ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Demanio costiero e uso generale: la “scarsità della risorsa naturale” (nota a TAR Puglia, Lecce, nn. 1223 e 1224 del 2023)
di Giuseppina Mari
Sommario: 1. Premessa e oggetto del contributo; 2. Le sentenze del TAR Lecce nn. 1223 e 1224 del 2023; 3. Le ragioni della demanialità; 4. Gestione amministrativa tra uso generale e uso particolare; 5. La pianificazione del demanio costiero; 6. La scarsità delle risorse naturali secondo l’Adunanza plenaria: critica e rischio di una confutazione basata, a sua volta, su dati meramente quantitativi; 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa e oggetto del contributo
Le sentenze del TAR Lecce nn. 1223 e 1224 del 2 novembre 2023 si inseriscono nell’annosa e complessa vicenda relativa all’applicazione della direttiva servizi 2006/123/CE (direttiva Bolkestein) con riguardo alle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative.
Il contributo si concentra, tra le molteplici questioni giuridiche che le proroghe ex lege sollevano – dibattute e oggetto di moltissimi contributi[1] –, sul solo specifico profilo della “scarsità delle risorse naturali”[2], al ricorrere della quale l’art. 12 della direttiva Bolkestein (2006/123/CE) impone, come noto, procedure selettive e vieta il rinnovo automatico. Nonostante la rilevanza dirimente del presupposto, il suo significato concreto non è stato oggetto di specifici approfondimenti da parte della Corte di giustizia, se non nella sentenza del 20 aprile 2023, causa C‑348/22, AGCM c. Comune di Ginosa (nel prosieguo CGUE Ginosa), con un intervento peraltro non definitivamente risolutivo nella misura in cui il giudice europeo non ha fornito una definizione di scarsità della risorsa naturale lasciando al contempo agli Stati membri un ampio margine interpretativo delle modalità pratiche di valutazione della relativa sussistenza[3]. Altrettanto limitata attenzione è stata riservata dalla giurisprudenza nazionale, nella quale la risorsa o è considerata ontologicamente o intrinsecamente limitata[4] e non suscettibile di una considerazione parcellizzata[5] oppure, successivamente alle note sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria nn. 17 e 18 del 2021[6] e ripetendone le conclusioni, scarsa a livello nazionale in base a combinati criteri quantitativi e qualitativi astratti[7].
La “scarsità delle risorse naturali” identifica un concetto giuridico indeterminato[8], il cui riempimento, anticipando le conclusioni, non può basarsi su un’indagine meramente quantitativa (quale quella operata, nella fase istruttoria sinora svolta, dal Tavolo tecnico di cui si dirà) prescindendo dal regime giuridico del demanio costiero e dalle relativepeculiarità. Le peculiarità sono collegate alla fruizione collettiva in stretta connessione con diritti costituzionali del cittadino, alle plurime valenze – tra cui quelle ambientali e paesaggistiche – dei beni in questione nonché alla circostanza che essi sono oggetto di pianificazione. Di queste peculiarità non può non tenere conto anche l’auspicata riforma del settore.
Illustrate le argomentazioni del TAR Lecce in tema di valutazione della scarsità della risorsa – che i predetti aspetti trascurano di considerare –, saranno sviluppati, negli essenziali tratti funzionali alle conclusioni cui si intende pervenire, i seguenti profili: il significato storico giuridico della demanialità necessaria e la qualificazione del demanio costiero come bene comune; la dialettica tra uso generale e uso particolare; le conseguenze in punto di “scarsità della risorsa naturale”.
2. Le sentenze del TAR Lecce nn. 1223 e 1224 del 2023
Le sentenze del TAR Lecce si pronunciano sull’impugnazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato di deliberazioni delle giunte comunali di Ginosa e Castellaneta contenenti indirizzi per attuare la proroga, fino al 31 dicembre 2033, ai sensi della l. n. 145/2018 (art. 1, commi 682 e 683) e del d.l. n. 34/2020 conv. in l. n. 77/2020 (art. 182, comma 2), delle concessioni demaniali con finalità turistico ricreative e, tramite motivi aggiunti, degli atti di proroga adottati sulla base dei predetti atti di indirizzo[9], sul presupposto della natura self-executing della direttiva Bolkestein(art. 12) e della conseguente doverosa disapplicazione della legge nazionale di proroga (l. n. 145/2018).
Nelle more della trattazione del merito del ricorso, l’Adunanza plenaria si pronunciava con le note sentenze gemelle nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, in cui, tra l’altro, per i profili qui di rilievo, era ritenuta in via generale e astratta la scarsità delle risorse e, conseguentemente, il limitato numero di autorizzazioni disponibili, facendo da ciò derivare la necessaria disapplicazione della legge nazionale.
Nel giudizio che vedeva parte resistente il comune di Ginosa, il TAR Lecce, con ordinanza 11 maggio 2022 n. 743[10], prendendo atto dei principi affermati dall’Adunanza plenaria e non condividendone le conclusioni, disponeva il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, poi pronunciatasi con la già citata sentenza Sez. III, 20 aprile 2023, causa C-348/22[11]. Tra i quesiti pregiudiziali, relativi alla validità e all’interpretazione della direttiva Bolkestein, rileva specificamente, per il profilo di indagine selezionato nella presente nota, l’ottavo, con il quale il TAR chiedeva se competa al giudice nazionale statuire sulla “sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito della limitatezza delle risorse e delle concessioni disponibili riferito tout court all’intero territorio nazionale” o, stante la competenza dei comuni nell’affidamento delle concessioni demaniali, detta valutazione debba essere riservata agli stessi comuni e riferita al territorio costiero di ciascun comune. Il quesito, come evidenziato nel prosieguo, originava dall’incertezza determinata dal fatto che, da un lato, l’Adunanza plenaria aveva riferito in maniera generalizzata all’intero territorio nazionale la scarsità e, dall’altro lato, la Corte di giustizia nel precedente Promoimpresa del 2016[12] aveva stabilito – seppure in un rapido passaggio e senza particolari argomentazioni – che il giudice del rinvio dovesse valutare l’elemento della scarsità tenendo conto del fatto che l’assegnazione sarebbe avvenuta in sede comunale[13].
Nella sentenza CGUE Ginosa il rilievo dell’affermazione contenuta nel precedente Promoimpresa veniva ridimensionato a “mera indicazione rivolta al giudice di rinvio” (per aiutarlo ad accertare la concreta sussistenza della “scarsità delle risorse”), giustificata dal contesto della causa che aveva dato luogo alla sentenza (pt. 45).
Il giudice europeo chiariva, infatti, che l’art. 12 della direttiva “conferisce agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali”, che “può condurli a preferire una valutazione generale e astratta, valida per tutto il territorio nazionale, ma anche, al contrario, a privilegiare un approccio caso per caso, che ponga l'accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune o dell'autorità amministrativa competente, o addirittura a combinare tali due approcci” (pt. 46); aggiungeva che “la combinazione di un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e di un approccio caso per caso, basato su un'analisi del territorio costiero del comune in questione, risulta equilibrata e, pertanto, idonea a garantire il rispetto di obiettivi di sfruttamento economico delle coste che possono essere definiti a livello nazionale, assicurando al contempo l’appropriatezza dell'attuazione concreta di tali obiettivi nel territorio costiero di un comune” (pt. 47); in ogni caso, i criteri adottati da uno Stato membro per valutare la scarsità delle risorse naturali utilizzabili devono essere “obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati” (pt. 48). In conclusione, sull’ottavo quesito la Corte di giustizia rilevava che “l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che la scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili sia valutata combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un'analisi del territorio costiero del comune in questione” (pt. 49).
Nel trattare dell’effetto diretto dell’art. 12 della direttiva – riconoscendolo – e nell’evidenziare che detto effetto non può essere escluso per la circostanza che l’obbligo di procedure imparziali e il divieto di rinnovo automatico “si applichino solo nel caso in cui il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili”, la Corte di giustizia aggiungeva che dette risorse “devono essere determinate in relazione ad una situazione di fatto valutata dall’amministrazione competente sotto il controllo di un giudice nazionale” (pt 71).
Quest’ultimo passaggio della sentenza CGUE Ginosa viene letto e interpretato dal TAR Lecce[14] nel senso di circoscrivere il vaglio del giudice nazionale sulla scarsità a un ruolo di secondo grado, vale a dire di controllo.
Pur riconoscendo che la sentenza Ginosa del 2023, per molte delle sue statuizioni, si pone in continuità rispetto al precedente Promoimpresa del 2016 – in ordine all’applicabilità dell’art. 12 alle situazioni puramente interne (pt. 39-41) e all’onere di disapplicare la norma interna contrastante sussistente anche in capo anche all’amministrazione (pt. 77-79) –, il TAR Lecce attribuisce invece una “portata … decisamente modificativa e innovativa … alla statuizione relativa alla valutazione della scarsità della risorsa e delle autorizzazioni disponibili, sia con riferimento all’individuazione del soggetto cui compete la definizione dei criteri, sia con riferimento al metodo e all’ampiezza del potere discrezionale riconosciuto allo Stato membro, sia infine quanto alla qualificazione di siffatto procedimento come una pre-condizione ovvero come presupposto da accertarsi in via preliminare”[15].
Secondo la lettura della sentenza europea fornita dal TAR, i profili di rilievo da trarne sono due: la valutazione della scarsità delle risorse naturali è individuata dal giudice europeo “innovativamente” come “preliminare accertamento” cui l’applicazione dell’art. 12 è subordinata e, in secondo luogo, tale preliminare valutazione è attribuita allo Stato-amministrazione, e anzitutto agli organi di governo degli Stati membri, risultando invece “esclusa la legittimità di una valutazione o declaratoria tout court della scarsità della risorsa ad opera del giudice nazionale in via generale ed astratta (in assenza di criteri trasparenti ed uniformi [da definire da parte del Governo: n.d.r.] e di attività istruttoria)”.
L’esclusiva competenza dell’autorità di governo e dell’amministrazione attiva trova sostegno, a giudizio del TAR, nel riconoscimento (pt. 46 CGUE Ginosa) agli Stati membri di un “certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali” e nella “centralità del procedimento di valutazione della scarsità delle risorse naturali”. Identificando la preferibile modalità di svolgimento della valutazione nella previa definizione, a livello di autorità centrale, di criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionali e, poi, in un approccio caso per caso di analisi del territorio, la Corte di giustizia avrebbe fornito indicazioni anche di tipo procedimentale e di metodo. In definitiva, la CGUE avrebbe suggerito un percorso ottimale di attuazione della direttiva.
Da tanto il TAR Lecce fa conseguire che: - è precluso al giudice nazionale statuire in via generale e astratta in merito alla scarsità della risorsa, in assenza della previa definizione di criteri obiettivi e uniformi da parte del governo (il giudice, in sostanza, potrebbe solo valutare la corretta applicazione dei criteri, una volta definiti); - prima di affermare che le concessioni demaniali marittime sono sottoposte al citato art. 12, è necessaria una verifica della scarsità della risorsa da parte dello Stato membro, atteggiandosi detta verifica a pre-condizione della relativa applicabilità.
Le premesse conducono il TAR a dichiarare improcedibile i ricorsi dell’AGCM per “sopravvenuto difetto di interesse, sotto un duplice profilo: l’uno formale e l’altro – per così dire – sostanziale”.
Sotto il primo profilo, i provvedimenti di presa d’atto della proroga risulterebbero caducati per effetto della normativa sopravvenuta, rappresentata dalla l. n. 118 del 2022, che, da un lato, ha abrogato le disposizioni della l. n. 145 del 2018 e, dall’altro, nel fissare il termine di scadenza delle concessioni al 31 dicembre 2023 (poi differito di un anno dal d.l. milleproroghe n. 198 del 2022, conv. in l. 24 febbraio 2023 n. 14), ha avviato l’iter per l’attuazione delle direttive. L’asserito danno derivante all’AGCM dalla proroga delle concessioni al 31 dicembre 2033 sarebbe quindi venuto meno, atteso che le concessioni in essere scadono, per effetto della l. n. 14 del 2023, alla data del 31 dicembre 2024.
Sotto il secondo profilo, il TAR Lecce evidenzia come risulti mutato il contesto giuridico di riferimento. Le sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria, precedenti alla CGUE Ginosa e alla citata l. n. 14 del 2023, sono state da queste “contraddette quanto alla valutazione della scarsità della risorsa, sia quanto alla competenza, sia quanto al metodo”. Il brevissimo termine fissato dal Supremo Consesso al 31 dicembre 2023 era conseguenza della pretermissione, nel ragionamento della Plenaria, del necessario presupposto della valutazione della scarsità della risorsa di competenza Governo-Amministrazione, step che il TAR giudica, alla luce della peculiare lettura che fornisce della sentenza Ginosa, “centrale e preliminare adempimento nella direttiva”. La normativa nazionale successiva è coerente, invece, con le “precisazioni innovative” contenute nella sentenza della CGUE “e non integra … gli estremi di una mera ed ingiustificata proroga automatica, vietata dall’art. 12”. In particolare, ai fini della fissazione di criteri uniformi per la preliminare valutazione della scarsità della risorsa naturale, l’art. 10-quater d.l. milleproroghe ha avviato un’attività istruttoria sul demanio marittimo e sulle concessioni in essere, demandandola a un “tavolo tecnico”, il cui compito è anche quello di definire “i criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenuto conto sia del dato complessivo nazionale che di quello disaggregato a livello regionale, e della rilevanza economica transfrontaliera”.
Così ricostruite, le argomentazioni del TAR Puglia sono criticabili, in relazione al profilo di indagine qui scelto, sotto due profili.
La sentenza CGUE Ginosa non esclude affatto un vaglio del giudice nazionale sulla scarsità della risorsa naturale, precisando, piuttosto, che la valutazione non spetta solo al giudice nazionale, ma anche alle amministrazioni quali soggetti tenuti ad attuare la direttiva. I giudici di Lussemburgo fugano, così, ogni dubbio in merito al fatto che l’obbligo di disapplicazione incombe anche sugli organi amministrativi (pt. 78[16]).
In secondo luogo, l’affermazione secondo cui il previo accertamento amministrativo della scarsità delle risorse da parte del Governo-Amministrazione condizionerebbe l’applicabilità dell’art. 12, par. 1 e 2, della Bolkestein contrasta con il carattere self executing della direttiva, non potendo eventuali ritardi dello Stato membro nello stabilire criteri e nell’avviare la valutazione ostacolare l’effetto diretto della direttiva stessa. Gli adempimenti istruttori sono dunque doverosi, ma, in attesa degli stessi, sono comunque illegittime le proroghe automatiche delle concessioni che prescindono dalla valutazione della mancanza di scarsità delle risorse che spetta anche alla singola amministrazione effettuare.
L’applicazione diretta dell’art. 12 della direttiva servizi non è contraddetta dal riconoscimento nella sentenza Ginosa di un margine di discrezionalità in capo agli Stati membri in sede di attuazione della stessa. La sentenza CGUE Ginosa riferisce detto margine di discrezionalità a due distinti ambiti: nella disciplina delle procedure selettive e nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali. Con specifico riferimento alla prima, il giudice europeo ricorda che anche quando una direttiva lascia agli Stati un certo margine di discrezionalità nell’adozione delle modalità della sua attuazione, una disposizione di tale direttiva può essere considerata di carattere incondizionato e sufficientemente preciso se pone a carico degli Stati membri, in termini inequivoci, un “obbligo di risultato preciso e assolutamente incondizionato riguardo all’applicazione della norma da essa enunciata”[17]. In particolare, tale “obbligo di risultato” sussiste se il margine di discrezionalità non impedisce di determinare “alcuni diritti minimi” e, quindi, di identificare “la tutela minima che deve in ogni caso essere applicata”[18]: nella specie l’obbligo – e la correlata tutela minima per i potenziali candidati – consiste nell’applicare procedure di selezione imparziali e trasparenti.
Analoghe considerazioni possono essere svolte con riguardo al secondo dei citati ambiti in cui si esplica la discrezionalità – che viene orientata attraverso il riferimento a “criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati” –, come ricavabile al pt. 71 della sentenza CGUE Ginosa, a tenore del quale la circostanza che l’obbligo di procedure selettive e il divieto di rinnovo automatico “si applichino solo nel caso in cui il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili … non può rimettere in discussione l'effetto diretto connesso a tale articolo 12, paragrafi 1 e 2”.
Pertanto, sebbene l’attuazione dell’art. 12 implichi l’esercizio di un certo margine di discrezionalità – a partire dall’individuazione della condizione oggettiva di applicabilità, id est della scarsità delle risorse naturali, sino alla elaborazione di regole per un procedimento di selezione che soddisfi i principi generali in tema di libertà economiche di circolazione nel mercato interno –, l’obbligo di risultato è incondizionato e sufficientemente preciso quanto all'applicazione della regola da esso enunciata (regola che consiste nella previsione di procedure selettive a favore dei soggetti potenziali candidati e nel divieto di proroghe automatiche).
In questa presa di posizione viene dai commentatori individuato il più rilevante valore aggiunto della sentenza CGUE Ginosa[19].
Peraltro, le sentenze CGUE Ginosa e TAR Lecce suggeriscono una riflessione più ampia sulla scarsità della risorsa naturale. Anticipando le conclusioni, si ritiene venga nella specie in rilievo una risorsa ex se scarsa tanto per ragioni di obiettiva limitatezza (sia in termini assoluti che relativi[20]) quanto per il peculiare regime giuridico cui il bene è sottoposto in quanto naturalmente destinato all’uso generale, oggetto di pianificazione o, comunque, di valutazioni discrezionali allorquando lo si intenda destinare ad altre possibili diverse utilizzazioni[21] (identificabili nei servizi pubblici e nei servizi e attività portuali e produttive, oltre che in tutte le attività oggi elencate dall’art. 01 d.l. n. 400 del 1993 conv. in l. n. 494/1993).
3. Le ragioni della demanialità
Il regime del demanio marittimo, pur rimasto nel codice civile invariato, ha attraversato una lunga evoluzione[22], da esaminare – nella prospettiva di indagine qui selezionata – sotto il profilo del rapporto, di coincidenza o meno, tra destinazione pubblica del bene sottesa a detto regime[23] e uso collettivo dello stesso.
La riserva dominicale, conseguente all’appartenenza al genus dei beni demaniali necessari, implica l’insuscettibilità di appropriazione e ha tradizionalmente condotto a concentrare l’attenzione sul regime giuridico degli usi funzionali al soddisfacimento dell’interesse pubblico affidato alle cure dell’amministrazione titolare. Secondo un approccio tradizionale, accanto al soddisfacimento di esigenze della marina e alla difesa dei suoli, la demanialità è stata concepita come categoria diretta ad assicurare l’uso pubblico generale, liberamente praticabile da tutti uti cives (e, quindi, con ritrazione diretta di utilità), secondo l’idea romanistica che comprendeva il lido del mare tra le res communes omnium[24], senza che si potessero accampare diritti d’uso particolare sul bene[25]. La destinazione pubblica era quindi identificata con la garanzia del godimento collettivo del bene, da cui conseguiva ulteriormente la natura infruttifera dello stesso.
In tale quadro, la possibilità di usi particolari[26], diretti a consentire lo sfruttamento economico del bene demaniale, è intesa come eccezione: sottraendo il bene all’uso generale, essa è consentita “nei modi e limiti” stabiliti dalla legge, secondo il principio codificato nell’art 823 c.c..
Il risalente Codice della navigazione (approvato con r.d. 30 marzo 1942 n. 327, di seguito cod. nav.) e il relativo regolamento di esecuzione (d.P.R. n. 328 del 1952) disciplinano un potere concessorio (attualmente dei comuni[27]) avente natura discrezionale, da esercitare “compatibilmente con le esigenze del pubblico uso” (art. 36 cod. nav.); la clausola di compatibilità evidenzia quali interessi debbano primariamente essere perseguiti dall’amministrazione titolare dell’interesse pubblico che il bene, per sua natura, è destinato a soddisfare[28].
Il turismo di massa ha poi contribuito ad alterare questa impostazione, tramite una rilettura della disciplina incline a una “applicazione del modello concessorio onde favorire … interventi di trasformazione dei litorali da parte dell’imprenditoria turistica”[29].
La disciplina recata dal cod. nav. – complice la mancanza di una definizione normativa dei “pubblici usi del mare”[30] – ha nei fatti ricevuto un’applicazione che sottende l’idea che la concessione possa indirizzare il demanio costiero alla sua funzione prioritaria attraverso la mediazione di soggetti dotati di capacità imprenditoriale e finanziaria e, quindi, in grado di predisporre le infrastrutture turistiche[31].
Tant’è che una parte della dottrina ha considerato quella dei “pubblici usi del mare” categoria aperta[32], concretizzabile in “un’imprecisata serie di interessi pubblico sociali, connessi al mare, interessi che gradualmente si evidenziano e attualizzano con l'evoluzione della realtà socio economica”[33].
La crisi della concezione tradizionale si è acuita negli anni ’90, complice la riforma del bilancio dello Stato con l’inserimento del demanio naturale tra i beni suscettibili di utilizzazione economica[34]. Per quanto la classificazione sia stata operata a fini di contabilità e non abbia modificato il regime giuridico di tali beni[35] – stante l’espressa salvezza per i beni dell’art. 822 c.c. della loro natura giuridica e del regime previsto dalle leggi vigenti[36] –, la riforma ha fornito argomenti a sostegno della compatibilità tra natura demaniale del bene e uso a fini di redditività.
Precipitato di tale evoluzione è stata la normalizzazione della concessione a fini turistici e ricreativi[37]: l’uso particolare diventa uno degli strumenti tramite cui l’ente titolare della funzione di gestione realizza la destinazione pubblica del bene, valorizzandolo in termini economici – traendone un canone – e sociali (per i riflessi occupazionali e le esternalità territoriali positive determinate dal turismo)[38]. Correlativamente, l’attività di gestione dei beni pubblici da parte dell’amministrazione è mutata da diretta in una funzione regolatoria dei rapporti concessori[39].
Questa evoluzione è stata avallata dal d.l. n. 400/1993 (conv. in l. n. 494 del 1993), il cui art. 01 ha tipizzato le concessioni per uso turistico ricreativo, codificando le attività – ulteriori rispetto a servizi pubblici e servizi e attività portuali e produttive – per le quali la concessione può essere rilasciata. L’esito è la compressione delle possibilità di esercizio degli usi generali[40], compressione che è stata aggravata, prima, dal diritto di insistenza e dal rinnovo automatico e, poi, dalle proroghe delle concessioni, secondo una logica di tipo proprietario ed escludente[41].
La domanda da porsi è se tale evoluzione conduca a un sistema dominato dalla domanda degli operatori[42] nel quale, in particolare, l’intero patrimonio costiero può essere preso in considerazione come astrattamente concedibile e, quindi, la valutazione della scarsità o meno della risorsa naturale può essere operata su dati meramente quantitativi.
È però necessario un ulteriore passaggio preliminare.
Successivamente al cod. nav. hanno trovato riconoscimento legislativo le funzioni ambientali e paesaggistiche del demanio costiero, con la conseguente necessità di comporre le varie modalità di fruizione, bilanciando i diversi interessi[43].
Dal 1985 (l. n. 431 del 1985, Legge Galasso) i territori costieri entro una fascia di 300 metri dalla linea di battigia sono sottoposti a vincolo paesaggistico ex lege (attuale art. 142, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 42 del 2004): la scelta legislativa assegna protezione giuridica ai territori costieri, preservandoli da possibili lesioni esteriori che possano intaccare la loro dimensione non solo naturalistica ma, anche, collettiva e identitaria.
Le coste sono inoltre beni ambientali produttori di servizi ecosistemici, come ad esempio riconosciuto da numerose disposizioni del Codice dell’ambiente, tra cui l’art. 56 ai sensi del quale le attività di pianificazione e programmazione finalizzate alla tutela e al risanamento del suolo e del sottosuolo, al risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto, la messa in sicurezza delle situazioni a rischio riguardano anche la protezione delle coste[44].
Nel medesimo bene si trovano quindi due componenti essenziali – ecologico naturalistica e identitaria –, non coincidenti perché fanno riferimento a interessi pubblici differenziati, entrambi valori primari ai sensi dell’art. 9 Cost. Come infatti recentemente sottolineato dal Consiglio di Stato, “(i)l valore culturale del paesaggio costiero si afferma non soltanto in ragione del dato di natura (che in sé risulterebbe tutelabile mediante strumenti diversi, calibrati sugli aspetti ambientali e naturali), ma in considerazione della valenza identitaria che le coste assumono, quali parti della “forma” del Paese e testimonianze materiali della storia millenaria di una penisola che ha avuto nelle proprie coste il crocevia delle partenze, dei ritorni e degli approdi degli uomini e delle civiltà che hanno concorso a determinare l’identità della Nazione italiana”[45].
Quanto sinteticamente accennato sulle funzioni ecologiche e paesaggistiche, sebbene non esaustivo delle plurime valenze, dimostra l’attitudine del bene in questione a esprimere utilità funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, consentendo di accostarne la funzione alla nozione di beni comuni[46].
La qualificazione come bene comune enfatizza l’aspetto funzionale del bene rispetto al profilo soggettivo della proprietà[47], e impone di non appiattire le riflessioni relative alle modalità di gestione sulla sola logica del profitto[48]. Ed è significativo che le riflessioni sui beni comuni si intensifichino temporalmente anche quale reazione alla teorizzazione che tutti i beni oggetto di proprietà pubblica sono suscettibili di utilizzazione economica[49].
Come è stato rilevato, la categoria dei beni comuni si allontana da una nozione di proprietà pubblica in cui il profilo soggettivo prevale sugli aspetti funzionali a soddisfare diritti fondamentali e che può condurre, nella logica del profitto, a ridurre accessibilità e fruibilità del bene tramite una determinazione discrezionale dell’amministrazione circa l’interesse primario da perseguire[50].
Piuttosto che beni appartenenti al soggetto pubblico in una logica dominicale, la dottrina ragiona in termini di mera imputazione al soggetto pubblico di risorse da tutelare e gestire in vista della trasmissione alle generazioni future[51], così come la giurisprudenza (tra cui Corte dei conti, Sez. giur. Veneto n. 53/2018[52], coerentemente con le prese di posizione della Cassazione sulle valli da pesca nella laguna di Venezia[53]) ne sottolinea la duplice appartenenza, da un lato, alla collettività e, dall’altro, al suo ente esponenziale, precisando di “intendere la seconda (titolarità del bene in senso stretto) come ‘appartenenza di servizio’, che è necessaria, nel senso che detto ente è tenuto ad assicurare il mantenimento delle specifiche rilevanti caratteristiche del bene e la loro fruizione pubblica e/o collettiva”[54].
4. Gestione amministrativa tra uso generale e uso particolare
Le considerazioni svolte nel paragrafo precedente rilevano nella gestione amministrativa della dialettica uso generale/uso particolare[55].
Secondo la giurisprudenza, il potere concessorio di cui all’art. 36 cod. nav. è connotato da ampia discrezionalità amministrativa, poiché “coinvolge interessi pubblici fondamentali della collettività”[56]; il relativo esercizio può esitare nella sottrazione del bene all’utilizzo generale solo in presenza di un reale beneficio alla collettività: la preferenza è per l’uso libero e generalizzato[57], con conseguente obbligo di adeguata motivazione del provvedimento concessorio. Qualificati i beni del demanio marittimo di cui all’art. 822, comma 1, c.c. come “beni pubblici puri, in quanto non rivali, né escludibili” e “naturalmente soggetti e destinati” all’uso generale della collettività sacrificabile solo per finalità pubblicistiche prevalenti, se ne deduce che “il soddisfacimento di finalità pubblicistiche costituisce … un elemento imprescindibile della concessione di beni pubblici, al punto da costituirne scopo e ragione essenziale”; in tale senso depone “l’art. 37 cod. nav., laddove, in presenza di più richieste di concessione, rimette al discrezionale giudizio dell’amministrazione la valutazione in ordine alla migliore rispondenza di un certo utilizzo anziché di un altro rispetto ad un più rilevante interesse pubblico[58], sottintendendo un complesso bilanciamento di molteplici profili di rilievo che si colgono, da un lato, con riguardo al vantaggio conseguito dalla collettività in ragione delle finalità pubbliche per il soddisfacimento delle quali il bene è concesso in uso ad altri e, dall’altro, in relazione al nocumento patito dalla medesima collettività a causa della temporanea sottrazione del bene all’uso libero e generalizzato cui è naturalmente o potenzialmente destinato”[59].
Tornando alla nozione di “scarsità della risorsa naturale”, da tali argomenti e assunti giurisprudenziali è possibile ricavare che l’eventuale disponibilità, in base a una valutazione meramente quantitativa, di aree ulteriori del demanio costiero rispetto a quelle attualmente in concessione non è argomento ex se sufficiente a rendere certo, con affermazione generalizzata e aprioristica, che dette aree ulteriori siano senz’altro concedibili e, quindi, ex se sufficiente a escludere la scarsità della risorsa naturale ai sensi della direttiva servizi.
5. La pianificazione del demanio costiero
La conclusione del precedente paragrafo è avvalorata ove si consideri il demanio costiero[60] come oggetto di pianificazione.
A seguito della delega delle funzioni di rilascio delle concessioni e – testualmente – “ai fini” dell’esercizio di tale potere, l’art. 6, comma 3, d.l. n. 400/1993 (conv. in l. n. 494/1993) ha imposto alle regioni di predisporre un piano di utilizzazione delle aree del demanio marittimo. La legge finanziaria per il 2007 ha poi disposto che le regioni con detti piani, sentiti i comuni interessati, “devono … individuare un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili”[61]: è stato quindi attribuito alla pianificazione regionale il compito di predeterminare il punto di equilibrio tra uso generale e uso particolare, con l’evidente obiettivo di salvaguardare un nucleo essenziale del primo[62].
L’esercizio della potestà legislativa regionale in materia di governo del territorio[63] ha condotto a elaborare, al riguardo, delle regole parzialmente differenziate tra regioni, risultando in alcune regioni la pianificazione articolata tra un piano regionale e piani attuativi comunali[64]. A prescindere da queste differenze, se conseguenza della pianificazione è la riduzione a valle, nel procedimento di rilascio del singolo provvedimento di concessione, della poc’anzi descritta discrezionalità, questa permane a monte nelle scelte di piano[65] e, anzi, si amplia l’orizzonte degli interessi oggetto di ponderazione: la clausola di compatibilità dell’art. 36 cod. nav., “tanto ambigua in sede di puntuale esercizio dei poteri concessori”[66], assume un ruolo più consistente in sede di pianificazione, imponendo una definizione ex ante e su più ampia scala. A seconda del contenuto, più o meno puntuale, dei piani in merito alla individuazione delle aree – e qui rilevano le scelte regionali, potendo il combinato operare del piano regionale e dei piani comunali giungere a contenere previsioni direttamente conformative delle singole aree –, potrebbero non residuare a valle margini di discrezionalità quanto alla scelta tra uso generale e uso particolare[67].
Per la Corte costituzionale[68] i piani in parola sono “destinat[i] ad assolvere, nella prospettiva della migliore gestione del demanio marittimo d’interesse turistico-ricreativo, ad una funzione schiettamente programmatoria” delle concessioni demaniali, al fine di “rendere compatibile l’offerta dei servizi turistici con le esigenze della salvaguardia e della valorizzazione di tutte le componenti ambientali dei siti costieri, onde consentirne uno sfruttamento equilibrato ed ecosostenibile”; essi “svolgono … un’essenziale funzione non solo di regolamentazione della concorrenza e della gestione economica del litorale marino, ma anche di tutela dell’ambiente e del paesaggio, garantendone tra l’altro la fruizione comune anche al di fuori degli stabilimenti balneari”[69]. Detti piani sono quindi espressione dell’acquisita consapevolezza che la zona costiera, bene comune, esprime un notevole valore non solo d'uso ma anche di lascito[70].
Ancora prima che il rinnovo automatico delle concessioni fosse messo in discussione in sede europea, in occasione del primo procedimento di infrazione[71], il giudice amministrativo ha evidenziato come esso trovasse un limite nel persistente potere dell’amministrazione di pianificare e conformare l’uso del bene “analogamente a quanto accade in ogni fenomeno ordinario di pianificazione”[72]. In termini più generali, è stato affermato che “le scelte programmatorie della pubblica amministrazione non possono essere condizionate dalla pregressa indicazione di differenti destinazioni”[73].
Secondo una tesi recentemente sostenuta dalla dottrina, l’art. 6 d.l. n. 400 del 1993 avrebbe inoltre introdotto un presupposto necessario per la concedibilità di aree del demanio costiero, incidendo sui modi e limiti in cui il bene può essere oggetto di diritti di terzi ai sensi dell’art. 823 c.c.[74]: dal fatto che l’uso generale è la naturale destinazione di tali beni e dalla constatazione che dalla normativa successiva al codice civile non è evincibile una modifica del regime giuridico del demanio necessario che consenta di considerare non più un’eccezione l’uso particolare del bene, la dottrina in questione fa conseguire che, in assenza di un piano che specifichi la modalità di fruizione della singola area, rimane ferma la destinazione all'uso generale e l’area non può essere oggetto di diritti dei terzi.
Tale interpretazione del ruolo della pianificazione di settore porta alle estreme conseguenze la condivisibile ratio sottesa alla previsione di un piano di settore: allontanare le scelte sulle modalità di fruizione del bene dalla visione episodica della singola vicenda concessoria per inserirla in una visione ex ante e di insieme del territorio[75], in reazione al sistema derivato dal cod. nav. in cui la concessione ha assunto il ruolo di unico strumento di amministrazione delle risorse demaniali costiere dando luogo a un'amministrazione (non a un governo) “disorganica e puntiforme”[76].
Coerentemente a tale ratio, l’effetto di preclusione connesso alla mancanza del piano di utilizzazione è espressamente previsto in alcune regioni, come il Lazio[77] o la Sicilia[78], e allora è indiscutibile. Con riferimento a tali ipotesi il Consiglio di Stato ha anche escluso che la subordinazione del rilascio della concessione alla previa programmazione leda l’iniziativa economica privata perché rinviata sine die, considerato che, a fronte dell’eventuale inerzia dell’amministrazione nell’osservanza dell’obbligo di pianificazione, l’ordinamento appresta il rimedio del ricorso avverso il silenzio[79].
Con riferimento ai casi in cui tale preclusione sia espressamente prevista a livello regionale, è inoltre di particolare interesse la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 108 del 2022, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 9 Cost., di una disposizione regionale che, in deroga al divieto di nuove concessioni nei comuni sprovvisti del piano di utilizzazione del demanio marittimo imposto da una legge regionale precedente, consentiva, nel periodo dell’emergenza pandemica, di adottare provvedimenti concessori anche in assenza di piano, in tale modo finendo col determinare un abbassamento del livello di tutela dell’ambiente e del paesaggio. Tale abbassamento del livello di tutela non è giudicato illegittimo in sé, ma irragionevole non essendo diretto a tutelare interessi aventi pari rilevanza all’ambiente o al paesaggio (valori primari), quanto piuttosto gli interessi degli aspiranti alle nuove concessioni[80].
Va peraltro rilevato che, al di fuori delle ipotesi in cui sia espressamente previsto dalla disciplina regionale, la giurisprudenza non riconosce un effetto preclusivo all’esercizio del potere concessorio alla mancanza del piano[81], tradendo, a giudizio di chi scrive, il tenore letterale del citato art. 6 che collega espressamente (“ai fini”) all’esercizio del potere concessorio le prescrizioni conformative dei piani di settore.
Ad ogni modo, la previsione di una programmazione degli usi del demanio costiero costituisce ulteriore dimostrazione dell’erroneità di una valutazione meramente quantitativa di aree libere ai fini della verifica della sussistenza della condizione della scarsità.
Della complessità e della molteplicità dei valori che contraddistinguono il demanio costiero e della imprescindibilità di una programmazione degli usi sono emblematici gli obiettivi della gestione integrata delle zone costiere (GIZC)[82]: favorire lo sviluppo sostenibile delle zone costiere attraverso una pianificazione razionale delle attività, in modo da conciliare lo sviluppo economico, sociale e culturale con il rispetto dell’ambiente e dei paesaggi; preservare le zone costiere a vantaggio delle generazioni presenti e future; garantire l’utilizzo sostenibile delle risorse naturali; assicurare la conservazione dell’integrità degli ecosistemi, dei paesaggi e della geomorfologia del litorale; prevenire e/o ridurre gli effetti dei rischi naturali e, in particolare, dei cambiamenti climatici; conseguire la coerenza tra iniziative pubbliche e private e tra tutte le decisioni adottate da pubbliche autorità, a livello nazionale, regionale e locale, che hanno effetti sull’utilizzo delle zone costiere[83]. Tra i conseguenti pilastri su cui la gestione integrata delle zone costiere è fondata vi è l’esigenza che ogni decisione sia informata a una preventiva verifica della capacità di carico delle zone costiere, e quindi sulla conoscenza e valutazione anticipata degli effetti, garantendo un orizzonte di sostenibilità alle diverse attività antropiche che si concentrano nella fascia litoranea[84]. Da tanto consegue anche la necessità di adeguare al nuovo assetto valoriale i tradizionali strumenti di amministrazione, tra cui le concessioni a uso turistico ricreativo, subordinando lo sfruttamento turistico alla verifica della capacità di carico del tratto costiero interessato[85].
6. La scarsità delle risorse naturali secondo l’Adunanza plenaria: critica e rischio di una confutazione basata, a sua volta, su dati meramente quantitativi
Le peculiarità risultanti dalla specifica disciplina nazionale del demanio costiero, sopra descritte, non sono prese in considerazione dalla Corte di giustizia (del resto, il giudice europeo, per quanto riguarda l’interpretazione delle disposizioni del diritto nazionale, si basa sulle qualificazioni risultanti dalle decisioni di rinvio[86]), né dall’Adunanza plenaria nelle sentenze nn. 17 e 18 del 2021, incentrate sulla compatibilità delle proroghe ex lege al principio della concorrenza.
Come la Corte di giustizia (ma anche l’ANAC[87]), l’Adunanza plenaria ha adottato una prospettiva funzionalistica, rilevando che “il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale … ad un operatore economico, consentendo a quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un’attività d’impresa … va considerato, nell’ottica della direttiva 2006/123, un’autorizzazione …”; ha aggiunto che si tratta di autorizzazione contingentata, con conseguente applicazione dell’art. 12 della direttiva Bolkestein[88].
Per l’Adunanza plenaria la scarsità delle risorse naturali va considerata “in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della quantità del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza, della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti”; nel considerare l’entità delle aree potenzialmente ancora concedibili al fine di valutare se il regime di proroga ex lege possa creare una barriera all’ingresso di nuovi operatori, l’Adunanza plenaria, valorizzando la capacità attrattiva del patrimonio costiero nazionale complessivamente inteso, i dati forniti dal Sistema informativo del demanio sull'occupazione delle coste sabbiose in Italia, la circostanza che in alcune regioni sia previsto un limite quantitativo massimo di costa concedibile (nella maggior parte dei casi coincidente con la percentuale già assentita), ha concluso nel senso della scarsità.
La scarsità è stata dunque affermata sulla base di un dato quantitativo generale nazionale, esponendo l’Adunanza plenaria alle critiche che hanno evidenziato, tra l’altro, come dovrebbero essere le singole amministrazioni comunali, competenti a gestire il demanio e a indire le procedure di evidenza pubblica, a stabilire quando nel loro territorio ci si trovi dinanzi a risorse scarse[89].
Il ragionamento seguito dall’Adunanza plenaria apre al rischio di confutazioni della indisponibilità fondate anch’esse - esattamente come l’assunto da confutare - su dati nazionali quantitativi (come i primi esiti del lavoro istruttorio del Tavolo tecnico inducono a pensare[90]).
L’iter argomentativo del supremo consesso si confarebbe, piuttosto, a un sistema “a domanda”[91], che i profili trattati in precedenza conducono però a escludere.
A conclusioni analoghe in punto di scarsità si può pervenire, piuttosto, attraverso un percorso argomentativo che, considerata la specificità di questi beni e il quadro normativo di riferimento, tenga conto: - della peculiare natura del demanio costiero e della naturale destinazione all’uso generale, mentre l’uso particolare è rimesso a valutazioni ampiamente discrezionali e, quindi, non prevedibili (considerazione che incide nella valutazione della disponibilità di aree ulteriori, rendendola impossibile ove operata in via generale e astratta e in assenza dei piani di settore prescritti); della pianificazione degli usi del demanio marittimo, ove esistente, quale strumento deputato ad attestare l’esistenza di aree ulteriori rispetto a quelle oggetto di concessione[92], e la cui mancanza, secondo qualificata dottrina[93], impedirebbe l’esercizio stesso del potere concessorio.
La recente (16 gennaio 2024) Lettera di risposta fornita dal governo italiano al Parere motivato della Commissione europea reso nell’ambito della procedura di infrazione avviata nel 2020[94] mostra di adottare, invece, una prospettiva radicalmente opposta laddove, a fronte della necessità rilevata dalla Commissione di considerare il limite quantitativo massimo di costa concedibile stabilito con legge in molte regioni e di escludere le aree non passibili di concessione dai criteri di valutazione sulla disponibilità di risorsa, replica che è necessario mantenere distinti due momenti del processo regolatorio, quali la fase di rilevazione dei tratti di costa astrattamente destinabili allo svolgimento di attività economica a scopo turistico-ricreativo e la fase di esercizio delle scelte relative alla destinazione effettiva ad attività economiche delle aree disponibili.
7. Considerazioni conclusive
L’analisi svolta conferma l’impellente necessità di una regolamentazione del settore, diretta sia a fornire certezza giuridica agli operatori e agli attuali concessionari (la tutela degli investimenti dei quali esula dal tema delle presenti note, ma si pone con altrettanta urgenza), sia a rendere effettive sul piano normativo le peculiarità del demanio costiero. In una dialettica tra uso generale e particolare rispettosa della funzione del demanio, l’uso generale (garantito e prioritario) può aprire a esperienze di gestione proprie dei beni comuni; per le aree per le quali sia pianificato un uso particolare, la concorrenza, adeguatamente regolamentata, può essere un moltiplicatore di utilità comuni. Se, in relazione alla natura ex se scarsa della risorsa qui sostenuta, il principio della concorrenza va rispettato, è infatti altrettanto doveroso non ridurre la disciplina delle concessioni alla stregua di un mero rapporto economico dominato dalla regola della concorrenza (intesa come “valore tiranno”[95]), tenendo in debita considerazione anche le esigenze connesse alla natura di tali beni: la direttiva Bolkestein lascia del resto agli Stati membri (par. 3 dell’art. 12) la possibilità di organizzare le procedure bilanciando i numerosi interessi pubblici in gioco, come la tutela delle identità culturali, la peculiarità dei tratti costieri e le esigenze di salvaguardia ambientale, o altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario.
Allo stato attuale, nulla è previsto in merito ai criteri della selezione, risultando troppo generico, in relazione alle plurime valenze del bene in questione, quanto indicato all’art. 37 cod. nav. (che indica i criteri dell’uso più proficuo e rispondente a un più rilevante interesse pubblico)[96] o il richiamo nell’art. 13, comma 5, Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36 del 2023), per i contratti attivi che offrono opportunità di guadagno economico, dei principi generali di cui agli artt. 1, 2 e 3[97].
La laconicità delle norme vigenti apre al contenzioso[98] e non garantisce che la selezione possa diventare essa stessa strumento di gestione attiva del demanio funzionale a orientare l’utilizzo da parte del concessionario dei diritti di esclusiva verso il perseguimento degli interessi pubblici sottesi alla demanialità stessa del bene pubblico.
Su tale ultima linea si poneva, invece, la Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021[99], che, nel delegare il governo ad adottare, nel termine inutilmente scaduto di sei mesi, uno o più decreti legislativi in materia di affidamento delle concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative e sportive (art. 4), elencava tra le finalità quelle di assicurare un più razionale e sostenibile utilizzo del demanio marittimo, lacuale e fluviale, favorirne la pubblica fruizione e promuovere, in coerenza con la normativa europea, un maggiore dinamismo concorrenziale, nel rispetto delle politiche di protezione dell'ambiente e del patrimonio culturale[100].
Con riguardo alle aree in concessione, la delega mirava ad assicurare un’adeguata considerazione dei vari interessi pubblici implicati dalla materia, dovendo la riforma prevedere in sede di affidamento della concessione la valorizzazione di “obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori, della protezione dell'ambiente e della salvaguardia del patrimonio culturale”, riproducendo le clausole di carattere generale menzionate nel paragrafo 3 dell’art. 12 della direttiva. Tra i principi e criteri direttivi vi era la determinazione di criteri omogenei per l'individuazione delle aree suscettibili di affidamento in concessione, assicurando l'adeguato equilibrio tra le aree demaniali in concessione e le aree libere o libere attrezzate[101].
Nell’ottica della protezione dell’ambiente e del patrimonio culturale, la delega mirava ad assicurare il minimo impatto sul paesaggio, sull’ambiente e sull’ecosistema, stabilendo una preferenza per i programmi di intervento con un utilizzo responsabile di attrezzature non fisse e completamente amovibili. Rilevante era anche la destinazione di una quota del canone a interventi di difesa delle coste e del relativo capitale naturale e di miglioramento della fruibilità delle aree demaniali libere. Era inoltre valorizzata la dimensione sociale della sostenibilità, in relazione alla struttura economica prevalente dell’impresa balneare italiana tradizionale rappresentata dalla micro-dimensionalità imprenditoriale. In ordine alla tutela dei lavoratori del settore, la riforma avrebbe dovuto prevedere clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato nell’attività del concessionario uscente.
Ai fini della scelta del concessionario, avrebbero dovuto essere valutate la qualità e le condizioni del servizio offerto agli utenti alla luce del programma di interventi indicati dall’offerente per migliorare l’accessibilità e la fruibilità del demanio anche da parte dei soggetti con disabilità. Era poi rivolta attenzione all’altrettanto importante esigenza di tutela dei concessionari uscenti tramite la previsione di un indennizzo[102].
I ritardi del legislatore hanno comportato che l’attenzione sulle concessioni si sia focalizzata quasi esclusivamente sul profilo economico e della concorrenza, trascurando la complessità di questi beni e l’esigenza di approdare a un regime delle concessioni in grado di ritrovare la funzione pubblica del demanio costiero, per la quale la previa pianificazione e la disciplina delle selezioni risultano essere fondamentali.
[1] Tra i molteplici contributi, senza alcuna pretesa di esaustività, si ricordano i contributi pubblicati nel fascicolo dedicato di Dir. e soc., 2021, n. 3 (M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria; F. Ferraro, Diritto dell’Unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria?; G. Morbidelli, Stesse spiagge, stessi concessionari?; M. Gola, Il Consiglio di Stato, l’Europa e le “concessioni balneari”: si chiude una – annosa – vicenda o resta ancora aperta?; R. Dipace, L’incerta natura giuridica delle concessioni demaniali marittime: verso l’erosione della categoria; M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria; E. Lamarque, Le due sentenze dell’Adunanza plenaria… le gemelle di Shining?; R. Rolli, D. Sammarro, L’obbligo di “disapplicazione” alla luce delle sentenze n. 17 e n. 18 del 2021 del Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria); E. Zampetti, La proroga delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa tra libertà d’iniziativa economica e concorrenza. Osservazioni a margine delle recenti decisioni dell’Adunanza Plenaria; G. Iacovone, Concessioni demaniali marittime tra concorrenza e valorizzazione; M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?; P. Otranto, Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela; B. Caravita di Toritto, G. Carlomagno, La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma); nonchè i contributi nel volume M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole. Progressi, problemi, prospettive, Milano, 2023; G. Greco, La Corte di giustizia ritorna sulle concessioni balneari precisandone le regole: problemi superati e problemi ancora aperti in sede di applicazione nazionale del diritto UE, in Federalismi.it, 14 giugno 2023; C. Volpe, Concessioni demaniali marittime: un’ulteriore puntata di una storia infinita, in www.giustizia-amministrativa.it, 26 aprile 2023; A. Cossiri (a cura di), Coste e diritti. Alla ricerca di soluzioni per le concessioni balneari, Macerata, 2022; Id., Tutela del patrimonio naturale culturale e la gestione delle spiagge: l’annosa vicenda delle concessioni demaniali ad uso turistico, in A. Caligiuri, M. Ciotti (a cura di), Sostenibilità ambientale e gestione del patrimonio culturale marittimo. Riflessioni e proposte, Napoli, 2023, 59; M.C. Girardi, Nel “mare magnum” delle proroghe. Riflessioni a partire dalle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, in Osservatorio AIC, 2022, 2, 254; R. Dipace, Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia, in www.giustiziainsieme.it, 14 ottobre 2022; F. Di Lascio, Le concessioni di spiaggia tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, in Dir. amm., 2022, 1037; A. Cutolo, Concessioni demaniali: indennizzo o punteggio maggiorato al concessionario uscente? Le scelte del legislatore ad un anno dalle sentenze gemelle dell'Adunanza plenaria, in Riv. giur. edil., 2022, 527; B. Caravita, G. Carlomagno, “La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma”, Federalismi.it, 2021; F. Gaffuri, La disciplina nazionale delle concessioni demaniali marittime alla luce del diritto europeo, in CERIDAP, 2021, 3, 37; M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia Profili procedimentali e contenutistici delle concessioni balneari, Torino, 2020; M. Conticelli, Il regime del demanio marittimo in concessione per finalità turistico-ricreative, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 4, 1071; C. Benetazzo, Il regime giuridico delle concessioni demaniali marittime tra vincoli U.E. ed esigenze di tutela dell’affidamento, in Federalismi.it, 28 dicembre 2016; L. Longhi, Concessioni demaniali marittime e utilità sociale della valorizzazione del patrimonio costiero, in Riv. corte conti, 2019, 1, 184; A. Lucarelli, L. Longhi, Le concessioni demaniali marittime e la democratizzazione della regola della concorrenza, in Giur. cost., 2018, 1251.
[2] Il contributo, prendendo spunto dalle sentenze del TAR Puglia, Lecce, 2 novembre 2023, nn. 1223 e 1224, ripropone le considerazioni svolte nella relazione Demanio costiero tra concorrenza e uso generale: la “scarsità della risorsa naturale, al convegno “Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici. Il demanio marittimo, da demanio necessario a bene comune. Il caso Napoli”, Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli, 26 ottobre 2023, in occasione del quale è stato presentato il libro di A. Abbruzzese, Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici. Il demanio marittimo, da demanio necessario a bene comune - Il caso Napoli, Napoli, 2023.
[3] In argomento C. Burelli, Le concessioni demaniali turistico-ricreative e il requisito della “scarsità delle risorse naturali” ex art. 12, par. 1, della direttiva servizi nella più recente giurisprudenza della Corte di giustizia, in BlogDUE, 10 settembre 2023. Cfr., inoltre, E. Scotti, Il regime delle spiagge nell’era del ritorno dello Stato: pensieri (eterodossi) per un cambio di paradigma, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, cit., 149.
[4] TAR Lazio, Roma, Sez. II, 15 gennaio 2021, n. 616 (“la risorsa naturale si caratterizza sotto il profilo della scarsità poiché le aree che possono essere oggetto di tale sfruttamento economico sono in numero limitato e ha carattere escludente in quanto preclude, una volta concesso l’uso, la possibilità che lo stesso bene possa essere sfruttato economicamente da altri operatori”); TAR Toscana, Firenze, Sez. II, 8 marzo 2021, n. 363 (“le spiagge sono beni naturali il cui numero è ontologicamente limitato, appunto in ragione della scarsità delle risorse naturali”); TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 18 febbraio 2019, n. 307 (secondo cui l’utilizzazione del demanio marittimo “è intrinsecamente limitata”). La questione dell’applicabilità dell’art. 12 della Direttiva servizi si pone in termini analoghi e altrettanto urgenti con riguardo alle concessioni di posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche, su cui Cons. Stato, Sez. VII, 19 ottobre 2023, n. 9104 che, a proposito della scarsità della risorsa, rileva: “le attività di commercio su aree pubbliche… in analogia con il demanio marittimo, esibiscono il connotato dalla scarsità la quale ai sensi del più volte richiamato art. 12 della direttiva servizi giustifica la selezione “per il mercato”, in cui l'accesso al settore economico avvenga mediante procedure ad evidenza pubblica. .... In entrambi i casi l'attività economica è consentita solo attraverso l'utilizzo del bene pubblico, il quale pertanto, sulla base della sua naturale limitatezza, giustifica la selezione degli operatori economici mediante criteri obiettivi e trasparenti, propri dell'evidenza pubblica” (il corsivo è di chi scrive).
[5] TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 3 febbraio 2021, n. 40 (“la circostanza che vi siano altre porzioni di spiaggia libera …, pur suggestiva, non può assumere rilievo dirimente, atteso che le concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative hanno come oggetto un bene/servizio che è ontologicamente “limitato” nel numero e nell'estensione a causa appunto della scarsità delle risorse naturali, poiché la spiaggia è un bene pubblico demaniale comunque limitato nell'estensione; - la scarsità, cioè, non viene meno perché una parte del tutto non è stata ancora assegnata, in quanto è un connotato che riguarda il bene nel suo complesso, che è appunto limitato nello spazio e dunque non accessibile astrattamente a tutti, e perciò la sua assegnazione deve rispettare il principio di concorrenza”); TAR Calabria, Reggio Calabria, 13 giugno 2022, n. 424; Cons. Stato, Sez. VI, 1 marzo 2023, n. 2192.
[6] Cass., Sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559 ha cassato, con rinvio al Consiglio di Stato, per diniego di giurisdizione la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 18/2021, affermando che costituisce “motivo di giurisdizione”, deducibile avverso una sentenza del Consiglio di Stato sotto forma di diniego o rifiuto della tutela giurisdizionale, quello con cui si denuncia che il giudice amministrativo ha dichiarato, in via pregiudiziale, inammissibile l’intervento di un ente portatore di un interesse collettivo o di un ente territoriale, senza esaminare in concreto il contenuto dei loro statuti o senza valutare la loro concreta capacità di farsi portatori degli interessi della collettività di riferimento. Successivamente TAR Lazio, Roma, Sez. V-ter, 15 dicembre 2023, n. 19051, sul rilievo che la Cassazione non ha affrontato il tema della proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime, profilo assorbito dall’accoglimento del primo motivo di ricorso, ha ritenuto che restino fermi i principi espressi dall’Adunanza plenaria, “che riflettono gli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia e dalla consolidata giurisprudenza nazionale”.
[7] TAR Lazio, Roma, Sez. V-ter, 15 dicembre 2023, n. 19051. La nozione di scarsità della risorsa naturale non è trattata nemmeno dalla Corte costituzionale; la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni regionali che, non prevedendo procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, determinavano un ostacolo all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato, stante la competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e), Cost.) e il contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia (tra le altre, Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 40; 29 gennaio 2021, n. 10).
[8] A. Paiano, Il ruolo dell’amministrazione e del giudice nelle concessioni demaniali marittime: necessità di una valorizzazione, in A. Cossiri (a cura di), Coste e diritti. Alla ricerca di soluzioni per le concessioni balneari, cit., 199.
[9] L’AGCM aveva notificato parere ex art. 21 l. n. 287/1990, sollecitando l’espletamento di procedure di evidenza pubblica, al fine di garantire il rispetto dei principi di concorrenza e di libertà di stabilimento, disapplicando la normativa nazionale di proroga. Stante il mancato adeguamento comunale, l’AGCM ha impugnato gli atti indicati nel testo.
[10] TAR Puglia, Lecce, Sez. I, ord. 11 maggio 2022, n. 743, per un commento alla quale si v. M. Timo, Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso (nota a T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, ordinanza 11 maggio 2022, n. 743), in Giustiziainsieme.it, 2022; C. Burelli, Un nuovo (discutibile) capitolo della saga “concessioni balneari”: il TAR Lecce investe la Corte di giustizia di un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, in BlogDUE, 30 maggio 2022.
[11] Su cui: A. Persico, Concessioni balneari: interviene la Corte di giustizia, a conferma della posizione dell’Adunanza Plenaria. (Nota a Corte di giustizia, Sez. III, sentenza 20 aprile 2023, in causa C-348/22), in Giustiziainsieme.it, 27 luglio 2023; D. Diverio, Nulla di nuovo… sotto il sole? Qualche considerazione a prima lettura sulla sentenza della Corte di giustizia nella causa AGCM c. Comune di Ginosa, in AA.VV., Quaderni AISDUE, Napoli, 2023, 1, 205. Cfr., inoltre, C. Burelli, Le concessioni demaniali turistico-ricreative e il requisito della “scarsità delle risorse naturali”, cit.; C. Curti Gialdino, La sentenza della Corte di giustizia europea del 20 aprile 2023 in tema di concessioni balneari. Spunti critici e proposte per chiudere una storia infinita, in Ordine internazionale e diritti umani, 2023, 455.
[12] Corte di giustizia, 14 luglio 2016, C-458/14 e C‑67/15, Promoimpresa e Melis, per un commento alla quale si v. G. Bellitti, La direttiva Bolkenstein e le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali, in Giorn. dir. amm., 2017, p. 60; E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, in Urb. e app., 2016, 1217.
[13] In argomento, a dimostrazione dell’incertezza determinata dalle due pronunce, cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 23 novembre 2023, n. 10050 che, da un lato, richiama le sentenze nn. 17 e 18 dell’Adunanza plenaria e, dall’altro lato, richiamando CGUE Promoimpresa, rileva che “ai fini di stabilire l’entità della risorsa in questione occorre aver riguardo alla situazione del territorio comunale”.
[14] TAR Puglia, Lecce, n. 1224/2023, punto 6.
[15] TAR Puglia, Lecce, n. 1224/2023, punto 8.
[16] CGUE Ginosa: “78. A tal riguardo, occorre precisare che l'indicazione contenuta al punto 43 della sentenza del 14 luglio 2016, Promoimpresa e a. (C-458/14 e C-67/15, EU:C:2016:558), secondo la quale spettava al giudice nazionale verificare se il requisito relativo alla scarsità delle risorse naturali, previsto dall'articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123, fosse soddisfatto, non può significare che solo i giudici nazionali siano tenuti a verificare la sussistenza di tale requisito. Infatti, allorché il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività è limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili, ogni amministrazione è tenuta ad applicare, in forza di tale disposizione, una procedura di selezione tra i candidati potenziali e a garantire che tutte le condizioni previste da detta disposizione siano rispettate, disapplicando, se del caso, le norme di diritto nazionale non conformi”.
[17] CGUE Ginosa, punto 64. Precedenti in termini sono: 8 marzo 2022, Bezirkshauptmannschaft Hartberg-Fürstenfeld, C-205/20, punto 19; 14 gennaio 2021, RTS, C-387/19, punto 47; 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C‑397/01 a C‑403/01. Diversamente, quando la discrezionalità riservata agli Stati membri nell’attuazione di una disposizione è “ampia”, è preclusa la diretta efficacia della norma: CGUE 4 ottobre 2018, causa C-384/17, Link Logistic, punti 47-56.
[18] CGUE Ginosa, punto 65.
[19] Cfr. D. Diverio, Nulla di nuovo… sotto il sole? Qualche considerazione a prima lettura sulla sentenza della Corte di giustizia nella causa AGCM c. Comune di Ginosa, cit.
[20] Cfr. C. Burelli, Le concessioni demaniali turistico-ricreative e il requisito della “scarsità delle risorse naturali” ex art. 12, par. 1, della direttiva servizi nella più recente giurisprudenza della Corte di giustizia, per la distinzione tra scarsità assoluta, relativa e “di destinazione”.
[21] In argomento J. Wolswinkel, The allocation of a limited number of authorisations. Some general requirements from European law, (September 29, 2009), https://ssrn.com/abstract=1934152 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.1934152, 18: (a) notion of scarcity is that of absolute scarcity. According to this definition, goods are scarce if their quantity has a finite physical limit (and cannot be extended by human intervention) …When considering scarcity of available natural resources within the meaning of Article 12, the notion of absolute scarcity seems most relevant. …. Nevertheless, the notion of relative scarcity remains important for the application of Article 12 as well. If some natural resource can be used for several applications, administrative authorities should decide which quantity of the resource is available for which application: the greater the quantity of a natural resource given for a certain application, the smaller the quantity left for other applications … Therefore, the mere fact that more quantity of some natural resource could have been available for a certain application (even up to the level of satisfaction), does not take away the presence of scarcity if insufficient quantity of this resource had been left for other applications. In such a situation, it could be argued that the condition of scarcity in the meaning of Article 12 would be fulfilled as well”.
[22] In argomento M. Gnes, Le spiagge e le coste: problema o risorsa?, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, cit., 13.
[23] F. Cammeo, Demanio (voce), in Dig. It., IX, Torino 1989, 881.
[24] A. Abbruzzese, Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici, cit., 29; E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1219.
[25] In argomento M. Olivi, Beni demaniali ad uso collettivo. Conferimento di funzioni e privatizzazione, Padova, 2005, 69 ss.
[26] G. Colombini, Lido e spiaggia (voce), in Dig. disc. pubbl., 1994, IX, 262. Sulla distinzione tra uso diretto, uso promiscuo, uso generale e uso particolare dei beni pubblici si v. A. Police, I beni di proprietà pubblica, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2014, 518-519.
[27] Per effetto del d.P.R. n. 616/1977 (art. 59) e, poi, del d.lgs. n. 112/1998 (art. 105), le funzioni amministrative, tra cui il rilascio delle concessioni, sono state conferite alle regioni. L’art. 42 d.lgs. n. 96/1999 ha poi previsto che le funzioni di cui al citato art. 105 siano esercitate dai comuni. In argomento M. Conticelli, Effetti e paradossi dell'inerzia del legislatore statale nel conformare la disciplina delle concessioni di demanio marittimo per finalità turistico-ricreative al diritto europeo della concorrenza, in Giur. cost., 2020, 2475.
[28] F. Francario, Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità, in Giustizia insieme, 16 novembre 2021.
[29] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1219.
[30] I pubblici usi del mare sono richiamati ma non definiti agli artt. 33, 35 e 42 del Codice della navigazione. In argomento M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione, cit., 553; M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia, cit., 74.
[31] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1219; M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, cit., 15.
[32] Su tale evoluzione ampi riferimenti dottrinari in M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia Profili procedimentali e contenutistici delle concessioni balneari, cit., 74.
[33] M.L. Corbino, Il demanio marittimo. Nuovi profili funzionali, Milano, 1990, 30-31.
[34] L. 3 aprile 1997, n. 94 e d.lgs. 7 agosto 1997, n. 279.
[35] F. Francario, Il demanio costiero, cit.; A. Giannelli, Beni sfruttabili o consumabili: demanio marittimo e porti, in Federalismi.it, 16 novembre 2016, 9.
[36] Art. 14, commi 1 e 2, d.lgs. n. 279 del 1997.
[37] S. Villamena, Concessioni demaniali marittime e concorrenza. (Profili ricostruttivi e modalità operative), in G. Lami, C. A. Nebbia Colomba, S. Villamena, Le concessioni demaniali marittime, Padova, 2010, 87 (spec. nota 104); M. Gnes, Le spiagge e le coste: problema o risorsa?, cit., 14.
[38] In argomento A. Giannelli, Beni sfruttabili o consumabili: demanio marittimo e porti, cit.; G. Colombini, Lido e spiaggia (voce), cit., 272. Cfr. Corte dei Conti, Sez. giur. per il Veneto, 16 aprile 2018, n. 53, che, nel trattare questioni concernenti l’entità del canone, ha rilevato: “L’ampliarsi dell'attività gestionale dei beni pubblici da parte della pubblica amministrazione in funzione regolatoria dei rapporti concessori ha determinato, sotto altro profilo, un assetto ordinamentale per cui la funzione del bene demaniale da finale diviene strumentale ed il bene demaniale assume il carattere di strumento per la produzione di utilità economiche per un privato imprenditore: la concessione, in quest'ottica, costituisce il mezzo tipico di valorizzazione del bene, cui deve necessariamente corrispondere, in capo al concedente, l'accrescimento patrimoniale correlata all'utilità tratta dal privato in applicazione del principio di proporzionalità”.
[39] M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili, cit., 452.
[40] Se “La concessione non muta la destinazione del bene”, essa postula, infatti, “un significativo affievolimento delle possibilità di uso generale da parte della collettività”: E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1222.
[41] In argomento A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, in Dirittifondamentali.it, 14 maggio 2019, 8.
[42] In argomento E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1220.
[43] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1219.
[44] L. Di Giovanni, Il ruolo della pianificazione paesaggistica nella difesa delle coste italiane, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, cit., 91.
[45] Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2023, n. 2559.
[46] In argomento, tra i più recenti contributi, A. Abbruzzese, Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici, cit., 56; G. Iacovone, Concessioni demaniali marittime tra concorrenza e valorizzazione, cit., 542; R. Palliggiano, Verso la “ridestinazione collettiva” del demanio marittimo: dal principio di evidenza pubblica alla categoria dei beni comuni, in A. Cossiri (a cura di), Coste e diritti. Alla ricerca di soluzioni per le concessioni balneari, cit., 227.
[47] Tra i molti contributi, V. Cerulli Irelli, Diritto pubblico della proprietà e dei beni, Torino, 2022, 177; L. Longhi, Concessioni demaniali marittime e utilità sociale della valorizzazione del patrimonio costiero, cit., 185; A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, cit.
[48] A. Lucarelli, Beni comuni. Contributo per una teoria giuridica, in Costituzionalismo.it, 2014, 3.
[49] In argomento cfr. le considerazioni svolte F. Francario, Il demanio costiero, cit.: “la quintessenza della demanialità necessaria (la proprietà pubblica come garanzia di usi non commerciali dei beni necessari per la collettività) è stata fatta uscire dalla porta ma è stata fatta poi rientrare dalla finestra teorizzando la sottrazione alla proprietà pubblica del nucleo di beni che devono per natura ritenersi extra commercium”.
[50] A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, cit.,
[51] Sulla necessità di riconsiderare l’oggetto stesso della demanialità, “da assumere non alla stregua di un bene rilevante in quanto suscettibile di assicurare utilità secondo dinamiche economiche, bensì quale porzione di un vulnerabile comparto ambientale di scambio terramare, produttivo di servizi ecologici (e culturali) a fruizione indivisa”, E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1220, osserva che “Più che di un rapporto di appartenenza è invece preferibile parlare di una mera imputazione al soggetto pubblico: una imputazione avente ad oggetto risorse che vanno doverosamente tutelate e gestite nella prospettiva prioritaria della loro preservazione di lungo periodo e trasmissione alle generazioni future, con conseguente imperativo di armonizzazione delle logiche dello sfruttamento con quelle della conservazione”.
[52] Corte dei Conti, Sez. giur. per il Veneto, 16 aprile 2018, n. 53.
[53] Cass. civ., Sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665.
[54] In argomento A. Abbruzzese, Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici, cit., 24 ricostruisce la categoria giuridica dei beni pubblici, ripristinando la distinzione tra questi e proprietà pubblica offuscata a causa della visione proprietaria-privatistica della pandettistica tedesca del bene pubblico, per poi riassegnare alla categoria del demanio marittimo la sua originaria funzione di dominio collettivo, accessibile a tutti e inappropriabile in via esclusiva (50); la proprietà pubblica, infatti, fondata sul concetto di appropriazione, si è sovrapposta al modello demaniale e non tiene conto della funzione sociale del bene pubblico, usandolo per soddisfare gli interessi del dominus (p.A.) anziché le esigenze della communitas: in tale ottica il bene è legato alla funzione che il dominus intende attribuirgli, configurando rapporti escludenti. Sulla distinzione tra lo statuto pubblicistico e quello privatistico della proprietà nella Costituzione, cfr. G. Della Cananea, Le concessioni del demanio marittimo: un mutamento di prospettiva, cit., 24-25 e 31.
[55] Di dialettica tra uso generale e uso particolare si occupa A. Giannelli, Beni sfruttabili o consumabili: demanio marittimo e porti, cit.
[56] Cons. Stato, Sez. VII, 11 agosto 2023, n. 7751. Cfr., inoltre, Cons. Stato, Sez. VI, 7 marzo 2016, n. 892 (“in sede di valutazione dell'interesse demaniale, cioè dell'interesse pubblico che il bene non sia sottratto al suo normale uso generale (pubblico ex art. 36 cod. nav.), l'amministrazione può considerare e valutare tutti gli interessi pubblici specifici che, insorgenti dalla dimensione territoriale del bene, interferiscono sull'uso individuale a base della richiesta di concessione; questa, proprio in quanto viene considerata eccezionale, deve essere del tutto compatibile con l'intero spettro delle esigenze pubblicistiche gravanti sul territorio in cui ricade l'area oggetto della richiesta concessione”; non rileva nemmeno “in senso ostativo all'esercizio da parte dell'Amministrazione del suo potere di scegliere la destinazione del bene demaniale la circostanza che lo stesso sia stato precedentemente oggetto di concessione demaniale. Non vi è dubbio, infatti, che alla scadenza della concessione l'Amministrazione possa rinnovare la valutazione dell'interesse pubblico e ritenere preferibile destinare il bene al libero uso della collettività, piuttosto che rinnovare la concessione”).
[57] Cfr., anche, Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 2018, n. 1296.
[58] L’art. 37 cod. nav. (“Concorso di più domande di concessione”) dispone che “Nel caso di più domande di concessione, è preferito il richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di questa per un uso che, a giudizio dell'amministrazione, risponda ad un più rilevante interesse pubblico”.
[59] Cons. Stato, Sez. VII, 11 agosto 2023, n. 7751, cit., che aggiunge: “poiché siffatta valutazione è ampiamente discrezionale, la decisione dell’Amministrazione, limitatamente a siffatto profilo, è censurabile soltanto in caso di illegittimità per manifesta o macroscopica contraddittorietà o irrazionalità della motivazione”. Nel caso in esame, il Comune di Porto Cesareo aveva ritenuto maggiormente utile per la collettività il libero utilizzo del bene demaniale rispetto al rilascio della concessione richiesta da un operatore, valorizzando all’uopo due elementi, ossia la vicinanza dell’area al centro abitato e il tradizionale uso pubblico della spiaggia per la libera fruizione e balneazione. Questa motivazione rende la decisione, a giudizio del Consiglio di Stato, coerente, logica e non censurabile sul piano motivazionale. Cfr., inoltre, Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2757: “i beni del demanio marittimo sono istituzionalmente ed in via generale rivolti all’uso pubblico e, pertanto, la scelta dell’Amministrazione di mantenere tale destinazione relativamente ad un determinato bene demaniale, pur in presenza di una domanda di concessione, non richiede una motivazione specifica, apparendo sufficiente la concreta indicazione della incompatibilità della nuova destinazione con l’uso pubblico. Al contrario, tale specifica motivazione sarebbe necessaria nel caso di adozione di un provvedimento di concessione del terreno demaniale, atteso che quest'ultimo atto, distogliendo il bene demaniale dalla destinazione ad uso pubblico, dovrebbe indicare le ragioni che inducano a ritenere la destinazione ad un uso diverso da quello istituzionale, compatibile e non pregiudizievole per l’interesse generale”; Id., Sez. V, 2 marzo 2018, n. 1296. In argomento B. Tonoletti,Beni pubblici e concessioni, Padova, 2008, 351.
[60] Il demanio costiero risulta per sottrazione dalle aree comprese nel demanio marittimo di quelle di pertinenza dei porti (oggetto di pianificazione di settore attribuita alle autorità portuali ai sensi della l. n. 84 del 1994, art. 5): in argomento V. Cerulli Irelli, Diritto pubblico della proprietà e dei beni, cit., 145; F. Francario, Il demanio costiero, cit..
[61] Art. 1, comma 254, l. 27 dicembre 2006, n. 296. In argomento M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?, cit., 569, osserva come il mutato quadro delle competenze al rilascio delle concessioni abbia sollevato la necessità di trovare una sintesi tra gli usi concessi e l’uso generale e per “scongiurare il rischio che, assegnato all’amministrazione degli enti territoriali minori, il potere concessorio possa con ancora più facilità che in passato prestarsi a un impiego incontrollato”, l’art. 6 citato ha imposto la predisposizione di un piano di utilizzazione del demanio marittimo. Alcune regioni (come indicato nel Report Spiagge 2023 di Legambiente 2023, alle pagg. 55 e ss.) hanno prefissato con legge detta percentuale, come la Puglia (l.r. n. 17/2006) o il Lazio (l.r. n. 8/2015); in Sardegna la percentuale è fissata nelle “Linee guida per la predisposizione del Piano di utilizzo dei litorali”, deliberazioni G.R. 12/8 del 5/3/2013 e 10/5 del 21/2/2017. Cfr. E. Scotti, Il regime delle spiagge nell’era del ritorno dello Stato: pensieri (eterodossi) per un cambio di paradigma, cit., 155-156 ritiene che il legislatore statale dovrebbe fissare delle percentuali minime di arenile da destinare al pubblico godimento quale l.e.p. concernente diritti fondamentali da garantire in modo uniforme ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
[62] In argomento Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 40 (par. 4.1).
[63] Cui tale disciplina è ricondotta, si v. Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 40.
[64] Nella regione Campania, ad esempio, il PUAD costituirà il quadro di riferimento per la predisposizione, da parte dei Comuni costieri, dei piani attuativi di utilizzazione (PAD) e per l’esercizio delle funzioni di gestione sul demanio marittimo non portuale.
[65] M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo, cit., 454: tramite questi strumenti di pianificazione “le amministrazioni regionali esercitano la scelta discrezionale “di fondo” circa l’utilizzo dell’area demaniale, ovvero se destinarla al suo naturale uso generale o, al contrario, se prevederne uno sfruttamento economico mediante uso eccezionale”.
[66] M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?, cit., 570.
[67] In esito al processo pianificatorio risultano individuate le aree destinabili alle diverse modalità di fruizione del litorale: quella soddisfatta dalla semplice esistenza del bene demaniale e che, presupponendo l’accessibilità generale, richiede l’esercizio di poteri pubblici strumentali alla conservazione della risorsa, e quella soddisfatta da un particolare impiego del bene che, richiedendone un uso esclusivo, presuppone l’esercizio di funzioni distributive tramite la concessione: M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione, cit., 570. In argomento, si v. anche G. Torelli, Concessioni balneari e governo del territorio, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto, cit., 85.
[68] Corte cost., 5 maggio 2022, n. 108, in Giorn. dir. amm., 2022, 770.
[69] Analogamente Cons. Stato, Sez. V, 21 giugno 2005, n. 3267.
[70] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1221-1222. L’attuazione del citato art. 6 è stata però scarsa, a ciò contribuendo la previsione del diritto di insistenza e il regime di proroga automatica introdotto nel 2001 (l. n. 88, art. 10), che hanno condotto alcune regioni a circoscrivere la dialettica tra uso generale e usi eccezionali alle porzioni in cui tale scelta fosse ancora possibile (come accaduto in Sicilia dove le Linee guida per la redazione da parte dei Comuni dei piani di utilizzazione del demanio marittimo del 2016 prevedono una riserva non inferiore al 50% del litorale per la fruizione pubblica facendo espressamente salve le concessioni già rilasciate): M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione, cit., 572.
[71] Commissione europea, Lettera di messa in mora 2 febbraio 2009, n. 2008/4908 con cui l’U.E. aveva sollecitato lo Stato italiano a eliminare la preferenza accordata al precedente concessionario perché contraria al principio di libertà di stabilimento (attuale art. 49 TFUE) e all’art. 12 direttiva Bolkestein. L’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, conv. in l. 26 febbraio 2010 n. 25, abrogava, quindi, il comma 2 dell’art. 37 cod. nav. nella parte in cui prevedeva il cd. diritto di insistenza. Anche il rinnovo automatico, previsto dall’art. 01, c. 2, d.l. n. 400/1993 è stato abrogato dall’art. 11 l. 15 dicembre 2011, n. 217. Espunto dall’ordinamento interno il diritto di insistenza e abrogato l’art. 01, comma 2, d.l. n. 400/1993, il legislatore nazionale aveva però previsto, contestualmente, una proroga al 31 dicembre 2015 delle concessioni per finalità turistico-ricreative in essere e in scadenza prima di tale data, poi posticipata al 2020 (art. 34-duodecies d.l. n. 179/2012, conv. in l. n. 221/2012), qualificando tale disciplina come transitoria in quanto dettata “nelle more del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni” di beni demaniali marittimi. La proroga ope legis ha costituito oggetto di due rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia che, nella già più volte citata sentenza Promoimpresa ha chiarito che una proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime, così come di quelle lacuali, in essere per attività turistico-ricreative equivale a un rinnovo automatico, in contrasto con l’art. 12 direttiva Bolkestein. Non è intervenuta negli anni successivi una riforma tale da rendere compatibile la normativa interna con l’ordinamento U.E.: approssimandosi la scadenza del 31 dicembre 2020, con la Legge di bilancio 2019 (art. 1, commi 682, 683 e 684, l. n. 145/2018), il legislatore ha prorogato le concessioni demaniali marittime non ancora scadute, rideterminando il termine di scadenza al 31 dicembre 2033, con conseguente avvio della Procedura di infrazione n. 2020/4118, con lettera di costituzione in mora del 3 dicembre 2020, cui ha fatto seguito il Parere motivato della Commissione europea del 16 novembre 2023 (C(2023)7231) che ha assegnato all’Italia il termine di due mesi per conformare alla direttiva Bolkestein l’ordinamento nazionale. Da ultimo, con la recentissima Lettera di risposta al parere motivato del 16 gennaio 2024, l’Italia ha rappresentato all’U.E. la natura propedeutica della definizione dei criteri sulla scarsità delle risorse, “atti a fornire indicazioni certe e omogenee sull’intero territorio nazionale” e scongiurare il rischio di un’applicazione asimmetrica della disciplina unionale “che alimenterebbe situazioni di incertezza giuridica e disparità di trattamento per gli operatori di settore”; le proroghe, temporalmente limitate, sono quindi giustificate – spiega il governo – dall’esigenza di completare gli approfondimenti istruttori e i percorsi procedimentali necessari a chiarire le modalità di applicazione della direttiva servizi. Sulle varie proroghe si v. C. Feliziani, Le concessioni balneari tra diritto dell’Unione europea e diritto interno. Un’altra occasione mancata?, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari, cit., 48 ss..
[72] TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 3 giugno 2009, n. 246 (confermata da Cons. Stato, Sez. VI, 6 settembre 2010, n. 6477.
[73] TAR Liguria, Sez. I, 30 agosto 2018, n. 683. In argomento G. Torelli, Concessioni balneari e governo del territorio, cit., 87.
[74] F. Francario, Il demanio costiero, cit.: dopo avere illustrato i fattori che in astratto potrebbero avere determinato un cambiamento del regime giuridico dei beni demaniali in questione e dopo avere illustrato come in concreto due di questi fattori, quali la patrimonializzazione dei beni pubblici e il trasferimento di funzioni amministrative, non abbiano mutato detto regime, ritiene, invece, che “l’intervento legislativo che impone la pianificazione di settore incide anche sui modi e limiti in cui in cui possono sorgere diritti dei terzi sul bene demaniale costiero”.
[75] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2757 che giudica legittimo il diniego di concessione motivato con “l’opportunità di evitare che il rilascio della concessione richiesta possa impedire la realizzazione dell’assetto complessivo organico della zona mediante apposito strumento attuativo prescritto dalla Regione Lazio; opportunità derivante dalla considerazione che notoriamente sorgono difficoltà quando l’Amministrazione intenda ottenere la disponibilità di un’area assentita in concessione”.
[76] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza, cit., 1222.
[77] Cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 16 giugno 2022, n. 8056 e Id., 14 giugno 2022, n. 7906, che sulla base di una disposizione regolamentare regionale espressa, considerano l’adozione del piano comunale, in coerenza con il piano regionale (disciplinato dall’art. 46 l.r. n. 13 del 2007), presupposto indispensabile per l’avvio delle procedure di evidenza pubblica.
[78] Art. 2 l.r. n. 32/2020, su cui Corte cost., n. 108/2022 già citata.
[79] Cons. Stato, Sez. VI, 15 novembre 2021, n. 6028: nel caso di specie una deliberazione della Giunta regionale del Lazio del 2001 disponeva che “Sino all’avvenuta pubblicazione… dell’accordo di programma relativo al P.U.A., non possono essere autorizzate variazioni nell’ampiezza delle concessioni”. Il Consiglio di Stato osserva che “scopo di questa disciplina è quello di regolare il rilascio delle concessioni del bene demaniale degli arenili in modo che l’interesse privato al loro utilizzo economico sia coordinato al meglio con la salvaguardia dei rilevanti interessi pubblici coinvolti, relativi alla conservazione e riqualificazione dei beni, alla tutela ambientale, alla loro fruizione pubblica, al complessivo sviluppo turistico della località interessata, e ciò è consentito soltanto da una previa programmazione, poiché con essa l’utilizzo degli arenili è inserito nel quadro di un equilibrio predefinito degli interessi da tutelare”; nell’affermare ciò, il g.a. richiama il “principio generale sulla indefettibilità degli strumenti di programmazione, anche di natura attuativa, previsti dalle normative di settore, come in materia di uso del territorio, come esemplificato dall’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, sulle limitazioni dell’attività edilizia in assenza della pianificazione urbanistica”. Viene peraltro espressamente valorizzata, con rilievo dirimente, la specifica previsione della delibera regionale (impugnata ma giudicata “legittima, poiché, in coerenza con la normativa primaria sull’obbligo di redazione dei P.U.A. da parte della Regione, subordina l’ampliamento delle concessioni in essere all’avvenuta pianificazione, con ciò ragionevolmente condizionandola alla previa definizione del necessario quadro di contesto”). Cfr., inoltre, Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 2018, n. 1862.
[80] In argomento G. Sciullo, La “resilienza” della tutela del paesaggio, in Giorn. dir. amm., 2022, 775.
[81] Cons. Stato, Sez. V, 22 settembre 2017, n. 4439.
[82] Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2002/413/CE.
[83] Art. 5 Protocollo sulla gestione integrata delle zone costiere del Mediterraneo (approvato con decisione Consiglio UE 2010/631/UE).
[84] E. Boscolo, La gestione integrata delle zone costiere in Italia: prospettive e prime esperienze, in Riv. quadr. dir. amb., 2011, 44-45.
[85] E. Boscolo, La gestione integrata, cit., 45. Cfr., in merito alla necessità di superare una prospettiva meramente economica del tema, per abbracciare una visione d’insieme che tenga conto di diversi aspetti la cui connessione e interdipendenza è stata spesso trascurata, M. Gnes, Le spiagge e le coste: problema o risorsa?, cit., 20; G. Della Cananea, Le concessioni del demanio marittimo: un mutamento di prospettiva, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari, cit., 23; M. De Benedetto, Dalle spiagge alle coste: una strategia regolatoria, ivi, 42; E. Scotti, Il regime delle spiagge nell’era del ritorno dello Stato, cit., 153.
[86] Cfr. CGUE, 6 ottobre 2015, Târșia, in C‑69/14, punto 13 e giurisprudenza ivi citata: “non spetta alla Corte di giustizia, nell’ambito della cooperazione giudiziaria istituita dall’articolo 267 TFUE, rimettere in discussione o verificare l’esattezza dell’interpretazione del diritto nazionale operata dal giudice nazionale, in quanto tale l'interpretazione rientra nella competenza esclusiva di tale giudice. Inoltre, quando è sottoposta ad una domanda di pronuncia pregiudiziale da parte di un giudice nazionale, la Corte di giustizia deve fondare il proprio ragionamento sull'interpretazione del diritto nazionale quale le è stata fornita da tale giudice”. Cfr. inoltre, le conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Promoimpresa, pt. 33.
[87] Cfr., ad esempio, segnalazione ANAC n. 4 del 6 settembre 2022.
[88] In un contesto in cui a seguito di una prima procedura di infrazione sono state abrogate le disposizioni in tema di diritto di insistenza e rinnovo automatico, contestualmente disponendo ripetute proroghe ex lege delle concessioni in essere in attesa di un’auspicata - ma non ancora attuata - riforma del sistema delle concessioni, l’Adunanza plenaria, in coerenza con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia, ha ribadito “il principio secondo cui il diritto dell’Unione impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime … avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere”. Da ciò consegue il dovere di disapplicazione delle norme statali incompatibili generalizzato, sussistente, cioè, in capo sia agli organi giurisdizionali che alle amministrazioni concedenti e la qualificazione degli atti di proroga già adottati tamquam non essent - senza neppure necessità o obbligo di impugnazione -, siccome meramente ricognitivi della normativa oggetto di disapplicazione. (e ciò anche in presenza di un giudicato favorevole, ricorrendo un rapporto di durata). Come anticipato nelle note iniziali, una delle sentenze gemelle è stata cassata con rinvio dalla Cassazione, che ha dichiarato assorbiti però i motivi concernenti il tema della proroga ex lege delle concessioni.
[89] M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari”, cit., 349.
[90] I risultati dell’attività istruttoria svolta dal Tavolo tecnico istituito ai sensi del citato art. 10-quater d.l. 29 dicembre 2022, n. 198 sono stati oggetto di un comunicato stampa pubblicato il 5 ottobre 2023 dal governo italiano (https://www.governo.it/it/articolo/concessioni-demaniali-marittime-lacuali-e-fluviali-riunione-del-tavolo-tecnico-del-5). Ivi si rappresenta che, in merito alle aree demaniali marittime (aree lacuali e fluviali escluse), “è risultato che la quota di aree occupate dalle concessioni demaniali equivale, attualmente, al 33 per cento delle aree disponibili” (solo “al netto di aree militari e secretate” e senza distinzione in base alle caratteristiche, rocciose o sabbiose, della costa). In merito ai limiti di tali dati, esito di una valutazione globale operata solo a livello nazionale, secondo un approccio generale e astratto che non prende in considerazione le competenze regionali e locali in questo settore, cfr. il Parere motivato della Commissione europea 16 novembre 2023 ex art. 258 TFUE nonché la recente Lettera di risposta del governo italiano del 16 gennaio 2024, dove la rilevanza dei dati oggetto nel comunicato stampa viene ridimensionata a quella di “risultati parziali e intermedi” dell’attività istruttoria, non conclusivi “di un procedimento di raccolta, elaborazione e valutazione di dati che, data la complessità della materia e l’assenza di prassi consolidate a livello europeo, richiede congrui tempi di realizzazione”. Con riguardo al dato del 33% nazionale, la Risposta osserva che si tratta di una prima indicazione quantitativa delle aree effettivamente occupate a livello nazionale, cui dovrà seguire il dato disaggregato a livello regionale.
[91] Cfr. E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza, cit., 1225: “Il metodo del first come first serve è inappropriato per l’allocazione di un bene la cui condizione di scarsità si è fatta ormai evidente e deriva non solo dalla morfologia delle coste ma anche dal riconoscimento di insuperabili limiti ambientali che si traducono in previsioni limitative sancite da piani degli utilizzi redatti tenendo in adeguata considerazione i diversi interessi che si concentrano sulla costa e preceduti da valutazione ambientale strategica”.
[92] M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione, cit., 579.
[93] F. Francario, Il demanio costiero, cit.
[94] Si rinvia alla nota 71.
[95] Cfr. E. Scotti, Il regime delle spiagge nell’era del ritorno dello Stato, cit., 151.
[96] Come rilevato dal TAR Puglia, Lecce, Sez. I, ord. 11 maggio 2022, n. 743, la procedura di gara prevista dal cod. nav. non è idonea ad attuare la direttiva Bolkestein poiché non prevede un’adeguata forma di pubblicità dell’avviso pubblico e dispone la valutazione comparativa solo in caso di compresenza di più domande.
[97] Sulla cui applicazione cfr. C. Volpe, Concessioni demaniali marittime: un’ulteriore puntata di una storia infinita, in www.giustizia-amministrativa.it, 26 aprile 2023.
[98] Cfr. Parere motivato della Commissione europea 16 novembre 2023, cit., che evidenzia come “Il turismo costiero e i servizi ricreativi, settore cruciale per l'economia italiana, rimangono … in una grave situazione di incertezza giuridica, a scapito dei diritti di tutte le parti coinvolte. Infatti, la reiterata proroga della durata delle attuali ‘concessioni balneari’ non solo scoraggia l’ingresso di nuovi prestatori di servizi innovativi, ma … crea una situazione di incertezza giuridica, all’origine di un grave pregiudizio anche per gli attuali concessionari”.
[99] L. 5 agosto 2022, n. 118.
[100] In argomento le considerazioni di E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza, cit., 1225: “la gara … in quanto modulo duttile agli obiettivi che il banditore si prefigge di perseguire, consente di selezionare l’offerta ritenuta migliore ad una valutazione multicriteria. Nel settore delle concessioni su beni pubblici ad elevata valenza ambientale la gara diviene quindi strumento multivalente per un corretto bilanciamento tra esigenze di efficienza dello sfruttamento, ragioni di massima valorizzazione economica del bene e istanze di sostenibilità”; in tale modo le “gare divengono … uno strumento di politica gestionale attiva del demanio”.
[101] A. Cossiri, Tutela del patrimonio naturale culturale e la gestione delle spiagge: l’annosa vicenda delle concessioni demaniali ad uso turistico, in A. Caligiuri, M. Ciotti (a cura di), Sostenibilità ambientale e gestione del patrimonio culturale marittimo. Riflessioni e proposte, Napoli, 2023, 64, evidenzia come la disposizione crei “uno spazio di tutela sia del bene naturale e paesaggistico in sé, sia della comunità locale, per la quale l’area costituisce anzitutto uno spazio pubblico, che deve restare, almeno in parte, liberamente fruibile anche da coloro che scelgono di non utilizzare servizi a pagamento”.
[102] Su cui Cons. Stato, Sez. VII, ord. 17 gennaio 2024, n. 138.
La Procura Europea (EPPO): prime riflessioni dall’esperienza concreta[1]
di Andrea Venegoni[2]
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il Procuratore europeo e le Camere permanenti – 3. EPPO e gli uffici giudicanti.
Introduzione
1. Introduzione
«Da quando sei partito c’è una grossa novità» recitava una famosa canzone di molti anni fa, e nessuna frase appare più appropriata per sintetizzare cosa è avvenuto negli ordinamenti della maggior parte degli Stati facenti parte dell’UE, e quindi anche dell’Italia, ad un ipotetico studioso di diritto penale, o anche collega, che idealmente fosse andato a vivere lontano dal nostro mondo nel 2016 e fosse tornato ai giorni nostri.
La «grossa novità» con cui il rientrante avrebbe a che fare oggi è la comparsa nei sistemi nazionali penali della Procura Europea o, per usare la terminologia con cui è unanimemente conosciuta, di EPPO (European Public Prosecutor’s Office).
Non si vuole qui ripercorrere tutto ciò che riguarda la sua struttura e le sue funzioni, su cui moltissimo é stato già scritto[3].
Oggi che lo vivo dall’interno, piuttosto, mi sembra più interessante iniziare a compiere un’analisi di varie questioni che si sono poste e si stanno ponendo nella pratica, alcune delle quali rivelano sempre più come la creazione ed operatività di EPPO rappresenti veramente un «unicum» nella storia dei sistemi giuridici nazionali, e, per quanto ci riguarda, del nostro.
Uno di quegli eventi che, come si dice, capitano una volta ogni cento anni, ed essere testimone dei quali rappresenta già un fatto eclatante.
Esserne, poi, partecipante attivo può anche dare l’illusione di stare davvero contribuendo a costruire con piccoli mattoni il mondo di domani e di stare facendo, quindi, qualcosa di rilevante.
Sarà forse una illusione o una benevola bugia, ma poco importa ai nostri attuali fini.
Così come, credo, poco importa sapere delle mie personali sensazioni derivanti dal ricoprire una funzione, quella di Procuratore europeo per l’Italia (se si può usare una terminologia tecnicamente non impeccabile, ma che rende l’idea del compito) il cui peso e la cui responsabilità sento appieno, pur cercando di portarli con la consapevolezza del massimo impegno su tutti i fronti che l’incarico richiede.
Molto più importa, invece, iniziare ad addentrarsi in alcuni temi perché si tratta di aspetti coi quali, poco alla volta, una gran parte della magistratura italiana dovrà confrontarsi, nell’inevitabile avanzare di un mondo che va oltre i confini nazionali e che, senza dover necessariamente comportare una rinuncia alla propria tradizione e cultura giuridica, richiederà però una elasticità mentale, una disponibilità all’apertura, come mai forse sono state necessarie prima d’ora.
Credo che la magistratura italiana saprà reggere da par suo il confronto con questo nuovo contesto, come ha fatto dagli anni ’70 in poi nelle varie sfide che le si sono poste di fronte, se non si rinchiuderà in sé stessa, ma saprà porsi come soggetto aperto al dialogo, forte della propria storia che le permetterà di giocare un ruolo da protagonista anche in questo nuovo scenario.
Tra i numerosissimi argomenti di cui si puo’ discutere per illustrare cosa è EPPO e cosa comporta la sua creazione, ce ne sono alcuni che, a mio parere, meritano un accenno anche solo in un’ottica divulgativa, quale può considerarsi la finalità di questo scritto.
Tra questi, in particolare, non posso evitare di trattare la figura del Procuratore europeo, la carica che mi trovo a ricoprire dal luglio 2023, e la figura delle Camere permanenti.
Successivamente, vorrei dedicare alcune righe ad uno degli argomenti ai quali tengo di piu’, e cioé quello del rapporto tra EPPO e gli uffici giudicanti, un argomento non particolarmente esplorato fino ad ora, ma che mi sta particolarmente a cuore e che considero uno delle chiavi di volta del funzionamento del nuovo sistema.
2. Il Procuratore europeo e le Camere permanenti
Nell’ufficio centrale di EPPO esiste un Procuratore europeo per ogni Stato Membro dell’UE aderente alla cooperazione rafforzata.
Occorre premettere, infatti, che non tutti gli Stati dell’Unione sono partecipi dell’esperienza di EPPO. L’ufficio è nato secondo la suddetta procedura, la cooperazione rafforzata appunto, che permette anche solo ad alcuni Stati di accordarsi tra loro per conseguire un determinato obiettivo.
Peraltro, la suddetta cooperazione ha riguardato, al momento, ventidue Stati UE su ventisette, e quindi un numero sicuramente significativo. Ad oggi, non aderiscono ad EPPO, infatti, cinque Stati dell’Unione, Irlanda, Svezia, Danimarca, Polonia ed Ungheria.
Sulla base di quanto sopra, nell’ufficio centrale di EPPO, a Lussemburgo, siedono ventidue procuratori europei, oltre al Procuratore capo, che ovviamente appartiene ad uno dei Paesi aderenti.
Un unico Paese, quindi, dispone di due procuratori nell’ufficio centrale, e cioé il Paese del Procuratore capo, che può annoverare, oltre a quest’ultimo, il rispettivo Procuratore europeo.
Peraltro, il Procuratore capo non ha compiti operativi, tranne il fatto di sedere in una Camera permanente, ma di policy generale, per cui non vi è rischio di sovrapposizione tra le due funzioni.
Quello di Procuratore europeo è un ufficio con alcune peculiarità.
Per sintetizzare, si potrebbe dire che il Procuratore europeo deve saper guardare con ciascun occhio in due direzioni diverse, seppure complementari, quella nazionale e quella europea.
Egli, infatti, secondo il regolamento (UE) 1939/2017 [4], tra gli altri compiti, supervisiona le indagini condotte a livello decentrato dai procuratori europei delegati (PED), e quindi, in questo senso, deve occuparsi della dimensione nazionale, ma ciò compie «per conto della Camera permanente e conformemente a eventuali istruzioni da questa fornite», da cui emerge che il livello decentrato non è mai scisso da quello centrale.
Secondo il considerando n. 23 del regolamento, la «supervisione» dovrebbe essere intesa come «riferita a un’attività di controllo più stretta e costante sulle indagini e azioni penali, comprendente, ove necessario, interventi e istruzioni per questioni relative a indagini e azioni penali», per cui questa formulazione sembra attribuire un ruolo assai pregnante al Procuratore europeo nelle indagini; tuttavia, nella pratica, il contenuto di questo concetto non si concretizza in una situazione ed in un potere di controllo analogo a quello che opera oggi all’interno delle procure italiane ai sensi del d.lgs. n. 106 del 2006[5]. I procuratori europei delegati, per esempio, non devono sottoporre ad alcun «visto» preventivo le richieste di misure cautelari e, quindi, sotto questo profilo, godono di un’autonomia che può ritenersi maggiore di un sostituto. Peraltro, non può tacersi che il potere di «supervisione» si possa tradurre nel seguire comunque in maniera dettagliata le indagini, venendo il Procuratore europeo di fatto coinvolto dai PED nelle decisioni più rilevanti o partecipando anche a riunioni operative, senza intaccare, però, il ruolo del PED di gestore dell’indagine stessa.
Molto dipende anche, ovviamente, dalla quantità di indagini attive nello Stato di riferimento. Nella specie, l’Italia è di gran lunga lo Stato EPPO più attivo, se si pensa che circa il 40% dell’intero carico attualmente pendente in EPPO riguarda casi italiani.
Sempre sul «lato nazionale», poi, il procuratore europeo è, di fatto, il punto di contatto con lo Stato per fare in modo che quest’ultimo doti gli uffici di EPPO situati nel territorio nazionale (in Italia sono otto) delle risorse necessarie per condurre le indagini.
Il regolamento prevede, infatti, un sistema ibrido per il funzionamento di EPPO.
In linea generale, l’Unione provvede a fornire le risorse a livello centrale e, tranne che per alcune spese che l’Unione sostiene anche a livello decentrato, sono i singoli Stati a dover fornire le risorse nei singoli uffici di EPPO collocati in ciascun Paese.
Le risorse riguardano tutto ciò che è necessario per il funzionamento degli uffici, dai locali e le loro attrezzature, materiali ed immateriali (informatiche) al personale di segreteria, alla polizia giudiziaria.
In questo senso, vengono in rilievo i rapporti con il Ministero della Giustizia e con il Consiglio Superiore della Magistratura.
Riguardo ai rapporti con la polizia giudiziaria, il procuratore europeo é anche il punto di riferimento, a livello generale, per le forze di polizia nazionali che conducono le indagini sui reati di competenza di EPPO.
Il «lato europeo» è, invece, rappresentato dal fatto che il Procuratore europeo siede in due organismi dell’ufficio centrale di EPPO, entrambi previsti dal regolamento istitutivo di EPPO, il gia’ citato regolamento (UE) 2017/1939: il Collegio e le Camere permanenti.
Il Collegio comprende tutti i Procuratori europei degli Stati aderenti ed il Procuratore capo.
Esso non ha funzioni operative relativamente alle indagini, ma, essenzialmente, adotta decisioni che riguardano le questioni generali ed organizzative interne dell’ufficio e di policy.
Le Camere permanenti sono il cuore di EPPO. Sono dei mini collegi composti da tre procuratori europei ciascuna che, di fatto, prendono decisioni, sotto la forma di approvazioni o autorizzazioni, sulle questioni essenziali dell’indagine che i PED devono loro sottoporre. Il regolamento enuncia in dettaglio i compiti delle Camere[6]; se, quindi, come si diceva prima, i PED non sono soggetti ad un controllo particolarmente invasivo da parte del Procuratore europeo, per contro sono soggetti a seguire le indicazioni e, in qualche caso, le istruzioni delle Camere permanenti relative ad alcuni momenti-chiave dell’indagine.
Qui, per semplificare, si può riassumere nel senso che, tra le altre cose, la modalità di conclusione dell’indagine (si tratti di archiviazione o di richiesta di rinvio a giudizio) deve essere sottoposta alla Camera, così come la volontà di definire l’indagine con una procedura semplificata, che varia a seconda delle legislazioni nazionali (in Italia la questione opera soprattutto nei confronti del patteggiamento). Le Camere decidono anche questioni strategiche per l’indagine, come la allocazione di un’indagine dal PED di uno Stato al PED di un altro Stato, quando gli elementi concreti lo richiedono.
Le Camere, unitamente ai procuratori europei, sono, infatti, espressione di una delle principali caratteristiche delle indagini di EPPO, in particolare delle indagini sovranazionali, e cioè la visione d’insieme dell’indagine, quando questa riguarda fatti che coinvolgono il territorio di più Stati. EPPO, infatti, in una certa misura abbatte veramente le frontiere nazionali nelle indagini penali, e questa è, probabilmente, la più rilevante novità della sua introduzione, anche se tale percorso non è completo per il fatto che, in mancanza di norme processuali europee comuni, nelle indagini ciascun PED applica la legge nazionale dello Stato in cui opera. Ma l’unicità dell’ufficio europeo, il fatto che i PED operanti nei vari Stati non siano autorità nazionali tra loro diverse, ma colleghi della stessa Procura, costituisce certamente un passo significativo nella realizzazione di un’area comune di giustizia penale.
Tornando all’attività delle Camere permanenti, una delle loro caratteristiche è che ciascuna di esse valuta solo le indagini diverse da quelle condotte dai PED della stessa nazionalità dei componenti. In altre parole, le indagini italiane vengono discusse in tutte le Camere, tranne in quella in cui siede il Procuratore europeo per l’Italia.
La domanda che potrebbe sorgere spontanea, allora, è come può una Camera permanente prendere decisioni consapevoli ed informate su un’indagine che si sta svolgendo alla luce di un sistema giuridico diverso da quello dei suoi componenti.
La normativa primaria e secondaria di EPPO si è raffigurata questo tema, prevedendo che alle riunioni della Camera sia invitato anche il Procuratore europeo dello Stato di riferimento, il quale potrà illustrare gli elementi di fatto e giuridici della questione che deve essere decisa.
Naturalmente, più casi appartengono ad uno Stato e più il Procuratore europeo di quello Stato sarà ospite nelle riunioni di varie Camere permanenti.
Il contributo del Procuratore europeo invitato permette, quindi, di fare sì che la decisione della Camera sia secondo diritto dello Stato interessato, ma certo l’impressione che l’esperienza pratica mi suggerisce è che il confronto tra il Procuratore europeo e la camera permanente non sia esente, per una certa parte del processo valutativo, anche dalla presenza di una componente che si potrebbe definire di «senso comune». Il risultato di questo processo non si può negare che sia la formazione di una «giurisprudenza» (anche se occorre sempre ricordare che le decisioni delle Camere permanenti sono pur sempre interne all’ufficio di procura e non provengono da un organo giudiziale esterno ad esso) che è la sintesi di valutazioni provenienti da culture giuridiche molto diverse tra loro, ma nelle quali alcuni elementi di base, generali, sono comuni anche in virtu’ del processo di armonizzaizone normativa del diritto sostanziale, e quindi, in questo senso, autenticamente nuova ed «europea».
Il compito del Procuratore europeo è, allora, da un lato proprio quello di raccordo tra le indagini dei PED e le decisioni delle Camere permanenti, e questa funzione unitamente, dall’altro lato, all’appartenenza ad una o più Camere permanenti che valutano casi diversi da quelli del proprio Stato, così come l’appartenenza al «College» per le questioni di policy generale e di strategia dell’ufficio ne fanno una figura davvero europea, per questo così affascinante ed impegnativa.
3. EPPO e gli uffici giudicanti
Si è compreso come EPPO sia un ufficio di procura, che conduce indagini penali a livello europeo.
Non è, quindi, un ufficio di coordinamento di indagini di autorita’ nazionali, ne’ di scambio di informazioni, ma è un ufficio titolare delle proprie indagini penali, condotte attraverso propri magistrati che non appartengono più, funzionalmente, ad uno Stato Membro.
Per questo, specie dopo la sua creazione e l’inizio della sua operatività, ci si è molto concentrati sul rapporto tra EPPO e gli uffici di procura nazionali.
Questo anche perché il regolamento ha creato un sistema che si potrebbe definire di «competenza ripartita» sui reati PIF[7] tra EPPO e le procure nazionali.
Se, quindi, EPPO si occupa solo di reati PIF ai sensi dell’art. 22 del regolamento (salvi i reati «inestricabilmente connessi» a questi ultimi, rientranti anch’essi nella competenza di EPPO), non tutti i reati PIF sono trattati esclusivamente da EPPO.
Il regolamento delinea, quindi, agli artt. 25-27, un complesso sistema per individuare in ogni caso specifico se la «competenza», o per meglio dire la “giurisdizione”, a condurre l’indagine spetti a EPPO o alla procura nazionale, stabilendo il principio di alternatività tra le due indagini.
Per questo, i primi contatti che EPPO ha avuto con gli uffici giudiziari nazionali degli Stati hanno riguardato principalmente gli uffici di Procura, specie in relazione ad indagini già pendenti ed astrattamente rientranti nella competenza, anche temporale, di EPPO, in particolare per stabilire se essi dovessero essere trattati da EPPO o continuare ad esserlo da parte dell’A.G. nazionale.
Anche oggi, superata la prima fase «transitoria» sui procedimenti già iniziati, per i nuovi procedimenti i contatti con gli uffici di procura riguardano principalmente la questione dell’individuazione dell’autorita’ addetta a trattare un’indagine.
A mano a mano che le indagini si sono sviluppate e che, a maggior ragione, sono giunte a giudizio, è però emerso il tema del rapporto tra EPPO e gli uffici giudicanti.
Si tratta di un tema, a mio avviso, di grandissima importanza, sebbene non ancora approfondito sufficientemente negli studi su EPPO.
Gli uffici giudicanti, infatti, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere a prima vista, sono pienamente coinvolti nell’applicazione del regolamento (UE) 1939/2017.
La premessa delle considerazioni che si andranno a svolgere è che, in mancanza di un giudice europeo, l’interlocutore di EPPO nei vari Stati membri è sempre ed essenzialmente il giudice nazionale.
Questo già nella fase delle indagini, per esempio per le richieste di misure cautelari.
In Italia sono ad oggi numerose le richieste di misure cautelari di EPPO decise dai giudici nazionali, e ciò presuppone, in primo luogo, che il giudice che si trova a ricevere la richiesta proveniente da un ufficio diverso dall’ordinaria Procura della Repubblica conosca EPPO, la sua competenza ed i suoi poteri.
Ma la sfida ancora maggiore per gli uffici giudicanti si gioca, a mio avviso, nel processo, successivamente al rinvio a giudizio.
In quella sede, infatti, non può escludersi l’interferenza delle norme nazionali, primariamente applicabili, con il regolamento europeo.
Si pensi, solo per fare un esempio, all’accesso da parte dell’imputato ad un rito alternativo quale il nostro patteggiamento.
Il regolamento EPPO prevede che le decisioni chiave dell’indagine, tra cui anche l’accesso ad un rito alternativo («simplified procedure» nella versione originale inglese) siano approvate dalla Camera permanente[8].
Molto si discute, invece, se il ruolo della Camera permanente si esaurisca con la fine dell’indagine o continui, essenzialmente con un compito di monitoraggio, durante la fase successiva all’esercizio dell’azione penale.
Alcune norme del regolamento che richiedono l’intervento della Camera permanente anche per alcune decisioni che riguardano certamente la fase del dibattimento, come l’art. 36 comma 7, potrebbero orientare verso questa conclusione[9].
Ipotizzando che sia così , allora, la domanda è se l’accesso ad una «simplified procedure» dopo la richiesta di rinvio a giudizio da parte di EPPO, e quindi al di fuori dell’ambito dell’art. 40 del regolamento, richieda ugualmente un passaggio procedurale presso la Camera permanente.
La questione è particolarmente rilevante nei procedimenti italiani, in cui, come è noto, molte richieste di patteggiamento sono presentate dall’imputato dopo tale momento, come prevede lo stesso art. 446 c.p.p.
Se si ammette che per una richiesta di patteggiamento presentata dopo la richiesta di rinvio a giudizio il procuratore europeo delegato di EPPO debba informare la Camera permanente, lo scenario che si potrebbe porre in una ordinaria udienza davanti ad un giudice italiano in un procedimento EPPO è che il PED – che, ipoteticamente, venga a conoscenza dell’istanza solo in quella sede – non possa concludere l’accordo con il difensore nella stessa udienza in cui l’istanza é presentata, mancando l’informativa alla Camera permanente.
Sempre sul presupposto dell’accoglimento di tale ipotesi, in tal caso, il PED potrebbe essere obbligato a manifestare tale necessità, chiedendo quindi un rinvio dell’udienza per informare la Camera permanente.
A questo punto, la decisione passa al giudice nazionale, ed è qui che il rapporto tra regolamento EPPO e normativa interna si manifesta chiaramente, e la responsabilità di sciogliere il nodo è tutta nelle mani del giudice medesimo.
Per una decisione consapevole, però, il giudice nazionale dovrebbe essere pienamente al corrente di cosa si stia parlando; in primo luogo, dell’esistenza stessa di EPPO e dei poteri dei PED in udienza (ma questo, dopo un po’ di anni dall’inizio dell’operatività di EPPO, auspicabilmente si dovrebbe dare per assodato) ; in secondo luogo, però, di come la richiesta di rinvio da parte del PED trovi una piena base legale nel coordinamento delle norme del regolamento EPPO con le norme nazionali; infine, dello stesso contenuto del regolamento EPPO e della possibilità di fornirne una diversa interpretazione sul punto.
Se manca questa consapevolezza nel giudice, la ipotizzabile richiesta del PED di rinvio dell’udienza «per non poter esprimere il consenso in mancanza di informativa alla Camera permanente» (e quindi per un motivo non previsto nella normativa nazionale) potrebbe sembrare qualcosa di assolutamente anomalo, per quanto, invece, fornito di una base legale del tutto valida, sebbene non rinvenibile completamente nella normativa nazionale, quanto nell’interpretazione di quella europea.
Nel caso estremo, davvero di scuola ma che per completezza di analisi non si può escludere, potrebbe addirittura portare il giudice – erroneamente – a ritenere che il PED non abbia prestato il consenso, e quindi a non dare accesso al patteggiamento, con conseguenze che, evidentemente, ricadrebbero tutte sull’imputato.
Ma vi è di più: poiché il giudice è interprete anche della normativa europea, direttamente applicabile, se egli dubitasse della correttezza dell’interpretazione del regolamento secondo cui il consenso del PED richiede il passaggio processuale presso la Camera permanente anche dopo l’esercizio dell’azione penale, egli potrebbe/dovrebbe chiedere la corretta interpretazione del regolamento (UE) 1939/2017 sul punto alla Corte di Giustizia con un rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 42, comma 2, del regolamento stesso.
Quanto sopra è solo un esempio – al quale peraltro nella pratica si potrebbe dare probabilmente anche una diversa soluzione, autorizzando l’informativa alla Camera permanente dopo l’accordo – ma è sufficientemente chiaro per illustrare il rapporto tra normativa europea e nazionale successivamente all’esercizio dell’azione penale nei procedimenti EPPO.
Di fronte a tale scenario, o ad altri che tale rapporto potrebbe porre, allora, la grande domanda che campeggia sullo sfondo è: sono i giudici italiani, anche di tribunali di non grandi dimensioni, davanti ai quali però EPPO può esercitare l’azione penale, “attrezzati” per tali evenienze?
Essere “attrezzati” significa, in questo caso, come detto sopra, avere piena ed approfondita conoscenza della normativa europea su EPPO, del rapporto della stessa con la normativa italiana e della possibilità di interpellare la Corte di Giustizia.
Si torna, quindi, per concludere, alle considerazioni iniziali: quello con cui la magistratura italiana deve inziare a confrontarsi è un momento importante, perché con EPPO l’impatto del diritto europeo in quello penale, anche processuale, segna un ulteriore passo in avanti rispetto a quanto era avvenuto finora.
Certo, la competenza di EPPO è, almeno al momento, limitata a categorie specifiche di reati e, come detto, è ripartita con l’autorita’ nazionale, ma le possibili estensioni della competenza stessa ad altre categorie di reati e, in ipotesi, qualche futura modifica del regolamento, potrebbero rendere l’incidenza del diritto europeo che disciplina le indagini di EPPO sui sistemi nazionali ancora più significativa.
Da qui l’esigenza di informazione e di diffusione della conoscenza di questo nuovo ufficio, della sua struttura e della normativa che ne regola indagini e processi, nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti, e nell’interesse di un procedimento realmente “giusto” anche per i casi di EPPO che saranno trattati nel nostro Paese.
[1] Le opinioni ed i commenti contenuti nell’articolo sono espressi a titolo puramente personale e non vincolano ne’ riflettono il pensiero dell’Ufficio di cui l’autore fa parte
[2] Procuratore europeo in EPPO, supervisore dei casi italiani
[3] Numerosissimi sono i testi che trattano di EPPO, della sua struttura, della sua competenza e del suo funzionamento; tra quelli che danno una visione generale degli argomenti qui basta citare SALAZAR, Habemus EPPO! La lunga marcia della Procura Europea, in Arch. Pen., 2017, n. 3, pag. 1; TAVASSI, Il primo anno di EPPO: appunti per una revisione critica, in Sist. Pen., 31.5.2022 ; TRAVERSA, I tre principali aspetti istituzionali dell’attivita’ della Procura europea (EPPO): legge applicabile, rimedi giurisdizionali e conflitti di competenza, in Arch. Pen., 2019, n. 3.
[4] Art 12 regolamento (UE) 1939/2017.
[5] Decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, recante Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150.
[6] Art. 10 regolamento (UE) 1939/2017
[7] I c.d. «reati PIF», cioe’ che riguardano il campo della protezione degli interessi finanziari dell’Unione Europea, quali frode, corruzione, riciclaggio di denaro e appropriazione indebita, che, ai sensi dell’art. 22 del regolamento UE 2017/1939, rappresentano la competenza di EPPO, sono elencati nella direttiva (UE) 2017/1371 cui il regolamento stesso fa rinvio.
[8] Art. 40 del regolamento (UE) 1939/2017, che si riferisce espressamente alla procedura semplificata in relazione all’esercizio dell’azione penale.
[9] Sulla decisione se presentare appello contro la sentenza di primo grado, e la cui prima fase recita «Quando, in seguito a una sentenza dell’organo giurisdizionale, la procura deve decidere se ricorrere in appello, il procuratore europeo delegato presenta una relazione contenente un progetto di decisione alla Camera permanente competente e attende istruzioni da quest’ultima».
di Franco De Stefano
Come è possibile utilizzare l’intelligenza artificiale per la redazione degli atti giudiziari civili? L’IA può sostituire l’attività del giudice?
Sommario: 1. La decisione commentata – 2. La coeva iniziativa del Garante della privacy – 3. I riferimenti tecnici minimi – 4. Il quadro normativo nazionale – 5. L’algoritmo giudiziario – 6. Gli algoritmi giudiziari per l’attività delle parti – 7. Gli algoritmi giudiziari per l’attività del giudicante – 8. In conclusione.
ABSTRACT
In un panorama soggetto ad una tumultuosa evoluzione tecnologica, il passaggio alla fase finale dell’adozione del Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, nel giugno 2023, ha coinciso con l’epilogo di un clamoroso episodio di cronaca giudiziaria d’oltreoceano, in cui le difese che un avvocato statunitense aveva prodotto dopo averne affidato la redazione ad un sistema di IA si sono rivelate articolate su precedenti completamente inesistenti. È questo lo spunto per una riflessione sull’impiego dei sempre più sofisticati sistemi di IA nel mondo del processo civile: da un lato, quanto alla formazione degli atti giudiziari di parte; dall’altro, quanto all’interazione con le attività del giudicante. In entrambi i casi, le enormi potenzialità dei nuovi sistemi vanno sicuramente colte, ma con adeguata prudenza e cautela, soprattutto mai tralasciando di preservare all’agente umano il ruolo di supervisore e decisore finale consapevole ed attento. Ad una generale algoretica dovrebbe affiancarsi una “giurialgoretica”.
1. La decisione commentata
Si tratta dell’ordinanza motivata (order and decision) della Corte del distretto meridionale di New York degli U.S.A. del 22 giugno 2023, resa da s.o. P. Kevin Castel, reperibile liberamente all’URL https://www.courthousenews.com/wp-content/uploads/2023/06/chatGPT-sanctions-ruling.pdf.
È l’irrogazione di una sanzione pecuniaria (di U$D 5.000, accompagnata da una lettera a tutti i giudici falsamente citati) a due avvocati (ed in solido al loro studio professionale) dell’attore che, in una causa civile di risarcimento danni intentata da un passeggero contro una compagnia aerea, a sostegno delle tesi a favore del cliente nei loro atti avevano fatto preciso ed ampio riferimento a precedenti giurisprudenziali, elaborati da un sistema di intelligenza artificiale noto come ChatGPT, completamente inventati e quindi inesistenti e per di più articolati su di un tecniloquio scadente, ma sulla cui genuinità essi avevano pure, almeno in un primo momento, solennemente insistito.
Il provvedimento giurisdizionale di riferimento, però, non sanziona appunto - in sé e per sé preso in considerazione - l’uso di un sistema di IA nella predisposizione dell’atto giudiziario di parte, ma esclusivamente il suo uso maldestro, cioè senza l’estrinsecazione di un ruolo di supervisione finale sull’affidabilità dei riferimenti indicati e sulla tecnicalità formale e sostanziale delle singole argomentazioni.
Rileva infatti il provvedimento che, nella predisposizione degli atti da sottoporre ai giudici, i buoni avvocati appropriatamente ottengono assistenza dai colleghi meno anziani, dagli studenti di legge, dai praticanti, dai testi di approfondimento giuridici (tra cui le enciclopedie), sicché “non c’è nulla di specificamente improprio nell’uso di un affidabile strumento di intelligenza artificiale per l’assistenza”; “ma le regole vigenti impongono agli avvocati un ruolo di supervisione per assicurare l’accuratezza dei loro scritti”, sicché quelli vengono meno alle loro responsabilità verso controparti e giudice quando si avvalgono di scritti basati su precedenti falsi e, per di più, quando insistono malaccortamente sulla loro esistenza: e tanto per una serie di inconvenienti che l’uso di precedenti falsi provoca ad un sistema giudiziario di common law.
Ma, appunto, a venire in considerazione è la sottrazione al dovere professionale dell’avvocato di controllare la veridicità delle citazioni operate e la congruità, formale e sostanziale, degli atti da lui predisposti: con un ben noto pragmatismo, il sistema giudiziario statunitense non si pone il problema della correttezza dell’uso di un sistema di intelligenza artificiale nel processo, ma solo quello della sua affidabilità.
Ed in questo modo tutto si sposta sul diverso piano di cosa debba intendersi con tale termine, a seconda, evidentemente, degli obiettivi e degli scopi dell’attività coinvolta e delle finalità della stessa introduzione, nel sistema giudiziario, di quegli strumenti: l’insostenibilità della cui piena neutralità diviene sempre più evidente.
In conclusione: per il sistema giudiziario statunitense ben venga anche una IA che scriva gli atti degli avvocati, se quella è affidabile e questi ne controllano gli esiti finali.
2. La coeva iniziativa del Garante della privacy
Con deliberazione d’urgenza del 30 marzo 2023 il Garante per la protezione dei dati personali ha limitato temporaneamente l’utilizzo in Italia del software ChatGPT in mancanza di una informativa agli utenti e a tutti gli interessati i cui dati vengono raccolti dalla fornitrice, l’impresa OpenAI, ma soprattutto in assenza di una base giuridica che giustifichi la raccolta e la conservazione massiccia di dati personali, allo scopo di “addestrare” gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma. Lo stesso provvedimento soggiunge che, in base alle verifiche già fino a quel momento effettuate (anteriori, quindi, al clamoroso episodio d’oltreoceano), le informazioni fornite da ChatGPT non sempre corrispondono al dato reale, determinando quindi un trattamento di dati personali inesatto. A seguito di una prima risposta operativa della fornitrice del servizio, il medesimo Garante, con successivo provvedimento 11 aprile 2023, ha sospeso l’efficacia dell’ordine cautelare, ma impartendo ulteriori severe istruzioni operative rivolte al trattamento dei dati, sull’ottemperanza alle quali si è riservata una costante istruttoria.
Anche in tal caso, peraltro, è evidente che la sanzione al sistema di intelligenza artificiale non entra nel merito della possibilità di avvalersene, ma si ferma alla – pure determinante – fase della raccolta delle informazioni e dei dati personali poi utilizzati per addestrare il programma.
Anche in questo caso, quindi, nulla impedisce in sé l’impiego di un sistema di intelligenza artificiale, purché questo garantisca trasparenza e tracciabilità dei dati impiegati.
3. I riferimenti tecnici minimi
A meri scopi descrittivi ed ai fini di questa riflessione, per intelligenza artificiale può intendersi ogni sistema che dispiega comportamento intelligente analizzando il contesto e l’ambiente in cui opera, intraprendendo azioni con un certo grado di autonomia per raggiungere scopi prefissati; per astrazione, l’intelligenza artificiale è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività, di capire il proprio ambiente, di mettersi in relazione con quanto è percepito e di risolvere problemi, di agire verso un obiettivo specifico, adeguando la risposta all’esito delle analisi dei dati immessi e, sempre più spesso, delle reazioni dell’ambiente alle sue precedenti risposte.
Il sistema ChatGPT può definirsi un chatbot basato su intelligenza artificiale e apprendimento automatico sviluppato da OpenAI specializzato nella conversazione con un utente umano; ed è definito il più noto tra i software di intelligenza artificiale relazionale in grado di simulare ed elaborare le conversazioni umane dal già richiamato provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 30 marzo 2023.
Se Chat bot, chatbot o chatterbot, è un programma progettato per simulare una conversazione con un essere umano, la sigla GPT sta per Generative Pre-trained Transformer, una tecnologia nuova applicata al machine learning. Lo scopo principale di questi software è quello di simulare un comportamento umano e sono talvolta definiti anche agenti intelligenti; il loro uso è vario, dalla guida in linea alla risposta automatica alle FAQ degli utenti che accedono a un sito; alcuni impiegano sofisticati sistemi di elaborazione del linguaggio naturale, ma per la maggior parte pare che essi si limitino ad eseguire la scansione delle parole chiave nella finestra di input e fornire una risposta con le parole chiave più corrispondenti. In altri termini, un chatbot è un programma che usa un sistema di intelligenza artificiale ed NLP (Natural Language Processing) per capire le domande dei clienti e automatizzare le relative risposte, simulando la conversazione umana.
4. Il quadro normativo nazionale
Come accennato, il 14 giugno 2023 il Parlamento europeo ha adottato la sua posizione definitiva di negoziazione sull’IA Act, sicché si è passati alla fase dei colloqui con i singoli Stati membri sul testo finale del provvedimento legislativo, allo scopo di raggiungere un accordo entro la fine di quest’anno. Può fin d’ora notarsi che la normativa in itinere si preoccupa dei sistemi “generative” quali appunto ChatGPT, prevedendone minimi requisiti di trasparenza (con obbligatoria menzione della circostanza che il contenuto è stato ottenuto con quel particolare programma, ma pure con accorgimenti per agevolare la percezione della falsità dei risultati) e di garanzia dalla produzione di contenuti illegali, insieme alla libera accessibilità a particolareggiati sommari dei dati coperti da diritto d’autore utilizzati per l’autoapprendimento. Anche il Consiglio d’Europa segue costantemente l’evoluzione della tematica, anche con riguardo al processo.
Per la specifica questione dell’intelligenza artificiale nel processo civile, occorrerebbe affrontare la tematica del contenuto e delle caratteristiche degli atti giudiziari (siano essi di parte o del giudice) secondo la normativa nazionale: ma tanto implicherebbe una riflessione troppo ampia in ordine alle impostazioni generali di ordine culturale sulle modalità di preparazione e successiva estrinsecazione dell’attività difensiva delle parti e decisionale del giudicante.
Tuttavia, può qui bastare il rilievo che mancano limitazioni positive o normative di ordine qualitativo o contenutistico nella redazione degli atti giudiziari, siano di parte, siano del giudice; il legislatore ha solo introdotto una generalizzata potestà regolamentare (variamente articolata tra il diritto processuale civile e quello amministrativo) che può definirsi vòlta ad una tendenziale armonizzazione meramente estrinseca degli atti giudiziari, di parte e del giudice.
Esistono soltanto principi di ordine generale sulle modalità di redazione di atti, ispirati a clausole ampie ed indifferenziate; i riferimenti all’inammissibilità degli atti sono riferiti a vizi dei requisiti cosiddetti di contenuto-forma e sono spesso rimessi alla copiosa elaborazione giurisprudenziale delle giurisdizioni superiori. Nel diritto processuale amministrativo è stato da tempo introdotto per disposizione normativa un limite di ordine quantitativo ed in tal senso si muove la disciplina processuale civile a seguito della riforma di cui al d.lgs. 149/22.
In particolare: nel diritto amministrativo, deve farsi riferimento al co. 2 dell’art. 3 ed all’art. 26 del c.p.a., sull’obbligo di redigere gli atti in maniera chiara e sintetica, ma soprattutto all’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a., che rimette ad un decreto del Presidente del Consiglio di Stato la fissazione dei limiti quantitativi degli atti delle parti, la violazione dei quali esime il giudice dall’obbligo di prendere in considerazione l’eccedenza, la mancata disamina della quale non è neppure soggetta ad impugnazione.
Analogamente, il codice di rito civile prevede ora espressamente, al secondo periodo dell’art. 121, che “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”; con disposizione ripresa via via, talvolta nella declinazione di chiarezza e specificità, per i singoli atti di parte del processo (art. 163, n. 4; art. 167; art. 281-undecies; artt. 342 e 434; art. 366, nn. 3, 4, 6; artt. 473-bis.12, 473-bis.13, 473-bis.17, 473-bis.32 c.p.c.).
L’art. 46 d.a.c.p.c., come modificato dall’art. 4, co. 3, lett. b), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, rimette ad un successivo decreto ministeriale, da emanarsi sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense (e da aggiornare con cadenza biennale), per definire: da un lato, gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo; dall’altro, i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. La stessa norma prevede pure che il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo. E, soprattutto, conclude stabilendo espressamente che il giudice redige gli atti e i provvedimenti nel rispetto dei criteri di cui al presente articolo.
In conclusione, nessun limite intrinseco alla predisposizione di un atto giudiziario può dirsi imposto dalla disciplina vigente, purché esso sia conforme anche all’articolata normativa secondaria sulla giustizia digitale: la quale però è, condivisibilmente, finalizzata a garantire genuinità, autenticità e fruibilità dell’atto medesimo e, in quanto tale, la sua ascrivibilità a chi ne appare l’autore, parte o giudice, ma non incide certamente sul contenuto suo intrinseco.
Pertanto, nulla pare disciplinare, a pena di invalidità di qualsiasi tipo, le modalità con cui si redigono gli atti giudiziari, né, tanto meno, i procedimenti in base ai quali si perviene alla loro definitiva stesura; sicché ad un sistema di intelligenza artificiale, allo stato, ben potrebbe devolversi la redazione di quelli, alla sola condizione che siano fatti propri dall’agente umano.
5. L’algoritmo giudiziario
I sistemi di intelligenza artificiale costituiscono un’accattivante alternativa ad attività intellettuali ritenute seriali e faticose, o comunque poco motivanti:
- per le parti, ad esempio: acquisizione di dati sui fatti rilevanti per le tesi via via sostenute, loro presentazione ed elaborazione onde consentirne la sussunzione in fattispecie astratte regolate dalle norme o già prese in considerazione da dottrina e giurisprudenza (nei Paesi di civil law, soprattutto di legittimità), ricerche su queste due ultime, organizzazione di argomentazioni per illustrare la tesi a sostegno delle proprie difese; redazione con modalità chiare e sintetiche dell’atto finale di volta in volta richiesto;
- per il giudicante, ad esempio: ricostruzione dell’andamento del processo e della materia del contendere, limitata alle questioni dirimenti; ricostruzione dei fatti, attraverso il confronto delle tesi delle parti al riguardo; individuazione delle norme applicabili ai fatti come ricostruiti, previa verifica delle tesi sostenute dalle parti sul punto; elaborazione, in chiave di argomentazione giuridica in sviluppo della premessa, della posizione su ciascuna questione rilevante; redazione del provvedimento conclusivo in modalità chiara e sintetica.
Non giova a tale riflessione l’elaborazione del giudice amministrativo sul punto, limitata – almeno al momento – all’impiego dell’algoritmo nell’attività amministrativa e centrata sull’individuazione dei principi regolatori della materia in quello di conoscibilità, in quello di non esclusività ed in quello di non discriminazione algoritmica: l’attività giurisdizionale è ontologicamente diversa e per nulla assimilabile a quella amministrativa, già solo sotto il profilo della procedimentalizzazione dei processi decisionali.
In linea di principio, il ricorso all’automa è sempre stato ricostruito come teso a liberare l’umano dal peso o dai rischi di un lavoro sentito come sempre meno sostenibile ed al contempo a fornire un risultato reputato più consono od efficace rispetto all’attività che l’umano potrebbe compiere.
Su questa premessa, declassate ad attività secondarie, faticose e ripetitive, quelle di compiuta preparazione del materiale per la decisione, quali la ricostruzione dei fatti rilevanti da esporre e la ricerca delle norme suscettibili da esservi applicate e delle relative elaborazioni di dottrina e giurisprudenza (soprattutto, almeno nei Paesi di civil law, di legittimità), può risultare naturale il passo successivo, dell’affidamento di quelle attività all’automa.
Ora, se la prima delle motivazioni – liberare l’umano da attività secondarie, faticose e ripetitive – può già in qualche modo riferirsi alle attività materiali di raccolta e comparazione efficienti di dati soprattutto in contenziosi seriali indotti dalla massificazione dei rapporti interpersonali, è chiaro che, quanto alla seconda di quelle motivazioni, moltissimo può dipendere dalle scale assiologiche – le stesse che orientano l’etica dell’algocrazia o algoretica – che si vorranno adottare, risultando ormai indifferibile intendersi su cosa si intenda per efficienza della giustizia, tanto da potersi postulare, quale branca dell’algoretica, una “giurialgoretica”.
Le famose leggi della robotica, elaborate dapprima in ambito letterario (fin dal 1941!) e poi assurte al ruolo di principi generali della materia nel diritto eurounitario, non soccorrono, pensate come erano per attività sostanzialmente materiali spesso elementari e quindi inidonee a fronteggiare l’enorme complessità del diritto e dei concetti da definire quanto alle attività in cui sostituire l’umano.
Occorrerà riflettere con grande attenzione e scegliere quali risultati affidare all’automa: e soprattutto in che termini declinare la certezza del diritto, nelle sue molteplici accezioni, cui orientare le decisioni del giudice e, in sua vece o in suo ausilio, del suo alter ego digitale.
Già nell’attuale momento storico è difficile limitare la definizione di quella certezza come trattamento uguale di casi uguali: questa soluzione è reclamata dalla dilatazione globale dei traffici commerciali e giuridici come un bene essenziale, economicamente misurabile, sotto il profilo della conoscibilità o calcolabilità delle decisioni di giustizia, contrapposta alla - o comunque in tensione dialettica con la - sua flessibilità per un adeguamento alle peculiarità della fattispecie; senza considerare le millenarie dispute sul ruolo del diritto in generale e, quindi, della sua funzione di mantenimento e protezione dello status quo in contrapposizione all’altra di ordinatore e propulsore di uno sviluppo e di un cambiamento anche sostanziale degli assetti correnti.
Dal campo del settore penale, dove in diversi contesti l’algoritmo è già stato impiegato per la prognosi della personalità del reo perfino al fine di determinare la pena idonea o per l’acquisizione di prove dal valore sostanzialmente legale, a quello del settore civile (e amministrativo, nel senso di giustiziale amministrativo), dove la possibilità di definizione di procedimenti elementari in via completamente automatizzata (generalmente in settori definibili ad alta serialità e salva la sola facoltà, disegnata come eccezionale, di successivo intervento umano) è ormai apertamente studiata, gli orizzonti si schiudono sterminati: ed anzi in alcune realtà territoriali, sotto l’etichetta di “giustizia predittiva”, si è già avviata una sperimentazione. E tutto questo per non parlare poi dei sempre più sofisticati sistemi di vera e propria on line dispute resolution, che implicano una decisione robotica formalmente negoziale, sostanzialmente assimilata all’arbitrato e sostitutiva, di per sé sola, dell’attività giurisdizionale tradizionale, quella cioè devoluta allo Stato od altro ordinamento ad esso variamente riferibile.
6. Gli algoritmi giudiziari per l’attività delle parti
Un programma di intelligenza artificiale per la predisposizione di bozze o stesure preliminari di atti di parte può assolvere utili compiti, purché sia appunto adeguatamente chiarito il modo di procedere e, soprattutto, garantito un ruolo finale decisivo di effettiva supervisione e decisione da parte dell’agente umano.
L’imposizione di schemi-tipo, con adozione di parametri di contenuto-forma e poi di vero e proprio contenuto, potrebbe giovare grandemente al confezionamento di atti di parte completi ed affidabili: basti pensare al rispetto dei requisiti previsti dalla legge oppure dalla normativa in tema di giustizia digitale oppure ancora, ove esistenti, dai protocolli e, tra breve, dal richiamato decreto ministeriale previsto dall’art. 46 d.a.c.p.c.
È indispensabile l’inserimento di subroutine di verifica dei singoli passaggi, a cominciare dalle citazioni operate, sia dei semplici testi che dei precedenti giurisprudenziali, che consentano di identificare la fonte e che questa rientri tra quelle che possono definirsi affidabili.
È pure indispensabile la consequenzialità tra ricostruzione del fatto, con indicazione dei relativi elementi istruttori (costituendi o precostituiti), ed elaborazione delle tesi in diritto da applicare, secondo lo schema classico, altrettanto agevolmente riconducibile ad un flusso operativo di istruzioni, della sussunzione.
Ed infine è indispensabile la consequenzialità tra premesse, sviluppi argomentativi e conclusioni, al fine di non tralasciare nulla di quanto originariamente richiesto.
L’esperienza dell’infortunio all’avvocato statunitense insegna che dovrebbe essere allora indispensabile quanto meno un sistema di controllo interno da attivare obbligatoriamente, una lista di controllo (o check-list) di tutte le operazioni non solo di progettazione dei singoli passaggi del confezionamento dell’atto giudiziario, ma pure di verifica dell’affidabilità dei dati utilizzati.
Con questi limiti, l’attività dell’avvocato civilista potrebbe ambire a raffinarsi fino al ruolo di colui che impartisce le coordinate generali per l’impostazione dell’atto difensivo in relazione ai tre elementi costitutivi della domanda (personae, causa petendi e petitum), ma senza mai rinunciare a quello di finale responsabile quale approfondito e consapevole ricognitore e supervisore del prodotto del sistema di intelligenza artificiale, prima di appropriarsene.
7. Gli algoritmi giudiziari per l’attività del giudicante
Analogo discorso è a farsi, sia pure con ancora maggiore cautela, per l’attività del giudicante, visto che la gamma dei provvedimenti giudiziari civili deferibili alla predisposizione in bozza da parte di un sistema di intelligenza artificiale potrebbe non essere limitata.
L’istruzione (in senso lato, cioè la preparazione) dei singoli passaggi delle attività del giudice civile riguarda infatti, com’è noto, il giudizio di fatto e quello di diritto. Per fatto e giudizio di fatto deve intendersi tutto ciò che attiene all’accertamento o alla ricostruzione della verità o della falsità di dati empirici (fatti o atti) rilevanti per il diritto, fatta eccezione per le modalità di applicazione delle eventuali norme relative ad ammissibilità ed assunzione di prove, ovvero a prove legali; per diritto e giudizio di diritto si deve avere riguardo a tutto quanto attiene all’applicazione di norme e cioè: all’individuazione o scelta della norma applicabile al caso concreto; all’interpretazione di tale norma, sia con riguardo alla fattispecie astratta, sia con riguardo al comando; alla sussunzione dei fatti, come ricostruiti, entro la fattispecie astratta; all’individuazione o deduzione delle conseguenze da quella norma previste, con applicazione al caso di specie.
Ma anche qui deve esserci un’accorta preliminare definizione di ambiti, paradigmi, presupposti e modalità operative: l’attività decisionale in senso stretto, cioè l’opzione tra due o più soluzioni di questioni di ricostruzione in fatto e di questioni in diritto, nei singoli passaggi sopra ricordati, non può mai essere devoluta ad un’automazione, ma essere sempre riservata all’agente umano.
In definitiva, un diagramma di flusso per standardizzare le operazioni preliminari alla decisione finale potrebbe essere di grande giovamento: ricostruzione dei dati salienti della controversia, illustrazione sintetica delle questioni mosse nel grado o in quelli precedenti, richieste e domande cui rispondere, questioni da affrontare; individuazione delle questioni di fatto e di diritto da esaminare; risoluzione separata delle prime e delle seconde, sempre con prospettazione di una lista di controllo (o check-list) idonea a consentire all’agente umano di intervenire e correggere la rotta in una direzione anche diversa da quella proposta come quella corrispondente all’esito di maggiore frequenza statistica in casi analoghi.
Questo perché l’intelligenza artificiale apprende da sé stessa e dall’esperienza che di volta in volta acquisisce, ma non ha – o, almeno, non ha ancora – la creatività e la capacità di intuizione e di astrazione propria della mente umana, sicché correrebbe il rischio di imbalsamare la realtà in uno schema teorico preimpostato ab externo in relazione ai dati somministrati per impostare le sue analisi e quindi manipolabile fin dalla sua programmazione, restando impermeabile ed insensibile alla valutazione di contesti pure solo in parte imprevedibili, o di eccezioni o deroghe non previamente sperimentate. In una parola, la decisione giudiziale affidata all’automa sarebbe forse garanzia di uniformità con casi precedenti, ma al prezzo di un’immutabilità mortifera e paralizzante, di inflessibilità cieca ed eterodiretta: quindi, sostanzialmente inumana.
8. In conclusione
Da un lato, la massificazione dei rapporti e l’esplosione incontrollata delle risorse cognitive a disposizione offrono strumenti di apparente semplificazione ed ausilio nell’estrinsecazione di tutte le attività, ivi comprese quelle tradizionalmente definite intellettuali. Dall’altro, l’esigenza di un trattamento uniforme per casi uguali è sempre più sentita. Ma, nel campo del diritto civile, la libertà e la creatività del pensiero umano, che nessun automa è per definizione – almeno finora – in grado di replicare, è un valore che si vuole continuare a ritenere irrinunciabile. E sta nel bilanciamento tra queste esigenze la chiave di volta della inarrestabile sostituzione dell’automa a segmenti sempre più estesi dell’attività non più solo materiale, ma anche intellettiva, del suo creatore per il proprio beneficio e progresso.
È questa la vera sfida di fronte al travolgente progresso dell’automazione: sta al creatore Uomo stabilire cosa riservare a sé e cosa devolvere al suo quasi alter ego in tutti i settori della vita quotidiana.
Per il mondo del diritto, non è più differibile una riflessione comune – con adeguati strumenti, tra cui incontri di studio, tavoli di lavoro e così via – fra tutti i suoi attori (Accademia, Avvocatura, Magistratura, Personale amministrativo) che individui i punti irrinunciabili dell’area di intervento umano e che delinei gli ambiti e le modalità operative dei sistemi di intelligenza artificiale da applicare al settore, come pure i principi in senso lato etici che devono governarli: una “giurialgoretica”, cioè l’algoretica del diritto.
GUIDA ALL’APPROFONDIMENTO
In dottrina sul tema:
C. Castelli, Giustizia predittiva, in www.questionegiustizia.it, 8 febbraio 2022;
Consiglio d’Europa, CAI(2023)01 Committee on artificial intelligence (CAI), Revised zero draft [framework] Convention on artificial intelligence, human rights, democracy and the rule of law, Strasbourg, 6 January 2023, reperibile al sito URL https://rm.coe.int/cai-2023-18-consolidated-working-draft-framework-convention/1680abde66;
F. De Stefano, L’intelligenza artificiale nel processo?, in www.giustiziainsieme.it, 6 marzo 2020; European Commission, A definition of Artificial Intelligence: main capabilities and scientific disciplines, all’URL https://digital-strategy.ec.europa.eu/it/node/2226; D. Franklin, The Chatbot Revolution;
ChatGPT: An In-Depth Exploration, 2023, ISBN 979-8370255281;
M. Luciani, La decisione giudiziaria robotica, in Riv. Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 3-2018, § 1;
L. Viola (a cura di), Giustizia predittiva e interpretazione della legge con modelli matematici, ISBN-13 978-8835348115, Milano, 2019.
Riferimenti alla normativa eurounitaria in itinere:
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52021PC0206
https://www.ceps.eu/wp-content/uploads/2021/04/AI-Presentation-CEPS-Webinar-L.-Sioli-23.4.21.pdf?
[Contributo già apparso su IUS – Processo civile, https://ius.giuffrefl.it/dettaglio/10602722/intelligenza-artificiale-e-redazione-degli-atti-giudiziari-civili?searchText=intelligenza%20artificiale il 9 agosto 2023]
(Immagine: Yakoi Kusama,Infinity Mirrored Room – Filled with the Brilliance of Life, 2011)
AUDIZIONE I COMMISSIONE (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) - CAMERA DEI DEPUTATI
Memoria scritta del dr. Armando Spataro[1]
(già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino e già componente del CSM)
in ordine alla
Audizione informale del 25 gennaio 2024, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge C. 23 cost. Enrico Costa, C. 434 cost. Giachetti, C. 806 cost. Calderone e C. 824 cost. Morrone, recanti modifiche all’articolo 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il succedersi delle regole vigenti e le diverse questioni in campo - 3. Le ragioni contro l’unicità di carriera: pag. 9 - 3.a La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa pubblica - 3.b Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M. - 3.c La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale - 3.d La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale - 3.e La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo - 3.f La particolarità del Portogallo - 4. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera - 4.a La prospettiva del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa - 4.b La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM - 4.c I dati statistici - 4.d Unica formazione e unico CSM - 4.e Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere - 4.f La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia - 5. Tensioni tra potere politico e magistratura: il P.M. non è l’“avvocato della polizia”, né “dell’accusa" - 6.La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali (con cenni alla obbligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità) e le altre cinque proposte di legge pendenti in Parlamento - 7. Per concludere…l’iniziativa di 600 magistrati a riposo e dell’ANM.
1. Premessa
Le osservazioni che seguono (la cui lunghezza è dovuta alla notevole delicatezza della questione) sono frutto della mia esperienza professionale (tutta spesa nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sia come Sostituto Procuratore della Repubblica e Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, sia – negli ultimi anni, fino al dicembre 2018 – come Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino), nonché di quelle di componente del CSM (nel quadriennio 1998/2002) e più recentemente (dall’inizio del 2019) di docente a contratto presso l’Università Statale di Milano nella materia di “Politiche di sicurezza e dell’Intelligence”. Utilizzerò anche miei precedenti interventi sui temi oggetto dell’audizione.
Saranno inevitabili alcuni cenni al contesto storico e normativo, che non devono affatto essere interpretati come frutto di intenzioni diverse da quella di contribuire, con corretta dialettica, alla riflessione sulla dichiarata finalità delle proposte di legge in esame di introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere dei magistrati, una riforma che a mio avviso – lo affermo preliminarmente – non è condivisibile, in quanto inutile, anacronistica ed in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento.[2]
In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi degli argomenti e delle rispettive obiezioni. Il tentativo è quello di riuscire a farlo con freddezza, nonostante talune affermazioni e strumentalizzazioni, non certo commendevoli, abbiano acceso il dibattito nel mondo dei giuristi.
In questa prospettiva, sento comunque il dovere di anticipare con chiarezza la mia ferma contrarietà (per le ragioni che appresso esporrò) a qualsiasi ulteriore cambiamento delle norme vigenti in materia (pur se alcune di esse appaiono criticabili) e, dunque, manifesto subito il mio dissenso (che illustrerò nel penultimo paragrafo) rispetto alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali (ma di iniziativa popolare), presentata il 31 ottobre 2017, nonché rispetto alle seguenti altre 5 proposte di legge costituzionale pendenti in Parlamento, le prime 4 presso la Camera dei Deputati e la quinta presso il Senato (che qui si preferisce citare, pur se non oggetto della audizione), tutte con la medesima intitolazione («Modifiche all’art. 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura») :
· Proposta A.C. n. 23, d’iniziativa del deputato Enrico Costa (Azione), presentata in data 13 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 434, d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), presentata in data 24 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 806, d’iniziativa dei deputati Calderone, Cattaneo, Pittalis e Patriarca (Forza Italia), presentata in data 24 gennaio 2023;
· Proposta A.C. n. 824, d’iniziativa dei deputati Morrone, Bellomo, Bisa, Matone e Sudano (Lega), presentata in data 26 gennaio 2023;
· DDL S. n. 504, d’iniziativa della senatrice Erika Stefani e di altri 21 senatori cofirmatari (Lega), presentato in data 26 gennaio 2023.
Il Governo, come è noto, non ha ancora presentato alcuna proposta di legge in materia, poiché, illustrando il “cronoprogramma” delle proposte più urgenti di riforma in cantiere, il Ministro Nordio ha dichiarato che “ci sono poi altre riforme di carattere costituzionale come le carriere dei magistrati che esigono tempi più dilatati”[3], aggiungendo in seguito che “...sarà una rivoluzione copernicana. È una riforma non negoziabile per una ragion pura e una ragion pratica: è nel programma di Governo e quindi va attuata per rispetto verso i cittadini che ci hanno votato; è consustanziale al processo accusatorio”[4].
A dimostrazione del fatto che la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non è un obiettivo condiviso da tutto il mondo dell’avvocatura, pur se è ormai una sorta di “ossessione” delle Camere Penali, intendo, però, iniziare questo intervento citando affermazioni importanti di prestigiosi avvocati penalisti (e molti altri potrebbero essere qui citati)[5]:
Ma altre simili valutazioni provengono da esponenti altrettanto prestigiosi del mondo accademico tra cui, riservandomi altre citazioni più avanti:
Quel ruolo richiede infatti che ogni magistrato, nei diversi ruoli, persegua un unico ed unitario interesse generale: accertare la verità dei fatti nei modi processuali stabiliti, e decidere di conseguenza, secondo la legge.
Il cittadino si aspetta che, come ora avviene (e comunque come ora deve avvenire), il pubblico ministero cerchi, con pari impegno, prove a carico e a discarico dell’indagato, e, se del caso, chieda l’archiviazione o l’assoluzione. Il pm deve rimanere «parte imparziale» del processo: a differenza del difensore che fa l’interesse privato e personale dell’imputato.
Al giudice, poi, spetterà di valutare le prove e gli argomenti presentati dall’uno e dall’altro”.
2. Il succedersi delle regole vigenti e le diverse questioni in campo.
Come è noto, le norme dell’ordinamento giudiziario vigenti in tema di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti (e viceversa), nonché in tema di assegnazione dei magistrati all’una o all’altra funzione al termine del tirocinio, erano – fino alla legge n. 71 del 17 giugno 2022 - quelle previste dal d.lgs n. 160 del 5 aprile 2006, emesso in attuazione della legge delega n. 150 del 20 luglio 2005, successivamente modificate dalla legge n. 111 del 30 luglio 2007, con conseguente notevole cambiamento del sistema preesistente[10].
A seguito della citata riforma ordinamentale[11], infatti, le funzioni requirenti di primo grado potevano essere conferite solo a magistrati che avessero conseguito la prima valutazione di professionalità, vale a dire dopo quattro anni dalla nomina.
La riforma, peraltro, aveva limitato il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti, e viceversa, sotto un profilo oggettivo, vietandolo nei seguenti casi:
a) all’interno dello stesso distretto;
b) all’interno di altri distretti della stessa regione;
c) all’interno del distretto di corte d’appello determinato per legge (ex art. 11 c.p.p.) come competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato prestava servizio all’atto del mutamento di funzioni.
Sotto il profilo soggettivo, veniva stabilito il limite massimo di quattro passaggi nel corso della complessiva carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni esercitate pari a cinque anni.
Ai fini del passaggio si richiedeva inoltre:
a) la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale;
b) la formulazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni.
Il cambio di funzioni, purché avvenisse in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza, era possibile anche nel medesimo distretto, ma solo in presenza di specifiche situazioni e stringenti requisiti[12].
Va pure ricordato, in particolare, che la legge n. 111/2007, oltre ad avere modificato varie altre previsioni del D. lgs. n. 160/2006, aveva eliminato la netta ed irreversibile separazione delle funzioni originariamente introdotta dalla “legge Castelli” (secondo cui, dopo cinque anni dall’ingresso in magistratura occorreva scegliere definitivamente tra funzioni requirenti o giudicanti): la legge n. 111/2007 aveva dunque impedito l’entrata in vigore di una normativa che di fatto realizzava una separazione delle carriere, aggirando le previsioni costituzionali[13].
In relazione allo specifico tema della separazione delle carriere, è però doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 co. 2 sul passaggio dei magistrati dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa, e di altre previsioni dell’ordinamento giudiziario, ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue:
La Corte Costituzionale, nella stessa occasione, aveva pure precisato che:
Di questa pronuncia si deve prendere atto, anche in relazione al dibattito sulla necessità o meno di modificare la Costituzione per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, differenti rispetto a quelle oggetto del referendum abrogativo del 2000[14], che periodicamente sono argomento di dibattito politico, come quelle oggetto dell’audizione che prevedono la necessità di concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o quella di istituire separati Consigli Superiori della Magistratura. In questo caso[15], si tratterebbe di proposte di modifiche ordinamentali che, se fossero attuate con legge ordinaria, difficilmente potrebbero sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale.
Ma il sistema sin qui illustrato per necessità di ricostruzione storica è stato a sua volta significativamente modificato da quello introdotto con la la Legge n. 17 giugno 2022, n. 71, contenente, tra l’altro, disposizioni in materia di riforma ordinamentale”.
In proposito, ha efficacemente scritto Nello Rossi[16] :
“Se per “separazione delle carriere” dei giudici e dei pubblici ministeri si intende una netta divaricazione dei percorsi professionali e la diversità dei contesti organizzativi nei quali vengono svolti i rispettivi ruoli professionali, allora bisogna prendere atto che, a seguito degli interventi legislativi degli ultimi venti anni, la separazione si è già di fatto realizzata.
In particolare la legge n. 71 del 2022 ha determinato un’accentuazione estrema del processo di interna divisione del corpo della magistratura, procedendo oltre i già rigidi steccati eretti dalla riforma Castelli del 2006 e realizzando il massimo di separazione possibile tra giudici e pubblici ministeri a Costituzione invariata. L’art. 12 della legge 71/2022 ha infatti modificato l’art. 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una volta nel corso della carriera, entro il termine di 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni.[17]
Trascorso tale periodo è ancora consentito, per una sola volta:
a) il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, a condizione che l’interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;
b) il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste.
La regola generale dell’unico passaggio intende evitare che la scelta delle funzioni sia troppo fortemente condizionata dalla posizione del magistrato nella graduatoria del concorso di accesso e da considerazioni compiute nella fase iniziale della sua vita professionale, lasciando aperta una (sola) porta per una opzione fondata su di una più matura vocazione.
Si è voluto, cioè, almeno evitare di avere un pubblico ministero ingabbiato, precocemente e irrimediabilmente, nel ruolo di giudice o viceversa.
Ora è evidente che tanto la regola generale quanto i due ulteriori spiragli lasciati aperti per il mutamento di funzioni in precedenza ricordati costituiscono solo modesti e parziali temperamenti di una separazione divenuta pressoché totale.”
Questa è dunque la disciplina attualmente vigente che si intende ulteriormente modificare con le già citate proposte di legge che, come si dirà appresso, andrebbero ad incidere anche su altri principi costituzionali: va posto in evidenza, infatti, che la Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica, prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dalle stesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), le attribuisce la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi del modello previsto rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero, figura cui spetta il compito, come si evince dallo stesso nome dell’organo, di rappresentare gli interessi della Repubblica, vale a dire di assicurare il rispetto della legge, non solo in materia penale, ma anche in materia civile in particolare, “in tutti quei casi in cui l'ordinamento ravvisi la sussistenza di un interesse pubblico o di un interesse collettivo che si affianca a quello strettamente personale delle parti. In particolare, la legge prevede specifiche ipotesi in cui il p.m. può addirittura esercitare l'azione civile (dando quindi avvio ad una causa) ed altre in cui il suo intervento è comunque richiesto nelle cause instaurate da altri soggetti, a tutela di interessi che, come detto, trascendono quelli delle parti già coinvolte nel processo”[18].
Anche da queste brevi considerazioni dovrebbe risultare evidente la necessità che giudici e pubblici ministeri abbiano le stesse competenze, la stessa formazione e la stessa appartenenza a un unico ordine, indipendente da ogni altro potere, come stabilisce la nostra Costituzione.
Questa annotazione, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi appena enunciati che rischiano di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale in esame o che periodicamente si addensano all’orizzonte.
Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare e confutare separatamente ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma assolutamente rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico-giudiziario, talvolta impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella della separazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere, nient’affatto sovrapponibili. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dagli addetti ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dalla normativa citata (art. 10 D.Lgs. 5 aprile 2006, poi sostituito dall’art. 2 L. 30 luglio 2007[19] e dall’art. 12 L. n. 71 del 2022). Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati, le carriere di giudicanti e requirenti siano amministrate da distinti CSM ed in cui il passaggio dall’una all’altra funzione sia impossibile.
3. Le ragioni contro l’unicità di carriera[20]
3.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa.
Il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m., secondo alcuni, sarebbe deducibile anche dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame.
Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto il 21 maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” e si qualificava compromettente “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale..”, affermazioni che si ripetono all’infinito almeno sin dall’epoca dei processi cd. di “Mani Pulite”
È notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare per le tesi dell’accusatore: Francesco Saverio Borrelli, autorevolmente, già venti anni fa, parlò di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni”, auspicando che “si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee”[21].
Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa e dello stesso dato statistico, facilmente strumentalizzabile in qualsiasi direzione: perché escludere, ad esempio, che l’alto numero di richieste cautelari accolte dai giudici costituisca spia del fatto che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione ?
Ma soprattutto le tesi dell’appiattimento dei giudici sulle tesi dei PM sono smentite sul piano “quantitativo” da un dato opposto, quello dalle alte statistiche sulle assoluzioni e, sul piano “qualitativo”, dal rigetto di ipotesi accusatorie in importanti processi nei quali alcuni uffici di procura avevano investito molto in termini di impegno e di immagine.
Ne danno notizie le frequenti ed anche recenti cronache giornalistiche[22] che, però, citano anche i numerosi casi di decisioni dei giudici che “scavalcano” le richieste dei PM, condannando pur in presenza di richieste di assoluzioni, comminando pene più elevate di quelle richieste dai PM e disponendo il rinvio a giudizio pur in presenza di richieste di archiviazione. Insomma sembra nato, dopo quello dei PM, “il partito dei giudici”, al punto che spesso si auspicano indagini disciplinari nei loro confronti, si indaga sulle loro vite private e sui loro orientamenti ideali, fino a qualificarli oppositori politici nei confronti della maggioranza di turno.
L’affermazione della contiguità condizionante fra giudici e p.m., però, è diventata comunque “una convinzione diffusa, una verità che non ammette prove e ragioni contrarie”[23].
3.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.
È questa una posizione che emerge spesso negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali[24]. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati.
Orbene, dando per scontata l’esistenza, sia pur marginale, del vizio insopportabile di taluni magistrati (soprattutto P.M.) di erigersi al rango di moralizzatori della società, sorprende che da parte dell’avvocatura italiana (o di parte di essa) e da alcuni settori del mondo politico si trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, svolgere “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp).
Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo - non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati e politici compresi).
Basterebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove. E ciò vale anche per i giudici di legittimità.
Stupisce, pertanto, quanto si legge in un articolo del prof. Giorgio Spangher[25]: “Il governo…dovrebbe avere il coraggio di contrapporsi ad essa (NdR: alla “magistratura antimafia”) ed alla magistratura in generale. Come? Rivendicando e non paradossalmente affossando la separazione delle carriere, il cui rinvio è ora giustificato dalla riforma del premierato: la separazione era stata peraltro ripetutamente ed ancora di recente promessa, senza dimenticare quanto la si fosse sbandierata in campagna elettorale. Di rinvio in rinvio non se ne farà nulla. Urge…attendere! E però se la si portasse a casa, si limiterebbero certi poteri che ora sono troppo concentrati nella Procura Nazionale Antimafia così come in quella europea”.
Dunque separazione delle carriere come farmaco in grado di curare i presunti eccessi di potere della PNAA (non si spiega quali sarebbero, però), il cui magistrato dirigente, invece, si distingue per sobrietà e rispetto delle competenze istituzionali, oltre che per la sua professionalità!
3.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale.
Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del “nuovo” codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni è ancora prevista nell’ordinamento giudiziario vigente, va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a vita a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante.
Sono in proposito ricche di passione ed efficaci le parole di Alessandra Galli[26], già giudice e figlia di Guido Galli, ucciso dai terroristi di Prima Linea il 19 marzo del 1980 a Milano: “Non è affatto detto che dalla separazione di giudici e pm nascano magistrati più equilibrati. La contaminazione non intacca l’autonomia. Al contrario, si impara a valutare le cose da una prospettiva diversa. Lo dico per esperienza personale e familiare. Io sono stata nella mia carriera pubblico ministero e giudice, penale e civile, un percorso che mi ha arricchito. Soprattutto, ho avuto l’esempio mio papà: era stato pm e poi giudice, e prima di essere assassinato stava rientrando in procura” (NdR: il CSM aveva già deliberato tale trasferimento).
Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro(come il modello americano, caratterizzato anche da alcune caratteristiche essenziali ed estranee al nostro, quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede, al co. 1, che il P.M. “veglia all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, richiedendo, nei casi di urgenza, i provvedimenti cautelari che ritiene necessari”): un ruolo che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività e che non coincide, dunque, con quello di semplice parte, interessata solo alle ragioni dell’accusa. In definitiva appare evidente, e dovrebbe esserlo anche per chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, va costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.
Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”: “ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”.
Anche questa affermazione priva di fondamento è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata o, nel migliore dei casi, di una visione storica propria di commentatori disattenti. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G., rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito approvato nel 1988, ed in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura.
Le affermazioni di Falcone, peraltro risalenti ad epoca anteriore alle ben note aggressioni subite in anni seguenti dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno, specie da chi non conosce le precisazioni che più volte egli aveva diffuso per evitare equivoci sul suo pensiero.
3.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale
Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal secondo comma dell’art. 111 (Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata)[27] quasi che esso avesse, per questa parte, introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché costituire una norma-manifesto, enunciativa di un principio già presente e praticato nel processo penale, come in quello civile.
In realtà, evocare il contenuto dell’art. 111 Cost. ed affermare che esso impone la separazione delle carriere è una delle più gravi suggestioni in circolazione.
Tralasciando ogni possibile slogan, infatti, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe anche ricordare che per effetto di varie riforme si è realizzato nel tempo un notevole potenziamento del ruolo della difesa nel nostro processo, persino con conseguentemente allungamento dei suoi tempi di complessivo svolgimento.
In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i “risentimenti” originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore delle attività delle parti resta tale, e un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.
Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione, tutti diventati magistrati attraverso identico meccanismo concorsuale: non si vede, infatti, come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo, pur se tutti “controllori” del merito delle indagini[28].
Ed a costo di apparire provocatorio, perché non arrivare a prevedere una distinzione di carriere tra avvocati che assistono imputati e quelli che assistono parti civili, anch’essi di solito “appiattiti” sulle tesi dei p.m.? In realtà, non sembra che interessi molto la difesa della unicità della cultura giurisdizionale che pure dovrebbe coinvolgere allo stesso grado magistrati ed avvocati!
Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio mandato nella piena legalità e con eventuale e personale successo professionale: senza quel ruolo non sarebbe possibile giustizia e la bilancia che la rappresenta non potrebbe essere equilibrata. Sono affermazioni che non hanno alcuna valenza offensiva, sia pur marginale, come ha invece ritenuto l’Unione delle Camere Penali in un documento del 10 settembre 2023 ove si legge quanto segue:
“La funzione difensiva viene considerata, sempre da ANM, come “rappresentazione di interessi privati”, che in quanto tale non ha titolo a pretendere parità rispetto alla parte pubblica, cioè al pubblico ministero. Uno sproposito giuridico e culturale di dimensioni epocali. La funzione difensiva, rappresentando la indispensabile condizione senza la quale non è tecnicamente possibile che si formi la prova nel processo e che il Giudice formi il proprio convincimento ed esprima il proprio giudizio, svolge una cruciale funzione di rilievo pubblico perfettamente equiparabile a quella svolta dall’Accusa. Identificare l’interesse specifico dell’imputato con la funzione pubblica svolta dal suo difensore rappresenta uno sproposito di dimensioni epocali, che ci fornisce la esatta misura della deriva populista e demagogica di ANM”.
Niente di tutto questo ha un minimo di fondamento: il ruolo pubblico del difensore è fuori discussione, ma ciò non significa affatto che sia identico rispetto a quello del P.M. e caratterizzato dalle stesse finalità ! Il P.M., invece, condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le sue indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il pubblico ministero che redige un atto è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” - alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio (art.70 comma 4 ordinamento giudiziario e art. 53 c.p.p.).
Il 6 settembre 2023, in sede istituzionale e durante l’audizione del presidente dell’ANM dr. Santalucia dinanzi alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, l’on.le avvocato Tommaso Calderone, firmatario di una delle cinque proposte di legge citate in premessa, ha dichiarato di non avere mai conosciuto alcun pubblico ministero che abbia svolto attività investigative in favore degli imputati: si tratta di un’affermazione che genera stupore, alla luce di ciò che spesso si verifica in ogni Tribunale, anche in processi importantissimi, sia durante la fase delle indagini che durante i dibattimenti, come riconosciuto da molti avvocati.
Tornando al senso delle descritte differenze ontologiche (che – si ripete - non intaccano in alcun modo l’etica del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica), ciascuno può agevolmente comprendere che non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è anzi fatto positivo per i cittadini e per la collettività.
L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio, condiviso da chi scrive, della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Non risulta affatto che nel processo le parti abbiano poteri asimmetrici” pure se “il pubblico ministero è portatore di un interesse pubblico, che non è simmetrico a nessun interesse delle parti private”[29] . E comunque la parità processuale “…non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa”[30].
Anche il membro laico del CSM Ernesto Carbone si è pronunciato in tal senso[31]: “Nessuna separazione delle carriere ma ‘commistione’ delle carriere”. E ancora: “La separazione fra pm e giudici è un finto problema. La separazione ci deve essere tra magistrati bravi e magistrati meno bravi”. Ha poi teorizzato che, piuttosto, il buon magistrato per cinque anni dovrebbe fare il giudice, e solo dopo potrebbe cambiare casacca.
E Stefano Cavanna, altro membro laico del CSM, ha aggiunto: “Penso di essere stato il primo ad affermare l’importanza che i magistrati durante il loro percorso professionale ogni tot anni passino dal ruolo giudicante a quello requirente e viceversa”[32].
3.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo[33].
È questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori e da giuristi favorevoli alla separazione, i quali – tuttavia – non possono non conoscerne la natura di mero slogan, né ignorare quanto essa sia priva totalmente di fondamento.
Ma purtroppo, si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.
È opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la assoluta inattendibilità dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo e il condizionamento delle indagini.
Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo raccontare in Italia. È chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese: basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Tra l’altro, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione: “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente”. Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita ad alcuni accademici[34] e persino all’avv. Gian Domenico Caiazza, già presidente della Unione Camere Penali, che nel corso di un recente confronto con lo scrivente[35] ha manifestato la propria indifferenza a tale ipotesi.
Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:
Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto”.
Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).
È stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese;
Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà, come appresso si dirà, non può certo ritenersi così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura da tempo soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo.
Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.
3.f – La particolarità del Portogallo
La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo: non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso che, per la verità, si sta già autorevolmente “lavorando” all’ipotesi di un controllo dell’esecutivo sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principi di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.
Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale del Portogallo ove, , sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua pluridecennale applicazione, quel progressivoaffievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese[38], il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione –ha dichiarato il magistrato portoghese - aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri[39] hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. È stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.
Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.
4. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera
Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono già in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati. Ma altre ne esistono.
4.a – La prospettiva del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa
Per completare la carrellata sul panorama internazionale, ad es., è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea. Vanno a tal fine citate almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni, l’uno risalente al 2000 e l’altro più recente del dicembre 2014
Il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che:
“…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”.
Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che:
“La possibilità di <<passerelle>> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”.
Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta “Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.
Orbene, in questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono qui illustrati.
Ma va anche ricordata, in ordine al tema di cui qui si discute, la creazione della Procura Europea (EPPO) che, con sede in Lussemburgo, è entrata in funzione dal 1°giugno 2021, almeno per il momento è competente esclusivamente ad indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione dinanzi alle ordinarie giurisdizioni nazionali degli Stati partecipanti e secondo le regole processuali di questi ultimi.
Si tratta di un’importante istituzione sovranazionale, utile per far meglio funzionare la collaborazione internazionale tra gli stati europei, ma anche con Eurojust ed Europol.
Orbene, è significativo che, anche per rendere omogenee le legislazioni europee in tema di giustizia, la normativa che riguarda l’EPPO impegna gli Stati Europei a bandire specifici interpelli ai rispettivi magistrati per diventarne componenti, prevedendo che questi ultimi possono esercitare – negli stati di provenienza – funzioni sia giudicanti che inquirenti: nell’ultimo interpello bandito in Italia, infatti, alla luce anche della normativa interna, vi sono stati vari giudici che hanno chiesto di diventare pubblici ministeri nell’Eppo.
“Nello spazio comune europeo, la garanzia di tutela dei diritti e dello Stato di diritto comporta una riduzione degli spazi di manovra autonomi per interventi strutturali che possano compromettere la capacità dei sistemi giudiziari nazionali di operare nella loro funzione di effettiva garanzia. La prospettiva europea è dunque la cartina di tornasole per valutare l’impatto e le ricadute di tutte le modifiche che incidono sulla qualità ed efficacia della giurisdizione.
Ciò che oggi l’Europa ci chiede è valutare ogni riforma istituzionale alla luce dei principi dello Stato di diritto, come insieme dei valori non negoziabili che sono a fondamento dell’Unione: fra questi, l’indipendenza dei sistemi giudiziari e degli attori della giurisdizione, che deve garantire l’effettiva tutela dei diritti e dei singoli contro ogni arbitrio del potere”[40].
Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni[41].
4.b – La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM
Si è fin qui più volte parlato di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi. O quasi si trattasse di uno slogan pubblicitario.
È quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità”[42]. In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.
Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria, alla preliminare selezione dei casi in cui è opportuno trasmettere al Gip le richieste di intercettazioni telefoniche sollecitate dalla polizia. Si tratta all’evidenza di interventi nei quali il P.M. non svolge un ruolo repressivo ma al contrario un ruolo istituzionale di garanzia e di tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino nei confronti di provvedimenti limitativi adottati dagli organi di polizia di cui, diversamente, verrebbero incentivate prassi criticabili, talvolta ancora oggi emergenti. Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere inserito, appunto, nella cultura della giurisdizione, che non coincide certo con l’ovvia “cultura della legalità”, un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Il PM, insomma, deve saper esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria, senza appiattirsi, da un lato, sulle esigenze della investigazione pura e senza rinunciare, dall’altro, a quella cultura che costituisce la barriera più solida contro i ricorrenti progetti di separazione delle carriere (e persino – come qualcuno incredibilmente auspica - di separazione del ruolo del PM da quello della Polizia Giudiziaria).
Se questo legame si attenuasse o venisse reciso, si aprirebbe la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità[43]), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica”[44]. Anni fa, lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia ai suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.
L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa agli ordini) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente (i cui eventuali diversi “colori” sono del tutto indifferenti rispetto agli argomenti qui in esame)[45].
La cd. “cultura giurisdizionale” e l’orgoglio della propria indipendenza, costituzionalmente garantita, sono dunque valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che, con l’aiuto dell’Avvocatura, andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati.
Efficaci, a tal proposito le parole di Marcello Maddalena[46]: “La Costituzione ha previsto che giudici e pubblici ministeri facciano parte di un unico ordine giudiziario con un unico Consiglio superiore comune ad entrambi e non ha posto alcun divieto al passaggio da una funzione all’altra… Quello che accomuna le due funzioni, di pm e giudice, e le rende, entrambe, incompatibili con quella della difesa (di qualsiasi parte, imputato, indagato, parte civile, persona offesa) è il principio di verità. Il pubblico ministero ha come scopo la scoperta della verità (che può essere anche l’innocenza dell’imputato...) ed il giudice deve accertare la verità. La difesa delle parti private non è tenuta a ricercare e sostenere la verità[47]”, aggiungendo poi di ritenere che la separazione delle carriere “...sia un portato della concezione agonistica del processo”.
4.c – I dati statistici
È opportuno ragionare anche attorno ad aggiornati dati statistici: si parla molto spesso, infatti, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM – nel 2000 - inviò anche al Comitato promotore del citato referendum abrogativo. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risultava sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50%; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo erano costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. Tali dati sono vistosamente “crollati” a seguito delle limitazioni introdotte d.lgs n. 160/2006, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007 (provvedimenti citati nel par 2).
Infatti, esaminando numeri e tipologia dei trasferimenti con contestuale cambio di funzioni (da requirenti a giudicanti e viceversa), forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura, relativi a due periodi in sequenza (1° gennaio 2011–30 giugno 2016 e 30 giugno 2016-30 giugno 2019), dunque recentissimi e successivi al D. Lgs. 111/2007, nonché relativi agli anni 2019, 2020 e 2021, si ricavano i seguenti dati:
Periodo 1 gennaio 2011–30 giugno 2016
· trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti: 101 (con media annua di 18,36 unità);
· trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti: 78 (con media annua di 14,18 unità).
Pertanto, le percentuali annue dei magistrati trasferiti da una delle due funzioni all’altra, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2016 (requirenti: 2192; giudicanti : 6453), risultano le seguenti:
- REQUIRENTI: 0,83
- GIUDICANTI: 0,21.
Periodo 30 giugno 2016–30 giugno 2019
· trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti: 80 (con media annua di 26,66 unità);
· trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti: 41 (con media annua di 13,66 unità).
Pertanto, le percentuali annue dei magistrati trasferiti da una delle due funzioni all’altra, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2019 (requirenti: 2270; giudicanti: 6754), risultano le seguenti:
- REQUIRENTI: 1,17
- GIUDICANTI: 0,20
E tali percentuali, in relazione ad entrambi i due periodi considerati (per un totale di otto anni e mezzo), sarebbero ancora più irrilevanti se le si rapportassero al numero più alto dei magistrati previsti in organico, anziché a quello dei magistrati effettivamente in servizio.
Questi, infine, sono i dati più recenti:
· 2019 (anno intero): sono stati 5 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 19 pubblici ministeri sono diventati giudici.
· 2020: sono stati 10 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 15 pubblici ministeri sono diventati giudici.
· 2021: sono stati 15 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 16 pubblici ministeri sono diventati giudici.
Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si crede, anzi è quantitativamente marginalissima; dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.
I dati in questione sono stati spesso utilizzati per criticare i magistrati che si oppongono alla separazione delle carriere. Si dice, cioè, che se la separazione già esiste di fatto, non si comprende perché la magistratura si opponga alla sua previsione normativa.
Una polemica volutamente suggestiva che ignora tutte le riflessioni possibili oggetto di questo documento, tra cui quelle sulla difesa della comune cultura giurisdizionale tra giudici e pm a garanzia dei cittadini, sulla necessità di difendere anche la piena indipendenza dei magistrati - e dei pm in particolare - rispetto ad ogni possibile controllo politico, sul rispetto dei principi costituzionali in tema di giustizia e altro ancora.
4.d - Unica formazione e unico CSM
La magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato, dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione globale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura, di un’unica Scuola per l’aggiornamento da aprire il più possibile all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni: verrebbe da chiedersi, anzi, perché non è stata mai formulata o seriamente presa in considerazione l’ipotesi di un’unica Scuola di formazione per magistrati ed avvocati.
Ma è comunque evidente che formazione comune ed un unico CSM rischierebbero di costituire, nel tempo, una contraddizione, in presenza di carriere dei magistrati definitivamente separate e non avrebbero – cioè - ragione di essere.
4.e - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere
Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi alle direttive ministeriali (o parlamentari) o che potrebbe essere condizionato, a secondo dei momenti storici, da orientamenti culturali e giuridici di natura prevalentemente securitaria (si pensi al settore del contrasto dell’immigrazione irregolare) o, come qualcuno vorrebbe nel presente contesto storico, ispirati alla necessità di privilegiare le esigenze dell’economia e del mondo imprenditoriale etc. Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata.
4.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia
È noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Come già si è ricordato nel par. 4.a, sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente, Procura Europea – EPPO, sia pur competente solo per alcuni tipi di reati) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.
In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso[48] o di cui – in altri casi – ancora si discute.
Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato.
Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.
5. – Tensioni tra potere politico e magistratura: il PM non è l’ “avvocato della polizia”, né “dell’accusa”.
In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano tensioni tra giustizia e politica, anche se in Italia esse spesso raggiungono livelli elevati e determinano rischio di violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. E ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti e si succedono nella guida politica del Paese.
In questa sede ci si vuol limitare a ricordare una riforma che si voleva attuare rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini, pur non avendo a che fare né con l’una, né con le altre. Si trattava di un pacchetto di riforme che, duramente criticate dall’allora Vicepresidente del CSM, il compianto on.le prof. Virginio Rognoni, sembravano caratterizzate da un solo fine: il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo.
L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, lanciava la proposta di far eleggere i dirigenti delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia rilanciava, due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra. E già da tempo, inoltre, si discuteva dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe stato sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M., oggetto, più avanti, di un ulteriore progetto di riforma del procedimento penale, contenuto nel DDL n. 1440, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 2009 e sostenuto dal Ministro Alfano, il cui cuore era costituito proprio dal ridimensionamento del ruolo del PM, che – secondo note enunciazioni – avrebbe dovuto assumere la veste di “avvocato dell’accusa” o “avvocato della polizia”, in un contesto che ne avrebbe determinato burocratizzazione e -va detto ancora una volta- sottoposizione di fatto all’esecutivo. Nella relazione di accompagnamento allo schema di tale disegno di legge di riforma del processo penale era scritto, addirittura, che sarebbero stati «distinti più nettamente i compiti della polizia giudiziaria e del pubblico ministero per creare i presupposti di una maggiore concorrenza e controllo reciproco»: la logica del libero mercato rischiava di entrare nella giustizia attraverso lo slogan della “concorrenza” tra pubblici investigatori, ipotesi peggiore anche dell’auspicato controllo della p.g. sull’attività dei p.m. !
Questa prospettiva non è certo menzionata nei disegni di legge in discussione, ma non la si può ignorare perché si tratta di un altro rischio connesso all’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: esso finirebbe anche con il sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria, non solo facendo rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenziando l’organo dell’accusa ridotto al rango di funzionario amministrativo, compromettendo inevitabilmente il livello delle garanzie riconosciute ai cittadini[49].
Il timore di questa prospettiva trae origine anche dalle parole del Ministro della Giustizia il quale, in un intervento pronunciato in una sede non ufficiale[50], ha affermato di voler realizzare una radicale metamorfosi del magistrato del pubblico ministero, trasformandolo in avvocato dell’accusa, privo di poteri di coordinamento dell’attività degli investigatori nella fase delle indagini preliminari e chiamato a sostenere in giudizio le tesi accusatorie delle forze polizia sulla base delle risultanze delle loro autonome indagini. Al di là del citato e discutibile precedente del DDL Alfano, non si comprende come il Ministro della giustizia possa oggi affermare che sarà “indipendente” un pubblico ministero trasformato in avvocato della polizia, il cui ruolo sarà ridotto a sostenere in giudizio tesi accusatorie maturate negli uffici delle polizie, nei cui confronti assumerebbe inevitabilmente una posizione sussidiaria, servente e subalterna[51].
6. La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali, (con cenni all’obbligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità) e le altre cinque proposte di legge pendenti in Parlamento.
Nell’ovvio rispetto per le elaborazioni e le proposte formulate dall’Avvocatura, in particolare per quella del 2017 di modifica costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali, e dai Parlamentari, appaiono chiare – alla luce di quanto sin qui precisato - le ragioni della diffusa contrarietà al contenuto delle proposte di modifica dei seguenti articoli della Costituzione e dei principi in essi affermati:
- Art. 104, con suddivisione formale della magistratura in giudicante e requirente, nonché istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante.
In ordine all’art. 104, tra l’altro, la proposte dell’U.C.P., nonché la prima, la seconda e la quinta tra quelle Parlamentari appresso elencate, contengono una identica nuova formulazione del primo comma (“L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo da ogni potere”), la cui particolarità – al di là dello sdoppiamento della magistratura – consiste nell’abolizione dell’aggettivo “altro” rispetto all’attuale testo della norma (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”). Si rischia allora di ritornare a quanto nel 2011 sostenuto da due ministri della Giustizia (uno non più in carica)[52]: la magistratura non può essere considerata uno dei tre poteri distinti su cui si fonda ogni democrazia poiché “è la Costituzione che la definisce un ordine!”. Meglio però, far sparire l’aggettivo “altro” dal co. 1 dell’art. 104 Cost. poiché, usando l’argomento puramente testuale e lo stesso metodo interpretativo, non si potrebbe non considerare che se la magistratura è definita “indipendente da ogni altro potere”, non può che costituire anch’essa un potere;[53]
- Art. 105, con precisazioni delle competenze, anche disciplinari, del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante;
- Art. 105 bis e 105 ter (da inserire nella Carta), con istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura requirente e precisazioni delle sue competenze, anche disciplinari;
- Art. 105 quater (da inserire nella Carta), con istituzione di una Corte di giustizia disciplinare, separata dal CSM e con competenze nei confronti sia dei giudici che dei pubblici ministeri ordinari;
- Art. 106, con previsione di distinti concorsi per magistrati giudicanti e requirenti, nonché di possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione;
- Art. 107, con previsione di distinte competenze dei due istituendi Consigli Superiori rispetto a trasferimenti ed altro di magistrati giudicanti e requirenti; e con soppressione del co. 3 (“I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”);
- Art. 110, con inserimento della citazione dei due istituendi distinti Consigli Superiori della Magistratura nella norma che prevede la competenza del Ministro della Giustizia in ordine a “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”.
Un sistema così articolato, però, finirebbe con il favorire “...l’autoreferenzialità delle due categorie di magistrati, avviando una scissione …tra l’attitudine prevalente a giudicare in posizione di terzietà e l’attitudine prevalente a formulare accuse da una posizione di parte”[54].
Nell’incipit di questo documento sono state già elencate le altre 5 proposte di legge costituzionale pendenti in Parlamento, le prime 4 presso la Camera dei Deputati e la quinta presso il Senato, tutte con la medesima intitolazione («Modifiche all’art. 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura»), cioè:
· Proposta A.C. n. 23, d’iniziativa del deputato Enrico Costa (Azione), presentata in data 13 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 432, d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), presentata in data 24 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 806, d’iniziativa dei deputati Calderone, Cattaneo, Pittalis e Patriarca (Forza Italia), presentata in data 24 gennaio 2023;
· Proposta A.C. n. 824, d’iniziativa dei deputati Morrone, Bellomo, Bisa, Matone e Sudano (Lega), presentata in data 26 gennaio 2023;
· DDL S. n. 504, d’iniziativa della senatrice Erika Stefani e di altri 21 senatori cofirmatari (Lega), presentato in data 26 gennaio 2023.
I rilievi che seguono saranno pertanto relativi sia alla proposta della Unione delle Camere Penali, sia a quelle presentate dai predetti Parlamentari : esiste infatti un file rouge che le lega, ed è quello - ben più ampio della mera separazione delle carriere - di un “vasto disegno di riorganizzazione del potere giudiziario e dell’intera giurisdizione”[55], che impone riflessioni anche sui “profili che riguardano il nuovo statuto del giudiziario e le relazioni con gli altri poteri dello Stato”[56].
A sostegno di quest’affermazione si potrebbe citare la quasi identità dei testi delle proposte di legge Parlamentari, sia quanto alla formulazione delle norme che si intendono far approvare che delle relazioni di accompagnamento.
Si intendano introdurre le seguenti modifiche a norme costituzionali, in relazione a buona parte delle quali si ribadisce comunque, al di là di quanto appresso sarà detto, il rinvio agli argomenti contrari sin qui già esposti:
· separati concorsi di accesso alla magistratura per funzioni requirenti e giudicanti, previa modifica dell’art. 106 Cost., che inevitabilmente determinerebbe diversità di preparazione e scuole di formazione, di eventuale praticantato in vista del concorso e di approccio culturale.
Si tratta di una proposta che, come ha rilevato il prof. Gaetano Azzariti[57], non è affatto una conseguenza logica della separazione delle carriere, che “dovrebbe invece consigliare di preservare e garantire almeno l’unicità del concorso al fine di assicurare una comune cultura della giurisdizione per entrambe le figure", mentre invece sembra aspirare anche a «dividere la conoscenza del diritto, la comprensione delle regole processuali, la comune idea di giustizia che deve essere fatta propria da tutti gli attori del processo, avvocati compresi». Lo stesso autore ha ricordato l’esperienza della Germania «ove è netta la separazione fra giudici e pubblici ministeri, ma è unico il percorso formativo per tutte le professioni legali»;
· possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione, (previa modifica del terzo comma dell’art. 106 Cost.): è una sorprendente previsione, peraltro contrastante con il I^ co. dello stesso art. 106 (“Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”), che darebbe luogo a “una modalità alternativa di reclutamento non sorretta, com’è ora, dai requisiti di straordinarietà ed autorevolezza (l’art. 106 prevede, infatti che possano essere chiamati all’ufficio di consiglieri di Cassazione professori universitari ed avvocati con almeno quindici anni di servizio, per meriti insigni). Basterebbe ora, invece, superare l’esame di avvocato o qualunque concorso a cattedra per poter accedere a tutti i livelli della magistratura giudicante. Con quali garanzie di eccellenza?[58]”
· distinti Consigli superiori per la magistratura, l’uno per la funzione giudicante e l’altro per quella requirente (modifica dell’art. 87 Cost.), il che tra l’altro determinerebbe ricadute nelle 26 Corti d’Appello italiane in ragione della conseguente necessità di duplicare anche i Consigli Giudiziari esistenti presso ciascuna di esse;
· un nuovo rapporto tra il potere politico e il potere giudiziario, in particolare nella riscrittura degli equilibri interni al governo autonomo della magistratura: i membri laici dovrebbero aumentare fino al 50% del numero totale dei membri dei due CSM (modifica dell’art. 104 Cost. ed introduzione dell’art. 105 bis Cost.), depotenziando per entrambi la funzione di indirizzo collegata al complesso delle loro attività di alta amministrazione[59](rivelatesi spesso molto utili per colmare lacune legislative ed orientare l’attività consiliare verso obiettivi di efficienza e trasparenza), limitandone le competenze a assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari, salvo attribuzione di altre competenze con legge costituzionale (sostituzione dell’attuale art. 105 Cost. ed introduzione dell’art. 105 ter Cost.).
“Secondo le proposte Costa, Giachetti e Morrone ed altri – che sul punto ricalcano più da vicino l’attuale assetto costituzionale – dovrebbe spettare al Parlamento in seduta comune la nomina dell’intera componente laica mentre dovrebbe essere ancora il Presidente della Repubblica a presiedere i due Consigli.
Diversa su questi aspetti la proposta Calderone ed altri, che attribuisce la presidenza dei due Consigli rispettivamente al primo presidente della Corte di cassazione ed al procuratore generale presso la Corte, mentre riserva la nomina della metà dei membri “laici” dei Consigli per un quarto al presidente della Repubblica e per un quarto al Parlamento in seduta comune.
Al di là delle loro non irrilevanti diversità il tratto comune delle diverse iniziative legislative è però la volontà di coniugare la separazione delle carriere con l’accresciuta influenza della politica nel governo della magistratura”[60] .
È proprio questa la ragione per cui i due CSM verrebbero ridotti ad organi burocratici, cancellando la loro importante funzione di esprimere pareri su leggi riguardanti l’ordinamento giudiziario e l’amministrazione della giustizia, previsti per legge. È doveroso ricordare che fu Carlo Azeglio Ciampi, da poco eletto presidente della Repubblica, ad incoraggiare il CSM a proseguire su quella strada, ribadendo in uno storico plenum, il 26 maggio del 1999, su esplicita richiesta del vicepresidente Verde, che il Csm aveva non solo il diritto, ma anche il dovere, di esprimersi d’ufficio su disegni e progetti di legge riguardanti la giustizia. Anche il Presidente Napolitano lo confermò nell’agosto del 2009. Il Csm, fortunatamente, lo fa ancora oggi, nonostante i governi succedutisi negli ultimi anni continuino spesso a non interpellarlo sulle materie di sua competenza;
· cancellazione di un’altra norma chiave dell’assetto costituzionale della magistratura: l’art. 107, terzo comma, della Costituzione secondo cui “I magistrati si distinguono tra di loro soltanto per diversità di funzione”.
L’abrogazione proposta sembra destinata ad incidere all’interno delle carriere separate, sancendo la fine del principio di eguaglianza degli appartenenti alle carriere giudicante e requirente, aprendo la via a “distinzioni” diverse da quelle relative alle funzioni e ponendosi come potenziale preludio della rinascita di gerarchie e di trattamenti economici differenziati all’interno del corpo delle due magistrature giudicanti e requirenti;
· un nuovo regime dell’azione penale, proponendosi la modifica dell’art. 112 Cost. aggiungendo alla frase “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, le parole “nei casi e nei modi previsti dalla legge ordinaria”, cioè della maggioranza di turno che con legge ordinaria deciderebbe l’an, il quando ed il quomodo delle iniziative giudiziarie del P.M., con buona pace dell’obbligatorietà dell’azione penale a favore della piena discrezionalità del legislatore.
Quest’ultima proposta di modifica costituzionale dell’art. 112 (presente nelle proposte Costa, Giachetti e Morrone), che priverebbe il principio della obbligatorietà dell’azione penale della sua valenza costituzionale, si allinea dunque a quella dell’U.C.P.I., secondo cui, dopo le parole “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” dovrebbero essere aggiunte le seguenti: “secondo le forme previste dalla legge”.
A proposito dell’obbligatorietà dell’azione penale e della selezione delle priorità, però, occorre qualche specifica ulteriore riflessione, trattandosi di un tema di assoluto rilievo, sin qui non approfondito.
È giusto ricordare, innanzitutto, che la riforma Cartabia, con la legge delega 27 settembre 2021 n. 134, aveva assegnato al legislatore delegato il compito di «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti».
Si tratta, a parere di chi scrive, di una scelta criticabile, la cui efficacia dipenderà dalla capacità del Governo di predisporre il testo delegatogli che – si augura chi scrive - potrebbe limitarsi a trasferire sul piano legislativo, se non le si ritenesse già vincolanti, alcune delle previsioni già contenute nelle delibere del CSM in tema di priorità, approvate nel 2008, 2009, 2014, 2016, 2017, 2018, 2020 e 2021, comprendenti in ogni caso:
· il dovere di interlocuzione interna con i magistrati dell’Ufficio;
· quello di interlocuzione con i Presidenti di Tribunale, onde inserirle in omogenei assetti organizzativi;
· il coordinamento possibile in sede distrettuale, a fini di omogeneità dei progetti organizzativi da adottare nei Circondari, da affidare ai procuratori generali presso le Corti d’Appello.
Molto importante sarebbe anche la previsione di doverose interlocuzioni dei Procuratori con i rappresentanti dei rispettivi organismi forensi e con i responsabili dei presidi di polizia giudiziaria operanti nel Circondario, già di fatto attuate in molte Procure.
Tutto ciò senza alcuno sconfinamento da parte del Parlamento nelle competenze proprie degli Uffici Giudiziari e dei Procuratori della Repubblica (dunque evitando la strada alla sottoposizione del pm all’Esecutivo) e senza cedimento alcuno rispetto alla doverosa difesa e “cura” dell’obbligatorietà dell’azione penale, che non può esistere in forma politicamente orientata: per questo la selezione delle priorità di intervento dei p.m., anche solo nell’ambito di linee guida generali e non di un cogente catalogo di reati, non può essere materia sottratta alla competenza dell’Autorità Giudiziaria. Ed è questo che costituisce la linea di confine tra il sistema ordinamentale-giudiziario italiano e quello di altri Paesi europei per i quali – come già detto - costituisce un modello.
Fino a questo momento, comunque, “questa complessa procedura è rimasta lettera morta perché il Ministro della Giustizia non si è dato carico di presentare la legge sui “criteri generali” voluta dalla riforma Cartabia che, assegnando al Parlamento una mera funzione di orientamento e di inquadramento (i “criteri generali”) dell’esercizio dell’azione penale, rimesso alle successive scelte di priorità di quanti operano sul campo, resta preferibile e costituisce una valida alternativa rispetto alla revisione costituzionale che oggi si propone con la proposta dell’on.le Costa e di altri Parlamentari. La riforma Cartabia, dunque, potrà garantire una interpretazione ed una attuazione dell’obbligatorietà dell’azione penale che grazie alla pluralità dei soggetti che concorrono alla identificazione delle priorità – il Parlamento, gli uffici di Procura, il CSM – esclude il monopolio ed il controllo dell’azione da parte di un solo attore”[61], in particolare del ceto politico.
Sono comunque noti a tutti problemi e difficoltà che si frappongono all’effettiva applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma si tratta di un principio da difendere con convinzioneperché garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: per questo è semmai il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare, come in molti vorrebbero!
È chiara anche la ragione per cui quel principio garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essi sanno che, essendo il PM obbligato a perseguirli, tutti gli accertati responsabili di qualsiasi reato saranno condotti dinanzi ad un Tribunale (monocratico o collegiale) o ad una Corte d’Assise per essere giudicati, senza distinzione di razza, religione, censo e senza possibilità di influenza sull’esito delle indagini del loro potere politico, economico o sociale.
Ci si deve domandare, allora, come mai esistano accaniti “detrattori” del principio affermato nell'art. 112 Cost., pronti a sostenere che si potrebbe rendere discrezionale l'azione penale senza necessità di trasformare il PM in un organo dipendente dall’esecutivo e senza compromettere il principio inviolabile dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Le ragioni addotte a sostegno di questa posizione sono di duplice natura: tecniche, quelle di alcuni osservatori e giuristi che possono essere definiti “pragmatici”; politiche, quelle di chi – magari obliquamente – intende condizionare il ruolo del pubblico ministero, apparentemente preservandone l’indipendenza dall’esecutivo, in realtà mirando ad impedirgli di avviare indagini ed esercitare l’azione penale per certi reati e nei confronti di certi imputati.
Entrambe le posizioni si fondano su un identico rilievo di partenza, quello concernente le note difficoltà che si oppongono all’effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 112 Cost., sicchè soltanto una parte dei reati commessi viene effettivamente perseguita: le notizie di reato pervenute al PM e le procedure d’indagine che si avviano, infatti, sarebbero troppo numerose ed ingestibili, costringendo il PM stesso ad operare una selezione. L’obbligatorietà dell’azione penale, dunque, non troverebbe effettiva applicazione nella realtà ed il PM, pur obbligato per legge a non scegliere, finirebbe per agire discrezionalmente selezionando gli affari da trattare e quelli da trascurare. Tale discrezionalità, peraltro, sarebbe esercitata senza criteri predeterminati o secondo criteri diversi tra Procura e Procura e, all’interno del singolo ufficio, tra i magistrati che lo compongono. In certi casi, poi, il PM sarebbe indifferente all’esito dei procedimenti di cui è oberato, mentre in altri la scelta di procedere o meno per un reato finirebbe con l’essere politicamente orientata, al punto da indurre il PM a perseguire i reati in cui sono coinvolti personaggi di orientamento politico a lui non gradito e contemporaneamente a tralasciarne altri che pure destano grave allarme sociale e pericolo per la sicurezza dei cittadini. In ogni caso, il destino finale per molti reati sarebbe costituito dalla prescrizione o dall’archiviazione per la mancata acquisizione degli elementi utili ad esercitare l’azione penale.
A questo punto, le proposte “costruttive” per la modifica del sistema esistente si differenziano in ordine all’individuazione dell’istituzione o autorità cui attribuire competenza e responsabilità di dettare periodicamente i criteri-guida uniformi per l’esercizio discrezionale dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri.
Quale potrebbe essere tale istituzione o autorità? Il Governo, tramite indicazioni del Ministro della Giustizia o il Ministro stesso, afferma taluno, con ciò aprendo la strada alla sottoposizione del PM all’esecutivo. Il Parlamento, previa discussione generale e trasparente, rispondono altri, così accettando la possibilità che l’azione penale sia condizionata dalle scelte della maggioranza politica di turno e che il dibattito parlamentare finisca inevitabilmente con l’investire il modo di operare di questo o quell’ufficio giudiziario. Ma c’è pure chi individua l’istituzione competente a regolare la presunta discrezionalità dei PM nel Consiglio Superiore della Magistratura (che mai, invece, si è ritenuto competente ad orientare il merito delle scelte giurisdizionali), chi pensa al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione o a quello presso le Corti d’Appello, chi ai Consigli Giudiziari operanti su base distrettuale e così in grado di valorizzare esigenze territoriali, chi ai singoli Procuratori della Repubblica (cui, anche per questo, dovrebbero essere riconosciuti poteri di tipo gerarchico). E c’è pure chi pensa ad una interlocuzione complessa tra tutte – o quasi tutte - queste Istituzioni, ritenendole a vario titolo competenti.
Vi è poi un altro argomento spesso utilizzato a sostegno delle ragioni sia dei giuristi “tecnici” che di quelli “politici”. Nasce da uno sforzo di usare il diritto comparato a proprio uso e consumo e consiste nell’affermare che il sistema italiano costituirebbe l’eccezione in un panorama internazionale asseritamente caratterizzato dal principio di discrezionalità dell’azione penale e da quello inevitabilmente connesso della dipendenza del PM dal potere esecutivo, che ne detta le linee d’azione. L’affermazione è sicuramente errata (come può dedursi anche da quanto specificato nel par. 3.e) : esistono in Europa, infatti, sistemi in cui l’azione penale è obbligatoria, altri in cui è discrezionale, altri ancora in cui esistono temperamenti all’uno o all’altro principio (per cui l’obbligatorietà è talvolta condizionata all’effettiva gravità del reato e, dunque, all’ “economicità” in senso lato del processo, mentre la discrezionalità è orientata dal prevalere dell’interesse delle vittime dei reati). Negli Stati Uniti, poi, le direttive per l’esercizio dell’azione penale sono periodicamente dettate dall’Attorney General (figura che racchiude in sé le funzioni tanto del nostro Ministro della Giustizia che del Procuratore Generale presso la Cassazione), ma lì – e questa è la principale differenza con l’Italia - nemmeno il Presidente protesta se il Prosecutor lo incrimina. Nei sistemi europei in cui le direttive dell’esecutivo regolano il principio della discrezionalità dell’azione penale, esiste comunque la figura del Giudice Istruttore indipendente (da noi abolita ormai più di trent’anni fa), che può rimediare alle inerzie del PM.
Insomma, il significato del dato comparatistico non può essere enfatizzato, né assunto come parametro di valutazione del nostro sistema. E le differenze ordinamentali esistenti tra uno Stato e l’altro spesso derivano da secolari ulteriori differenze: quelle di cultura giuridica e politica.
L’elencazione delle ragioni della crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei possibili rimedi (inclusi riferimenti al controverso tema delle priorità) richiederebbe comunque almeno il doppio dello spazio, già troppo ampio, che ha occupato nella presente relazione con la quale si spera di avere sufficientemente motivato la contrarietà dello scrivente alla modifica dell’art. 112 Costituzione[62].
È realistico, in ogni caso, prevedere che alle prime difficoltà, ai primi attriti, al primo casus belli (ed il sistema giudiziario conosce inevitabilmente tali momenti) i magistrati che comporrebbero il corpo separato dei pubblici ministeri potrebbero essere presentati come un’entità da ricondurre sotto la responsabilità del potere politico al pari di quanto avviene negli Stati nei quali le carriere sono distinte[63].
7. Per concludere: l’iniziativa di oltre 600 magistrati “a riposo” e il documento dell’ANM
Nello Rossi ha efficacemente scritto[64] che “In ogni caso, nel dibattito pubblico che accompagnerà l’iter della progettata revisione costituzionale, occorrerà chiarire all’opinione pubblica quali sono le implicazioni di modifiche costituzionali che vanno ben oltre l’assetto e gli equilibri propri del processo penale per investire il rapporto tra il potere politico e il giudiziario.
Nel corso dell’annosa partita sulla separazione delle carriere è infatti cambiata la posta in gioco e gli obiettivi che si vogliono realizzare.
Obiettivi che, come si è cercato di rappresentare, sopravanzano di molto il dato delle carriere dei magistrati, investendo la ridefinizione, a vantaggio del potere politico, dei complessivi equilibri di governo della magistratura, la cancellazione della valenza costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e l’abrogazione del principio per cui i magistrati si distinguono solo in base alle funzioni svolte”.
Sono assolutamente d’accordo con queste valutazioni che, tra l’altro, spiegano le ragioni per cui oltre 600 magistrati (giudici e pubblici ministeri, civilisti e penalisti) in pensione – dunque ormai al di fuori dell’istituzione giudiziaria e delle dinamiche processuali - hanno sottoscritto, nell’agosto del 2023, un documento ([65]), mirante solo a fornire all’opinione pubblica ed ai decisori politici un contributo di esperienza e di conoscenza sul tema della separazione delle carriere, da tempo in discussione nel Paese ed oggetto di esame in Parlamento, ponendo ancora una volta in evidenza la necessità di garantire:
· l'autonomia del pubblico ministero ed insieme la terzietà del giudice ex art. 111 Costituzione assicurata anche dall’attuale ordinamento e dal contraddittorio delle parti, in condizione di parità, nell’ambito del processo che deve mirare all’accertamento della verità;
· l’unicità del concorso di accesso in magistratura per giudici e pubblici ministeri;
· l’unicità del Consiglio Superiore della Magistratura con maggioranza di eletti tra i membri togati e mantenimento delle sue competenze;
· l’obbligatorietà dell’azione penale e la titolarità di questa in capo al P.M.;
· l’importanza della stessa formazione e della stessa cultura della giurisdizione di giudici e pm, così come della stessa indipendenza;
· l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, preservando l’attuale ordinamento costituzionale, invidiato all’estero poiché consente di portare davanti al giudice qualsiasi persona che abbia commesso un reato.
Nello stesso documento vengono anche denunciati:
· il rischio di sottoposizione del PM al controllo svolto dal potere esecutivo, con la conseguenza che l’azione penale non potrebbe essere più obbligatoria;
· gli effetti deleteri, anche sotto l’aspetto organizzativo, sugli attuali assetti, nei quali operano giudice e pubblico ministero con conseguente periodo di transizione lungo e complesso.
In definitiva, si conclude nel documento, “non si comprende la ragione per la quale la maggioranza politica insista tanto nel voler raggiungere l’obiettivo della separazione delle carriere, visto che già sono stati praticamente eliminati i passaggi da una carriera all’altra dalle riforme Castelli e Cartabia…omissis…”.
Inutile ricordare che il documento – benché elaborato e sottoscritto da “giuristi senza potere” quali sono i magistrati in quiescenza - ha suscitato, in ambienti politici supportati da alcuni organi di informazione, accuse di illecita “interferenza” che accompagnano ormai tutte le iniziative pubbliche sui temi della giustizia di giudici e pubblici ministeri, i quali ultimi costituirebbero un corpo dal potere incontrollato. E si sono moltiplicate, anche in questo caso, le citate inesattezze sulla “peculiarità italiana” (già smentite nel par. 3.e), secondo cui “nel mondo occidentale e democratico solo da noi non c’è la separazione”.
Bastano in realtà poche sobrie parole per rispondere a queste e ad atre affermazioni critiche sulla iniziativa dei magistrati in pensione: Elena Riva Crugnola, una dei firmatari del documento, ha definito la separazione delle carriere una "battaglia di retroguardia" ed ha ben spiegato[66] che non si trattava di un’iniziativa "per interferire con il Parlamento", ma di un tentativo di "mettere a disposizione della pubblica opinione e degli interlocutori istituzionali convincimenti maturati grazie alla nostra esperienza e sottolineare come la possibilità di aver svolto funzioni diverse, durante la carriera, sia stata un grande arricchimento professionale”.
A sua volta, in documento approvato il 9 settembre 2023 dal Comitato Direttivo Centrale(intitolato “Un cavallo di Troia”[67]), l’ANM ha condiviso gli stessi rilievi ed ha espresso “grande preoccupazione per i contenuti dei disegni di legge in discussione dinanzi alla Commissione affari costituzionali della Camera di deputati che, nel riprodurre fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere Penali nella XVII legislatura, rivelano, al di là dei propositi annunciati nelle relazioni illustrative, l’intento di assoggettare tutti i magistrati, giudici e pubblici ministeri, al potere politico”.
Per concludere, non è giusto tacere sul fatto che le persistenti e periodiche discussioni attorno alla ipotesi di separazione delle carriere e alla crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale sono talvolta conseguenti anche ad innegabili criticità che possono essere rilevate in Italia nelle prassi investigative e nei criteri di promovimento dell’azione penale.
Ma, in proposito, è utile invitare tutti ad un’analisi seria e mirata di tali problematiche, evitando di invocare soluzioni radicali ed incompatibili con la nostra cultura e tradizione giuridica.
Sono ancora una volta condivisibili, a tal fine, le parole del prof. Gaetano Silvestri, pronunciate nel già citato intervento in occasione di un Congresso dell’ANM di vari anni fa[68]: “Non possiamo negare che oggi si assista in varie parti d’Italia ad una ipertrofia dell’azione penale, derivante da una concezione pan-penalistica dei rapporti sociali, politici e istituzionali coltivata da taluni magistrati. In contrasto con la cultura del diritto penale minimo, che dovrebbe essere l’approdo di una più aggiornata visione della legalità, si sviluppa talvolta un iperattivismo inquisitorio ed accusatorio non certo in linea con un equilibrato esercizio della giurisdizione. Dobbiamo tuttavia notare che complessivamente la terzietà del giudice nel nostro sistema funziona abbastanza bene e che la maggior parte dei processi iniziati in modo avventato – in assenza di un quadro probatorio sufficiente o in base a forzature pan-penalistiche della legge – si concludono con decisioni di proscioglimento. Il processo penale italiano contiene in sé una grande quantità di garanzie per la difesa. Sono convinto che di fronte alla scelta di barattarlo con altri sistemi, molti suoi detrattori farebbero un passo indietro”.
“Purtroppo – aggiungeva il prof. Silvestri – i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il PM che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulla prospettazione dell’accusa; se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei PM, perché colleghi ed amici”.
Si tratta di parole di grande efficacia, utili per invitare tutti a difendere con orgoglio i principi fondanti del nostro sistema ordinamentale, tra cui vi è sicuramente quello della unicità della carriera dei magistrati giudicanti e requirenti, che non merita affatto di essere smantellato.
Proprio per questa ragione, è auspicabile che Parlamento e Governo, Avvocatura e Magistratura, con il contributo determinante del mondo accademico, uniscano le loro forze, fino a determinare una sinergia virtuosa che, lungi dal porre al centro di ogni confronto la proposta della separazione delle carriere (francamente anacronistica e che comunque non può essere interpretata come occasione di scontro), peraltro attraverso passaggi di dubbia costituzionalità, si concentri sulle cause vere delle disfunzioni del processo, a partire dalla drammatica carenza di personale giudiziario ed amministrativo .
[1] Le osservazioni che seguono (la cui lunghezza è dovuta alla notevole delicatezza dei temi oggetto dell’audizione) sono frutto della esperienza professionale dell’autore (tutta spesa nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sia come Sostituto Procuratore della Repubblica e Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, sia – negli ultimi anni, fino al dicembre 2018 – come Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino), nonché di quelle di componente del CSM (nel quadriennio 1998/2002) e più recentemente (dall’inizio del 2019) di docente a contratto presso l’Università Statale di Milano nella materia di “Politiche di sicurezza e dell’Intelligence”. Saranno utilizzati anche suoi precedenti interventi sulla questione della separazione delle carriere.
[2] Il presente intervento contiene riferimenti a riflessioni formulate nel corso del confronto dell’11 settembre 2023 tra lo scrivente e l’avv. Gian Domenico Caiazza (all’epoca Presidente dell’Unione Camere Penali) organizzato dall’ANM – Sezione Autonoma Magistrati a riposo, nonché presenti in alcuni importanti articoli sul tema della separazione delle carriere, qui citati con il consenso degli autori: 1) Oltre la separazione delle carriere di giudici e pm. L’obiettivo è il governo della magistratura e dell’azione penale (Nello Rossi - Questione Giustizia, 04/09/2023); 2) Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o riscrivere i rapporti tra poteri? (Nello Rossi – Sistema Penale, 16/11/2023); 3) Un pubblico ministero “finalmente separato”? Una scelta per poco o per nulla consapevole della posta in gioco. E l’Europa ce lo dimostra (Maria Rosaria Guglielmi, Questione Giustizia, 27/07/2023); 4) Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della Legge n. 71 del 2022 (Pasquale Serrao D’Aquino, Giustizia Insieme, 28 giugno 2022). Nelle note a piè di pagina successive i riferimenti a tali articoli conterranno solo i nomi degli autori e gli acronimi delle riviste che li hanno pubblicati.
[3] Il Giornale (4 settembre 2023).
[4] “L’avv. Coppi affonda la riforma Nordio. Separare le carriere non servirà a nulla” (Francesco Grignetti, La Stampa, 20 settembre 2023).
[5] Per correttezza va doverosamente ricordato che il dovere di contrastare la separazione delle carriere non è condiviso da tutti i magistrati. Ci si vuol qui riferire, però, ad una minoranza assolutamente irrisoria della magistratura in cui si colloca anche un attuale componente togato del CSM, il dr. Andrea Mirenda (si veda la sua intervista a Il Foglio, 23 agosto 2023: “I pm sono degli influencer. Serve un doppio CSM”).
[6] La Sicilia Catania, 29 agosto 2023.
[7] Il Fattoquotidiano.it (“Abolire l’imputazione coatta? Un’idea antisistema: se c’è un reato, il GIP non può far finta di nulla. L’avvocato Coppi smonta il piano di Nordio”).
[8] “Diritto Processuale Civile” (Cedam-Padova, 1967).
[9] Lettera al Corriere della Sera del 12 settembre 2023 “(«Il pm rimanga parte imparziale»).
[10] Prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di cui al capo V del d.lgs n. 160/06 non vi erano ostacoli al passaggio (a semplice domanda) dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti (e viceversa), per consentire il quale era sufficiente, ai sensi dell’art. 190 R.D. 12/1941, un parere attitudinale formulato dal Consiglio giudiziario del distretto di appartenenza del magistrato interessato. Nel 2003 una circolare del Consiglio Superiore della Magistratura (Circolare n. P-5157/2003 del 14 marzo 2003 - Deliberazione 13 marzo 2003) aveva regolamentato le modalità di formulazione del parere e previsto incompatibilità al passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti penali nell’ambito dello stesso circondario. In relazione alla domanda di passaggio da una funzione all’altra, non erano previsti limiti temporali speciali di previa permanenza nella funzione da cui si proveniva, salvo quelli ordinari e generali – contemplati dalla legge – di legittimazione a proporre domanda di trasferimento ad altra sede o di tramutamento da una funzione all’altra. Al momento dell’accesso in magistratura, inoltre, potevano essere indifferentemente conferite al magistrato di prima nomina le funzioni giudicanti o quelle requirenti.
[11] Le precisazioni che seguono sono tratte dal sito web del CSM, accessibile al pubblico.
[12] Queste, in proposito, le testuali e “complicate” previsioni dei co, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 13 D. Lgs. N. 160 del 2006:
3.Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all'interno dello stesso distretto, né all'interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall'interessato, per non più di quattro volte nell'arco dell'intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell'ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d'appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima. 4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all'interno dello stesso distretto, all'interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.
5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l'anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche. ..(omissis…).
6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all'articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.
[13] Questa precisazione è stata tratta dal sito web di Magistratura Democratica.
[14] Il referendum non sortì alcun effetto abrogativo visto che il 21 maggio 2000 non fu raggiunto il quorum elettorale necessario.
[15] Si rimanda al paragrafo 6, in cui verranno sinteticamente commentate le proposte di modifica costituzionale dell’Unione Camere Penali e quelle già citate di iniziativa di vari parlamentari.
[16] (QG).
[17] Per precisione, va detto che l’art. 12 in questione prevede la possibilità per l’interessato di richiedere il passaggio di funzioni, per non più di una volta, entro il termine di sei anni dal maturare dei tre anni (e dunque per un totale di nove) per la legittimazione al tramutamento previsto dall’art. 194 dell’ordinamento giudiziario per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione.
[18] Così in: “Il pubblico ministero nelle cause civili” (www.studiocataldi.it).
[19] Prima del D.Lgs. 5 aprile 2006, come si è detto, la separazione delle funzioni era prevista dall’abrogato art. 190 dell’ordinamento giudiziario e dalla previsione ivi contenuta di pareri per il passaggio dall’una all’altra funzione.
[20] Nei titoli dei sub-paragrafi da 3.a a 3.e saranno esaminate le affermazioni spesso formulate a sostegno della necessità della separazione delle carriere.
[21] MicroMega n. 1/2003.
[22] Va in proposito precisato, comunque, che le elevatissime percentuali di assoluzioni ripetutamente fornite da alcuni organi di stampa a riprova degli straripamenti di potere da parte dei P.M., sono “da considerare errate perché computano come assoluzioni forme diverse di estinzione dei processi tra cui i casi di prescrizione, remissione di querela, oblazione, messa alla prova, ipotesi che non escludono la responsabilità e in alcuni casi la presuppongono. Al riguardo va precisato che, negli anni 2019, 2020 e nel primo semestre del 2022, l’effettiva percentuale di assoluzioni supera di poco il 21% del totale delle sentenze; risultato medio che non muta nelle ipotesi di citazione diretta. Un dato certamente significativo oggetto di puntuali ed approfondite considerazioni svolte e delle statistiche riportate nell’Intervento scritto del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, Giovanni Salvi nell’Assemblea generale per l’inaugurazione dell’anno giudiziario svoltasi il 2022 (pp. 17 e ss.), che si legge nel sito della Corte di cassazione” (Nello Rossi, SP).
[23] Così Maria Rosa Guglielmi (articolo citato).
[24] Sinteticamente, anche all’inizio del decennio scorso, venne affermato da autorevoli rappresentanti delle Camere Penali, che “il giudice non deve ispirarsi alla cultura dell’azione”. Ma, ancora una volta, all’affermazione – in sé condivisibile - non fece seguito alcuna dimostrazione scientifica di tale ipotizzato atteggiamento culturale dei giudici italiani.
[25] “La politica è genuflessa ai dogmi intoccabili dei magistrati antimafia. C’è l’ossequio ai dogmi della DNA dietro lo stop sulle carriere separate”(Il Dubbio, 16 novembre 2013).
[26] “Carriere separate? Nordio ed i politici vogliono mani libere” (Intervista a Il Fatto Quotidiano – Marco Grasso, 20 agosto 2023).
[27] Comma inserito nell’art.111 Cost. dalla L. cost. 23.11.99 n.2. Si vedano, inoltre, il D.L. 7.1.2000 n.2 (recante disposizioni urgenti per l'attuazione dell'articolo 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo), conv. con modificazioni, nella L. 25.2.2000 n.35, e gli artt. 2 ss. della L. 24.3.2001 n.89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile).
[28] In tal senso, più volte, numerosi giuristi e commentatori.
[29] Valentina Maisto (Q.G. “La separazione delle carriere tra argomenti tradizionali ed evoluzione del processo: un tema ancora attuale?”).
[30] Livio Pepino, Giudici e Pubblici Ministeri, in La Magistratura, nn.1/2 2002.
[31] Il Riformista, 15 agosto 2023.
[32] Il Riformista, 17 agosto 2023.
[33] I riferimenti che seguono agli ordinamenti di altri Stati non sono tutti aggiornati e, dunque, potrebbero contenere inesattezze. In tal caso l’autore se ne scusa con i lettori.
[34] In tale senso, ad esempio, sembra essere orientato il prof. Giuseppe Di Federico, come appare da una sua intervista pubblicata il 3 luglio 2016 su Il Giornale di Sicilia, in linea con un suo successivo intervento in un convegno svoltosi a Capo d’Orlando sulla separazione delle carriere (di cui egli è fautore), promosso dalla Unione delle Camere Penali Italiane.
[35] Roma, 11 settembre 2023 – Confronto organizzato dall’ ANM- Sezione Autonoma dei Magistrati a riposo.
[36] Non è dunque corretto quanto affermato dall’avv. Francesco Petrelli (Il Dubbio, 30 agosto 2023), secondo cui in Gran Bretagna il PM sarebbe separato dal Giudice.
[37] Maria Rosaria Guglielmi (art. cit. in cui sono citate le osservazioni della Commissione di Venezia, le decisioni della Corte Edu e i rapporti della Commissione Europea sulle condizioni di dipendenza dal potere politico dei pubblici ministeri in Bulgaria e Romania, in un contesto di enorme pressione sui giudici).
[38] Antonio Cluny, dirigente di Medel: intervento nel corso del congresso di Magistratura Democratica (Roma, 23/26.1.2003).
[39] Vengono qui ancora riportate le valutazioni critiche del dr. Cluny.
[40] Maria Rosaria Guglielmi (art. cit.).
[41] Sia qui permesso di citare anche il consenso alla struttura ordinamentale della carriera e della indipendente funzione del P.M. in Italia, manifestato da organismi rappresentativi dell’avvocatura tedesca nel corso di un importante convegno internazionale sia pur svoltosi in anni lontani (nel 2007) a Berlino, in cui il sottoscritto fungeva da relatore. Rispondendo alle domande degli avvocati tedeschi, ebbi modo di illustrare il nostro sistema ordinamentale, in particolare la normativa che consente, a certe condizioni, il mutamento di funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati italiani, in un quadro di assoluta ed uguale indipendenza dal potere politico di giudici e pm. Seguirono gli applausi di centinaia di avvocati presenti, tutti rivolti al sistema della giustizia italiana.
[42] Così in Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario”, in La Magistratura, nn.1/2 2002 Tale posizione è stata ribadita dall’ANM in numerose successive ulteriori prese di posizione, mai abbandonate neppure nel periodo attuale.
[43] Questo dato numerico, risalente al 2002, epoca dell’articolo, è ovviamente mutato. Oggi, come si ricava dal sito web del CSM, i dati numerici riguardanti i pubblici ministeri, aggiornati al 22 settembre 2023, sono i seguenti: 2649 posti in organico, di cui 438 (il 16,53% del totale) vacanti.
[44] Livio Pepino: “Carriere Separate, Governo in Toga”, L’Unità, 20.11.02
[45] Non a caso, alla vigilia del fallito referendum abrogativo del 2000, si registrò una impennata di domande di trasferimenti di pubblici ministeri ad uffici giudicanti. Ad avviso di chi scrive, ciò si spiega con la preoccupazione - che evidentemente i p.m. all’epoca nutrivano - di vedersi precluso l’eventuale accesso alla carriera giudicante e di poter essere in breve sottoposti alle direttive dell’esecutivo:
[46] Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2023.
[47] In tal senso anche la giornalista Giulia Merlo: “Ragionando per principi, il pm risponde a quello di verità processuale, l’avvocato alla difesa di una parte” (“La separazione delle carriere è boomerang per Nordio”, Domani, 27 agosto 2023).
[48] Così Ignazio Juan Patrone, all’epoca presidente di Medel.
[49] In proposito, il prof. Giuseppe Di Federico, nella intervista citata in precedente nota a pie’ di pagina, rivendica di avere per primo utilizzato la espressione di “pm-poliziotto” perché “se una persona dirige la polizia non la si può definire diversamente”, aggiungendo, però, che il Pm “a differenza del poliziotto, non risponde a nessuno: una cosa incompatibile con il sistema democratico”.
[50] Intervento al Forum della Fondazione Iniziativa Europa 2023, tenutosi a Stresa (NO), l’11 novembre 2023.
[51] N. Rossi (S.P.).
[52] “Il nostro diritto prevede due poteri e un ordine, che è quello della magistratura”: lo affermava l’on.le Angelino Alfano, intervistato da Lucia Annunziata durante la trasmissione “In ½ ora”, in onda sui Rai Tre il 13 marzo 2011. Alfano era, a quella data, Ministro della Giustizia, impegnato nel tentativo di spiegare ai cittadini italiani perché la “riforma” della parte della Costituzione dedicata alla Magistratura (Titolo quarto della Parte seconda, articoli da 101 a 113) sarebbe stata “epocale” ed avrebbe consentito di risolvere tutti i problemi che affliggono la giustizia italiana. Lo stesso concetto (la Magistratura non è un potere costituzionale, ma un ordine) veniva ribadito poco più di un mese dopo, il 18 aprile, dall’ ex Ministro della Giustizia, il sen. Roberto Castelli, nel frattempo diventato Viceministro delle Attività produttive, anch’egli intervistato da Lucia Annunziata nel corso della trasmissione di Rai Tre, “Il Potere”.
[53] Le osservazioni relative al co. 2 dell’art. 104 della Cost. riproducono quelle dello scrivente già formulate in “I Leoni e il Trono”, testo incluso nel libro “Il Potere in Italia” di Lucia Annunziata (Marsilio, 2011).
[54] Così il prof. Gaetano Silvestri in “La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), commentando il disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere.
[55] Così Nello Rossi (QG).
[56] N. Rossi (SP).
[57] Gaetano Azzariti (La separazione delle carriere dei magistrati”, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2/2023 del 4 aprile 2023.
[58] G. Azzariti, idem.
[59] Nello Rossi (QG).
[60] Nello Rossi (SP).
[61] Così Nello Rossi (QG).
[62] Sia permesso, comunque, il riferimento ai seguenti interventi di chi scrive, ai quali si rimandano gli eventuali
interessati:
1)“Obbligatorietà dell’azione penale”, in “Giustizia, la parola ai magistrati”, a cura di Livio Pepino (Laterza, 2010); 2)“Criteri di organizzazione della Procura della Repubblica di Torino dell’8 ottobre 2018”, in particolare, paragrafo n. 12 (pag. 168)[62], che in buona parte riprendono ed arricchiscono i precedenti criteri del 23 giugno 2015; 3) “Le priorità non sono più urgenti e comunque la scelta spetta ai giudici”, in Cassazione Penale, LV, ottobre 2015, n. 10.
[63] Condivisibili affermazioni di N. Rossi (SP).
[64] (QG).
[65] Il documento e la lista dei sottoscrittori sono leggibili nel sito web dell’Associazione Nazionale Magistrati (https://www.associazionemagistrati.it/doc/4013/magistrati-in-pensione-contro-la-separazione-delle-carriere.htm).
[66] ADN Kronos, 25 agosto 2023.
[67]Anche questo documento è leggibile nel sito web dell’Associazione Nazionale Magistrati (https://www.associazionemagistrati.it/doc/4017/il-cdc-su.htm )
[68] “La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), relazione a commento del disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il ricorso - 3. La giurisdizione della Corte - 4. I diritti violati - 5. Le misure adottate - 6. Le implicazioni.
1. Premessa
Dopo le risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza[1], anche la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia si è pronunciata lo scorso 24 gennaio sulle operazioni militari israeliane nella striscia di Gaza conseguenti all’attacco terroristico del 7 ottobre 2023, su ricorso presentato dal Sud Africa per presunte violazioni della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. La decisione, assunta in sede cautelare, ha riconosciuto il rischio di violazioni dei diritti protetti dalla Convenzione. Sono state altresì disposte misure cautelari nelle more dell’istruttoria sebbene, come spesso sottolineato nei giorni scorsi sulla stampa non specialistica, la Corte non abbia incluso tra queste un ordine di cessate il fuoco. La stessa Corte in più punti della motivazione ha sottolineato quale sia il quadro procedurale e sostanziale in cui la decisione si inscrive, e conseguentemente la portata della stessa, sia dal punto di vista delle misure adottate – non necessariamente coincidenti con quelle richieste in ricorso, ma comunque vincolate ai presupposti cautelari della pertinenza ai diritti invocati e dell’urgenza – sia dal punto di vista dell’ambito applicativo della Convenzione, esclusivamente relativo alla materia del genocidio e non direttamente a quella del diritto umanitario.
2. Il ricorso
La causa è stata incardinata il 29 dicembre 2023 su ricorso del Sud Africa, che ha denunciato presunte violazioni della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio da parte di Israele nell’ambito del conflitto a Gaza. La tesi è che Israele abbia infranto, e continui ad infrangere, le proprie obbligazioni derivanti dagli articoli da I a VI della Convenzione.
Le norme richiamate dichiarano che il genocidio, commesso sia in tempo di pace che in tempo di guerra, costituisce un crimine di diritto internazionale, e definiscono lo stesso come ogni atto consistente nell’uccisione di membri di un determinato gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, nel ledere gravemente l’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, nel sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, in misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo o il trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. I crimini che possono essere commessi in tal senso consistono non soltanto nel compiere direttamente i suddetti atti genocidiari, ma anche nell’intesa mirante a commettere genocidio, nell’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, nel tentativo di genocidio o nella complicità nel genocidio. Gli stati firmatari si impegnano a punire i soggetti colpevoli di genocidio, prevedendo normativamente sanzioni efficaci ed assicurando la persecuzione delle infrazioni, davanti alle giurisdizioni nazionali o internazionali.
Sulla base di tali presupposti, il Sud Africa ha adito la Corte chiedendo che sia accertato il compimento da parte di Israele di atti di genocidio nei confronti del popolo palestinese a Gaza, invocando l’applicazione di misure cautelari volte a far desistere qualsiasi forza militare, paramilitare o gruppo su cui Israele possa avere influenza dal compimento di atti genocidiari quali uccisioni, gravi lesioni dell’integrità fisica e morale, espulsioni, privazione di accesso alle risorse essenziali come acqua o medicinali.
3. La giurisdizione della Corte
La Corte è stata invocata con riferimento alla presunta violazione della Convenzione sul genocidio in ragione del fatto che sia Israele che il Sud Africa ne sono firmatari, rispettivamente dal 1950 e dal 1998. La sua giurisdizione è quindi limitata al contenuto di detta Convenzione, sicché la stessa Corte rinvia alle decisioni assunte da altre agenzie dell’ONU con riguardo a vari aspetti del conflitto[2].
Gli ulteriori presupposti fondanti la giurisdizione della Corte sono l’esistenza di una controversia tra le parti e che l’oggetto della controversia ricada nell’ambito di applicazione della Convenzione.
a) Esiste una controversia
La Corte ha ritenuto sussistente una controversia sostanziale tra il Sud Africa e Israele circa la riconducibilità o meno all’ambito applicativo della Convenzione di determinate azioni compiute in occasione del conflitto a Gaza, a fronte delle dichiarazioni pubblicamente rese da entrambi gli Stati.
In particolare, l’accusa di genocidio è stata mossa per la prima volta dal Sud Africa nel novembre 2023 in un incontro diplomatico, e reiterata in occasione della Decima sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 12 dicembre 2023, nella quale Israele era rappresentato (e che si è conclusa con la richiesta di un immediato cessate il fuoco, rimasto tristemente inascoltato), ed ancora in una successiva ulteriore nota indirizzata all’Ambasciata israeliana.
A tali dichiarazioni si oppongono quelle di Israele, il cui Ministro degli esteri, in un documento del 6-8 dicembre 2023, ha preso posizione sull’accusa di genocidio ritenendola non soltanto infondata ma “moralmente ripugnante”[3], dichiarazione analoga a quella pubblicata il 15 dicembre 2023 sul sito della Difesa, in cui l’accusa viene inoltre definita “oltraggiosa” [4].
b) L’oggetto della controversia ricade nell’ambito di applicazione della Convenzione
A fronte delle accuse mosse dal Sud Africa, Israele ha sostenuto dinanzi alla Corte che le azioni a Gaza non ricadrebbero nell’ambito di applicazione della Convenzione, in base al vaglio preliminare proprio della fase cautelare, difettando la prova di una intenzione specifica di distruggere in tutto o in parte il popolo palestinese, trattandosi di azioni difensive e volte al salvataggio degli ostaggi. Ha inoltre rappresentato di aver intrapreso azioni per assicurare gli aiuti umanitari a Gaza e prevenire i danni per la popolazione civile.
La Corte ha ribadito che in questa fase non si tratta di accertare se vi siano state o meno violazioni della Convenzione, ma soltanto di verificare se ciò appaia plausibile alla stregua di una valutazione preliminare. La Corte ha peraltro ricordato che tra le accuse c’è anche quella relativa al fallimento di Israele nel prevenire e punire atti genocidiari (inclusi quelli consistenti nell’intesa mirante a commettere genocidio, nell’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, nel tentativo di genocidio o nella complicità nel genocidio), per concludere che almeno alcune delle violazioni denunciate dal Sud Africa appaiono idonee a ricadere nell’ambito di applicazione della Convenzione.
4. I diritti violati
Presupposti per l’adozione di misure cautelari nell’ambito della giurisdizione della Corte sono la connessione tra i diritti protetti e le misure richieste e l’urgenza della decisione a fronte del rischio di pregiudizio irreparabile di tali diritti nelle more dell’istruttoria.
a) La connessione tra i diritti protetti e le misure invocate
I diritti considerati dalla Corte – sempre alla stregua della valutazione preliminare e non ai fini di un loro definitivo accertamento – sono quelli del popolo palestinese presente nella striscia di Gaza, inteso come singoli individui e come gruppo, nonché quelli dello stesso Sud Africa, la cui legittimazione ad adire la Corte consegue al carattere erga omnes degli obblighi sanciti dalla Convenzione, da cui discende l’interesse di ciascuno stato firmatario ad invocarne l’applicazione e la cessazione delle infrazioni rilevate.
L’intento genocidiario è ritenuto sussistente dal Sud Africa in ragione delle modalità con cui l’azione militare israeliana è condotta, nonché in relazione alla comunicazione ufficiale di Israele rispetto alle operazioni militari ed al fallimento (ritenuto intenzionale) nel prevenire e punire l’incitamento al genocidio[5].
Israele ha invece insistito nel riportare la questione sul terreno del diritto umanitario, sottolineando che i danni per la popolazione civile sono conseguenze di attacchi legittimi ad obiettivi militari[6] e prendendo le distanze da dichiarazioni militari sul campo[7], affermando la consapevolezza del carattere criminale di dichiarazioni incitanti alla violenza contro i civili ed annunciando azioni repressive di simili condotte. Ha infine posto il tema del proprio diritto di difesa come elemento determinante nel bilanciamento di diritti tra Israele e Sud Africa rilevanti nella presente sede cautelare[8].
La Corte ha ricordato che il genocidio implica ontologicamente un elemento intenzionale, ossia la finalizzazione alla distruzione di un gruppo o di una parte sostanziale di esso in modo da impattare sul gruppo nella sua interezza. Ha riconosciuto che i palestinesi sono un gruppo etnico ai sensi della Convenzione e, ritenuto che a Gaza ci sono circa 2 milioni di palestinesi, che essi possono ritenersi parte sostanziale di questo gruppo.
In uno dei passaggi più significativi della pronuncia, la Corte ha richiamato le fonti ufficiali ONU ed i report stilati dagli osservatori a Gaza, per delineare attraverso le loro parole un quadro drammaticamente vivo della situazione, dando conto di un enorme numero di morti e feriti, della distruzione massiva delle case e del danneggiamento estensivo delle infrastrutture civili, del trasferimento forzoso di gran parte della popolazione. La Corte ha riportato i dati disponibili, pur nella consapevolezza dell’impossibilità allo stato attuale di una loro verifica indipendente: tra i palestinesi risulterebbero al momento della decisione 25.700 morti, oltre 63.000 feriti, oltre 360.000 unità abitative distrutte o danneggiate e circa 1,7 milioni di persone trasferite internamente alla striscia di Gaza[9]. Ha quindi descritto lo scenario di assoluta devastazione cui si assiste a Gaza, dove la popolazione è costretta a vivere in condizioni traumatizzanti, privata delle risorse più essenziali, a rischio infezioni e fame, trasferita forzosamente verso zone a loro volta soggette a bombardamento o comunque ugualmente insicure[10], a fronte della catastrofica condizione cui sono ridotte le proprie case ed i propri averi[11], in quello che è stato definito il più vasto trasferimento forzoso di palestinesi dal 1948, destinato ad avere conseguenze a lungo termine soprattutto su quella che viene definita come un’intera generazione traumatizzata: i bambini, che più di tutti risentono delle condizioni “disumane” in cui si trovano a vivere[12].
Sotto altro profilo, la Corte ha analizzato alcune dichiarazioni pubbliche rese da ufficiali israeliani. Tra queste, quelle del Ministro della difesa con cui è stato ordinato alle forze armate di porre in essere un assedio totale di Gaza City, affermando che non vi sarebbe stata elettricità, cibo, carburante, e tutto sarebbe stato chiuso[13], a fronte di una guerra da combattersi contro “animali umani”, mediante la distruzione totale[14]. O quelle del Presidente Herzog, che ha ritenuto sussistente la responsabilità del popolo palestinese di Gaza, accusando direttamente i civili di essere coinvolti, colpevoli di non essersi opposti ad Hamas, invocando il proprio diritto di difesa e di combattere per esso, fino a “rompergli l’osso del collo”[15]. O ancora quelle del ministro dell’Energia e delle infrastrutture, che ha dichiarato che tutta la popolazione civile di Gaza avrebbe dovuto spostarsi immediatamente, che non avrebbe ricevuto una goccia d’acqua o una singola batteria finche non avesse lasciato “il mondo”[16].
La Corte ha riportato le parole pronunciate dal gruppo di Reporter speciali, esperti indipendenti dei gruppi di lavoro dell’UNHCR in una conferenza stampa del 16 novembre 2023, con cui era stata denunciata una riconoscibile retorica genocidiaria e disumanizzante proveniente da ufficiali di governo israeliani, nonché nelle parole del Comitato dell’ONU sull’eliminazione delle discriminazioni razziali, preoccupato per l’impennata di toni connotati da odio razziale e contenuti disumanizzanti diretti nei confronti dei palestinesi successivamente al 7 ottobre.
La Corte ha concluso quindi affermando che almeno alcuni dei diritti invocati dal Sud Africa appaiono fondati alla stregua della Convenzione, in riferimento al diritto dei palestinesi a Gaza ad essere protetti da atti di genocidio ed atti ad esso connessi, nonché in riferimento al diritto del Sud Africa all’ottemperanza da parte di Israele delle proprie obbligazioni derivanti dalla Convenzione[17].
b) Il rischio di danno irreparabile e l’urgenza
La Corte ha infine ritenuto sussistente il requisito del rischio di danno irreparabile e dell’urgenza.
Il carattere irreparabile dei possibili pregiudizi è stato accertato sulla base della natura stessa dei diritti in gioco. In tal senso, la Corte ha sottolineato i rischi di una degenerazione con conseguenze irreversibili, innanzitutto dal punto di vista umanitario, ma anche in termini di stabilità dell’area, rischi che sono stati già evidenziati nelle sedi ufficiali.
La Corte ha nuovamente richiamato lo scenario di devastazione osservabile ad inizio dicembre[18], rispetto al quale alcun miglioramento era registrato a gennaio[19], come del resto confermato dal Primo Ministro israeliano che ha affermato, il 18 gennaio 2024, che la guerra durerà ancora mesi, in contrato con le stesse dichiarazioni rese da Israele dinanzi alla Corte in base alle quali l’intensità del conflitto starebbe scemando.
La Corte, pur dando atto ed incoraggiando le iniziative intraprese da Israele a tutela della popolazione palestinese (in termini di facilitazione degli aiuti, sostegno infrastrutturale e persecuzione di atti di violenza), ha concluso ritenendo che la situazione umanitaria catastrofica di Gaza è suscettibile di peggiorare ulteriormente nelle more del giudizio.
5. Le misure adottate
Sussistendone quindi tutte le condizioni, la Corte ha ritenuto di adottare alcune misure, premettendo il proprio potere di indicarne di diverse rispetto a quelle richieste dal ricorrente, in applicazione delle proprie regole procedurali (ed in particolare dell’art. 75 par. 2).
La Corte ha quindi statuito:
6. Le implicazioni
La Corte si è espressa nei limiti della propria giurisdizione cautelare, esclusivamente volta a delibare la verosimiglianza delle infrazioni lamentate – passibili di verificarsi anche in un quadro di guerra come quello attualmente in corso a Gaza – e all’adozione di misure cautelari strettamente correlate coi diritti di cui sia ritenuta plausibile la violazione. In alcun modo in questa sede avrebbe potuto essere disposto un cessate il fuoco.
Nonostante detti limiti, i frequenti rinvii al diritto umanitario, alle altre sedi ufficiali che hanno preso in carico la questione, l’ampio impiego dei virgolettati, attraverso i quali la Corte ha temporaneamente dismesso i propri toni istituzionali per aderire ad una ben diversa enfasi, sottolineano la stretta interconnessione con le altre, molteplici questioni relative al conflitto israelo-palestinese.
E del resto non può sfuggire la profondità delle implicazioni di questa decisione se solo si considera il contesto storico in cui la Convenzione sul genocidio è stata adottata.
La Corte ha significativamente richiamato la risoluzione dell’Assemblea Generale n. 96 dell’11 dicembre 1946, laddove si dichiara che il genocidio, inteso come negazione del diritto di esistere di interi gruppi, “sciocca la coscienza dell’umanità”, ed è contrario allo spirito ed agli scopi delle nazioni Unite. La Corte ha ancora attinto ai testi ufficiali dell’epoca, facendo proprio l’intento dichiarato della Convenzione, puramente umanitario e “civilizzatore”, volto non solo a proteggere l’esistenza di determinati gruppi, ma a sostenere i “più elementari principi della morale”[20].
Il tema è allora quello, amplissimo, delle basi della cultura giuridica e morale sottesa all’intero sistema delle Nazioni Unite, che poggia proprio sulla reazione all’Olocausto, e nel cui quadro la Convenzione sul genocidio assume quindi valore fondante.
Il ricorso proposto dal Sud Africa, già connotato di valore simbolico per evidenti ragioni inerenti la storia di quel Paese, al di là del sostegno da lungo tempo portato alla causa palestinese si carica di contenuto universalistico, inverando la reazione di sdegno morale di fronte a qualsiasi atto di genocidio ufficializzata nella Convenzione.
La reazione di Israele a fronte delle accuse mossegli, l’oltraggio dichiarato dinanzi all’opinione pubblica, il diritto alla difesa invocato dinanzi alla Corte riportano invece il discorso alla concretezza e alla specificità della situazione israeliana, ugualmente ben comprensibili storicamente. Tali reazioni, infatti, non possono che essere lette tenendo a mente le vicende del periodo che va dal 1933 al 1945, indelebili nella memoria collettiva. E, tuttavia, non possono che essere lette anche in relazione alle vicende successive al 1947, forse meno universalmente conosciute ed interiorizzate, assumendone una luce ben diversa. In questa prospettiva, la decisione della Corte costituisce quantomeno un pungolo all’ambiguità che sulla questione israelo-palestinese da sempre inquina il dibattito istituzionale internazionale.
[1] In particolare, sul conflitto si è già pronunciata l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione A/RES/ES-10/21 del 27 ottobre 2023 e la risoluzione A/RES/ES-10/22 del 12 dicembre 2023 ; nonché il Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione S/RES/2712 (2023) del 15 novembre 2023 e la risoluzione S/RES/2720 (2023) del 22 dicembre 2023.
[2] Il riferimento è alle decisioni già citate nella nota precedente.
[3] “Hamas-Israel Conflict 2023: Frequently Asked Questions”, in cui si legge che “[t]he accusation of genocide against Israel is not only wholly unfounded as a matter of fact and law, it is morally repugnant”.
[4] “The War Against Hamas: Answering Your Most Pressing Questions”, in cui si legge “[t]he accusation of genocide against Israel is not only wholly unfounded as a matter of fact and law, it is morally repugnant” e che “[t]he accusation of genocide . . . is not just legally and factually incoherent, it is obscene” and that there was “no . . . valid basis, in fact or law, for the outrageous charge of genocide”.
[5] “Intentional failure of the Government of Israel to condemn, prevent and punish such genocidal incitement constitutes in itself a grave violation of the Genocide Convention”.
[6] “In situations of urban warfare, civilian casualties may be an unintended consequence of lawful use of force against military objects, and do not constitute genocidal acts”.
[7] Le dichiarazioni degli ufficiali israeliani riportate dal Sud Africa sarebbero “misleading at best” e “not in conformity with government policy”.
[8] "In any event, Israel contends, since the purpose of provisional measures is to preserve the rights of both parties, the Court must, in the present case, consider and “balance” the respective rights of South Africa and Israel. The Respondent emphasizes that it bears the responsibility to protect its citizens, including those captured and held hostage as a result of the attack that took place on 7 October 2023. As a consequence, it claims that its right to self-defence is critical to any evaluation of the present situation.”
[9] United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), Hostilities in the Gaza Strip and Israel reported impact, Day 109 (24 Jan. 2024)
[10] “Gaza has become a place of death and despair. . . . Families are sleeping in the open as temperatures plummet. Areas where civilians were told to relocate for their safety have come under bombardment. Medical facilities are under relentless attack. The few hospitals that are partially functional are overwhelmed with trauma cases, critically short of all supplies, and inundated by desperate people seeking safety. A public health disaster is unfolding. Infectious diseases are spreading in overcrowded shelters as sewers spill over. Some 180 Palestinian women are giving birth daily amidst this chaos. People are facing the highest levels of food insecurity ever recorded. Famine is around the corner. For children in particular, the past 12 weeks have been traumatic: No food. No water. No school. Nothing but the terrifying sounds of war, day in and day out. Gaza has simply become uninhabitable. Its people are witnessing daily threats to their very existence — while the world watches on.” (OCHA, “UN relief chief: The war in Gaza must end”, Statement by Martin Griffiths, Under-Secretary-General for Humanitarian Affairs and Emergency Relief Coordinator, 5 Jan. 2024.)
[11] WHO, “Lethal combination of hunger and disease to lead to more deaths in Gaza”, 21 Dec. 2023; si veda anche World Food Programme, “Gaza on the brink as one in four people face extreme hunger”, 20 Dec. 2023.
[12] "In the past 100 days, sustained bombardment across the Gaza Strip caused the mass displacement of a population that is in a state of flux constantly uprooted and forced to leave overnight, only to move to places which are just as unsafe. This has been the largest displacement of the Palestinian people since 1948. This war affected more than 2 million people, the entire population of Gaza. Many will carry lifelong scars, both physical and psychological. The vast majority, including children, are deeply traumatized. Overcrowded and unsanitary UNRWA shelters have now become ‘home’ to more than 1.4 million people. They lack everything, from food to hygiene to privacy. People live in inhumane conditions, where diseases are spreading, including among children. They live through the unlivable, with the clock ticking fast towards famine. The plight of children in Gaza is especially heartbreaking. An entire generation of children is traumatized and will take years to heal. Thousands have been killed, maimed, and orphaned. Hundreds of thousands are deprived of education. Their future is in jeopardy, with far-reaching and long-lasting consequences.” (UNRWA, “The Gaza Strip: 100 days of death, destruction and displacement”, Statement by Philippe Lazzarini, Commissioner-General of UNRWA, 13 Jan. 2024).
[13] La Corte cita l’annuncio del 9 ottobre 2023 di Yoav Gallant, Ministro della Difesa israeliano.
[14] La Corte cita il discorso tenuto dal Ministro il giorno successivo, parlando alle truppe israeliane sul confine di Gaza: “I have released all restraints . . . You saw what we are fighting against. We are fighting human animals. This is the ISIS of Gaza. This is what we are fighting against . . . Gaza won’t return to what it was before. There will be no Hamas. We will eliminate everything. If it doesn’t take one day, it will take a week, it will take weeks or even months, we will reach all places.”
[15] La Corte cita il discorso del 12 ottobre 2023 di Isaac Herzog, presidente di Israele, in cui egli riferendosi a Gaza ha dichiarato: “We are working, operating militarily according to rules of international law. Unequivocally. It is an entire nation out there that is responsible. It is not true this rhetoric about civilians not aware, not involved. It is absolutely not true. They could have risen up. They could have fought against that evil regime which took over Gaza in a coup d’état. But we are at war. We are at war. We are at war. We are defending our homes. We are protecting our homes. That’s the truth. And when a nation protects its home, it fights. And we will fight until we’ll break their backbone.”
[16] La Corte riporta un tweet del 13 ottobre 2023 del seguente tenore: “We will fight the terrorist organization Hamas and destroy it. All the civilian population in [G]aza is ordered to leave immediately. We will win. They will not receive a drop of water or a single battery until they leave the world.”
[17] “In the Court’s view, the facts and circumstances mentioned above are sufficient to conclude that at least some of the rights claimed by South Africa and for which it is seeking protection are plausible. This is the case with respect to the right of the Palestinians in Gaza to be protected from acts of genocide and related prohibited acts identified in Article III, and the right of South Africa to seek Israel’s compliance with the latter’s obligations under the Convention”.
[18] La corte fa riferimento alla lettera del 6 dicembre 2023 del Segretario Generale delle Nazioni Unite al Consiglio di Sicurezza (United Nations Security Council, doc. S/2023/962, 6 Dec. 2023).
[19] La corte fa riferimento alla successiva lettera del 5 gennaio 2024: “[s]adly, devastating levels of death and destruction continue” (Letter dated 5 January 2024 from the Secretary-General addressed to the President of the Security Council, United Nations Security Council, doc. S/2024/26, 8 Jan. 2024). E ancora: “Every time I visit Gaza, I witness how people have sunk further into despair, with the struggle for survival consuming every hour.” (UNRWA, “The Gaza Strip: a struggle for daily survival amid death, exhaustion and despair”, Statement by Philippe Lazzarini, Commissioner-General of UNRWA, 17 Jan. 2024.)
[20] La Convenzione sul Genocidio “was manifestly adopted for a purely humanitarian and civilizing purpose”, since “its object on the one hand is to safeguard the very existence of certain human groups and on the other to confirm and endorse the most elementary principles of morality” (Reservations to the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide, Advisory Opinion, I.C.J. Reports 1951, p. 23).
(Immagine: UN Photo/Shareef Sarhan, A Palestinian searches through rubble of his destroyed home hit by Israeli strikes in Towers Al-andaa - the northern Gaza Strip, 7 agosto 2014)
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.