ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Ginevra Iacobelli
Il principio di legalità è divenuto baluardo della salvaguardia dei diritti individuali fondamentali, in tal senso si sta muovendo anche la Corte Costituzionale che, erigendo la proporzione della pena a pietra angolare della costituzione, sta definendo nettamente i limiti della discrezionalità legislativa.
È chiaro che la pena non è solo sanzione, ma anche diritti. Diviene, allora, fondamentale comprende cosa si intende per materia penale e cosa può fare il giudice comune di fronte a norme di dubbia natura sanzionatoria. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
sommario: 1. La rinnovata nozione di materia penale- 2. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
1. La rinnovata nozione di materia penale
È noto che l’individuazione della materia penale è monopolio della funzione legislativa: legislatore, orientato dai principi di offensività e tassatività, nonché della materia costituzionalmente rilevante, traccia i confini del penalmente rilevante.
Ma la definizione di pena vede, ormai, una rivoluzione: si è chiarito, infatti, che qualificare la materia come penale è di rilievo anche al fine di perimetrare l’ambito di operatività delle garanzie sottese al principio di legalità.
La comprensione di cosa si intenda per materia penale appare, infatti, pregiudiziale all’analisi del principio di legalità e alle sue garanzie. Non è un caso che la Corte Edu abbia espressamente affermato che “se gli Stati contraenti potessero, a loro piacimento, qualificare come disciplinare piuttosto che penale un illecito […] l’effetto delle norme fondamentali degli art. 6 e 7 sarebbe subordinato alla loro volontà sovrana. Una cosi ampia libertà rischierebbe di condurre a risultati incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione[1]”.
Per evitare il fenomeno della “truffa delle etichette” e scongiurare che i paesi membri si sottraggano agli obblighi convenzionali attraverso una qualificazione meramente formale, la CEDU ha inteso la nozione di materia penale come autonoma.
In particolare, per verificare se si è in presenza di un “illecito penale” ai sensi della Convenzione è necessario rifarsi a tre criteri elaborati dalla Corte in via pretoria (cd. Engel criteria):
Si è così imposta una riqualificazione in termini sostanzialmente penali di istituti diversamente qualificati dal Legislatore nazionale.
“Il risultato è la crescita di un “diritto globale”, di “giustizia e democrazia oltre lo Stato”, che contribuisce a creare un sistema giuridico nuovo, formando e selezionando i principi generali di base, a garanzia dei diritti delle persone, oltre la dimensione più ristretta della cittadinanza (ancora legata al rapporto tra stato, giurisdizione e territorio) (…). In questo nuovo scenario occorre prendere atto che la Giustizia italiana non può più essere considerata un “sistema a sé stante”, ma diventa elemento “formante” del sistema-Europa”[2].
In tal senso, la dottrina[3] individua nel principio di legalità più di un’istanza. Nel principio di legalità convivono diversi contenuti: “un’istanza di matrice liberale che conduce tendenzialmente al monopolio dell’organo rappresentativo-parlamentare nella produzione del diritto. Vi è, poi, un’istanza di matrice costituzionale che pone al centro, quale asse irrinunciabile dell’esperienza giuridica, la salvaguardia dei diritti individuali fondamentali con tutto il loro séguito dei necessari bilanciamenti”.
Tali istanze convivono e la misura con cui la legalità risponde all’una o all’altra varia nel tempo. Attualmente si assiste al crescere della seconda istanza legalitaria: il rafforzamento dei diritti fondamentali. Il potenziamento dei diritti, come un tempo è avvenuto ad opera della Costituzione, oggi avviene soprattutto a Strasburgo.
In tal senso, si distingue [4]tra il piano del precetto penale, che si rivolge all’individuo, e il piano delle garanzie costituzionali e convenzionali, rivolte piuttosto agli organi statali deputati alla produzione e all’applicazione delle norme penali.
Non è in discussione che l’art 25, co. 2, Cost. pone solo in capo al Legislatore il compito di individuare i confini della materia penale, stabilendo cosa è e cosa non è reato. Si discute, piuttosto, a chi spetti determinare l’ambito di applicazione delle garanzie previste.
Non può ritenersi che sia il Legislatore ordinario a decidere sull’estensione delle garanzie costituzionali dalle quali è vincolato; deputata a delineare l’ambito applicativo delle garanzie costituzionali è, allora, l’autorità giudiziaria.
Più chiaramente, la Corte Costituzionale è tenuta a controllare la compatibilità delle scelte legislative con la Carta Costituzionale; i giudici comuni sono tenuti a risolvere le antinomie tra legge e Costituzione con lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente orientata, ove possibile, o diversamente a sottoporre quelle antinomie al giudizio della Corte Costituzionale.
2. Può il giudice comune qualificare autonomamente la materia penale?
Così chiarito ne consegue una questione: cosa deve fare il giudice comune dinanzi ad un istituto che il Legislatore nazionale qualifica come non penale, sottratto alle garanzie del principio di legalità, ma che a seguito della sua attività interpretativa assume i connotati della sanzione penale alla luce dei criteri Engel?
Può il giudice comune, che ha il primario compito di tentare un’interpretazione convenzionalmente orientata, qualificare autonomamente in termini sostanzialmente penali l’istituto, non operando un rinvio alla Corte Costituzionale?
Attualmente il tema appare discusso e oggetto di decisioni contrastanti. Il tutto aggravato da una denunciata liquidità e vaghezza dei criteri Engel, pur contrastanti con la stessa necessità di prevedibilità della sanzione penale.
Con la sentenza n. 68 del 2017 la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi in relazione alla legittimità costituzionale dell’art. 187 sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, che disciplina un’ipotesi di confisca per equivalente, in relazione all’art. 9, co. 6, della l. n. 62 del 2005 che prevede, limitatamente agli illeciti depenalizzati, che la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della legge del 2005, purché il procedimento penale non si definitivo, ha dato vigore alla questione.
Limitatamente a quanto qui di rilievo, la Corte Costituzionale, accogliendo l’interpretazione del giudice a quo, afferma che “non ha motivo per discostarsi dalla premessa argomentativa da cui muove il remittente, sulla natura penale, ai sensi dell’art. 7 CEDU, della confisca per equivalente… è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo. Al contrario, l’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battura ai giudici degli Stati membri (C.Cost. 49 del 2015 e 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della CEDU li obbliga ad applicarne le norme sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte Edu, specie quando il caso sia riconducibile ai precedenti di giurisprudenza del giudice europea (C. Cost. 276 e 36 del 2016). In tale attività interpretativa, che gli compete ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice incontra solo il limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla CEDU. In tal caso la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia in nessun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato”.
All’opposto, con la sentenza 109 del 2017, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di talune norme del d.lgs n. 8 del 2016 (legge di depenalizzazione) ricondotte dal giudice a quo a sanzioni in tutto e per tutto penali secondo i criteri engel, evidenzia il “ criterio casistico cui sarebbe in tal modo consegnata l’identificazione della natura penale della sanzione (che potrebbe porsi in problematico rapporto con l’esigenza garantistica tutelata dalla riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.)”.
Dottrina maggioritaria, dal canto suo, esclude la possibilità di riqualificazione di un fatto qualificato dal Legislatore come non penale in termini di sanzione penale ad opera del giudice comune: il nomen iuris e il dato formale costituiscono ostacolo insuperabile dal giudice con la sua attività interpretativa.
Si finisce diversamente per attribuire, nei fatti, al giudice penale un potere disapplicativo della norma interna contrastante con l’interpretazione delle norme convenzionali, fino ad ora fortemente contrastato dalla stessa Corte Costituzionale. In tal senso il giudizio di costituzionalità pare l’unica soluzione percorribile per arrivare ad una riqualificazione in termini sostanzialmente penali di un istituto qualificato dal Legislatore nazionale come non penale.
La questione non è di pronta soluzione, specie per la difficoltà di innestare le garanzie del processo penale in procedimenti che penali non sono. Ancora una volta, sarà solo l’opera della giurisprudenza a chiarire quale sarà la tenuta del concetto convenzionale di materia penale nel nostro diritto interno.
[1] Corte EDU, GC, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8.6.1976
[2] Relazione del Primo Presidente della Corte di cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009
[3] F. Palazzo
[4] F. Viganò
La crisi istituzionale scatenata dalle indagini perugine rischia di travolgere il sistema dell’autogoverno ma anche può trasformarsi in una grande opportunità, se sapremo interpretare il desiderio di cambiamento con scelte concrete ed impegni verificabili.
Il rischio maggiore è quello di un esito gattopardesco: grande indignazione di tutti, grande ipocrisia da parte di non pochi, retorica a fiumi… e poi si riparte. Come se nulla fosse cambiato.
Ma le cose sono cambiate.
Si è definitivamente strappato un velo e chi non se ne renderà conto si condannerà ad un inesorabile declino e isolamento, lasciando il cambiamento in altre mani.
È vero che non tutti i gruppi e non tutti i membri togati del CSM sono stati direttamente coinvolti nelle trame rivelate (almeno in parte) dal famigerato “trojan”, tuttavia sappiamo che quel tipo di degenerazione è cosa diversa ma non separata dalle pratiche di lottizzazione delle correnti.
Anzi, proprio l’opacità degli accordi e degli scambi è stato il perfetto humus per manovre ancor più spregiudicate e gravi.
Non basta invocare la natura collegiale del CSM: è vero che il dialogo e l’accordo non possono essere genericamente demonizzati, ma è anche vero che un accordo è difendibile solo se può essere spiegato all’esterno nei suoi criteri, e quindi frutto di un confronto nel rispetto delle regole e del merito.
Quando il campo degli accordi si sposta dalle motivazioni scritte al non detto e al non dicibile, si scivola verso condotte consociative nel senso deteriore del termine, in cui in tempi e luoghi non conosciuti e non conoscibili si fanno compromessi che nulla hanno a che vedere con i criteri legali e di merito.
Non basta nemmeno dire che queste pratiche di lottizzazione non avverranno più e che si sceglieranno candidati indipendenti e professionalmente credibili. Una generica dichiarazione d’intento per quanto fosse sincera sarebbe insufficiente: il problema è di sistema e non legato a singole mele marce.
Inoltre simili retoriche promesse non possono in alcun modo suonare credibili né ai colleghi sfiduciati né alla politica e all’opinione pubblica: “perché questa volta le cose dovrebbero andare diversamente?”…
Il danno più grave, infatti, di questa vicenda (e più in generale del sistema di lottizzazione) è l’aver minato la fiducia interna ed esterna che un autogoverno indipendente e autorevole della magistratura sia davvero possibile.
Così si spiegano le invocazioni del sorteggio quale unico rimedio al sistema malato.
Un rimedio non solo incostituzionale (con riferimento all’art. 104 Cost.), ma soprattutto umiliante e illusorio.
Umiliante perché certificherebbe la nostra incapacità di scegliere dei membri degni al CSM: tale esito non solo non è accettabile, ma mi pare a sua volta figlio di una generalizzazione che non riconosce il fatto che certamente non tutti gli eletti del passato si sono dimostrati inadeguati!
Così come non tutte le nomine e le decisioni del CSM sono state negative o figlie di compromessi al ribasso.
E d’altronde chi si ricorda dei tempi in cui il direttivo era legato solo alla c.d. “anzianità senza demerito”, potrebbe citare il finale di Blade Runner per descrivere le cose viste... Lo so, non sempre la discrezionalità è stata usata bene, ma la mera anzianità è figlia di una logica a cui non possiamo tornare, di un appiattimento nel quale il direttivo è solo un piedistallo, un oscar alla carriera spesso per persone ormai prive di energie e tanto meno capaci di dare contributo organizzativo all’ufficio.
Proprio la scelta di Pignatone come Procuratore della Repubblica di Roma (per fare un esempio non a caso…) è paradigma del fatto che una buona scelta ha fatto una differenza sostanziale nella vita degli uffici giudiziari.
Il sorteggio è poi a mio avviso illusorio perché non credo che la responsabilità del CSM possa affidarsi a chiunque tra noi solo perché magistrato. Anzitutto sono richieste competenze ordinamentali non banali (come chi fa anche soltanto l’esperienza del consiglio giudiziario ben sa…). Inoltre la funzione del CSM non è solo di alta amministrazione e tecnica, ma involge anche scelte di tipo culturale rispetto all’assetto degli uffici e non solo. Non è cioè una funzione neutra e proprio per questo da elettore non mi basta conoscere curriculum e professionalità del candidato, ma ho bisogno di capire come interpreta la gerarchia in Procura, quale visione ha del disciplinare e delle valutazioni, come interpreta la giurisdizione e il confronto con la politica sui temi di giustizia e ordinamentali.
Evidentemente qualcosa non ha funzionato se da tempo parliamo di degenerazioni e di perdita di fiducia, ma credo che non si debba cadere nel rischio di un populismo a contrario che travolge tutto e che riduce anche i gruppi solo a correnti di potere, strumento di arrampicata professionale e nulla più.
Io ho aderito e partecipato alla vita prima del Movimento e poi anche e in particolare di Area senza per questo aver mai chiesto un posto, un aiuto o un piacere, senza aver mai neanche immaginato di volerne trarre un vantaggio personale o di potere per la mia carriera. E come me tanti altri in ogni gruppo.
Parlare, come qualcuno fa in modo generalizzato, di sciogliere i gruppi sarebbe come pensare che l’unico rimedio per l’abusivismo sia il terremoto.
Io non credo che il rimedio a una malattia sia l’abbattimento del malato.
Io credo nella libertà di associazione e nel fatto che dal confronto e dal percorso comune possono nascere progetti e impegni e idee che l’isolamento non consentirebbe…e nemmeno il fragoroso rumore delle mailinglist, strumento necessario ed utile ma spesso più utile a denunciare che a costruire, più idoneo alla polemica che alla riflessione e all’ascolto.
Per recuperare un briciolo di credibilità al sistema dell’autogoverno e dell’associazionismo io sono persuaso che uno dei passi necessari ed urgenti sia chiedere a tutti un impegno ad accettare (spontaneamente ma in modo poi rigoroso) delle rigide incompatibilità.
Incompatibilità che vogliono essere appunto il segno tangibile della scelta di rompere quei circuiti viziosi tra CSM, ANM, incarichi direttivi e incarichi fuori ruolo nei quali il sistema si è annidato ed ha prosperato.
Il tema più vasto è quello del carrierismo e della necessità di ridare sostanza ed effettività all’uguaglianza tra tutti i magistrati declamata dall’articolo 107 Costituzione. Questo obiettivo è di grande respiro e richiede molte riforme e molti cambiamenti, per alcuni dei quali sarà anche necessario sollecitare il legislatore.
Oggi però è indispensabile fare un primo passo per diradare almeno in parte la nebbia, per mettere un piede fuori dalla palude e cominciare a restituire a tutti noi la convinzione che esiste una magistratura diversa.
C’è una magistratura che vuole salvare l’autogoverno e la sua indipendenza ed autonomia perché riconosce che si tratta di beni preziosi per la collettività e non di nostre prerogative o privilegi.
Per iniziare a fare questo le incompatibilità sono un buon punto di partenza.
Perché possiamo chiederle e verificarle da subito, senza aspettare riforme di altri o tempi incerti.
Perché sapremo chi ha davvero intenzione di rompere con un certo passato opaco.
Perché se qualche gruppo vorrà assumerle nel proprio Statuto manderà un messaggio: quel gruppo non deve e non vuole essere uno strumento di carriera per i suoi aderenti.
Queste sono le incompatibilità che propongo al gruppo di Area ma che vorrei rivolgere a tutti i singoli colleghi e ai gruppi dentro l’ANM:
Finché perdura il loro mandato, i componenti del CDC e del coordinamento nazionale (di Area, o di altro direttivo di gruppo, ndr) si astengono dal presentare domanda per incarichi direttivi e per i 3 anni successivi anche dal candidarsi al CSM.
Gli eletti al CSM si astengono dal presentare domanda per incarichi direttivi o dall’accettare incarichi fuori ruolo per 3 anni dalla cessazione del loro mandato.
I titolari di incarichi fuori ruolo o in aspettativa per mandati elettivi si astengono dal presentare domanda per incarichi direttivi e dal candidarsi al CSM durante l’incarico e per 3 anni dal rientro in ruolo.
I magistrati che si candidano in elezioni politiche o amministrative non devono tornare a esercitare funzioni giurisdizionali.
Tali regole si applicano in relazione agli incarichi assunti dopo la loro approvazione.
La violazione di tali regole determina l’esclusione dal Gruppo (di Area, o di altro gruppo o dall’ANM, ndr).
Alcune di queste incompatibilità possono apparire anche troppo punitive; penso in particolare a quelle rivolte ai componenti del CDC. Mi rendo conto di questo, ma credo che la necessità di trasparenza e separatezza debba prevalere.
Io auspico che AreaDG abbia il coraggio di dare questo segnale di discontinuità e di credibilità.
Spero che comunque questa proposta possa essere raccolta e integrata e rilanciata anche da altri colleghi e gruppi.
Non vogliamo una magistratura fatta di lobby e di carriere.
Incominciamo a dire basta assumendoci l’impegno a rispettare queste incompatibilità ed avremo fatto il primo passo per evitare che la riforma sia fatti da fuori e contro di noi.
Sommario: 1.Introduzione. 2. Il Tribunale Concorsuale. 3.Il Giudice delegato. - 4.Il Curatore. -5 Il Comitato dei Creditori
1.Introduzione.
Sono ormai trascorsi più di quattro mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, introdotto dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (in attuazione della l.d. 19 ottobre 2017, n. 155), che entrerà in vigore – tranne che per poche norme, già vigenti dal 16 marzo 2019 – il 15 agosto 2020. L’attenzione di molti commentatori si è finora concentrata, oltre che sul nuovo istituto delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, sulle discipline del concordato preventivo e delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, maggiormente incise dalla riforma. Anche la trasformazione del fallimento in liquidazione giudiziale, tuttavia, al di là dell’innovazione linguistica e della portata ideologica (di indubbio rilievo) ad essa sottesa, non è consistita una mera “trasposizione” delle disposizioni sul fallimento nel nuovo Codice. Se è vero, infatti, che numerosi articoli della legge fallimentare sono stati fedelmente riprodotti nel titolo dedicato alla liquidazione giudiziale, l’occasione è stata colta dal legislatore non solo per tentare di risolvere alcune incertezze applicative mediante il recepimento di diffuse elaborazioni giurisprudenziali, ma anche per introdurre significativi cambiamenti che, “annidandosi” per lo più in brevi incisi o nell’aggiunta o modificazione di poche parole, rischiano di sfuggire ad un’analisi sommaria e superficiale del nuovo testo normativo. Il contributo che segue si pone l’obiettivo di segnalare ed esaminare sinteticamente alcuni cambiamenti che riguardano specificamente i poteri e i doveri degli organi della liquidazione giudiziale e i nuovi equilibri che verranno a determinarsi tra gli stessi, nel tentativo di fare chiarezza sul punto. La convinzione di chi scrive è che l’ampia vacatio legis voluta dal legislatore della riforma debba essere sfruttata nel miglior modo possibile da tutti gli operatori del settore per attenuare l’inevitabile sensazione di confusione e “smarrimento” ingenerata da un così ampio riassetto della disciplina ed evitare ricadute negative sulla funzionalità del servizio giustizia nel settore delle procedure concorsuali.
2.Il Tribunale Concorsuale.
L’art. 122 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d’ora innanzi, per brevità: “C.c.i.” o “Codice”), nel delineare i poteri del Tribunale Concorsuale, ricalca integralmente l’art. 23 l.fall. e non introduce alcuna novità (tale non essendo la specificazione, al comma 2, che i decreti del Tribunale debbano essere “motivati”) se non quella relativa alla denominazione dell’organo: in luogo del Tribunale Fallimentare, individuato dall’art. 23 l.fall. come il Tribunale che “ha dichiarato il fallimento” ed è “investito dell’intera procedura fallimentare”, vi è appunto il Tribunale Concorsuale, ossia il Tribunale che “ha dichiarato aperta la procedura di liquidazione giudiziale” ed è “investito dell’intera procedura”.
Sotto il profilo dei rapporti con gli altri organi della procedura, merita invece di essere sottolineata la previsione di cui all’art. 49, co. 3, lett. b, del Codice, in base alla quale, nel dichiarare con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale, il Tribunale “nomina il curatore e, se utile, uno o più esperti per l'esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore”.
La nuova figura dell’esperto nominato dal Tribunale non è assimilabile a quella del coadiutore del curatore (dal quale quest’ultimo, anche nel nuovo assetto normativo, può farsi “affiancare” con l’autorizzazione del comitato dei creditori, e del cui compenso si deve tener conto ai fini della liquidazione del compenso del curatore: v. l’art. 129, co. 2, C.c.i., che ricalca sostanzialmente l’art. 32, co. 2, l.fall.). Si tratta, piuttosto, di una sorta di “co-curatore”, chiamato a svolgere alcuni specifici compiti tra quelli che normalmente sarebbero riservati al curatore. Ciò si evince non solo dal fatto che all’esperto, per espressa previsione dell’art. 125, co. 2, C.c.i., si applicano “le disposizioni del comma 1 e degli articoli 123 e da 126 a 136 in quanto compatibili”, ossia le disposizioni sui poteri e doveri del curatore, ma anche dalla regolamentazione del suo compenso, rispetto al quale l’art. 137 C.c.i. (nel quale è stato “riversato”, con modificazioni, l’art. 39 l.fall.), al comma 5, stabilisce che “quando sono nominati esperti ai sensi dell'articolo 49, comma 3, lettera b), alla liquidazione del compenso si applica il comma 3”, “parificando”, sotto il profilo dei compensi, la situazione di coesistenza del curatore e dell’esperto a quella della successione di più curatori nell’incarico, con liquidazione unitaria del compenso in base ai parametri dettati dal d.m. 30/2012 e suddivisione proporzionale in base al contributo apportato da ciascuno ai risultati della procedura (v. sul tema: Cass., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26730; Cass., sez. VI, 26 giugno 2018, n. 16739; Cass., sez. VI, 31 lugio 2017, n. 19053; Cass., sez. VI, 13 dicembre 2016, n. 25532; Cass., sez. I, 4 marzo 2015, n. 4378; Cass., sez. I, 14 maggio 2014, n. 10455; Cass., sez. I, 15 marzo 2010, n. 6202; Cass., sez. I, 4 settembre 2009, n. 19230).
Poiché il Tribunale dovrà nominare l’esperto “se utile”, vi è da chiedersi quando debba ravvisarsi tale utilità. Nella Relazione illustrativa al Codice si legge che “si tratta di un accorgimento che dovrebbe garantire maggiore efficienza e celerità alla procedura, ad esempio consentendo di affiancare al curatore un professionista che si occupi della liquidazione di determinati beni fin dalla fase iniziale della procedura o dell’esercizio provvisorio dell’impresa, consentendo al curatore di concentrarsi sull’attività di analisi dei crediti in vista della redazione del progetto di stato passivo, ove particolarmente complesso”. Un altro esempio può essere quello di un’impresa che al momento della dichiarazione di fallimento abbia ancora molti contratti di lavoro pendenti, rispetto ai quali, in assenza dei presupposti per disporre l’esercizio provvisorio, si rendano necessari specifici adempimenti per il cui espletamento può essere opportuna la nomina di un esperto consulente del lavoro (sempre che lo stesso curatore non sia scelto tra gli iscritti all’albo dei consulenti del lavoro, in base alla nuova previsione contenuta nell’art. 358, co. 1, lett. a, C.c.i.).
La valutazione da parte del Tribunale circa l’effettiva sussistenza della suddetta utilità appare, tuttavia, tutt’altro che agevole, tenuto conto del fatto che l’esperto può essere nominato solo con la sentenza di dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, e, dunque, in un momento nel quale, solitamente (e salva l’ipotesi in cui l’apertura della liquidazione giudiziale consegua senza soluzione di continuità all’esito negativo di un concordato preventivo), non si dispone ancora di dettagliate informazioni in merito all’entità e alla composizione dell’attivo e del passivo e alla complessità dell’organizzazione dell’impresa.
3.Il Giudice delegato.
I poteri del Giudice delegato sono disciplinati dall’art. 123 C.c.i.. nel quale è stato “trasfuso” l’art. 25 l.fall. con alcune modificazioni.
Tra queste va senz’altro evidenziata quella contenuta nella lettera f del comma 1 (corrispondente al n. 6 del medesimo comma dell’art. 25 l.fall.), in base alla quale il giudice delegato, “fatto salvo quanto previsto dall'articolo 128, comma 2” (e, dunque, fatte salve le ipotesi in cui il curatore può stare in giudizio senza l’autorizzazione del giudice delegato), autorizza il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto “quando è utile per il miglior soddisfacimento dei creditori”.
Appare necessario stabilire se il legislatore, con l’introduzione del suddetto vaglio di “utilità”, abbia inteso attribuire al giudice delegato anche un controllo di opportunità e di merito sulle iniziative giudiziali del curatore, superando l’attuale sistema in cui “l'autorizzazione del giudice testimonia l'avvenuto controllo della legittimità (e non anche del merito) dell'iniziativa” (v. Cass., sez. I, 9 giugno 2014, n. 12947).
Si tratterebbe, in tal caso, di un ritorno al sistema precedente la riforma del 2006, nel quale la valutazione dell’opportunità di promuovere un giudizio o di resistere ad una domanda giudiziale non era rimessa alla discrezionalità del curatore, e il giudice delegato, attraverso l’autorizzazione prevista dall’art. 25 l. fall., non aveva “solo il compito notarile di rimuovere l’ostacolo all’azione” ma altresì il potere-dovere di “decidere sul punto” in base ad un vaglio anche di merito, “indipendentemente dal parere del curatore” e anche “contro l’opinione del curatore” (v. Cass., sez. I, 1 ottobre 1994, n. 7993). La “restaurazione” di un così incisivo potere in capo al giudice delegato si porrebbe, tuttavia, in evidente contrasto con il ruolo che allo stesso è riservato anche nel nuovo Codice: in tal senso appare significativa la precisazione contenuta nella Relazione ministeriale proprio nel commento dell’art. 123 C.c.i., in cui si afferma che “al giudice delegato sono attribuite, in continuità con l’attuale impostazione, non più funzioni di direzione della procedura, ma di vigilanza e di controllo sulla regolarità della stessa, essendo l’amministrazione dei beni del debitore rimessa al curatore”, e che “i suoi compiti sono in parte connessi al suo ruolo di vigilanza e controllo, in parte volti ad assicurare funzionalità alla procedura”. Del resto, anche nel Codice il controllo di merito sull’opportunità e convenienza delle iniziative giudiziali del curatore è riservato al comitato dei creditori al momento dell’approvazione del programma di liquidazione, nel quale il curatore, ai sensi dell’art. 213, co. 3, C.c.i., deve illustrare – tra l’altro – le “azioni giudiziali di qualsiasi natura” che intende intraprendere, indicando “i costi per il primo grado di giudizio”.
Appare arduo, al contempo, “confinare” la valutazione di “utilità per il miglior soddisfacimento dei creditori” nell’ambito del mero controllo di legittimità. Il concetto di utilità, infatti, rimanda inevitabilmente ad un vaglio di funzionalità basato anche su considerazioni di opportunità. La stessa Relazione illustrativa afferma che l’autorizzazione in questione “presuppone un controllo sull’opportunità dell’iniziativa sia sotto il profilo della fondatezza della pretesa sia sotto quello della presumibile utilità e ciò al fine di evitare che iniziative, pur fondate sotto il profilo giuridico, non apportino reale beneficio ai creditori”, e che il giudice, ad esempio, “dovrà negare l’autorizzazione quando la situazione patrimoniale del convenuto è tale da rendere verosimilmente infruttuosa la futura esecuzione della sentenza o quando il beneficio economico conseguente all’esperimento, pur vittorioso, dell’azione, appaia insignificante in rapporto all’entità del passivo, sì da non giustificare l’attesa della sentenza ed i costi della difesa tecnica”.
A mio avviso, in realtà, anche nel nuovo sistema l’autorizzazione alla costituzione in giudizio del curatore potrà essere negata, oltre che nel caso in cui l’approvazione da parte del comitato dei creditori dell’iniziativa inclusa nel programma di liquidazione sia avvenuta sulla base di informazioni non esaustive in ordine al rapporto tra costi, rischi e benefici della stessa (avuto riguardo, in particolare, all’adeguatezza dell’illustrazione delle ragioni di fondatezza del diritto da far valere in giudizio e dell’analisi circa la presumibile solvibilità della controparte: v. App. La Spezia, 31 maggio 2010, in Il fallimento, 2010, 1215), solo nelle ipotesi in cui l’azione sia manifestamente infondata, irragionevole o “avventata” (v. Cass., sez. I, 22 novembre 2000, n. 15074), o quando il potenziale beneficio per la massa sia inferiore alle spese per la costituzione in giudizio o comunque irrisorio a fronte della necessità di addivenire in tempi rapidi alla chiusura della procedura di liquidazione giudiziale.
4.Il Curatore
Al curatore sono dedicati gli articoli da 125 a 137 del Codice.
“Sorvolando”, in questa sede, sui profili inerenti al nuovo Albo ministeriale e agli adempimenti correlati alla nomina del curatore e all’accettazione dell’incarico, è opportuno richiamare l’attenzione sul comma 3 dell’art. 128 C.c.i., nel quale il legislatore, dopo aver stabilito (in piena continuità con l’art. 31, co. 2, l.fall.) che “il curatore non può assumere la veste di avvocato nei giudizi che riguardano la liquidazione giudiziale”, ha inserito la previsione in base alla quale “il curatore può tuttavia assumere la veste di difensore, se in possesso della necessaria qualifica nei giudizi avanti al giudice tributario quando ciò è funzionale ad un risparmio per la massa”.
Occorre anzitutto chiedersi per quale ragione la “deroga” in questione sia espressamente limitata ai “giudizi avanti al giudice tributario” (per tale intendendosi, a mio avviso, solo le Commissioni Tributarie provinciali e regionali e non anche la Sezione tributaria della Corte di Cassazione). Una convincente risposta è data dalla Relazione Illustrativa, in cui si legge che “si è inteso […] tener conto del fatto che si tratta di giudizi per i quali è importante una compiuta conoscenza della situazione contabile e delle vicende economiche dell’impresa”. In altri termini, si è inteso valorizzare il patrimonio di conoscenza che il curatore, nell’esercizio della sua funzione, acquisisce in ordine alla situazione contabile, economica e fiscale dell’imprenditore, sul presupposto che, solitamente, nessuno meglio del curatore è in grado di fornire in giudizio gli elementi necessari ad una corretta gestione del contenzioso tributario.
Ciò che appare meno chiaro è come e in quale sede vada compiuta la valutazione circa il fatto che, nel caso concreto, l’assunzione della veste di difensore da parte del curatore sia “funzionale ad un risparmio della massa”. È ragionevole ritenere che il curatore che intenda assumere tale veste debba presentare una preventiva richiesta di autorizzazione al giudice delegato, documentando (o, quantomeno, dichiarando) il possesso della necessaria qualifica e illustrando i motivi della scelta. Resta tuttavia difficile stabilire quando la scelta possa essere considerata funzionale ad un risparmio della massa, anche perché per valutare tale aspetto bisogna anzitutto stabilire se e con quali parametri la prestazione professionale svolta dal curatore in qualità di difensore debba essere remunerata, non avendo il legislatore espressamente disciplinato tale aspetto. Se al curatore spetta un compenso da liquidarsi “autonomamente” in base ai parametri dettati dalle vigenti tariffe professionali, un risparmio per la massa appare inconfigurabile, quantomeno in astratto e salva una preventiva “autolimitazione” del compenso da parte del curatore nel caso concreto al di sotto dell’importo minimo liquidabile con i suddetti parametri (ma un’analoga “autolimitazione” potrebbe in teoria essere pattuita dal curatore con un qualsiasi difensore: v. sul punto Cass., Sez. VI, 13 aprile 2018, n. 9242). Dovrebbe allora ipotizzarsi, in alternativa, che il curatore debba “accontentarsi” di un aumento del suo compenso finale liquidato dal Tribunale ai sensi dell’art. 137 C.c.i. (corrispondente all’odierno art. 39 l.fall.), ma una tale soluzione, oltre ad apparire eccessivamente penalizzante nei confronti del curatore (disincentivandolo all’assunzione della difesa nei giudizi tributari), si scontra con la difficoltà di individuare parametri obiettivi per un siffatto aumento, tenuto conto, tra l’altro, del fatto che il compenso del curatore è ancorato dal d.m. 30/2012 a percentuali da applicarsi sull’attivo e il passivo fallimentare, e che, in ogni caso, non potrebbe superarsi l’importo massimo previsto da tali percentuali.
Tralasciando (solo per esigenze di brevità) le importanti novità contenute nell’art. 130 C.c.i. sulle relazioni e i rapporti riepilogativi del curatore e le innovazioni relative alla digitalizzazione dei mandati di pagamento per il prelievo delle somme dal conto corrente intestato alla procedura (art. 131, co. 4, C.c.i.) e all’informatizzazione del “libro giornale” tenuto dal curatore (art. 136, co. 1, C.c.i.), vale la pena di segnalare le novità apportate dall’art. 135, co. 1, del C.c.i., in base al quale “i creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi possono chiedere la sostituzione del curatore indicandone al tribunale le ragioni”, e “il tribunale, valutate le ragioni della richiesta, provvede alla nomina del nuovo curatore” (il comma 2, che disciplina le modalità di esclusione dal computo dei creditori in conflitto di interessi, non contiene alcuna novità).
È noto che, nella disciplina attuale, la sostituzione del curatore su richiesta dei creditori rappresenta un’evenienza molto rara. Ciò è dovuto al fatto che tale richiesta, in base al vigente art. 37bis l.fall., può essere formulata solo al termine dell’adunanza per l’esame dello stato passivo (e prima della dichiarazione di esecutività dello stesso) e deve provenire dai “creditori presenti, personalmente o per delega, che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi”, i quali devono indicare“le ragioni della richiesta e un nuovo nominativo”. L’innovazione introdotta dall’art. 135, co. 1, C.c.i. consiste nel fatto che la richiesta in questione potrà essere invece formulata in ogni tempo, il che aumenta notevolmente le possibilità di un effettivo esercizio di tale facoltà da parte dei creditori, i quali, d’altro canto, non potranno però più “indicare” al Tribunale il nominativo del nuovo curatore proposto in sostituzione. Resta fermo che la richiesta avanzata dai creditori non vincola il Tribunale, il quale non è chiamato soltanto a verificare la regolarità formale della richiesta, ma può e deve anche valutare se sussistano effettivamente giustificati motivi per la sostituzione del curatore (v. Cass., sez. I, 13 marzo 2015, n. 5094).
5.Il Comitato dei Creditori
La disciplina relativa al Comitato dei creditori è contenuta negli articoli da 138 a 141 del Codice.
Sul fronte della nomina del comitato, regolata dall’art. 138 C.c.i., non si registrano novità di particolare rilievo rispetto a quanto già previsto dall’art. 40 l.fall. (al comma 1 si prevede che il giudice delegato deve provvedere alla nomina “tenuto conto della disponibilità ad assumere l'incarico e delle altre indicazioni eventualmente date dai creditori con la domanda di ammissione al passivo o precedentemente”, anziché sentire “i creditori che, con la domanda di ammissione al passivo o precedentemente, hanno dato la disponibilità ad assumere l'incarico ovvero hanno segnalato altri nominativi aventi i requisiti previsti”; il comma 5 specifica che l’accettazione della nomina da parte dei componenti del comitato deve essere “comunicata al curatore che ne informa immediatamente il giudice delegato”, sottendendo che la stessa debba avvenire esclusivamente – e non più “anche” – per via telematica; il comma 7 consente a ciascun componente del comitato di “delegare, a sue spese, a un avvocato o a un dottore commercialista, in tutto o in parte, l'espletamento delle proprie funzioni, dandone comunicazione al giudice delegato”, laddove, in base al comma 6 dell’art. 40 l.fall., la delega può essere conferita “ad uno dei soggetti aventi i requisiti indicati nell'articolo 28, previa comunicazione al giudice delegato”).
Quanto al nuovo meccanismo di sostituzione dei componenti del comitato dei creditori su richiesta dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi, disciplinato dall’art. 139, co. 1 e 2, C.c.i., vale quanto sopra detto per la sostituzione del curatore, atteso che la designazione dei nuovi componenti potrà avvenire in qualsiasi momento e non più soltanto al termine dell’adunanza per l’esame dello stato passivo, fermo il controllo del giudice delegato sulla sussistenza in capo ai nuovi designati del requisito della rappresentatività.
L’innovazione di maggior impatto sull’efficienza della procedura concorsuale è rappresentata dal comma 3 dell’art. 139 C.c.i., in base al quale “il giudice delegato, su istanza del comitato dei creditori, acquisito il parere del curatore, può stabilire che ai componenti del comitato dei creditori sia attribuito, oltre al rimborso delle spese, un compenso per la loro attività, in misura non superiore al dieci per cento di quello liquidato al curatore”. Nell’attuale assetto, infatti, l’attribuzione di un tale compenso ai componenti del comitato può essere deliberata – ai sensi dell’art. 37bis co. 3 l.fall. – solo al termine dell’adunanza per l’esame dello stato passivo dai “creditori che rappresentino la maggioranza di quelli ammessi indipendentemente dall'entità dei crediti vantati”, e, poiché una tale “maggioranza per teste” non è quasi mai presente in adunanza (e, inoltre, il comitato risulta spesso non ancora costituito in tale fase), la circostanza si verifica molto raramente. La possibilità per gli stessi componenti del comitato di richiedere il compenso direttamente e in ogni tempo al giudice delegato, il quale provvederà previa acquisizione del parere del curatore e indipendentemente dalla volontà della maggioranza dei creditori, renderà certamente più “appetibile” l’incarico, contribuendo a superare la diffusa problematica della mancata costituzione dell’organo, soprattutto se i creditori verranno espressamente avvisati di tale possibilità al momento della comunicazione della nomina. Resta da stabilire quali siano i criteri in base ai quali il giudice delegato debba accogliere o meno la richiesta e quantificare il compenso fino al limite indicato dalla norma: dovrà aversi riguardo, probabilmente, alla complessità dell’incarico in relazione al numero e alla tipologia delle autorizzazioni, delle approvazioni e dei pareri che presumibilmente “impegneranno” il comitato, nonché all’importanza e alla “delicatezza” della procedura di liquidazione giudiziale (aspetti sui quali, pertanto, dovrà incentrarsi il parere del curatore).
«Nei casi in cui già siano stati emessi l'ordine di carcerazione e il provvedimento di contestuale sospensione e sia stata avanzata dal condannato richiesta di concessione di misure alternative alla detenzione, l'atto complesso costituito dalla sospensione dell'ordine, dalla proposizione dell'istanza e dalla decisione del Tribunale di sorveglianza è stato già compiuto, al momento dell'entrata in vigore della l. n. 3/2019, in alcuni dei suoi tasselli essenziali, sicché la sopravvenienza normativa che aumenta il novero dei delitti di cui al catalogo contenuto nell'art. 4-bis ord. pen., richiamato dall'art. 656, comma 9, c.p.p. ai fini del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione, non può comportare la revoca della sospensione già disposta e il mutamento delle regole per la eventuale concessione delle misure alternative richieste» (Cass. pen., sez. I, 3 maggio 2019, n. 25212)
Sommario: 1. Generalità. – 2. Gli orientamenti della giurisprudenza: tra formalismo e sostanzialismo. – 3. Il caso di specie. – 3.1. Atti con effetti istantanei e atti strumentali e preparatori. – 3.2. Tempus commissi delicti e passaggio in giudicato della sentenza da eseguire. – 4. Il “moto riformista”. – 5. Presunzione assoluta di pericolosità, principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena. – 6. Conclusioni.
1. Generalità.
L’art. 1, co. 6, lett. b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 – evocativamente definita “spazzacorrotti” – ha inserito alcuni dei reati contro la pubblica amministrazione nel novero delle fattispecie ostative di cui all’art. 4-bis ord. penit.
Ciò comporta che gli autori dei delitti contemplati in tale “tragico elenco”[1] sono esclusi dall’accesso alla quasi totalità dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, a meno che non abbiano collaborato con la giustizia nella forma “canonica” dell’art. 58-ter ord. penit. oppure dell’art. 323-bis, co. 2, c.p., che delinea un’ipotesi di ravvedimento operoso finalizzata ad ottenere una collaborazione c.d. “processuale” applicabile ai soli reati di corruzione e di induzione indebita[2].
Inoltre, in forza del richiamo operato al detto art. 4-bis ord. penit. dall’art. 656, co. 9, lett. a), la riforma sottrae a quei condannati la possibilità di vedersi sospeso l’ordine di esecuzione della condanna nei limiti previsti dall’art. 656, co. 5, c.p.
In assenza di una norma transitoria regolativa dei limiti temporali di applicazione della nuova disciplina, era facile prevedere la problematicità delle scelte ermeneutiche poste all’interprete e direttamente ricadenti sul piano della libertà personale del condannato.
Più difficile da pronosticare era, invece, l’atteggiamento con cui la giurisprudenza avrebbe reagito alla «pioggia di strali lanciati dalla dottrina (oltre che dall’avvocatura), avverso l’estensione del regime penitenziario differenziato ai delitti contro la P.A.»[3].
2. Gli orientamenti della giurisprudenza: tra formalismo e sostanzialismo.
2. Nel giro di breve tempo si sono sviluppati principalmente due orientamenti giurisprudenziali: l’uno, di tipo formalistico, muove dalla consolidata giurisprudenza della Supreme Corte[4] secondo cui le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene e le misure alternative alla detenzione non hanno carattere di norme penali sostanziali e, pertanto, soggiacciono al principio del tempus regit actum; l’altro, di tipo sostanzialistico, è invece teso a valorizzare un approccio ermeneutico convenzionalmente orientato delle modifiche apportate dall’art. 1, co. 6, lett. b) della legge “spazzacorrotti”.
All’interno di quest’ultimo orientamento si riscontrano, poi, due correnti distinte: da un lato si collocano quelle pronunce che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della modifica dell’art. 4-bis ord. penit., lamentando la mancanza di una disciplina transitoria che escluda l’operatività della novella per i fatti commessi precedentemente la sua entrata in vigore[5]; dall’altro, alcuni giudici hanno ritenuto di poter risolvere autonomamente il problema dell’operatività intertemporale della legge ‘spazzacorrotti’ optando per un’interpretazione costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata delle norme[6].
3. Il caso di specie.
La pronuncia in esame si inscrive nel filone interpretativo formalistico e affronta, in particolare, la questione se la novella in materia di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva sia applicabile anche in procedimenti relativi a fatti compiuti prima della sua entrata in vigore, e in ipotesi in cui la sospensione fosse già stata disposta prima di tale momento.
La vicenda di specie trae origine da un provvedimento del Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del riesame, con il quale era stato annullato un ordine di esecuzione per la carcerazione emesso nei confronti di una condannata per il reato di cui all’art. 322 c.p.[7]
Più nello specifico, a seguito di condanna definitiva a due anni e tre mesi per detto delitto, la Procura - nel mese di agosto del 2018 – aveva emesso nei confronti della condannata l’ordine di esecuzione della sanzione detentiva, con contestuale sospensione ex art. 656, co. 5, c.p.p.. Successivamente, nel mese di ottobre, la condannata presentava istanza di ammissione alle misure alternative alla detenzione ma, una volta entrata in vigore la nuova legge (in data 31 gennaio 2019), la Procura revocava la sospensione in precedenza concessa e ordinava la carcerazione.
Il Tribunale di Napoli, adito quale giudice dell’esecuzione, in accoglimento del ricorso della condannata, emetteva ordinanza con cui annullava la revoca della sospensione sulla base della considerazione che il provvedimento originario, nel rispetto del principio tempus regit actum, era stato regolarmente adottato in conformità alla normativa all’epoca vigente.
Nel rigettare il ricorso avverso il provvedimento del Tribunale proposto dal Procuratore della Repubblica, la decisione in commento conferma la validità dell’approccio del Tribunale, ribadendo anzitutto come la norma che dispone la sospensione dell’ordine di esecuzione abbia natura processuale, con la conseguenza che il fenomeno di successione temporale della sua portata prescrittiva, in assenza di una disciplina transitoria, è regolato dall’art. 11 disp. prel. cod. civ., secondo cui «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo».
In particolare, il principio vuole dire «che la validità degli atti è e rimane regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione e perciò, lungi dall'escludere, postula al contrario che a tale legge gli operatori giuridici debbano fare riferimento quando siano da valutare atti anteriormente compiuti»[8].
Ne consegue, precisa la Suprema Corte, che la risoluzione della questione posta con il ricorso non richiede una rinnovata riflessione sulla natura della disposizione normativa di cui all’art. 4-bis, co . 1, ord. penit., così come modificata dalla legge n. 3 del 2019. E ciò, nonostante tale disposizione sia richiamata dall’art. 656, co. 9, lett. a) c.p.p., ovverosia la norma che pone il divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione.
Conformandosi a quanto già stabilito nella pronuncia n. 24831 del 2010 in tema di reati sessuali, in particolare, la Suprema Corte precisa che l'atto va inteso nella sua autonomia all’interno della fase procedimentale, per cui una legge successiva non può inibire la validità di una sospensione dell’ordine di esecuzione e di una istanza avanzata ai sensi dell’art. 656, co. 5, c.p.p., rispettivamente emesso e presentata prima dell’entrata in vigore della nuova legge[9].
Diversamente opinando, come già posto in luce nella citata decisione n. 24831 del 2010, lungi dal dare attuazione all'art. 11 preleggi, si conferirebbe alla nuova legge processuale valore irrimediabilmente retroattivo, «arbitrariamente considerandola capace di travolgere effetti già prodotti prima dell'entrata in vigore della medesima legge. Con evidente violazione di elementari valori di affidamento e certezza che devono regolare i rapporti giuridici anche in caso di mutamenti normativi».
3.1. Atti con effetti istantanei e atti strumentali e preparatori.
Pur ritenendo tale ricostruzione interpretativa “non discutibile”, la Suprema Corte ha comunque ritenuto opportuno fugare ogni dubbio relativo alla sua fondatezza.
Si potrebbe, infatti, obiettare che tale soluzione lascia senza risposta ragionevole l’interrogativo su quale possa essere il senso di sospendere un ordine di esecuzione quando la concessione di una misura alternativa è decisamente preclusa dalla legge.
Tale perplessità tuttavia, ad avviso della Corte, può essere superata muovendo da una considerazione sul tipo di atto a cui ricondurre il provvedimento di sospensione dell’ordine di esecuzione, al fine di fare buon uso del criterio del tempus regit actum.
Da qui la necessità di distinguere tra atti con effetti istantanei e atti che hanno carattere “strumentale e preparatorio”: categoria, quest’ultima, alla quale sarebbe riconducibile la sospensione dell’ordine di esecuzione. Tale atto, infatti, «si inserisce in più ampia fattispecie, di natura complessa, costituita anche dalla decisione sulla eventuale richiesta di misure alternative alla detenzione entro il termine assegnato dalla legge, e scandito in trenta giorni per la proposizione dell’istanza e quarantacinque giorni per la decisione della magistratura di sorveglianza». Così ricostruita la natura complessa dell’atto, si evitano – ad avviso della Cassazione - le irragionevolezze derivanti dalla divaricazione tra legittimità della sospensione disposta sotto la vigenza della legge precedente e impossibilità di concessione della misure alternative in applicazione della legge successiva.
Se, infatti, «si ammettesse l’incidenza della legge sopravvenuta sull’atto finale della fattispecie complessa, affermando che le regole sulla concedibilità delle misure alternative precedentemente richieste sono costituite dalle nuove disposizioni, si consentirebbe a queste ultime di incidere, in senso retroattivo, sull’atto di sospensione e sulla domanda di concessione delle misure extramurarie in precedenza compiuti, nella misura in cui li si priverebbe a posteriori del fondamento giustificativo costituito dalla prospettiva di una decisione favorevole. In tal modo si avrebbe una rivalutazione dell’atto di sospensione già emesso che diverrebbe inutiliter datum».
3.2. Tempus commissi delicti e passaggio in giudicato della sentenza da eseguire.
Nell’ottica dalla valorizzazione del canone tempus regit actum in luogo del principio di irretroattività in malam partem, muove anche la Direttiva orientativa della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria dell’11 marzo 2019, secondo la quale è dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che si intende eseguire e non dall’emissione dell’ordine di esecuzione che dovrebbe farsi riferimento per stabilire la disposizione applicabile, giacché le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva «quando sono divenuti irrevocabili» (art. 650, co., 1, c.p.p.) e l’ordine di esecuzione – che il pubblico ministero deve emettere «quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva» - rappresenta un fatto meramente amministrativo[10].
Analogamente, l’ordinanza della Corte d’Appello di Catania, sez. II, del 22 marzo 2019, ha precisato che è al «momento del passaggio in giudicato del provvedimento da eseguire che si apre il rapporto processuale di esecuzione e si cristallizza il contesto normativo che definisce le modalità di esecuzione della pena. È in tale momento, inoltre, che il condannato viene a conoscenza del fatto che la pena a lui inflitta dovrà essere eseguita e matura il diritto a che l'esecuzione della pena detentiva, limitativa della libertà personale, avvenga con le modalità previste dalla legge in allora vigente. Diversamente opinando, le modalità dl esecuzione di una sentenza di una pena detentiva sarebbero rimesse al caso (si pensi all'ipotesi in cui il P.M. delegato all'esecuzione sia in ferie o in malattia) o, peggio, all'arbitrio dell'organo esecutivo due potrebbe decidere se emettere l'ordine di esecuzione prima o dopo l'entrata in vigore dello novella legislativa»[11].
4. Il “moto riformista”.
Come già accennato, accanto all’approccio formalistico si è sviluppato nella giurisprudenza di merito un consistente “moto riformista”[12] - di recente, come si dirà a breve, avallato dalla Suprema Corte - teso a porre in discussione l’assunto secondo cui le norme che concernono le modalità di esecuzione della pena non soggiacciono al principio costituzionale di irretroattività.
La pronuncia della Corte Edu Del Rio Prada contro Spagna[13], ha invero ricordato che, ai fini del rispetto del principio dell’affidamento del consociato circa la prevedibilità della sanzione penale, occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche alla sua esecuzione.
D’altronde, è difficile negare che il passaggio dal carcere alla libertà e viceversa attenga al grado di afflittività della pena e non possa quindi essere considerato riduttivamente una mera modalità esecutiva della medesima sanzione[14]. L’ambito delle garanzie della legalità penalistica dipende, infatti, dal contenuto degli istituti: anche gli istituti sostanziali dell’ordinamento penitenziario concorrono a modellare il sistema delle risposte al reato, considerato che ne limitano i contenuti afflittivi (la durata e/o la modalità carceraria); e tali limitazioni sono collegate a valutazioni relative alla persona del condannato, allo stesso modo di quelle relative a tipologia e durata della pena[15]
In particolare, sulla base della considerazione per cui – al di là dell’etichetta formale – l’art. 656, co. 9, c.p.p., così come integrato dall’art. 4-bis ord. penit., a sua volta modificato dalla l. 3/2019, nella sostanza ha un contenuto afflittivo e sanzionatorio, alcuni giudici hanno ritenuto di non poter applicare tale disposizione per i reati commessi prima della sua entrata in vigore[16].
Altri giudici, invece, senza sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della modifica all’art. 4-bis ord. penit. nella parte in cui ha mancato di prevedere un regime intertemporale, ponendosi così in contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27, 111 e 117 Cost. come integrata dall’art. 7 Cedu[17].
In queste ordinanze vengono, in particolare, ripresi argomenti svolti dalla Cassazione nella sentenza n. 12541 del 2019, la quale – pur dichiarando la questione non rilevante - ha ritenuto che, alla luce dell’approdo della giurisprudenza di Strasburgo, «non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione […] secondo la quale l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l’art. 7 Cedu e, quindi, con l’art. 177 Cost., là dove si traduce […] nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del disposto degli artt. 656, co. 9, lett. a), c.p.p. e 4-bis ord. penit. D’altronde, in precedenza, il legislatore aveva adottato disposizioni transitorie finalizzate a temperare il principio di immediata applicazione delle modifiche all’art. 4-bis ord. penit. […] limitandone l’applicabilità ai soli reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge»[18].
Tale pronuncia ha inevitabilmente aperto una breccia nell’ambito del ferreo orientamento giurisprudenziale secondo il quale – in virtù di un autentico “bizantinismo classificatorio”[19] – le disposizioni concernenti l’esecuzione penale non sarebbero norme penali sostanziali, in quanto estranee all’accertamento del reato e all’irrogazione della pena.
Ed infatti, stando all’informazione provvisoria, la Prima Sezione Penale della Suprema Corte ha, di recente, sollevato d'ufficio «questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 1 co. 6 lett. b) della l. n. 3 del 9 gennaio 2019, nella parte in cui inserisce all'art. 4-bis co. 1 l. n. 354 del 1975 il riferimento al delitto di peculato di cui all'art. 314 cod. pen.»[20].
Sembra, a questo punto, evidente come il “moto riformista” inaugurato dalla giurisprudenza di merito e ora avallato alla Prima Sezione della Cassazione, sia destinato a dare nuova linfa ad una rivisitazione giurisprudenziale dello statuto di quelle disposizioni che, pur attinenti alla materia penitenziaria e all’esecuzione penale, influiscono sull’essenza stessa della pena irrogata[21].
5. Presunzione assoluta di pericolosità, principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena.
Non è, infine, superfluo evidenziare come la Corte costituzionale sia stata chiamata a pronunciarsi non solo con riguardo alla mancata previsione di disciplina intertemporale da parte della legge “spazzacorrotti”, bensì anche in ordine alla (ir)ragionevolezza dell’estensione dell’art. 4-bis ord. penit. a taluni reati contro la P.A.
In particolare, secondo la Corte d’Appello di Palermo[22], tale estensione si porrebbe in conflitto – appunto - con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza, perché in tal modo si prevede una presunzione assoluta di pericolosità non fondata su dati di esperienza generalizzati.
L’ostatività invero, osserva il remittente, «sembra contrastare con il principio costituzionale di cui all’art. 27 comma III Cost., ossia la finalità rieducativa della pena nella precipua prospettiva di una indebita compressione di tale principio e del principio del “minimo sacrificio necessario” che limita il ricorso alla massima sanzione custodiale, in quanto priva di alcuna indicazione specifica che avvalori la necessità di un forzoso “assaggio di pena” e di una previa osservazione in carcere».
Sotto questo profilo si riscontra un’evidente tendenza, nell’orientamento più recente della Corte costituzionale, a restringere le preclusioni legate ai reati ostativi. Con le recenti pronunce n. 149 e 174 del 2018, ad esempio, la Corte è pervenuta a dichiarare l’illegittimità di taluni automatismi preclusivi fondati sulla assoluta presunzione di pericolosità sociale di cui all’art. 4-bis, in quanto contrastanti con alcuni preminenti principi costituzionali.
In particolare, con la sentenza n. 149 del 2018 la Corte ha censurato la norma di cui all’art. 58-quater per violazione dell’art. 27, co. 3, Cost., mettendo in luce il ruolo cardine svolto dai benefici contemplati nell’art. 4-bis, co. 1, ord. penit. nell’ottica della progressività trattamentale e della flessibilità della pena. La finalità general-preventiva della pena, ha infatti specificato la Corte, non può operare - nella fase esecutiva - in chiave distonica «rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società».
Più in generale, inoltre, nel dichiarare incostituzionale l’art. 216, ult. co., della l. fall., nella parte in cui, prescindendo dalla pena principale irrogata, imponeva di applicare ai soggetti condannati per il delitto di bancarotta le pene accessorie temporanee in misura rigida di dieci anni, la Consulta ha specificato come simili meccanismi presuntivi siano del tutto incompatibili «con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio»[23].
Si deve, peraltro, considerare come l’onere collaborativo richiesto dall’art. 4-bis ord. penit. appaia viziato da “irragionevolezza intrinseca” se rapportato ai reati contro la P.A.[24]
Ed infatti, «una differenza fra collaboranti e non collaboranti, ai fini dell’accesso a benefici e misure alternative, ha senso con riguardo ad appartenenti a un mondo di criminalità organizzata, che si può supporre abbiano qualcosa da dire su quel mondo, al di là dei delitti per i quali siano sotto processo o già condannati»[25]. L’inserzione di corruzione, concussione e peculato nel sistema 4-bis appare invece irragionevole, per l’assenza di evidenze empiriche sulla possibilità stessa di una collaborazione utile post condanna, tale da prevalere, in caso di mancata collaborazione, sulle ragioni su cui normalmente poggia l’accesso a benefici e misure alternative[26].
Appare, quindi, evidente come il legislatore abbia deciso di ricorrere a misure pervase da una logica di mera deterrenza sacrificando plurime garanzie di rango costituzionale. Si tratta di un legiferare che affonda le radici nella (“populistica”) assimilazione tra il mafioso e il corrotto (inaugurata con l’inserzione dei delitti di corruzione nel c.d. codice antimafia)[27], e che ha progressivamente portato alla progressiva inclusione di quest’ultimo nella logica del doppio binario, ampiamente sperimentata (e criticata) rispetto a quella perenne emergenza rappresentata, nel nostro Paese, dalla criminalità organizzata[28].
Occorre, infine, segnalare come con la sentenza della Corte Edu del 13 giugno scorso relativa al caso Viola c. Italia, in materia di ergastolo ostativo, i giudici della Prima Sezione – muovendo dall’importanza della funzione rieducativa, che deve accompagnare tutto lo sviluppo della pena dal momento della previsione legale sino alla sua concreta attuazione – hanno affermato che l’assenza di collaborazione non può essere un segnale della mancata rieducazione e che, di converso, la collaborazione non è un indice altrettanto certo di rieducazione[29]. La pronuncia, dunque, inficia la ratio stessa delle preclusioni a base premiale nell’accesso alle misure alternative e segna il profondo divario che intercorre tra i principi dalla Corte europea sul significato della pena e sui limiti del potere punitivo, da un lato, e le scelte di politica criminale dell’attuale governo[30].
6. Conclusioni.
In conclusione, la sentenza in commento ha il pregio aver evitato effetti aberranti nel momento della decisione del Tribunale di sorveglianza nel caso concreto utilizzando la categoria dell’atto “complesso”, anche se era forse auspicabile una presa di posizione in favore della natura sostanziale delle norme sull’esecuzione penale.
Non resta a questo punto che attendere gli sviluppi delle questioni di legittimità sollevate dai giudici di merito e dalla stessa Prima Sezione della Cassazione.
Peraltro, l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’inclusione dei reati contro la P.A. tra i delitti ostativi, ai sensi del combinato disposto dell’art. 656, co. 9, c.p.p. e 4-bis ord. penit., avrebbe evidenti ripercussioni anche pro futuro e non solo in relazione ai casi “ad esaurimento” relativi ai reati contro la P.A. commessi prima dell’entrata in vigore della legge “spazzacorrotti”, e contribuirebbe così a mitigare la draconiana (e “populistissima”[31]) opzione “punitiva” dell’attuale legislatore.
Più in generale, volgendo lo sguardo alle tendenze recenti della giurisprudenza costituzionale, sembra peraltro cogliersi un’importante evoluzione, che «vede il controllo di costituzionalità polarizzarsi sulla tutela dei diritti, ben più che sulla verifica “giurisdizionale” della costituzionalità della legge»[32]: il «“centro di interesse” principale del sistema di controllo» va infatti «spostandosi da un modello che tende ad assicurare la costituzionalità della legge mediante la giurisdizione costituzionale a un modello che tende a garantire l’effettività dei diritti fondamentali, a cui non riescono ad opporre resistenza neppure gli sbarramenti più tradizionali e granitici […]»[33].
A fronte delle sempre più marcate pulsioni repressive e general-preventive che animano la politica sanzionatoria contemporanea, dunque, c’è da augurarsi che la Corte costituzionale – anche attraverso un proficuo “dialogo” con la Corte Edu - prosegua nella sua opera di continua edificazione degli “argini” e delle “mura” a tutela di ciò che rimane del diritto penale liberale e del volto costituzionale dell’illecito penale.
[1] T. Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arc. pen. online, 2018, 3, p. 9.
[2] F. Tuccillo, in L. Della Ragione (a cura di), La legge anticorruzione 2019 (l. 9 gennaio 2019, n. 3), Giuffré, Milano, 2019, p. 70.
[3] L. Baron, ‘Spazzacorrotti’, art. 4-bis ord. pen. e regime intertemporale, in Dir. pen. proc., 2019, 5, p. 154, con riferimento, in particolare, alle puntuali osservazioni di V. Manes, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la P.A.: profili di illegittimità costituzionale, in Dir. pen. cont., 2019, 2, p. 105 s.
[4] Si veda, in particolare, Cass., sez. un., 30 maggio 2009, n. 24561.
[5] Trib. Napoli, Ufficio Gip, ord., 2 aprile 2019, in Dir. pen. cont., 8 aprile 2019; Corte App. Lecce, ord. 4 aprile 2019, ivi; Trib. Sorv. Venezia, ord. 8 aprile 2019, in Dir. pen. cont., 16 maggio 2019; Corte App. Palermo, ord. 29 maggio 2019, in Quotidiano del dir., 17 giugno 2019; Trib. Brindisi, ord. 30 aprile 2019, in Giur. pen. web. 25 giugno 2019.
[6] Gip Trib. Como 8 marzo 2019, in Dir. pen. cont., 14 marzo 2019; Corte d’Appello di Reggio Calabria, 10 aprile 2019 e Trib. Pordenone, 15 aprile 2019, citate in L. Baron, ‘Spazzacorrotti’, cit., 166.
[7] Cfr. L. Masera, Le prime decisioni di merito in ordine alla disciplina intertemporale applicabile alle norme in materia di esecuzione della pena contenute nella c.d. legge Spazzacorrotti, in Dir. pen. cont., 14 marzo 2019.
[8] Corte Cost. n. 49 del 1970.
[9] C. Minnella, Sospensione dell’ordine di carcerazione prima della ‘Spazzacorrotti’: niente revoca successiva, in Dir. & Giust., 2019, 104, p. 10.
[10] Cfr. la Direttiva della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria sui limiti temporali di applicazione ai condannati per delitti contro la p.a. dell’art. 4-bis o.p., come modificato dalla l. 3/2019, in Dir. pen. cont., 15 marzo 2019; V. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanete dell’anticorruzione, ivi, 2019, 5, p. 286.
[11] L’ordinanza è reperibile in Dejure e in Giur. pen. web, 23 marzo 2019 (nello stesso senso, Corte App. Napoli, sez. II, ord. 3 aprile 2019, in Dir. pen. cont., 21 giugno 2019, con nota di C. Cataneo, L’assenza di disciplina intertemporale della legge spazzacorrotti al vaglio della giurisprudenza di merito). Avverso tale provvedimento è stato presentato ricorso per Cassazione dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Catania; v. Giur. pen. web, 30 marzo 2019.
[12] L. Baron, ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 156 s.
[13] Corte Edu, Grande Camera, 21 ottobre 2013, in Dir. pen. cont., 30 ottobre 2013, con nota di F. Mazzacuva, La Grande Camera della Corte Edu su principio di legalità della pena e mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli.
[14] O. Mazza, La carcerazione immediata dei corrotti: una forzatura di diritto intertemporale nel silenzio del legislatore, in Arch. pen. online., 2019, 2, p. 5.
[15] D. Pulitanò, Tempeste sul penale: spazzacorrotti e altro, in Dir. pen. cont., 2019, 3, p. 242.
[16] Gip Trib. Como 8 marzo 2019, cit.; Corte d’Appello di Reggio Calabria, 10 aprile 2019, cit.; Trib. Pordenone, 15 aprile 2019, cit..
[17] Trib. Napoli, Ufficio Gip, ord., 2 aprile 2019, cit.; Corte App. Lecce, ord. 4 aprile 2019, cit.; Trib. Sorv. Venezia, ord. 8 aprile 2019, cit.; Corte App. Palermo, ord. 29 maggio 2019, cit.; Trib. Brindisi, ord. 30 aprile 2019, cit.
[18] Cass., sez. VI, ud. 14 marzo 2019 (dep. 20 marzo 2019), n. 12541, in Dir. pen. cont.,, 26 marzo 2019, con nota di G. L. Gatta., Estensione del regime ostativo ex art. 4-bis ord. penit. ai delitti contro la P.A.: la Cassazione apre una breccia nell’orientamento consolidato, favorevole all’applicazione retroattiva.
[19] G. Giostra, I delicati problemi applicativi di una norma che non c’è (a proposito di presunte ipotesi ostative alla liberazione anticipata speciale), in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2014, 3-4, p. 326.
[20] Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2019; l’informazione provvisoria è reperibile in Dir. pen. cont., 20 giugno 2019.
[21] L. Baron, ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 182.
[22] Corte App. Palermo, ord. 29 maggio 2019, cit.
[23] Corte Cost., 25 settembre 2018, n. 222.
[24] V. Manes, L’inserzione, cit., p. 112 s.
[25] D. Pulitanò, Tempeste, cit., p. 238
[26] V. Manes, L’estensione, cit., p. 112; D. Pulitanò, Tempeste, cit., p. 239.
[27] Come evidenziato da V. Manes, L’estensione, cit., p.107, si assiste a un «allineamento normativo della criminalità white collar alla criminalità nera».
[28] F. Tuccillo, cit., p. 71.
[29] Corte Edu, I sez., Marcello Viola c. Italia (n. 2), ric. n. 77633/16, 13 giugno 2019, in Giur. pen. web, con nota di M. S. Mori e V. Alberta, Prime osservazioni sulla sentenza Marcello Viola c. Italia (n. 2) in materia di ergastolo ostativo.
[30] M. Pelissero, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, in http://www.sidiblog.org/2019/06/21/verso-il-superamento-dellergastolo-ostativo-gli-effetti-della-sentenza-viola-c-italia-sulla-disciplina-delle-preclusioni-in-materia-di-benefici-penitenziari/
[31] C. Sotis, Il diritto penale tra scienza della sofferenza e sofferenza della scienza, in Arch. pen. online, 2019, 1, p. 9.
[32] V. Manes, L’evoluzione del rapporto tra Corte e giudici comuni nell’attuazione del “volto costituzionale” dell’illecito penale, in Manes-Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, 2019, 38 s.
[33] V. Manes, L’evoluzione, cit., p. 38 s.
Pensieri brevi a margine degli eventi di questi giorni di Alessandro Prontera
Il momento è come si dice in questi casi drammatico ma – oso pensare – forse provvidenziale perché – seppure brutalmente e nel modo più ingeneroso – offre l’occasione di rimeditarsi e fare critica di sé. Evidentemente non siamo stati in grado di farlo per tempo, sebbene di avvisaglie ve ne fossero.
Avvilisce, però, sentire prese di pozione che sembrano voler annacquare la discussione, allorché – pure in buona fede – non si riesca proprio a concepirsi fuori da una logica di ‘appartenenza’, persino faziosa, sino all’ultimo, irriducibile difesa di comportamenti che, davvero, nulla possono più pretendere di condividere con il ‘senso della giurisdizione’. Come se l’ostinazione dei fatti, in queste giornate, a fronte di strenue e logore difese, non bastasse a tacere appelli garantisti rispetto a condotte occasionate dalla ‘magistratura’ ma che nulla più partecipano di essa, nulla più partecipano della radice giurisdizionale, tristemente recisa, da tempo.
Penso che di quanto accaduto ci saremmo potuti avvedere se solo fossimo stati meno arroganti e attinge tutti, sino a toccare la coscienza di ciascuno di noi. Nessuno si scansi, perché davvero non è più questione di pochi, di un gruppo o di chi quella ‘corrente’ – mi verrebbe da dire – ha generato. Essa investe tutti. Ed è per questo che non comprendo – peccando evidentemente di ingenuità – come ci si smarchi a fatica da condotte che eticamente non possono trovare giustificazione, anzitutto, all’interno del gruppo di appartenenza degli autori. Non è o non è solo una questione ‘penale’ – che interessa in special modo i singoli coinvolti, bensì di essenza stessa della magistratura. Non si confonda il discorso penale, tecnico se si vuole, dei singoli con il problema culturale prepotentemente alla ribalta cui nessun può sottrarsi e rispetto al quale siamo chiamati ad assumere una posizione netta, fuori da ambiguità, eccentriche auto-sospensioni, equilibrismi di sorta, sino a sospensioni ‘indotte’.
Ed è per questo che avvilisce, soprattutto i più giovani, l’ipocrisia che sottende il proclama, del quale ancora resta eco, di attendere gli sviluppi delle indagini a Perugia o di ‘leggerne’ gli atti, perché la questione è – se possibile – ancor più esiziale, poiché attiene al nostro modo di pensarci come ‘magistrati’ e al modo di ‘stare insieme’. Mi verrebbe da dire: non è più un problema penale, per noi. I germi di questa crisi, anche allo sguardo ingenuo di chi da poco muove in magistratura, affioravano nella percezione di storture, di fatto legittimate, anche con quel comodo, tacito, consenso che si alimenta della ‘utilità’ personale di carriera sperata, ambita, pure laddove l’ambizione superi i meriti.
Ho sempre avuto la percezione di una corsa in atto, diffusa e spasmodica, all’affermazione di sé cogliendo a pretesto la giurisdizione, nei fatti discostandosene alla prima occasione, per inseguire una “medaglietta”. A pensarci bene, però, se rispondessero alla loro vocazione (ma non sarebbero, comicamente, ‘medagliette’) riposerebbero su valutazioni sostanziali e di merito, il che, in radice, depotenzierebbe la famigerata ‘corsa’ o ‘caccia’ alle medagliette.
In una ingenua e inesperta visione giovanile o dei più giovani tra i magistrati si staglia forte e spiacevole la percezione di carriere verticali pre-impostate, sin dall’accesso in magistratura, come dovesse scegliersi se esercitare la giurisdizione ovvero cogliere occasione della giurisdizione per esercitare proprie – magari anche legittime – aspettative di carriera: in altre parole costruirsi, quale vocazione qualificante – una carriere di incarichi, di semi-direttivi e, infine, direttivi, disancorati dalla collettività ove si operi e a servizio della quale si è chiamati. In tutto questo il senso e il peso della giurisdizione scolora drammaticamente.
Intanto abbiamo sacrificato qualcosa di noi per strada, tutti intenti a rincorrere prospettive di giudizio per così dire ‘moderne’, ma in realtà burocratiche. La ricerca spasmodica del ‘titolo’, poi, da spendere al momento giusto ha di fatto generato una separazione tra magistrati di giurisdizione e magistrati di carriera. Ciò ha anche snaturato il senso dell’associazionismo, delle c.d. ‘correnti’, sempre più esposte al rischio di atteggiarsi a imperdibili ‘ascensori’ sociali o di carriera, ovvero, nella migliori delle ipotesi, ‘protettorati’, quando mai si avesse bisogno, tant’è lo spauracchio del disciplinare e non solo. Corollario inevitabile uno sfrenato e vuoto proselitismo: non importa chi, basta recuperare numeri, come fosse un bacino elettorale da rimpinguare, in futuro spendibile. Capita sin dall’inizio dei primi momenti in magistratura di interrogarsi sul senso dell’associazionismo, non in astratto, ma come lo si vive oggi, una sorta di ‘costituzione’ materiale della magistratura. Se l’associazionismo non sia diventato una nomenclatura vuota così privo di una vocazione pratica alla giurisdizione e ai suoi problemi, di come essa possa interpretarsi e coltivarsi quotidianamente. Se di questo si tratta, è ormai ineludibile che i gruppi associativi reiterino medesime logiche – tanto vituperate – partitiche e purtroppo non politiche, nel senso ‘alto’, della locuzione, nel senso più ‘laico’, proprio rispetto a qualsivoglia pretesa lettura partitica o pregiudiziale ideologica. Gli stessi c.d. ‘giovani’, senza neppure aver avuto il tempo di maturare una coscienza critica – e mi preoccuperebbe il contrario – sono spesso preda degli appetiti delle correnti che in essi vedono nuovi adepti. Non importa che condividano o meno il senso di quel gruppo associativo, le premesse culturali, lo slancio ideale: se ancora ci fosse. Il tutto mascherato da una logora retorica dei ‘giovani’, di tutela, di coinvolgimento, di valorizzazione. Mi chiedo se, al contrario, non occorra intanto e silenziosamente offrire ‘testimonianze’ da parte dei più anziani, nella giurisdizione. A tempo debito si affronterà ogni discorso associazionistico e di gruppi associativi.
C’è chi, però, sceglie l’esercizio della giurisdizione, dando spazio all’attitudine spontanea dell’essere magistrato, non avendo intanto avuto cura di coltivare rapporti, relazioni, strategie: è forte il rischio d’essere un giorno pretermessi in favore di chi, invece, sin dall’inizio, intessendo rapporti, ha fatto incetta di ‘medagliette’ e di conoscenze. Costui avrà senz’altro sacrificato l’esercizio della giurisdizione sull’altare di una carriera brillante e di vertice. E avvilisce che la pre-costituzione di titoli e medagliette si riverberi contro lo stesso corpo di magistrati ordinari nel momento in cui si offre il fianco alla magistratura amministrativa di dover poi, magari formalisticamente, annullare decisioni del CSM proprio in ragione della omessa valutazione di ‘primazia’ che a quelle ‘medagliette’ burocraticamente consegue. In tal caso, il magistrato apprezzato, stimato, che ha sempre lavorato per l’ufficio e per il territorio, avrà magari l’affetto e la stima postuma di chi, sorprendendosi anche un po’ di maniera, assiste inerme a un ribaltamento del giudizio in favore del concorrente che quella stessa stima non ha, ma medagliette da esibire sì, al momento giusto. Oggi, più che mai, occorre avere il coraggio di non temere per la propria carriera; occorre avere il coraggio di recuperare la bellezza dell’esercizio della giurisdizione, con l’orgoglio di chi, sia pure faticosamente e senza clamori, è chiamato a farsi carico delle istanze di giustizia che si levano in una comunità di persone, assicurando, almeno, l’impegno di una risposta plausibile e umana di e tra noi magistrati. Occorre non temere per l’esercizio della giurisdizione e per i ‘rischi’ che essa fisiologicamente comporta. La filosofia della paura indebolisce, nutrendo degenerazioni correntizie.
Abbiamo ora o mai più l’occasione di riappropriarci del senso della giurisdizione e con ciò del senso dell’associazionismo, in tutta la ricchezza delle sue declinazioni, sino a immaginare i gruppi associativi ritornare a essere ‘comunità’ di pensiero, nel senso più nobile, non circoli chiusi, vittime di pregiudizi e diffidenza nei confronti di ciò che è altro da sé. Da ciò passa, inevitabilmente, il ripensamento di noi stessi. Ricorderemo come fummo, tutti, almeno una volta, tra code e lunghe attese, a Roma, con indosso il peso di codici, spaventati da un futuro incerto, ma con indosso anche la levità di sogni, speranze e idealità che quel peso alleggerivano sino a non più sentirlo. E attingendo con un po’ di fanciullesca freschezza a “il mondo come lo vedo io” di Enstein del 1931, mi verrebbe da dire che “chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’”. Ecco, questo credo possa essere un realistico auspicio e insieme un impegno serio.
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