudenziale, terzo estraneo al reato deve ritenersi colui che non partecipi in alcun modo alla commissione del reato o all'utilizzazione dei profitti derivati: in particolare, l'estraneità al reato non deriva in modo automatico dal fatto che il proprietario della cosa non abbia subìto condanna, dovendosi considerare effettivamente estraneo soltanto chi - indipendentemente dall'essere stato o meno sottoposto a procedimento penale - risulti di fatto non aver avuto alcun collegamento con l'azione criminosa.
Sotto altro profilo la giurisprudenza ha ritenuto che è persona estranea al reato il soggetto che non abbia ricavato vantaggi ed utilità dal reato e che sia in buona fede, non potendo conoscere - con l'uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta - l'utilizzo del bene per fini illeciti (Cass., Sez. 3, 16.11-1.12.2022, n. 45558; Cass., Sez. 3, 17.2.2017, n. 29586). In via di ulteriore considerazione, sempre la Corte di Cassazione ha ritenuto che in caso di confisca obbligatoria, il terzo che invochi la restituzione delle cose sequestrate qualificandosi come proprietario o titolare di altro diritto reale è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa e, in particolare, oltre alla titolarità del diritto vantato, anche l'estraneità al reato e la buona fede, intesa come assenza di condizioni in grado di configurare a suo carico un qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la possibilità dell'uso illecito del bene (Cass., Sez. 3, 17.1.2013, n. 9579 Rv 254749).
A fronte di tali premesse, dirimente diviene quindi individuare gli eventuali indici rivelatori della condizione soggettiva di buona o mala fede del terzo che sia entrato nella disponibilità del credito di imposta prodotto del reato, scongiurando il rischio di tutelare interessi economici di soggetti che non siano in realtà ad esso del tutto estranei: indizi in tale senso possono trarsi dalle tempistiche delle cessioni, dall’esame dei flussi finanziari sottostanti e dalla ricostruzioni di legami particolari tra i soggetti ovvero dall’entità dei corrispettivi pattuiti (particolarmente convenienti), dalla completezza della documentazione a supporto.
Deve però anche tenersi in debito conto quella giurisprudenza citata (Cass. pen. Sez. 3 Sent., 28/02/2013, n. 9579 -Rv. 254749) che fonda la buona fede del terzo anche sulla misura di un parametro di “diligenza” da questi tenuta: vero è che le modifiche introdotte dal legislatore all’originario testo dell’art. 121 del Decreto Rilancio hanno rafforzato gli oneri documentali posti a carico di chi intenda esercitare le opzioni di legge alternative alla detrazione diretta, prevedendo che l’originario titolare del diritto alla detrazione debba in tali ipotesi munirsi di visti di conformità e di asseverazioni sicché il cessionario che abbia ragionevolmente confidato nella genuinità di tali evidenze documentali avrebbe maggior agio a dimostrare la propria buona fede ed estraneità al reato commesso. Diverso discorso potrebbe, però, farsi con riferimento ai crediti movimentati sotto la vigenza dell’originaria formulazione della norma, quando ancora tali oneri documentali non erano previsti quali requisiti di legittimità della procedura di cessione.
Certamente, una volta conclusa la vicenda processuale, ove l’opzione interpretativa prescelta sia nel senso non solo della inefficacia della cessione del credito ma altresì della confisca opponibile al terzo, resta impregiudicata l’esperibilità da parte del cessionario che abbia subito danno di rimedi ripristinatori dell’integrità del proprio patrimonio ed è ovviamente legittimato ad esperire apposite azioni civili, anche mediante costituzione di parte nel processo penale (trattandosi di danneggiato da reato quanto alle ipotesi di cui all’art. 8 e/o 10 quater del D.lgs. 74 del 2000 ed anche con riferimento alla diversa ipotesi di cui all’art. 316 ter c.p. - cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 20847 del 21/05/2010 Rv. 247390).
Peraltro, solo una soluzione interpretativa (o normativa) che comportasse comunque un divieto di successivo utilizzo dei falsi crediti anche da parte dei terzi acquirenti di buona fede terrebbe indenne l’Erario dagli effetti negativi del successivo utilizzo in compensazione di crediti non fondati su operazioni reali: al contempo, tale soluzione negativa produrrebbe effetti di rilevante impatto sul patrimonio dei soggetti cessionari non concorrenti nel reato e comunque ignari, al momento dell’acquisto, della provenienza da delitto dei crediti acquistati.
7. Contabilizzazione dei crediti generati da operazioni fraudolente
Il tema offre all’interprete una serie di spunti di riflessione.
Si vuole qui fare cenno del problema della sorte contabile dei crediti provento di operazioni fraudolente ceduti a terzi di mala fede e della sorte altresì dei crediti ceduti in favore di terzi di buona fede volta che anche questi ultimi siano divenuti consapevole della relativa provenienza da delitto. Si tratta di questione diversa da quella relativa alla utilizzabilità in dichiarazione annuale ovvero per le compensazioni (posto che per tali casi l’utilizzo successivo alla conoscenza della provenienza da reato per come sopra detto in astratto potrebbe comportare profili di specifica responsabilità penale): occorre piuttosto verificare se il soggetto (ad esempio una società di capitali) che abbia acquisito questi crediti e che sia obbligato per legge a tenere una contabilità e che fosse ab origine consapevole della provenienza da reato ovvero ne sia venuto a conoscenza all’esito della adozione di provvedimenti giurisdizionali ovvero di natura amministrativa possa inserire tali crediti nella propria contabilità e se debba valutarli come componente dell’attivo, ovvero svalutarli o, infine portarli a “perdita”.
Sul punto deve richiamarsi la previsione di cui all’OIC 15: come noto, il d. lgs. 38 del 2015 prevede che L’Organismo Italiano di Contabilità, istituto nazionale per i principi contabili tra l’altro emani i principi contabili nazionali, ispirati alla migliore prassi operativa, per la redazione dei bilanci secondo le disposizioni del codice civile. L’OIC 15 è specificatamente destinato a disciplinare i principi che presiedono alla contabilizzazione dei crediti: in particolare, al punto 13 del paragrafo dedicato alle definizioni, descrive la nozione di svalutazione e quella di perdita come segue:
Nell’ipotesi che interessa, ove si opti per una interpretazione delle norme vigenti nel senso che le stesse escludano il successivo utilizzo dei crediti tributari generati da operazioni di frode, pur se acquistati in buona fede, il credito tributario originato da operazioni fraudolente del tipo descritto, ove se ne accerti la non recuperabilità, andrà, pertanto, in conformità al principio citato e, più in generale, nel rispetto dei principi normativi che presiedono la materia (art. art. 2423 c.c., per il quale “Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell'esercizio.”) non già meramente svalutato, ma censito come credito non più recuperabile ed anzi inesistente con ogni conseguente contabilizzazione come perdita.
Va comunque valutata altresì la necessità o meno che sia intervenuto un accertamento definitivo circa la non recuperabilità: tale sarebbe una eventuale confisca disposta in via definitiva anche ove il credito sia collocato nel patrimonio del cessionario. Sino all’adozione di provvedimenti definitivi, occorrerà comunque fornire adeguata rappresentazione contabile delle conseguenze di un provvedimento che incida sulla utilizzabilità del credito di imposta acquisito.
Ne discende ogni opportuna valutazione circa le conseguenze di tale contabilizzazione, posto che da un lato l’entità delle perdite produce inevitabili riflessi sugli equilibri di bilancio, dall’altro occorre anche attentamente valutare il penale rilievo di contabilizzazioni non conformi all’effettiva esigibilità dei crediti di imposta provento di condotte artificiose (quantomeno sotto il profilo dell’eventuale sussistenza di ipotesi di condotte penalmente rilevanti ex artt. 2621 e 2622 c.c.)
8. Conclusioni
Gli strumenti penali potenzialmente applicabili alle ipotesi di illeciti correlati alla creazione fraudolenta di crediti di imposta, sono certamente numerosi e si è tentato di illustrarli nei loro tratti essenziali.
Risulta evidente che la precipua natura fiscale degli interessi lesi dalle condotte di frode (che in ultima analisi risultano tutte strumentali condotte di illecita compensazione dei crediti provento di reato con debiti di imposta realmente sussistenti) impone all’interprete una attenta ponderazione dei profili di specialità che, valutati in adesione al canone ermeneutico di cui all’art. 15 c.p., portano a ritenere concretamente applicabili le norme sanzionatorie penal-tributarie con riferimento alle condotte di artificiosa creazione dei crediti e di inserimento di tali falsi crediti nel portale delle cessioni, di poi delle disposizioni incriminatrici di cui agli artt. 640 e 640 bis c.p. avuto riguardo alla successiva fase delle monetizzazioni.
Altro snodo applicativo di non poco momento è quello relativo alla sorte dei crediti acquistati in buona fede da terzi cessionari, laddove ogni valutazione al riguardo deve essere compiuta non solo utilizzando gli strumenti giuridici previsti dal sistema ma anche considerando sia l’interesse dell’Erario a non essere gravato, quale ultimo destinatario dei crediti di imposta fraudolentemente generati, degli oneri conseguenti alle compensazioni dei crediti inesistenti con debiti reali, sia le ragioni patrimoniali (anche correlati alle informazioni di bilancio destinati ai soci e al pubblico) dei soggetti cessionari.
(Immagine: Charles Bloud,
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.